21 Un mondo risorto

Lentamente, molto lentamente, durante le settimane che se­guirono, la primavera era venuta. Non era la primavera della vecchia Terra, ma ogni giorno che passava, il vento soffiava meno freddo, e ora, alla fine, i primi fili d’erba spuntavano, macchiando qua e là di verde le pianure color ocra.

Ma solo per sentito dire, Kenniston sapeva tutto questo. Confinato con gli altri in un edificio di Nuova Middletown, gli sembrava che il tempo non passasse mai. Settimane di at­tesa per il Comitato speciale dei Governatori, inviato da Vega, settimane di interrogatori fra la popolazione, la lenta rac­colta delle testimonianze, il vagliare accurato dei motivi e delle circostanze. E poi, giorni e giorni, in attesa del verdetto definitivo.

Arnol non era preoccupato. Era un uomo felice. In tutti gli interrogatori aveva parlato molto poco, ma aveva sempre avuto negli occhi una luce di trionfo. Il lavoro della sua vita era ben giustificato, ed egli era contento.

Anche Gorr Holl e Magro non erano affatto preoccupati. Il grosso Gorr Holl, anche ora, in attesa della decisione, era sempre giubilante.

«Al diavolo! Che possono fare?» diceva a Kenniston per la centesima volta. «La cosa è fatta, ormai. Il procedimento di Arnol si è dimostrato praticabile, e a quest’ora lo sanno or­mai in tutta la Galassia. Non possono rifiutare, ora, di lascia­re che anche gli umanoidi ne facciano uso, sui loro mondi morenti. Non oserebbero!»

E Magro aggiunse: «E nemmeno possono obbligare il tuo popolo a evacuare la Terra ora che diventa più calda. Sa­rebbe una cosa senza senso.»

Kenniston osservò: «Ci potrebbero tenere rinchiusi per il resto della nostra vita, e questo non sarebbe una cosa diver­tente.»

Gorr Holl sorrideva, col suo largo sorriso, e diceva:

«Ricordati, uomo, che noi siamo per loro dei selvaggi emotivi, e questo sarà per noi un’attenuante.»

Quando furono ricondotti nella grande sala per il verdet­to, gli occhi di Kenniston corsero non al gruppo dei giudici, tre uomini e un umanoide, che sedevano a un grande tavolo, ma a Varn Allan. Kenniston sapeva che anche la carriera di lei era in gioco, in quell’udienza. Ma ella non appariva preoc­cupata e, quando incontrò i suoi occhi, gli sorrise.

Lund, che le stava al fianco, aveva uno sguardo attento, ora, e pareva piuttosto preoccupato. Lanciò a Kenniston un’occhiata dura, ma questi dovette distogliere gli occhi, in quel momento, perché avevano iniziato la lettura del ver­detto.

L’uomo che lo leggeva, il più vecchio dei quattro Governa­tori presenti, non aveva alcuna espressione di cordialità nel viso. Parlava come una persona che assolveva, riluttante, uno spiacevole compito.

«Voi, i promotori di tutto ciò che è accaduto, vi siete resi colpevoli e meritevoli delle più dure pene della legge della Fe­derazione, per la vostra aperta sfida ai Governatori» disse. «Sarebbe pienamente regolare emettere una sentenza di imprigionamento a vita.»

Li guardò freddamente, l’uno dopo l’altro. Gorr Holl bisbi­gliò: «Cerca di spaventarci...» Ma non sembrava più tanto fiducioso, ora.

Il vecchio Governatore continuò: «Tuttavia, in questo caso, è del tutto impossibile raggiungere un verdetto su di una base puramente legale. Dobbiamo ammettere, nostro malgrado, che il vostro fatto compiuto ha creato una situa­zione nuova. Il Comitato dei Governatori ha ora dato la sua approvazione per l’uso del procedimento Amol su altri pia­neti...»

A Kenniston sembrava difficile capire. Gli sembrava im­possibile che una così lunga battaglia per la sopravvivenza dei mondi si risolvesse in quella semplice frase.

«... su altri pianeti» continuò il vecchio Governatore «e questo ci mette di fronte alla impossibilità di procede­re. Punirvi, ora, per l’uso che avete fatto di questo procedi­mento, sarebbe come punirvi, moralmente se non legal­mente, per una infrazione a una legge che non esiste più.»

Gorr Holl emise un lungo e rumoroso sospiro di sollievo, che una occhiataccia gli fece prontamente reprimere.

«Non possiamo fare altro, perciò, che liberarvi, con un rimprovero ufficiale da parte del Comitato dei Governatori, per il vostro comportamento.»

Ora che il momento era passato, ora che era tutto finito, Kenniston provò pochissima emozione, a ben vedere. Le sorti in gioco erano state talmente vaste che avevano quasi an­nullato il significato della sua sorte personale. Kenniston sa­peva che quell’impressione sarebbe scomparsa col tempo, che più tardi sarebbe stato lieto, e grato, ma ora...

Il vecchio Governatore, tuttavia, non aveva finito. Si rivol­geva ora, direttamente, a Varn Allan.

«Al disopra delle circostanze principali, rimane la con­dotta dei funzionari che ne avevano la responsabilità. Siamo quindi costretti a esprimere una censura ufficiale per ciò che appare una imperdonabile incomprensione di un problema psicologico da parte dell’amministratrice in carica, e...» a questo punto si rivolse direttamente a Norden Lund «e, da parte del viceamministratore, per gli evidenti e imperdona­bili tentativi di menomare l’autorità di un superiore in cari­ca, per scopi puramente egoistici.»

La voce fredda del vecchio Governatore terminò breve­mente, in tono aspro: «Abbiamo perciò proposto, al Centro dei Governatori, per l’amministratrice Allan: retrocessione, di un grado. Per il viceamministratore Lund: retrocessione, di un grado. L’udienza è tolta.»

Kenniston guardò, attraverso la vasta sala, Varn Allan. Il viso di lei non era mutato. In silenzio si volse per andarsene.

Gorr Holl gli dava ora grandi manate sulla schiena, e Ma­gro stava dicendo qualcosa, eccitato, ma Kenniston si liberò di loro e seguì Varn Allan. Lei lo vide avvicinarsi e lo attese. Ma Norden Lund sorse come un fantasma fra di loro.

Lund aveva il viso pallido di rabbia repressa, e la sua voce era roca, mentre si rivolgeva a Kenniston: «Così, voi primi­tivi avete rovinato la mia carriera!»

Varn Allan lo interruppe, con disprezzo: «Ve la siete rovi­nata voi stesso, Norden, coi vostri ambiziosi complotti.»

Lund si volse e si allontanò, livido in volto per l’ira. Varn Allan, guardandolo andar via, sospirò e disse: «Vi siete fatto un mortale nemico, Kenniston.»

«Mi siete nemica anche voi, per quello che vi ho fatto?»

Lei scosse il capo.

«No!» disse. «Non è stata colpa vostra. Di fronte a una situazione nuova e confusa, ho sbagliato. Ecco tutto.»

«Al diavolo ciò che pensate! Sono stati ingiusti con voi, invece! Voi avete fatto del vostro meglio, e...»

«E non è stato abbastanza» terminò per lui Varn Allan. Poi gli sorrise: «Non è una tragedia, del resto. Il compito di un amministratore non è cosa facile. Non ne sono del tutto addolorata.»

Kenniston non aveva mai ammirato come in quel mo­mento il coraggio di quella donna. Avrebbe voluto dirglielo, avrebbe voluto dirle molte cose, ma lei si allontanò un poco da lui, e disse: «Questo è un gran giorno per voi, Kenni­ston. Perché proprio oggi hanno permesso, a quelli del vo­stro popolo che lo desiderano, di ritornare alla loro vecchia città.»

«Sì, me ne hanno informato. So che è oggi.»

«E tornerete là anche voi, con la vostra Carol. Ne sarà molto lieta, quella ragazza.»

Kenniston disse: «Varn...»

Ma lei non lo guardava più in viso. Disse, calma: «Questo non è il nostro addio. Ritornerete qui, prima che lasciamo la Terra.»

Kenniston rimase muto, oppresso da emozioni che non poteva definire. Infine disse: «Sì! Sì! Ritornerò qui, prima che ve ne andiate.»

Ella lo lasciò, e Kenniston rimase a guardarla, finché ab­bandonò la sala. Poi, lentamente, anche lui uscì nella strada.

Un tremendo clamore lo colpì al viso. La piazza era affol­lata, ma un grande passaggio era aperto tra la folla, lungo il viale che conduceva alla porta della città. E la banda di Middletown, impettita e rigida nella sua uniforme scarlatta, fra un rullo alto di tamburi e un clamore di trombe, marcia­va, in testa a un lungo corteo, verso la porta.

Dietro la banda veniva una grossa macchina verde, sco­perta, col sindaco che ritto sul sedile posteriore, il faccione di nuovo aperto al sorriso, sventolava il cappello, gioiosamente, alla folla acclamante. E dietro quella macchina ne venivano molte altre, le vecchie macchine di un tempo, piene di uomi­ni eccitati e di donne che piangevano, le prime macchine del­la lunga carovana che si stava formando, per ritornare alla vecchia Middletown.

Kenniston vide la popolazione inneggiante che circonda­va Jon Arnol, e Hubble, e Gorr Holl, e Magro, poco lontano. Sapeva che sarebbe stato trascinato in quel gruppo, e allora, rientrato nella sala e uscito da un’altra porta, si avviò, per strade temporaneamente deserte, all’alloggio di Carol e di sua zia.

Carol lo accolse con un festoso saluto, quand’egli entrò.

«Oh, Ken, allora sei libero? Avevano detto che sarebbe stato oggi, e ti aspettavo...»

«Sì, è tutto finito» disse Kenniston.

«Allora possiamo partire, come gli altri?» domandò la signora Adams. «Possiamo ritornare a Middletown?»

«Non appena avrete preparato le vostre cose e io avrò condotto qui la jeep.»

«Ma ho preparato tutto da giorni» ribatté la vecchia si­gnora. «Non vorrei rimanere in questo posto un minuto più del necessario. Ma immaginate! Mi hanno detto che molti, di quelli più giovani, vogliono rimanere qui. Di loro volontà, pensate: dicono che a loro questa città piace più di Middle­town, ora!»

Kenniston provava un curioso senso d’irrealtà mentre ca­ricava tutto nella jeep e si accodava alla grossa colonna di au­tomezzi che si snodava verso l’uscita della città.

Era proprio vero che finiva tutto così? Era proprio vero che ritornava alla vecchia città, alla vecchia vita, dopo quello che aveva fatto e veduto?

Avanti, lungo il grande viale, tra gli altissimi e bianchi edi­fici, e poi attraverso la grande porta, fuori, nella vasta pianu­ra... Il sole, rossastro, brillava sempre, opaco; ma ora un ven­to più caldo di quanti la Terra avesse mai sentito da milioni di anni soffiava attraverso la pianura, facendo ondeggiare i primi e timidi fili della nuova erba, portando dovunque un caldo soffio di vita nuova.

Ora oltrepassavano il piccolo incrociatore spaziale di Jon Arnol, e poi le grosse masse titaniche delle grandi astronavi della Federazione, adagiate sulla pianura.

Kenniston guardò le gigantesche navi e pensò ai vasti spa­zi, cosparsi di mondi e di stelle, che avrebbero percorso, poi tornò a guardare davanti a sé.

E alla fine, le macchine oltrepassarono la cresta delle colli­ne e discesero, gioiosamente, verso la vecchia Middletown.

Lungo tutte le vecchie strade familiari, le case comincia­vano a riaprirsi alla vita. Le imposte venivano spalancate, le doppie finestre tolte, le porte spalancate al vento tiepido, le donne si affaccendavano già con le scope sotto i portici inva­si dalla polvere. Le grida dei bambini e l’abbaiare dei cani si mescolavano al suono delle trombe delle macchine.

Avanti, lungo la Mill Street, lungo la Main Street, e avanti ancora. E infine, ecco la vecchia casa grigia, proprio come l’avevano lasciata.

Kenniston fermò la jeep accanto al marciapiede. La signo­ra Adams scese. Salì lentamente i pochi gradini, e aprì con la chiave la porta. Rimase ferma un istante, guardando nell’in­terno.

«Niente è cambiato» mormorò. «Ma tutta questa pol­vere! Dovrò mettermi a fare pulizia...»

Poi, improvvisamente, sedette sulla sua poltrona, accanto alla finestra, e si mise a piangere.

Carol non entrò subito. Facendo forza su se stesso, con uno strano imbarazzo, Kenniston domandò: «Sei contenta anche tu, Carol?»

«Sì, Ken» rispose la ragazza, sorridendo.

«Bene...» disse Kenniston. «Ora debbo ritornare a Nuova Middletown per vedere Gorr e gli altri, prima che par­tano. Ma tornerò presto.»

Carol lo guardò, e scosse il capo: «No, Ken. Non devi tor­nare.»

Kenniston la guardò sorpreso.

«Carol, cosa vuoi dire?»

Ma il viso di Carol era fermo.

«Voglio dire che tu non appartieni più a questo posto, Ken. Sei cambiato, quando sei andato lassù, fra le stelle. E cambierai ancora di più, nei giorni che verranno. Ti volgerai sempre più a quella nuova e strana vita. Mentre io non posso cambiare, Ken. Non a quel punto. Passeresti una vita infeli­ce, con me, attaccata come sono alle vecchie cose.»

«Ma i progetti che abbiamo fatto insieme, Carol...»

Carol scosse il capo.

«Ho fatto quei progetti con un altro uomo, un uomo che non è più qui, che non ritornerà qui mai più.»

Si alzò sulla punta dei piedi e lo baciò. Quindi entrò in ca­sa e richiuse la porta.

Kenniston rimase per qualche attimo incerto, esitante. Quindi, lentamente, risalì nella jeep e uscì dalla vecchia Middletown.

Dalla cresta delle colline poté vedere nuovamente i grandi incrociatori spaziali, ancora adagiati sulla pianura accanto alla città della cupola. E quella città viveva ancora. Erano i giovani di Middletown, che avevano deciso di rimanervi; i giovani, che potevano ancora guardare verso il nuovo, verso il futuro.

Le grandi navi dello spazio avrebbero continuato a venire, ora che la Terra era nuovamente abitabile. I popoli delle stelle lontane si sarebbero mescolati col popolo di Middletown, e i giovani della Terra sarebbero andati verso gli altri soli, e gradatamente tutta la strana vicenda di Middletown sarebbe stata assorbita nella grande corrente della Storia.

Kenniston lanciò la jeep a tutta velocità, verso la città lon­tana, dalla cupola splendente nel cielo. Sentiva ora un senso nuovo di libertà, e anche una profonda gratitudine per Carol, che non aveva cercato di trattenerlo. Ma sentiva anche una incertezza, una perplessità nuova. Nuovi e vasti orizzonti si allargavano di fronte a lui ora, illimitati orizzonti di spazio, illimitate vie di nuovo pensiero. Ma si sentiva ancora un fi­glio della vecchia Terra, e quella nuova vita sarebbe stata una vita strana e solitaria. Si sarebbe sentito solo, solo.

Trovò gli altri ancora riuniti nella piazza, che parlavano fra loro: Gorr Holl, e Magro, e Arnol. E, con essi, c’era Varn Allan.

Lo videro, e Gorr Holl alzò le braccia, salutandolo a gran voce. Mentre s’avvicinava a loro, vide gli occhi ansiosi di Varn Allan che lo guardavano, in attesa, e capì d’un tratto che aveva avuto torto poco prima, e che, nella stranezza di quegli anni futuri, non sarebbe stato solo.


FINE
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