18 Fatale ritorno

Un’altra notte era sopraggiunta. Sotto vivide, ignote stelle, i picchi neri delle montagne sembravano guardare accigliati la scena di febbrile attività che si svolgeva sul piccolo alto­piano.

Luci accecanti illuminavano il piccolo gruppo di bassi e lunghi fabbricati, il magazzino con le sue gru, e l’oscura mas­sa metallica di un piccolo incrociatore spaziale dalle lamiere logorate dal lungo uso.

Verso una grande apertura sul fianco dell’incrociatore, Kenniston e i suoi tre compagni stavano spingendo con cura un grosso ordigno ovale, nero e massiccio, adagiato su di un grosso carrello.

«Non dovete aver paura... non vi è alcun pericolo di scop­pio, perché manca l’elettrofusore» diceva Jon Arnol, in tono rassicurante.

«Se questa bomba atomica cambierà la faccia a un pia­neta, debbo trattarla con molto rispetto!» bofonchiò Gorr Holl.

A Kenniston pareva di agire come in un sogno. Tutti quegli avvenimenti, che si susseguivano, gli sembravano frutto del­la fantasia di un cervello malato. Quella grossa massa nera che la sua mano toccava... come poteva cambiare il futuro di un mondo?

Cercò di allontanare quei dubbi. Gli scienziati di quell’as­surdo mondo del futuro, maestri di una scienza che andava al di là della sua comprensione, avevano confermato la fon­datezza della teoria di Arnol. Era questo che lo aveva spinto a formulare quel progetto, e a ciò doveva attenersi. Era troppo tardi, ormai, per avanzare altri dubbi.

Era stanco, stanco morto. Avevano lavorato senza tregua per tutta la giornata, lui, Gorr Holl e Magro, aiutando Arnol e i suoi tecnici a caricare masse di materiale e i misteriosi ap­parecchi necessari all’esperimento.

Il piccolo incrociatore spaziale era l’officina volante di Ar­nol. Lo aveva portato in molti voli spaziali scientifici attra­verso tutta la Galassia. E i giovani tecnici delle officine, che avevano lavorato e sognato tanto a lungo a fianco di Arnol, non avevano fatto alcuna domanda. Kenniston non riusciva nemmeno a capire se sapessero cosa stavano facendo e quale fosse la loro missione.

Il capo pilota si avvicinò ad Arnol, mentre questi, aiutato dagli altri tre, stava caricando il suo pericoloso fardello.

«L’incrociatore è già stato messo a punto, ed è pronto a partire in qualsiasi momento.»

Arnol fece un cenno affermativo col capo. I tecnici stavano ora innescando la grossa bomba atomica, l’avevano assicura­ta nel suo alveolo, all’interno dell’incrociatore spaziale, in modo che fosse protetta da qualsiasi urto.

«Non appena pronti, partiremo» annunciò Arnol. Guardò Kenniston e gli altri, con un sorriso stanco e trion­fante. «Fra circa venti minuti, credo.»

Fu in quel momento che Kenniston vide la striscia lumi­nosa di una nave spaziale attraversare il cielo dirigendosi verso l’altopiano.

Anche gli altri la videro. Rimasero fermi in attesa, mentre i tecnici proseguivano rapidamente nel loro lavoro, e Kenni­ston diceva: «Deve essere Lal’lor con qualche messaggio.»

«Sì» concordò Arnol. «Nessun altro può sapere che ci troviamo qui.»

Eppure la loro ansietà aumentò, mentre la nave spaziale toccava l’altopiano. Kenniston pensava, disperatamente: “No, nessun altro poteva sapere! Non possiamo essere stati seguiti!”.

Senza nemmeno accorgersene, seguì gli altri, correndo at­traverso il piccolo spiazzo, verso il punto di atterraggio.

Vide la persona che scendeva dalla nave spaziale. No, non era Lal’lor. Era un uomo che non aveva mai visto... un uomo imponente, dai capelli grigi e dal portamento austero.

Dietro quello sconosciuto veniva Varn Allan, e con lei, il vi­so sorridente e trionfante, c’era anche Norden Lund.

Kenniston si fermò, col cuore stretto da una fredda dispe­razione. Il grosso sconosciuto si fermò anch’egli, guardando con occhi stupiti e increduli i tecnici affaccendati intorno al­l’incrociatore spaziale.

«Non avrei mai creduto una cosa simile!» disse con vo­ce attonita. «Lund, avevate ragione. Volevano farlo senza consenso.»

Lund assentì, gongolante.

«Sì, signore. Lo sospettavo, ed è per questo che li ho fatti sorvegliare. Potete vedere voi stesso!» E a Kenniston, ad Arnol e agli altri, disse beffardo: «Permettete che vi presenti: questi è il Coordinatore Mathis.»

Varn Allan guardava, sorpresa e incredula, nel violento ba­gliore dei fari. Sembrava che non potesse nemmeno credere ai suoi occhi.

«Io non volevo crederci» disse infine, lentamente, a Kenniston. «Quando il Coordinatore mi ha informato di ciò che Lund gli aveva detto, di ciò che stavate facendo, ho ri­fiutato di crederci. Sono venuta con lui per provargli che ave­va torto.»

Tacque per un attimo, con gli occhi azzurri fiammeggianti fissi su Kenniston.

«Ma ho avuto torto io. Siete un bastardo completo, che non ha alcun rispetto per la legge. Comincio a pensare che la vostra gente debba veramente essere confinata!»

Mathis, il Coordinatore, osservava burbero Jon Arnol.

«Siete andato troppo lontano, questa volta, Arnol!» dis­se. «Voi dovete sapere quale è la pena per chi trasgredisce la legge della Federazione, anche se questo Kenniston non lo sa ancora.»

«L’arresto» intervenne Lund, con voce ironica. «L’ar­resto e l’esilio per tutti. Spero, signore, che ricorderete che sono stato io a svelare il complotto di questi criminali, dopo che il mio superiore diretto ha dimostrato una aperta simpa­tia per loro.»

«Lo ricorderò» disse Mathis bruscamente. «Ora avvi­sate subito di questa situazione il Centro di Vega.»

Lund si volse per tornare verso la nave spaziale. Il radiotelevisore di bordo lo avrebbe messo in immediato contatto col Centro del Governo; Kenniston lo sapeva bene.

Si lanciò allora avanti. Raggiunse Lund in pochi passi di corsa. Con una mano lo afferrò a una spalla e lo fece voltare di colpo. Con l’altra mano gli sferrò un pugno violentissimo alla mascella, atterrandolo.

Mathis fece un passo indietro, inorridito da quella violen­za. Varn Allan si slanciò di corsa verso Kenniston, mentre Lund cercava di rialzarsi.

«Fermatevi, Kenniston!» gli ordinò. «Non siete più sul vostro mondo barbarico, ora. Non potete...»

Ma non ebbe il tempo di finire. Lund si era rialzato, e stringeva in pugno un piccolo oggetto di cristallo che aveva estratto di tasca. Aveva previsto la reazione di Kenniston, ed era venuto armato.

Ma la grossa forma pelosa di Gorr Holl si levò alle spalle del viceamministratore. Una sua mano, enorme, afferrò quella di Lund che stringeva l’arma. Con l’altro braccio lo af­ferrò attorno al corpo e lo sollevò in alto come un bambino. Le sue dita potenti strinsero. Lund lasciò cadere l’arma di cristallo.

«Lasciatemi andare!» sibilò affannato, sentendosi mancare il respiro. «Vi ordino di...»

«Avresti potuto uccidere un uomo» brontolò Gorr Holl, scuotendo Lund fino a fargli sbattere i denti. «Non puoi or­dinarmi più nulla, piccolo uomo miserabile!»

Si guardò intorno, stringendo sempre Lund immobilizza­to fra le sue braccia.

«E ora, che facciamo?» domandò.

Mathis disse, con voce un poco tremante: «Io vi chiedo, in nome della Federazione...»

Ma nessuno badò alle sue richieste, ed egli tacque.

Arnol si era avvicinato. Aveva le mascelle serrate, ora, e uno sguardo di determinazione sul viso.

«Siamo già colpevoli per quanto abbiamo fatto. Ci aspet­tano già l’arresto e l’esilio. Non possono farci niente di più, anche se mettiamo in esecuzione il nostro progetto. Siete an­cora decisi?»

«Sì» disse Kenniston. Poi aggiunse, guardando Varn Allan e Mathis: «Mi spiace che siate venuti. Ora dovrete ve­nire con noi, ...voi, e anche Lund. Non possiamo lasciarvi in­dietro a dare l’allarme.»

Gli occhi di Varn Allan, fermi, si incontrarono con quelli di Kenniston.

«Questo non muterà le cose. La nostra scomparsa, e la vostra, saranno notate prestissimo.»

Non disse altro. Diede un’occhiata alla nave spaziale, poco lontana, e poi agli uomini che la circondavano, e all’agile, fe­lino corpo di Magro. Non tentò di fuggire.

Arnol si rivolse ai suoi uomini, e disse: «Voi non siete re­sponsabili dei miei piani. Nessuna pena potrebbe ancora col­pirvi. Perciò siete liberi di decidere, ora, se volete o no venire con me.»

Il capo pilota si fece avanti. Era un giovane alto, col viso fermo e un sorriso imperturbabile; gli occhi non rivelava­no alcun timore. «Troppe volte ho guidato questo gingillo attraverso la Galassia per pensare di lasciarvi ora» disse. «Non so che ne pensino gli altri ragazzi, ma io vengo.»

Gli altri, tecnici e uomini dell’equipaggio, gridarono il loro consenso.

«Abbiamo lavorato troppo a lungo e troppo duramente per lasciar perdere un’occasione come questa! Siamo con voi, Arnol!»

Gli occhi neri di Arnol erano velati di lacrime di commo­zione. Ma la sua voce risuonò, ferma, per dare gli ultimi or­dini.

«Allora preparate tutto per la partenza! Le navi spaziali del Governo ci inseguiranno non appena si accorgeranno dell’assenza del Coordinatore, di Varn Allan e di Lund!»

Gli uomini si affollarono di corsa attorno all’incrociatore spaziale; Kenniston li seguì, tenendosi ben vicino a Varn Al­lan, mentre Gorr Holl gli veniva appresso, sempre stringendo nelle sue robuste braccia Lund che protestava e strillava. Ma­gro si occupava di Mathis che non parlava né faceva alcuna resistenza.

Gli sportelli furono chiusi. Mentre seguiva Arnol lungo uno stretto passaggio, Kenniston udì i suoni confusi della partenza che si susseguivano rapidi: luci di allarme si accen­devano qua e là, campanelli di avvertimento risuonavano.

Poi, con una leggera vibrazione seguita da un sordo ron­zio, i potenti motori si misero in moto.

Arnol spalancò due porte che si trovavano di fronte, nello stretto passaggio. Indicandone una, disse: «Credo che que­sta sia la cabina più comoda, amministratrice Allan. Ci per­donerete, se terremo chiusa la porta.»

Varn Allan entrò, senza una parola. Lund e Mathis furono rinchiusi nella cabina opposta, senza che nessuno prestasse attenzione alle furenti minacce di Lund.

Arnol diede un’occhiata alle luci di allarme.

«È tutto pronto, ora» disse. «Venite.»

Kenniston si sistemò nell’incrociatore spaziale, assistendo con occhi annebbiati ai preparativi precedenti immediata­mente la partenza, schiacciato da un’enorme stanchezza. Poi un campanello d’allarme suonò per un’ultima volta, e la pic­cola astronave si sollevò dolcemente nello spazio. Come già nel Thanis,si aveva qui un effetto molto attenuato della tre­menda forza di accelerazione. Kenniston aveva ora appreso quali fossero le forze statiche che, in una nave spaziale, tem­peravano l’inerzia di quei momenti.

Come in sogno, Kenniston ascoltò il sibilo della sferzata violenta dell’atmosfera contro le lamiere corazzate dell’incrociatore spaziale. Poi, attraverso il finestrino, vide la gran­de mole nebbiosa di Vega Quattro allontanarsi insensibil­mente, con lenta maestà. Infine il cielo scomparve, sostituito dalla nera volta dello spazio, nel quale erano sospesi soli fiammeggianti e sconosciuti.

Si accorse d’un tratto che Gorr Holl gli aveva posato una mano sulla spalla.

«Vieni, Kenniston! Sei sfinito. È bene che tu vada a ripo­sare.»

Il grosso umanoide lo prese in braccio, come un bambino, lo portò in una cabina e lo depose in una cuccetta.

Kenniston non si svegliò che parecchie ore più tardi, tutto intorpidito e ancora stanco per lo sforzo fisico e psichico di quegli ultimi giorni. Guardò fuori dal finestrino. L’incrocia­tore si trovava ora in pieno spazio, superando, a tremenda velocità, il vuoto vertiginoso che lo separava dalla Terra. Kenniston sentì un brivido involontario di piacere. Quei viaggi nelle grandi profondità interstellari cominciavano a diventargli familiari.

Si recò sul ponte interno e vi trovò Magro che parlava col capo pilota.

«Sono stato in ascolto al televisore» diceva Magro. «L’allarme non è ancora stato dato, su Vega.»

«Ma lo daranno non appena si accorgeranno della scom­parsa di Mathis, Varn e Lund, e della nostra fuga.»

«Già. Le navi spaziali del Controllo ci inseguiranno allo­ra come cani. Non avremo molto tempo, sulla Terra.»

Kenniston ascoltò in silenzio. Poi domandò: «Dov’è Arnol?»

«Lo troverai nel compartimento della bomba.»

Mentre Kenniston percorreva una serie di scale, per rag­giungere il compartimento dove la bomba riposava nel suo alveolo, a prova di ogni urto, un pensiero tormentoso lo as­salì nuovamente.

Fino ad allora ne era stato distolto dalla rapidità degli eventi. Ma ora gli sembrava di nuovo assolutamente fantasti­co che si dovessero puntare le speranze dell’ultimo popolo della Terra su quel grosso fuso nero. Era stato provato una volta sola, e quella prova aveva avuto un esito disastroso...

Ma Jon Arnol era seduto, nella penombra del comparti­mento che ospitava la bomba, e sorrideva sereno, felice.

«Stavo ammirando la mia creatura, Kenniston. Ti sembrerà una cosa sciocca, non è vero? Ma ho messo tutta la mia vita in questa cosa inerte. Poi ho atteso... quanto tempo ho atteso! E ora, fra poco...»

Il suo sguardo si posò nuovamente sull’ovoide di metallo nero che stava ai suoi piedi.

«Sembra un sogno, ma si tratta del lavoro di tutta una vi­ta, è una potenza che ridarà la vita a tutto un mondo.»

Scosso dal dubbio che lo tormentava, Kenniston gridò: «Ma potrà questa bomba effettivamente riaccendere il ca­lore spento nell’interno della Terra? In che modo?»

«So qual è l’incertezza che ti tormenta, Kenniston» dis­se Arnol, con voce stanca. «Vorrei spiegarti le mie equazio­ni. Ma come potrei farlo, senza prima insegnarti tutti gli svi­luppi che, attraverso le epoche, sono venuti a determinare una nuova scienza?»

Tacque un momento, perplesso. Poi proseguì: «Anche se sei uno scienziato primitivo, però, sei sempre uno scien­ziato. Cercherò almeno di farti capire il principio su cui mi sono basato. Sai che la maggior parte dei soli ricavano la loro energia da una reazione nucleare che trasforma quat­tro atomi di idrogeno in un atomo di elio, attraverso una serie di trasformazioni graduali coinvolgenti il carbonio e l’idrogeno.»

«Sì, quel ciclo carbonio-idrogeno è stato scoperto nella mia epoca. Gli scienziati lo hanno chiamato Fenice Solare. La piccola frazione di peso atomico residuante dal ciclo era la fonte della radiazione solare.»

«Esattamente» approvò Arnol. «Ciò che non potevi sapere è questo: che gli scienziati, nelle epoche successive, sono riusciti ad applicare reazioni cicliche analoghe ad altri e più pesanti elementi. Questa è proprio la chiave del mio procedimento.

«La maggior parte dei pianeti, come la Terra, hanno al centro una specie di anima costituita da ferro e nichel. Ora, una trasformazione del ferro e nichel in reazione ciclica è stata eseguita in laboratorio ed è riuscita, con liberazione di una enorme energia. Allora mi sono domandato: invece che nel laboratorio, perché non si potrebbe iniziare la reazione all’interno di un pianeta?»

Kenniston lo interruppe, incredulo: «E allora? Avrebbe riprodotto, in quel pianeta, la reazione basica solare?»

«Non proprio così» ammise Arnol «perché il ciclo ferro-nichel non cede una radiazione tanto terrificante come quella della vostra cosiddetta Fenice Solare. Creerebbe, però, una gigantesca fornace solare nell’interno del pianeta, e fa­rebbe salire di molti gradi la temperatura di superficie di quel mondo.»

La voce di Kenniston era preoccupata, mentre doman­dava: «E non vi sarebbe il pericolo che la reazione nucleare raggiungesse, scoppiando, la superficie?»

«No, non potrà mai raggiungere la superficie» affermò Arnol. «Il ciclo può solo alimentarsi su nichel e su ferro, e la massa esterna di silicio e alluminio, che avvolge l’anima in­terna, conterrà la reazione per sempre.

«Questa è la ragione per la quale la bomba energetica che provoca la reazione dev’essere fatta deflagrare entro l’anima del pianeta. E questa è la ragione per la quale possiamo ap­plicare rapidamente il procedimento alla Terra... perché que­gli antichi pozzi, scavati per ricavarne calore, forniscono un accesso immediato all’anima del pianeta, senza alcun biso­gno di un preliminare ed elaboratissimo lavoro di perfora­zione.»

Kenniston fece col capo un cenno affermativo. La teoria gli sembrava abbastanza solida. Eppure...

«Ma» disse lentamente «quando hai tentato la prima volta questo procedimento, il pianeta sul quale l’hai speri­mentato è stato quasi interamente distrutto dai terremoti provocati dalla convulsione iniziata nell’anima del pianeta stesso.»

«Non si trattava di un pianeta, ma di un planetoide» corresse Arnol, con la sua voce stanca. «Questo l’ho già spiegato tante volte. La massa del planetoide non era suffi­ciente a sostenere l’esplosione.» Poi, d’improvviso, ebbe uno scatto d’ira. «Perché sono stato così pazzo da accettare quell’impossibile tentativo? Ma, te lo ripeto, Kenniston, so ciò che sto facendo. L’intero Collegio della Scienza non ha potuto portare alcuna critica alle mie equazioni. Dovrai ac­contentarti di questo.»

«Sì» disse Kenniston. «Ne sono convinto.»

Lasciando Arnol, Kenniston non poté interamente soffo­care le sue apprensioni. Creare una fornace nel cuore di un pianeta era, per la sua mentalità, non meno incredibile di quanto doveva essere apparsa la creazione del fuoco per il primo uomo. E se, contrariamente a quanto diceva Arnol, avesse condannato la Terra definitivamente, invece di sal­varla?

Con un improvviso senso di colpa, pensò a Varn Allan. Tanto lei quanto Lund e Mathis, prigionieri contro la loro vo­lontà, avrebbero dovuto essere posti in libertà prima del grande rischio. Doveva almeno darle quell’assicurazione.

La porta della cabina aveva una serratura a combinazione cifrata e i numeri erano stati comunicati a tutti, in caso di ne­cessità. Kenniston aprì la porta ed entrò.

Varn Allan stava seduta, come già a bordo del Thanis,guardando dal finestrino l’immensità dello spazio. Kenni­ston capì che non aveva dormito, perché aveva il viso stanco e pallido.

Al suo ingresso, lei si rialzò e si rivolse a lui con atto di sfida.

«Siete tornati ragionevoli e avete deciso di abbandonare il vostro criminale progetto?» domandò.

Il duro sguardo dei suoi occhi azzurri risvegliò l’ira nel cuore di Kenniston.

«No» rispose questi. «Sono venuto semplicemente ad avvertirvi che a voi, a Lund e a Mathis sarà concesso di la­sciare la Terra prima che il tentativo venga eseguito.»

«Credete che mi preoccupi della mia salvezza?» gridò Varn Allan. «Mi preoccupo per le migliaia di persone del vo­stro popolo, che voi mettete in pericolo, con questa pazza sfi­da alla legge della Federazione.»

«All’inferno la legge della Federazione!» proruppe ruvi­damente Kenniston.

Gli occhi di Varn lampeggiarono.

«Imparerete a conoscerne la potenza. Le navi spaziali del Controllo giungeranno sulla Terra prima che possiate dar corso al vostro esperimento.»

Kenniston, esasperato oltre misura, l’afferrò alle spalle, con l’impulso brutale di scuoterla.

In quel momento accadde un fatto assolutamente inatte­so. Varn Allan scoppiò a piangere.

L’ira di Kenniston svanì di colpo. Varn Allan gli era sempre apparsa così fredda e padrona di se stessa, che si sentiva as­solutamente sconvolto nel vederla in lacrime.

Dopo un attimo, Kenniston le accarezzò una spalla, imba­razzato.

«Mi dispiace moltissimo, Varn. So che avete cercato di aiutarmi, là, al Centro di Vega. E potrà sembrarvi che io mi dimostri ingrato. Ma non è vero! È che debbo, debbo tentare quell’esperimento, per non vedere gli abitanti di Middletown umiliarsi combattendo contro la vostra Federazione.»

Varn Allan lo guardò, con occhi umidi, e mormorò: «Mi sto comportando come una stupida...»

Anche Kenniston la guardò, ma lei lo respinse. Sembrava volesse evitare gli occhi di lui.

«So che siete sincero, Kenniston. Ma so pure che avete torto, e che non potete sfidare con successo la potenza di tut­te le stelle.»

Kenniston si sentì stranamente depresso, quando la la­sciò. Cercò di non pensare... cercò di scacciare il ricordo di quel contatto con lei, il ricordo della fugace emozione che lo aveva afferrato quando le aveva accarezzato le spalle.

«È una cosa pazza...» mormorò fra sé. «E poi, c’è Carol...»

Non andò più da lei, in tutte le ore e i giorni in cui il picco­lo incrociatore spaziale varcava a piena velocità il vuoto im­menso della Galassia. La evitava. Temeva il momento in cui l’avrebbe nuovamente incontrata.

La tensione crebbe nell’animo di Kenniston; intanto la lu­ce rossa del sole si ingrandiva nello spazio. Mentre l’incrocia­tore rallentava la sua corsa al di là degli altri pianeti esterni senza vita, Arnol gli si avvicinò.

«Dovremo lavorare in fretta, una volta giunti» gli disse Arnol. Anch’egli aveva il viso contratto dallo sforzo. «Le na­vi spaziali della Federazione debbono già essere in viaggio per arrestarci.»

Kenniston non rispose. Il dubbio che lo tormentava da tempo gli s’ingrandiva nel cuore mentre vedeva il grigio glo­bo della vecchia Terra ingigantirsi sulla loro direttrice di corsa.

Il suo popolo era là, in attesa. Che cosa portava a loro e al loro pianeta morente? Una nuova vita, o la morte definitiva?

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