14 Ultimo appello

Il grosso Gorr Holl lo condusse lungo un groviglio di stretti passaggi che correvano all’interno del Thanis. Non incontra­rono nessuno, e Kenniston intuì che Gorr Holl evitava i corri­doi principali.

Kenniston guardava di sfuggita i particolari della nave spaziale. Non gliene importava nulla, ora. Tutto ciò che lo preoccupava, era invece l’urgente necessità di impedire il di­sastro che stava per accadere. I suoi nervi erano tesi fino allo spasimo, in attesa del primo colpo di cannone contro il Tha­nis. Sapeva che era ancora presto, ma i minuti scorrevano ve­loci.

Gorr Holl gli diede rapidamente alcune spiegazioni, men­tre procedevano.

«L’ordine di evacuazione è venuto dal Comitato dei Go­vernatori attraverso un Comitato esecutivo. Secondo le leggi della Federazione, tu puoi avanzare appello, contro quell’or­dine, al Comitato dei Governatori in seduta plenaria. Ora, Kenniston, nessuno può negarti il diritto di appello, perciò non lasciarti intimorire da un eventuale rifiuto.»

Erano giunti, attraverso uno scuro corridoio, di fronte a una porta chiusa.

«Quella è la cabina del televisore. Varn Allan è in contat­to col Comitato, ora. Entra là dentro e fa’ il tuo appello. E ri­cordati bene: c’è anche Lund!»

Gorr Holl sparì nel buio del corridoio. Kenniston fece po­chi passi e si trovò davanti alla porta chiusa. Fece girare la maniglia, e la porta si spalancò. Kenniston entrò in una cabi­na alta e stretta, nella quale stavano Varn Allan e Norden Lund che si volsero di scatto, attoniti, a guardarlo.

Kenniston li notò appena. Fu qualcos’altro a colpire la sua attenzione e a trattenerlo immobile, come impietrito.

Due delle pareti della cabina erano occupate da complica­ti meccanismi, tutti apparentemente automatici. Di fronte a lui stava la terza parete, uno schermo gigantesco, che riflette­va delle figure in modo così chiaro e limpido da sembrare una finestra.

Una finestra aperta su un altro mondo...

In quello schermo, quattro personaggi sedevano davanti a un tavolo nero di materia plastica. Tre erano uomini, vestiti come gli occupanti del Thanis. Uno di essi era molto vecchio, il secondo era anziano, il terzo era di mezza età, di carnagio­ne scura e aspetto arcigno. Il quarto non era un uomo. Era un umanoide come Magro, e come lui aveva una criniera bianca e una strana espressione felina, nel viso bello e lieve­mente crudele. Ma era più vecchio e più grave e solenne di Magro.

Quei quattro sembravano uomini d’affari, interrotti nel mezzo di una importante seduta. Essi guardarono, fuori del­lo schermo, verso Kenniston, e l’uomo più giovane, quello dalla carnagione scura, domandò a Varn Allan: «Chi è quel­la persona?»

Kenniston rimase immobile, guardando con fierezza nel­lo schermo: l’ambiente in cui sedevano i quattro personaggi era simile a quello nel quale si trovava ora lui stesso, ma assai più grande, una grande sala piena di banchi di manovra e di schermi. Attraverso la finestra di quella sala, a miliardi di chilometri da lui, Kenniston poteva vedere le torreggianti pa­reti di un edificio titanico. Dardeggiava un sole dai raggi ada­mantini, soprannaturale, magnifico, che diffondeva nel cielo una vivida luce biancoazzurra.

Ancora la voce secca si fece udire, al di là della Galassia, assai più veloce della luce, per miracolo di una scienza avan­zatissima.

«Varn Allan! Chi è quell’uomo?»

«È uno dei primitivi della Terra, signore» ella rispose irosamente, e si volse nuovamente a Kenniston.

«Non avete alcun diritto di rimanere qui» disse. «An­datevene subito!»

«No» replicò Kenniston. «Non me ne andrò finché non avrò detto ciò che intendo dire.»

«Lund» disse Varn Allan «volete chiamare le guardie e farlo allontanare con la forza?»

Kenniston si mosse, impaziente.

«Non me ne andrò!» ripeté.

Lund rifletté. I suoi occhi andavano dai pugni stretti di Kenniston al viso adirato di Varn Allan, e sorrideva.

«Dopo tutto» disse «ritengo che quest’uomo sia ora un cittadino della Federazione. E possiamo negargli il diritto di parlare?»

Gli occhi azzurri di Vafn Allan ebbero un lampo d’ira. Poi ella parlò alle immagini vive che si vedevano nello schermo.

«Mi spiace moltissimo, signori, ma forse questo inci­dente vi illustrerà la situazione meglio di un lungo discor­so. Non ho avuto alcuna cooperazione da parte dei primiti­vi, e perfino un subordinato cerca ora di eludere la mia au­torità.»

L’uomo più giovane, dalla carnagione scura, parlò impa­ziente dallo schermo: «Questo non è il momento per ascol­tare reclami sulla disciplina dei vostri sottoposti!»

Kenniston fissava ora il quartetto del lontanissimo mondo di Vega, che sembrava tenere in mano il destino degli abitan­ti di Middletown.

«Siete voi il Comitato esecutivo responsabile dell’ordine di evacuazione?» domandò con tono deciso, rivolto verso lo schermo.

L’uomo più vecchio gli rispose con voce calma: «Non vi è alcun bisogno di parlare con arroganza. Sì, siamo noi, quel Comitato.» Poi, guardò Varn Allan. «Credo, Allan, che, siccome una interruzione vi è stata, sarà bene che veniamo subito a un chiarimento.»

Varn Allan scosse le spalle, e Lund sorrise apertamente.

«Mi spiace molto» proseguì Kenniston «ma non c’è tempo per le cortesie. Fra pochi minuti gli abitanti della mia città faranno fuoco sulle vostre navi spaziali. Non voglio che questo accada. Non voglio che la mia gente sia uccisa, e nem­meno la vostra.»

«Non vi saranno uccisioni» rispose il vecchio. «Il rag­gio paralizzante, usato a piena potenza, può immobilizzare, senza alcun pericolo per nessuno, tutta la popolazione della vostra città.»

Kenniston scosse il capo.

«Questo è solamente un rinvio. Quando riprenderanno conoscenza, riprenderanno a combattere. È proprio questo che voglio assolutamente farvi capire. Finché il mio popolo vivrà, combatterà per rimanere sulla Terra!»

L’accento di verità, in quel grido appassionato parve tur­barli profondamente. Questa volta l’umanoide dalla criniera bianca intervenne e disse lentamente:

«Questo può essere vero. Anche taluni del mio popolo serbano tuttora un illogico attaccamento al loro pianeta.»

Lund parlò allora, con quel suo tono ironico e deferente a un tempo: «È proprio il punto di logica psicologica che ho cercato di far capire all’amministratrice Allan.»

«Se avete un suggerimento da dare, mi piacerebbe udir­lo» disse Varn Allan, gelida.

«Naturalmente» disse allora Lund «è del tutto impos­sibile consentire che questo popolo rimanga sulla Terra. Una cosa simile stabilirebbe un fatale precedente per gli altri pia­neti morenti, la cui popolazione deve pure essere trasferita. La mia idea è dunque...»

Qualunque fosse la proposta di Lund, nessuno la poté udire perché Kenniston, fulmineo, lo aveva atterrato con un pugno.

«All’inferno, voi e le vostre idee!» gridò. Poi si avvicinò ancor più allo schermo. «Vi chiedo formalmente di revoca­re l’ordine di evacuazione» proruppe.

L’uomo più vecchio allargò le mani in uno stanco gesto di diniego.

«Questo non è possibile» rispose.

«Allora» insistette Kenniston duramente «mi appello, contro la vostra decisione, al Comitato dei Governatori, in seduta plenaria!»

A queste parole seguì un attimo di silenzio impacciato. Tutti gli occhi, dentro e fuori lo schermo, si fissarono su Ken­niston.

«Così, il selvaggio ha imparato la legge!» esclamò Lund, che si era rimesso dal pugno sferratogli da Kenniston. Poi rise. «Ma, naturalmente... Gorr Holl e i suoi amici gli hanno insegnato la lezione.»

Varn Allan si avvicinò a Kenniston.

«È una perdita di tempo» disse. «Il Comitato dei Go­vernatori confermerà l’ordine già emesso.»

«Proprio così!» approvò l’uomo più giovane dallo schermo. «È semplicemente uno stratagemma per guada­gnare tempo.»

«Ciò malgrado» dichiarò l’umanoide, osservando Ken­niston con uno sguardo lievemente divertito nei suoi occhi felini «la sua richiesta è perfettamente legale.»

L’uomo più vecchio sospirò.

«Sì» disse guardando Kenniston. «Sono costretto, dalla legge della Federazione, a concedervi il diritto di appel­lo. Ma vi avverto che ciò che ha detto l’amministratrice Allan è vero. Il Comitato dei Governatori non farà che ratificare la nostra decisione.»

«Ebbene, nel frattempo» incalzò Kenniston «vi chie­do di ritirare dalla Terra le navi spaziali che hanno provocato questa situazione critica.»

L’uomo più vecchio fece con riluttanza un cenno di as­senso.

«Anche questa è una legittima richiesta. Le navi spaziali verranno temporaneamente richiamate a Vega. E voi verrete con loro, poiché gli appelli al Comitato dei Governatori deb­bono essere fatti di persona.»

Di persona? Il significato di quelle due semplici parole colpì Kenniston come una mazzata e lo fece quasi barcollare, sostituendo alla sua vaga speranza una più vertiginosa e per­sonale emozione.

Quelle due parole significavano... significavano che lui, John Kenniston, avrebbe dovuto lasciare la Terra, avrebbe dovuto lanciarsi nell’abisso oscuro, fuori, nello spazio, at­traverso metà dell’universo stellato, dietro una speranza perduta.

Avrebbe dovuto andare in un mondo sconosciuto, incredi­bilmente lontano, per difendere la causa di Middletown da­vanti a esseri sconosciuti, con tutte le probabilità contro di lui! Capiva ora ciò che Gorr Holl aveva voluto dire: “...nella posizione nella quale ti trovi, non sarà una cosa facile”.

La voce tagliente di Varn Allan lo stava ora sfidando.

«Consentite ad andare? Rispondete in fretta...! Non resta ormai che poco tempo per notificare la cosa al vostro popolo, prima che l’attacco venga sferrato.»

Il ricordo di quell’imminente attacco, che avrebbe signifi­cato il disastro irrevocabile della sua gente, irrigidì Kenni­ston. Doveva evitarlo, a qualsiasi costo.

Inspirò profondamente: «Sì!» affermò con voce ferma. «Andrò!»

«In questo caso, amministratrice Allan» disse l’uomo più vecchio «ritirerete le navi spaziali dalla Terra, entro due ore al massimo.» Così dicendo si alzò, facendo segno che il colloquio era terminato. E aggiunse: «Notificherò la richie­sta di appello al Comitato dei Governatori.»

Lo schermo si fece bianco. Varn Allan guardò Kenniston, e disse: «Farete bene ad andare subito ad avvertire il vostro popolo.»

Kenniston capì, mentre usciva, che Varn Allan era irata, molto irata. Ma Lund sembrava stranamente soddisfatto.

Con la massima rapidità, Kenniston percorse il tratto di deserto che lo separava dalla porta della città; e a ogni passo che faceva, diventava sempre più chiara in lui l’incredibile realtà della sua imminente avventura.

“Te ne vai dalla Terra. Rientrerai in una nave, in quella astronave, e ti staccherai dalla Terra per avventurarti nello spazio, fuori dell’atmosfera della Terra, nell’universo, fra le stelle...”

Quel pensiero gli dava una specie di vertigine, un senso in­sopprimibile di repulsione. Capiva che non doveva pensarci, che non doveva pensare a quel balzo immenso nello spazio... non doveva pensarci, altrimenti quel pensiero lo avrebbe so­praffatto.

Davanti alla porta della città incontrò i soldati dello sbar­ramento che gli puntarono contro i moschetti, che abbassa­rono solo quando l’ebbero riconosciuto. Al di là dello sbarra­mento si levava il polverone causato dai badili che scavavano trincee e dagli uomini che piazzavano i cannoni.

«Che accade laggiù?» gridò un ufficiale. «Hanno deci­so di attaccarci, quelle navi spaziali? Stanno forse...?»

«Dov’è il sindaco?» lo interruppe Kenniston.

«Subito dietro la porta. Sono tutti là, in attesa.»

Kenniston li oltrepassò, saltando oltre le trincee per metà scavate, e vide Hubble e la maggior parte dei membri del consiglio raggruppati attorno al sindaco, subito al di là della porta, all’interno della cupola.

La maggior parte della popolazione stava affollata nelle vi­cinanze, trattenuta da sbarramenti di corde e di agenti. Non gridavano più ora, e tutti i visi apparivano ansiosi. Kenniston capiva che quella dimostrazione della terribile potenza del raggio paralizzante che avevano avuto poco prima, aveva calmato la loro ira e generato in essi un altro e ancora più grave motivo di preoccupazione.

Anche il viso grassoccio di Garris era livido dalla stan­chezza, e fu con uno sguardo sospettoso che egli accolse l’av­vicinarsi di Kenniston.

«Che cosa vi ha fatto ritornare? Credevo che sareste ri­masto là, coi vostri amici» lo apostrofò.

«Andate al diavolo!» gridò Kenniston, esasperato. «Ho lottato e discusso finora per salvare la vostra pelle. Ho perfino consentito ad andarmene fino a Vega, per farlo. E questa è l’accoglienza!»

Poi si vergognò del suo scoppio d’ira e cercò di padroneg­giare i nervi.

«Le navi spaziali se ne andranno. Partiranno fra due ore, e io andrò con loro. Ho presentato appello, contro l’evacua­zione, al loro Comitato dei Governatori.»

Un silenzio attonito regnò su tutti, dopo quelle parole. Lo guardavano sbalorditi, senza comprendere, eccetto Hubble, che aveva subito capito di che si trattava.

«Buon Dio, Ken...!» esclamò lo scienziato. «Tu... a Ve­ga? Ma servirà a qualche cosa?»

«Lo spero» disse Kenniston. E senza badare agli altri si rivolse a Hubble spiegandogli rapidamente come stavano le cose. Poi concluse: «Vi è ancora una possibilità che io possa far comprendere loro il nostro caso, e li convinca a lasciarci in pace.»

Il sindaco Garris pareva avesse solo allora cominciato a intuire. Il suo viso si era come trasformato... c’era ora in quel viso una speranza ansiosa, la stessa che si faceva strada an­che nei visi degli altri.

Kenniston capiva quanto disperati avevano dovuto sentir­si, prima del suo arrivo. Tutti loro, i soldati, l’intera popola­zione, si erano resi conto della futilità di una simile lotta quando si erano accorti della potenza del raggio paralizzan­te. Si erano convinti che combattevano una battaglia già per­sa sin dall’inizio. E ora, egli aveva suscitato la speranza di un’altra possibile via di uscita.

«Ora sì che va bene» disse Garris con voce ansiosa e malferma. «È quello che avevo pensato sin da principio. Una cosa che fosse perfettamente legale, una discussione pacifica. Non potevo consentire che il mio popolo fosse fat­to oggetto di violenza.» Si interruppe, sopraffatto dall’an­sia e dalla speranza. Afferrò una mano a Kenniston, e prose­guì: «Farete del vostro meglio per tutti noi, lassù, Kenni­ston! Lo so che lo farete! Non possono essere tutti così te­stardi come quella donna maledetta!»

E, del tutto rianimato, Garris si volse alla folla ansiosa e gridò: «Va tutto bene! Non si combatte più, per ora. Il si­gnor Kenniston andrà di persona nel mondo da cui quella gente è venuta, per discutere la cosa col loro Governo e chie­dere che ci trattino nel modo più giusto!»

Scoppiò un lungo applauso. Mentre quegli applausi anco­ra duravano insistenti, il sindaco impallidì nuovamente. Un nuovo pensiero gli aveva attraversato la mente. Si rivolse a Kenniston, per chiarire il suo dubbio.

«Ma se qualcuno dovrà andare là per rappresentarci, for­se vorranno che il sindaco...» Kenniston lo ammirò davve­ro, stavolta, mentre Garris cercava di pronunciare quelle ul­time e, per lui, spaventose parole «... forse, come sindaco, dovrei andarci io?...»

Kenniston scosse prontamente il capo.

«Siete necessario qui, signor Garris» lo rassicurò. «E, d’altra parte, non parlate la lingua. Perciò la vostra partenza sarebbe inutile.»

«Già, è così!» fece il sindaco, cominciando a respira­re nuovamente. «Naturalmente, è così! Già, infatti. Ebbe­ne, Kenniston, che possiamo fare per aiutarvi? Qualsiasi cosa che...»

«No, non ho bisogno di nulla» rispose Kenniston. «Non ho molto tempo. Debbo solo prendere alcune cose personali e salutare qualcuno. Hubble, vuoi venire con me?»

Hubble assentì. E mentre si allontanavano, dirigendosi ra­pidamente all’interno della città, udirono il sindaco che gri­dava, tutto rincuorato, per spiegare più minuziosamente alla folla la notizia, e udirono le esclamazioni di sollievo e di giu­bilo di tutta la popolazione.

Quella gente si era vista sul punto di essere gettata in una lotta contro armi alle quali non avrebbe potuto resistere, e ora, improvvisamente, non si sarebbe più combattuto; le na­vi spaziali se ne sarebbero andate; uno di loro sarebbe anzi partito per cercar di convincere il Governo delle Stelle che non poteva sloggiare in quel modo tutti gli uomini della Ter­ra. Ogni cosa andava bene, dunque!

Kenniston gemette: «Vorrei che non fossero così male­dettamente sicuri! Questo è solo un rinvio!»

«Quali probabilità vi sono, Ken?» chiese Hubble. «Questo fra noi, naturalmente, in confidenza.»

«Se debbo dire la verità, Hubble, non lo so nemmeno io! Mi sono impigliato in una specie di congiura sotterranea che non riesco ancora a comprendere pienamente.» Gli rac­contò poi ciò che Gorr Holl gli aveva confidato, e aggiunse: «Gorr e tutti gli umanoidi sono dalla nostra parte, ma può darsi che si valgano di me unicamente come di un’ultima ri­sorsa contro la Federazione delle Stelle. In ogni modo, farò del mio meglio.»

«Lo so, che farai del tuo meglio» disse Hubble. «Vor­rei tanto venire con te... ma sono troppo vecchio, e qui hanno bisogno di me.» Poi aggiunse: «Andrò a chiamare Carol, mentre prepari le tue cose per la partenza.»

L’irrealtà d’incubo di tutta quella situazione colpì Kenniston nuovamente, mentre raccoglieva in fretta gli oggetti di cui avrebbe potuto aver bisogno. Era proprio come fare la valigia per un viaggetto di una giornata a Pittsburgh o a Chi­cago, invece che per un viaggio attraverso la Galassia. Pareva incredibile che una cosa del genere dovesse capitare a lui...

L’espressione di Carol, quando arrivò, non gli fu di alcun conforto. Era pallidissima, e quando Kenniston l’abbracciò e cercò di spiegarle la cosa, lei si limitò a dire: «No, Ken... no! Non puoi andare! Tu non sei come loro! Morirai lassù!»

«Non morirò, e potrò forse essere utile a tutti» le rispo­se Kenniston. «Ascoltami, se riesco... se riesco a trovare una via d’uscita per tutti noi, questo compenserà un poco l’accusa di aver attirato tanta sventura su Middletown, a cau­sa del Laboratorio, non ti sembra? Non ti sembra?»

Ma Carol non lo ascoltava nemmeno. Lo guardava in viso, stringendolo a sé con espressione an­gosciata. Poi disse, d’improvviso: «Sei tu, che vuoi andare!»

«Sono io che voglio andare?» ripeté Kenniston. «Ho una paura folle, invece! Mi si arriccia la pelle, solo a pensar­lo! Ma debbo andare, ecco, debbo andare!»

«Sei tu, che vuoi andare» ripeté Carol, e lo guardò nuo­vamente, come se una barriera sorgesse davvero e definitiva­mente fra loro. «Questa è la diversità, fra noi due: è sempre stato così. Io desidero solo le vecchie cose tanto amate. Tu desideri invece le cose nuove.»

Il tempo passava rapidamente, e una specie di disperazio­ne si impadronì di Kenniston. Abbracciò Carol strettamente, con una specie di brutale parossismo, come se volesse, con quella stretta, difenderla contro quella intangibile marea che li divideva sempre più.

«Me ne vado» disse. «Vado a fare ciò che posso per tutti noi. E tornerò come prima, hai capito? E tu mi aspette­rai, Carol!»

La baciò un’ultima volta, ed ella gli restituì il bacio con una strana tenerezza, come se pensasse di non rivederlo mai più, e ricordasse in quel momento tutte le belle giornate sere­ne che avevano trascorso insieme.

Quando la lasciò andare, gli occhi di Carol erano pieni di lacrime.

Poi Kenniston si avviò rapido verso la porta della cupola, accompagnato da Hubble. Tutta la città era ora vibrante di una nuova speranza, di una nuova eccitazione, che si accen­trava sulla sua persona. Ma Kenniston tremava, in cuor suo, al pensiero di ciò che lo attendeva.

Vedeva appena i visi tra la folla, che lo guardavano con an­siosa speranza, mista a rispetto. Udiva appena le voci che gli gridavano: «Buona fortuna, signor Kenniston! Buona for­tuna!» Oppure gli ricordavano il suo compito: «Dite a quella gente che non vogliamo andarcene! Diteglielo!»

Col cuore sconvolto, Kenniston uscì dalla città, attraversò il tratto di pianura desolata, e gli sportelli ermetici di quel­l’incredibile quanto paurosa astronave, si aprirono per acco­glierlo.

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