12 Crisi

I tre uomini della Terra guardarono il grosso Gorr Holl, e per una lunga, lunghissima pausa, nessuno parlò. Gorr Holl pa­reva assorto nella contemplazione del bicchiere che teneva in mano. Magro li guardava coi suoi brillanti occhi felini.

La splendida luce proveniente dall’esterno inondava tutto l’ambiente, e quei tre uomini sembravano diventati di pietra.

Bertram Garris ritrovò alla fine la parola. Ma fu solo per ripetere le stesse parole di Gorr Holl, come Kenniston le ave­va tradotte.

«Evacuazione?» disse poi. E ripeté: «Evacuazione?»

«Sopra un pianeta di un’altra stella» aggiunse Kenni­ston, lentamente. Aveva le labbra strette. Si piegò su Gorr Holl e gridò: «Ma di che cosa credono che siamo fatti?»

Gorr Holl si guardò attorno, guardò i loro visi, poi disse, imbronciato: «Ho paura di avere parlato troppo.» Ma quel suo broncio non appariva più convincente della sua sorpresa di poco prima.

Il sindaco Garris aveva cominciato a tremare. Un’ira fu­riosa si stava scatenando in lui, una furia sincera, che non aveva nulla a che fare coi suoi soliti atteggiamenti studiati. Guardò Magro e Gorr Holl con occhi accesi.

«Lo sapevano già sin da principio, quella donna e tutti gli altri» esclamò. «Sono venuti qui, fingendo di essere nostri amici, e nel frattempo, dietro le nostre spalle...» Si interruppe. La furia e il terrore lo soffocavano, soprattutto perché venivano subito dopo la gioia di poco prima. La sua voce si elevò ancor più di tono. «Dite loro, Kenniston, dite loro da parte mia... che, se credono che ce ne andiamo di punto in bianco dalla Terra verso qualche... qualche...» Si interruppe nuovamente incapace di spiegare ciò che voleva dire «... verso qualche altro dannato posto del cielo... ebbe­ne, si sbagliano o sono pazzi!»

Hubble si rivolse a Kenniston.

«Domanda loro se è una cosa che fanno normalmente, questi Governatori. Voglio dire, questo cacciare le popolazio­ni da un mondo all’altro.»

Gorr Holl confermò la cosa.

«Oh, sì! Ogni volta che la vita, su qualche pianeta, diven­ta economicamente impossibile, o il margine di sopravviven­za è troppo piccolo, i Governatori decidono l’evacuazione della popolazione verso un mondo migliore. Di questi mondi ve n’è una quantità enorme. Sono buoni pianeti, caldi, fertili, disabitati o quasi. Così hanno fatto col mio stesso popolo, che hanno trasferito da Capella Cinque ad Aldebaran.»

«E anche il mio popolo» disse Magro. «Questo è avve­nuto molto tempo fa. I nostri vecchi hanno detto proprio le stesse parole che dice ora il vostro sindaco. Ma sono stati tra­sferiti egualmente.»

Kenniston si mise a gridare, infuriato.

«E i vostri popoli si sono lasciati fare una cosa simile? Non hanno nemmeno resistito?»

«I popoli...» disse Gorr Holl. «Gli esseri umani, i terre­stri, hanno milioni di anni di civiltà dietro di loro. Sono abi­tuati a governi pacifici, sono abituati all’obbedienza, e hanno continuato a muoversi da un mondo all’altro, sin da quando lasciarono la Terra molte epoche fa. Perciò il fatto di essere mandati su un pianeta o su un altro non ha nessun significa­to per loro. Ma gli esseri umanoidi primitivi, civilizzati solo in epoche più recenti, come me e Magro, non sono così ragio­nevoli. Questa questione dell’evacuazione ha sollevato molto risentimento, fra di loro. Infatti, se lo debbo dire... la detesta­no... proprio come la detestate voi.»

«Ebbene» proruppe Hubble d’un tratto. «Dove anda­te, ora?»

Si rivolgeva al sindaco, il quale stava in quel momento camminando a grandi passi verso la porta. Hubble afferrò di peso Garris, trattenendolo per gli abiti. Il sindaco cercava di liberarsi.

«Voglio dirlo a tutti» gridò, accennando violentemente col capo alle urla di gioia che continuavano a provenire dalla piazza. «Evacuarci dalla Terra! Quelli là fuori avranno sicu­ramente qualche cosa da dire su una proposta simile!»

«Che volete fare?» ribatté irato Hubble. «Volete far nascere un pandemonio? Non fate lo sciocco! Questo non è il modo di trattare una questione simile. No! È a quella bionda di ghiaccio che dobbiamo parlare, e a quel suo compagno, Lund.» Scosse Garris per le spalle. «Piantatela, vi dico! Le cose peggioreranno ancora, se vi mettete a fare il galletto.»

Garris non insistette. Guardò Hubble e Kenniston.

«Benissimo!» disse. «Parleremo con loro. Ma è bene che si mettano in testa che non hanno a che fare con un greg­ge di pecore addomesticate.» Si avvicinò agli altri, sempre infuriato. «Ordinarci di evacuare il nostro mondo... Man­date via questi due imbroglioni, Kenniston! Avevo ragione sin da principio. Non bisogna fidarsi di loro, sono...»

«Oh, finitela!» proruppe Kenniston, impaziente. «Non sono Gorr e Magro che hanno fatto la legge. Ci hanno fatto an­zi un piacere dandoci un’informazione che non avremmo avuto altrimenti se non troppo tardi.»

Sapeva che ci doveva essere qualche altro motivo ad ave­re indotto quei due a parlare, ma era ancora troppo scon­volto per riuscire a individuarlo. Si volse perciò a Gorr Holl e a Magro.

«Ascoltate!» disse. «Avete visto come ha reagito il sin­daco alle vostre informazioni. Ebbene, vi posso assicurare che tutti i nostri abitanti reagiranno nel medesimo modo, e molto più violentemente, anche. Dite questo, dunque, a Varn Allan, e ditele anche che farà meglio a venire da noi per par­lare di questa evacuazione, prima di andare troppo in là con le sue decisioni. Ditele che non ci piace affatto che si decida­no le cose alle nostre spalle, senza interpellarci. Ditele...» Si interruppe, sorpreso egli stesso della sua furia. «No, è me­glio che non diciate nulla di tutto questo» aggiunse.

Gorr Holl sorrise.

«Quale primitivo come te, comprendo perfettamente ciò che vuoi dire» disse.

«Molto bene! E tanto tu, Gorr, quanto Magro e gli altri, farete bene a rimanere fuori della città. Quando si verrà a sa­pere una cosa simile, non me la sentirei di garantire la sicu­rezza di nessuno.»

«Oh» fece Gorr Holl, sorridendo «saremo più che si­curi, rinchiusi nella nave spaziale. Io, poi, ho agito come non avrei dovuto. Ho parlato di una faccenda che, per politica, dovevamo tacere.»

Kenniston e i due umanoidi si guardarono, con piena comprensione. Kènniston pose una mano sulla spalla pelosa di Gorr Holl e ne strinse, amichevolmente, i muscoli saldi co­me il ferro.

«Un’altra cosa ancora, Kenniston» disse Magro. «Se vi saranno guai, e mi pare davvero di sentirne l’odore nell’a­ria, diffida di Lund. Varn Allan si sente forse un po’ troppo si­cura di sé ma è leale e onesta. Lund, invece... ebbene, Lund vorrebbe il posto di Varn e taglierà la gola a chiunque pur di averlo...»

«È proprio così» confermò Gorr Holl. «Ricordatelo, Kenniston.»

«Lo ricorderò. E... grazie.»

Se ne andarono, per recare il loro messaggio di sfida alla nave spaziale. E Kenniston li guardò, mentre se ne andava­no, e il sindaco pure li guardò, mentre si udivano gli applausi della folla, che li accompagnarono fino alla porta della città.

«Mi spiace di averli chiamati imbroglioni» si ramma­ricò d’un tratto il sindaco. «Per tutti i diavoli! Sono certo più umani loro di tutta quella gente che si trova nella nave spaziale!»

Hubble fece un cenno affermativo.

«Il loro livello di cultura è più vicino al nostro. I nostri si­mili ci hanno invece troppo sorpassati. Tutto il loro modo di pensare è diverso dal nostro. Noi... insomma, siamo estranei alla nostra stessa razza.»

A Kenniston, gli applausi e la felicità degli abitanti di Middletown risuonavano ora come un’amara ironia. Se aves­sero saputo ciò che si progettava per loro...

Si volse a Hubble, accennandogli il sindaco.

«Vuoi tenerlo d’occhio tu per impedirgli di fare scioc­chezze, e specialmente stai attento che non dica nulla a nes­suno! Ascolterà te più di qualsiasi altro.»

«Sta bene, Kenniston» disse Hubble. «Ora va’ a ripo­sare un poco. Hai lavorato molto, in questi ultimi giorni, e... tanto Varn quanto Lund non saranno qui prima dell’alba.»

Kenniston tentò di riposare, ma il suo sonno fu breve e agitato. Nonostante la stanchezza, le parole di Gorr Holl gli risuonarono in testa come campane per tutto il resto della notte: evacuare... evacuare... verso il mondo di un’altra stel­la... E il pensiero di tutti gli abitanti di Middletown che cre­devano i loro guai felicemente conclusi... il pensiero di Carol, particolarmente di Carol... e soprattutto il pensiero di Varn Allan, che cominciava a odiare... lo tormentavano. Aveva paura.

Non ci voleva molto a capire ciò che la ristrettezza mentale del sindaco non aveva capito... Una vasta e potente macchina di governo della quale la grossa nave spaziale e i suoi occupan­ti non erano che un simbolo. Non sembrava possibile che un pugno di uomini su un pianeta morente potesse lottare con successo o per lungo tempo contro un governo simile.

Hubble lo risvegliò, alla fine, da quel sonno tormentato, per dirgli che Varn Allan e Lund erano giunti, e che il sindaco aveva riunito il consiglio municipale.

«Abbiamo bisogno di te come interprete, Ken» disse. «Tu parli meglio di chiunque altro la loro lingua, e questa è una questione troppo importante per correre il rischio di malintesi.»

Nessuno di loro parlò durante il percorso verso l’alto edificio che era divenuto sede del Municipio. Kenniston poté ac­corgersi che anche Hubble era, come lui, inquieto e preoccu­pato.

Una grossa folla si era raccolta sulla piazza, una folla feli­ce, venuta ad applaudire i buoni amici che li avevano aiuta­ti. Nel Municipio, il consiglio di Middletown sedeva attorno a un massiccio tavolo di metallo. C’erano il sindaco Garris, Borchard, il commerciante di carbone, Moretti, il commer­ciante di alimentari e un’altra mezza dozzina di persone. Al­l’altra estremità del tavolo sedevano la donna e l’uomo di Vega, che erano gli amministratori di un vasto settore di spazio, con tutti i suoi mondi e i suoi popoli.

Il sindaco Garris si attaccò a Kenniston sin dal momento che questi entrò. Dal viso si capiva che aveva dormito anche peggio di Kenniston, e il suo umore non era affatto mutato, dalla sera prima.

«Domandatele, Kenniston» esordì «domandatele se questa storia della evacuazione è vera.»

Kenniston fece la domanda.

Varn Allan fece un cenno affermativo: «Verissima. Mi spiace che Gorr Holl abbia parlato tanto prematuramente... sembra che ciò vi abbia messi in subbuglio.» Diede un’oc­chiata ai visi cupi dei membri del consiglio e al viso teso del sindaco. Kenniston si accorse, in quel momento, che la don­na doveva essersi già trovata in circostanze simili con altre popolazioni, e che affrontava perciò il problema con una specie di stanca pazienza.

«Sono sicura» disse «che col tempo capirete che cer­chiamo di servire unicamente i vostri migliori interessi.»

«I nostri migliori interessi?» gridò Garris, quando ebbe udito la traduzione. «Allora perché non ce lo avete detto sin da principio? Perché avete progettato tutto ciò alle nostre spalle?»

«Ve lo avevo detto che sarebbe stato meglio...» co­minciò Norden Lund, con un risolino ironico, rivolto alla donna.

«Discuteremo ciò più tardi!» lo interruppe seccamente quest’ultima. Kenniston poté vedere lo sforzo che ella faceva per dominare l’ira, mentre si rivolgeva direttamente a lui.

«Volevamo attendere finché si sarebbe potuto presentar­vi un piano completo di evacuazione, in modo da non turba­re troppo la vostra gente.»

«In altre parole» sbottò Kenniston, con ira «credevate di trattare con un mucchio di selvaggi nei confronti dei quali era necessario nascondere la verità?»

«Non vi comportate voi stesso proprio nel modo primiti­vo di cui parlate?» domandò Varn Allan. Ancora una volta lei si sforzò di reprimere la propria irritazione. Poi parlò di nuovo con calma, come se cercasse di spiegare la cosa a un bambino. «Una nave spaziale di esperti in evacuazione, è attualmente in viaggio verso la Terra, e dovrebbe presto arri­vare. Potranno accertare i bisogni del vostro popolo e trovare un mondo che sia adatto alle sue esigenze fisiche e psicologi­che. Cureremo che sia un mondo il più possibile somigliante alla vostra Terra di una volta.»

«Siete molto gentile davvero» disse Kenniston, ironico.

Gli occhi azzurri della donna lampeggiavano ora con aperta ostilità. Kenniston distolse gli occhi da lei perché Garris chiedeva la traduzione. Kenniston tradusse senza atte­nuare le espressioni dure della donna.

Nella sua indignazione, Garris dimenticò completamente l’oratoria. Gridava, addirittura.

«Se credono che noi ci muoveremo dalla Terra per an­darcene in qualche altro pazzo mondo del cielo, si sbagliano di grosso! Spiegatelo loro bene, questo!»

Varn Allan apparve sinceramente sbalordita, quando Ken­niston le tradusse le parole del sindaco.

«Ma non posso credere che vogliate rimanere esposti al freddo e ai pericoli di questo mondo morente!»

Kenniston notò che la rabbia e un’istintiva paura si face­vano sempre più evidenti sul viso pallidissimo del sindaco. Del resto le sue reazioni erano identiche.

«Non riesce a crederlo?» proruppe Garris, parlando pe­nosamente, con la gola attanagliata dall’emozione. «Non riesce a crederlo? Ascoltate ciò che dice! Abbiamo lasciato la nostra epoca. Abbiamo dovuto abbandonare la nostra città, le nostre case. Questo è abbastanza! È tutto ciò che possiamo sopportare, in una vita sola! Lasciare la Terra? Abbandonare il nostro mondo? No!»

Non parlava più con accenti oratori, adesso. Era come un uomo a cui fosse stato richiesto di morire.

Kenniston parlò a Varn Allan. Anche la sua voce era turba­ta, ora.

«Cercate di capire. Siamo nati sulla Terra. Tutta la nostra vita, tutte le generazioni prima di noi, sin dall’inizio...»

Non riusciva a mettere in parole quell’appassionato atto di fede nella Terra.

La Terra che Egli ha dato ai figli degli uomini...

La Terra, il suolo, i venti e le piogge, il sorgere e il morire delle generazioni, gli animali, gli alberi, l’uomo. Non si pote­va dimenticare tutto ciò. Non si poteva rinnegare l’eredità di un mondo come se non fosse mai esistito.

Norden Lund si mise a parlare con Varn Allan, guardando con disprezzo gli uomini di Middletown.

«Vi avevo avvertita, Varn, che questi primitivi sono trop­po emotivi per subire i metodi ordinari.»

La donna, con un’aria di turbamento negli occhi azzurri, non fece attenzione a Lund, e si rivolse a Kenniston.

«Dovete mostrare loro i fatti quali sono. La vita qui è im­possibile, e perciò debbono andarsene.»

«Lo dica lei alla popolazione, questo!» disse il sindaco con voce soffocata. «No! Lo dirò io stesso!»

Si alzò e lasciò la sala del consiglio.

Nella sua piccola, grassoccia figura, vi era ora una incon­sueta, curiosa dignità. Borchard, Moretti e gli altri lo segui­rono. Anch’essi mostravano un istintivo timore, una istintiva avversione per ciò che era stato loro proposto. Uscirono sui gradini, e Kenniston e Hubble, insieme ai due venuti dalle stelle, li seguirono.

Fuori, sulla piazza, erano ancora ammassati migliaia di abitanti: operai, massaie, banchieri e contabili, vecchie e bambini. Erano ancora felici, e applaudirono con grida gio­iose che echeggiarono fra gli edifici.

Il sindaco Garris afferrò il microfono dell’altoparlante.

«Ascoltate tutti!» disse. «Ascoltate attentamente! Questi due ci dicono ora che dobbiamo lasciare la Terra. Di­cono che ci daranno un mondo migliore, in qualche posto, lassù, fra le stelle. Che dobbiamo fare? Volete andarvene...? Volete andarvene dalla Terra?»

Vi fu un lungo silenzio, durante il quale Kenniston vide i visi degli abitanti sbalorditi, increduli. Guardò il profilo ta­gliente di Varn Allan e si accorse che era segnato dalla stan­chezza. Capì ancora più, in quel momento, che due epoche, due modi assolutamente diversi di pensare e di vivere, stava­no fronteggiandosi, e trovavano assai difficile una reciproca comprensione.

Quando infine la folla degli abitanti afferrò appieno il significato della cosa, la risposta giunse in un crescente coro di esclamazioni.

«Andarcene dalla Terra? Andare ad abitare in qualche posto del cielo? Ma quei due sono matti!»

«È già molto penoso lasciare Middletown per questo po­sto! Ma lasciare addirittura la Terra?»

Un uomo rozzo, dalle grosse mani callose, in cui Kenni­ston riconobbe Lauber, un camionista di McLain, salì i gradi­ni e parlò al sindaco.

«Che significa tutto questo, in ogni modo? Stiamo benis­simo qui, ora. Perché dovremmo andarcene sulla Luna, o su qualche altro posto?»

Il sindaco si volse ai due venuti dalle stelle. «Vedete? La mia popolazione non vuole nemmeno ascol­tare la vostra proposta!»

La donna apparve sbalordita.

«Ma nessuno sfida così i Governatori! Essi sono il corpo esecutivo di tutta la Federazione delle Stelle.»

La Federazione delle Stelle! V’era in questo nome un ac­cento di lontana minaccia. Kenniston capì ancora una volta l’incomprensibile, vertiginosa vastità di quella civiltà dei cie­li, di cui quella donna e quell’uomo erano i rappresentanti. Esasperato, disse: «Ma non riuscite a capire che, per questa gente, le stelle non sono che punti di luce nel cielo? Non riu­scite a capire che soli e mondi e Governatori non hanno per loro alcun significato?»

Norden Lund colse quel momento per intervenire. Con vo­ce suadente, disse a Varn Allan: «Non credete che, davanti a un ostacolo di questo genere, dovremmo consultare il Gover­no Centrale?»

Ella gli rivolse uno sguardo imperioso.

«Vi piacerebbe che io ammettessi così la mia incapacità a risolvere da sola la situazione, è vero? No! Riuscirò a mette­re le cose a posto, e quando avrò finito me la vedrò personal­mente con Gorr Holl, per aver fatto precipitare gli eventi in questo modo.»

Si rivolse poi nuovamente a Kenniston: «Il vostro po­polo deve comprendere che la nostra decisione non è cru­dele. Spiegate loro che cosa sarebbe la vita su questo pia­neta morto... una vita isolata, precaria, sempre più dura e pericolosa, senza nessuna prospettiva all’infuori della morte per attrito e per disgregazione. Capiranno allora che ciò che mi chiedono è di abbandonarli a un ben fune­sto destino.»

«Può darsi» ammise Kenniston «ma non ci farei asse­gnamento, se fossi in voi. Non ci conoscete ancora. Come po­polo, non siamo pusillanimi.»

Parlava ora con maggiore ostilità, perché capiva, suo mal­grado, che c’era della verità nelle parole di Varn Allan, una verità che non voleva riconoscere.

Ella lo guardò negli occhi, come se lo misurasse e con lui misurasse in un giudizio solo tutta la popolazione di Middletown. Poi disse tranquillamente: «Ricordatevi bene che un decreto formale approvato dal Comitato dei Governatori è una legge che dev’essere rispettata ed eseguita. L’evacuazio­ne è stata ordinata e sarà posta in esecuzione.»

Fece un cenno a Lund, che scosse le spalle e la seguì. Sce­sero i gradini e attraversarono la piazza. La folla, sussurran­do, allarmata e confusa, ma non ancora ostile, li lasciò pas­sare.

Kenniston si volse a Hubble.

«Che dobbiamo fare?» domandò.

«Non lo so. Ma c’è una cosa che non dobbiamo fare, ed è il ricorso alla violenza. Sarebbe fatale. Dobbiamo calmare la popolazione prima che arrivi il corpo di evacuazione e la si­tuazione precipiti.»

Kenniston fece del suo meglio, nel corso della giornata. Ripeté e spiegò le parole di Varn Allan fino alla nausea, ma nessuno lo volle ascoltare. La città funzionava, avevano la lu­ce e l’acqua, non erano soli nell’universo, e la vita ora poteva procedere normalmente. Con l’irreprimibile ottimismo della razza umana, erano convinti che avrebbero potuto rendere il domani anche migliore. E non volevano assolutamente la­sciare la Terra. Questo era come chiedere loro di lasciare il loro stesso corpo.

Lo choc che avevano ricevuto quand’erano stati sbalzati via dalla loro epoca e dal loro modo normale di vita era già stato abbastanza duro. Era uno choc che avrebbe potuto sopraffarli completamente. Kenniston lo sapeva, e sapeva anche che, in un certo modo, quel colpo era stato attutito. Per un po’ erano persino rimasti nella loro vecchia città, e la loro vecchia città era ancora là, oltre le colline, come un’ancora per i loro ricordi. Si poteva dire che avessero portato con sé parte della loro stessa epoca, poiché la vita nella nuova città era stata adattata, per quanto possibile, alla vita della vecchia Middletown. Si erano nuovamente adattati, si erano ricostruiti la loro esistenza familiare. Era stato uno sforzo, ma vi erano riusciti. Non potevano ora, d’improvviso, gettare tutto e ricominciare di nuovo, in qualche mondo completamente estraneo alla loro espe­rienza.

Kenniston comprendeva perfettamente che non era solo un attaccamento atavico alla Terra che li aveva nutriti, a far loro respingere così fieramente l’idea di lasciarla. Era anche l’orrore fisico e istintivo di entrare in una nave spa­ziale del tutto sconosciuta e di lanciarsi al di là dei cieli, dove...? Nell’ignoto! Nella notte e nel nulla, tra gli abissi imperscrutabili che non avevano fine, lasciandosi definiti­vamente alle spalle la loro Terra, la Terra comprensibile, solida, protettiva, e perduta per sempre! Era questo lo sta­to d’animo della popolazione. E anche la sua mente rifug­giva dal prospettarsi un’avventura simile. Perché quella donna non poteva capire? Perché non poteva capire che un popolo per il quale l’automobile era un’invenzione ancora recente, non era psicologicamente capace di avventurarsi nello spazio?

L’astronave era sempre ferma laggiù, nella pianura, e per tutto il pomeriggio e per tutta la sera la popolazione si aggirò inquieta intorno alla parete vitrea della cupola per guardarla, discutendo irosamente in piccoli gruppi. Le strade erano pie­ne di mormorii, di voci, di movimento. Una grossa folla si ad­densava nella piazza e un distaccamento della Guardia Na­zionale, in pieno assetto di guerra, si mise di guardia davanti alla porta della città. Stanco, oppresso, tormentato dall’an­sia, Kenniston andò a trovare Carol.

Ella sapeva tutto, naturalmente. Tutti lo sapevano, a Nuova Middletown. La fanciulla lo accolse con l’espressio­ne cupa e amara che le affiorava sempre più di frequente sul viso, da quel giorno di giugno in cui il loro mondo era finito, e disse: «Ma non possono fare una cosa del genere, ti pare? Non possono costringerci ad andar via!»

«Credono che sia la cosa migliore» rispose Kenniston. «Occorre far loro capire che non è così.»

Ella cominciò a ridere, con un riso per niente allegro.

«È una cosa senza fine» disse. «Prima abbiamo dovu­to lasciare Middletown. Ora dobbiamo lasciare la Terra. Per­ché non siamo rimasti nelle nostre case e non siamo morti là, se dovevamo morire, come esseri umani? È stata una follia, sin dal principio... questa città, e ora...»

Smise di ridere, lo guardò, e aggiunse, calma: «Non vo­glio andarmene, Ken!»

«Non sei la sola, a pensarla così» le disse Kenniston. «Dobbiamo convincerli di questo.» L’irrequietudine lo ri­prese. Si alzò e suggerì: «Facciamo una passeggiata. Ci sen­tiremo meglio tutti e due.»

Uscirono insieme. Le luci erano accese, tutte quelle luci che avevano salutato con tanta gioia. Camminarono, par­lando poco, oppressi dai loro pensieri. Kenniston era con­scio nuovamente della barriera che sembrava alzarsi fra di loro, anche quando non c’erano motivi apparenti. Il loro si­lenzio non era il silenzio della comprensione, ma il silenzio di due esseri che potevano ormai comunicare solo con le pa­role.

Si avvicinarono a quella parte della cupola dalla quale era visibile, di lontano, la nave spaziale. L’inquietudine, nella cit­tà, era aumentata fino al parossismo. Una grossa folla stazio­nava nelle vicinanze della porta. Nessuno si avvicinava a es­sa. Attraverso la parete curva e trasparente della cupola, la forma illuminata del Thanis non era che una macchia scintil­lante e deformata. Carol rabbrividì e volse il capo.

«Non voglio guardarla» affermò. «Torniamo indietro.»

«Aspetta!» la trattenne Kenniston. «C’è Hubble.»

Hubble gli si avvicinò, soffocando una imprecazione.

«Ti ho cercato per tutta la città» disse. «Ken, quel paz­zo esaltato di Garris ha perso completamente la testa, e sta spingendo tutta la popolazione a combattere. Devi venire con me! Bisogna cercare di calmarlo!»

«Non c’è da meravigliarsi che Varn Allan pensi che siamo un branco di primitivi» commentò amaramente Kenni­ston. «Benissimo, Hubble, vengo con te. Prima accompa­gneremo a casa Carol.»

Rifecero il cammino percorso, attraverso le strade illu­minate da quel morbido, brillante, bellissimo chiarore che penetrava dovunque; ma la gente affollata in quelle strade, i gruppi di persone in discussione eccitata, i visi preoccu­pati, le domande che si incrociavano dovunque, formava­no un contrasto stridente con la vivida bellezza di quella luce.

L’inquietudine della città pareva aumentare sempre più. A un tratto, un lungo grido corse per le strade. Le persone si chiamavano, le grida aumentavano, le mani si tendevano verso l’alto, visi pallidi e frementi guardavano in su, verso la grande cupola scintillante.

«Ma che diavolo...» proruppe impaziente Hubble. Kenniston gli fece cenno di tacere.

«Ascolta!» disse.

Al disopra delle voci udirono allora un suono che già ave­vano udito una volta, un suono che aumentava sempre più. Era una vibrazione, più che un suono, una specie di vibrazio­ne profonda che proveniva dal cielo, troppo profonda e in­tensa per essere attutita dalla grande cupola.

La vibrazione scese rapida su di loro, divenne più intensa, sempre più intensa, poi di colpo si fermò. La gente correva ora verso la porta della città e lo strepito confuso della folla si ripercuoteva dovunque.

«Un’altra nave spaziale» disse Kenniston. «È giunta un’altra astronave.»

Il viso di Hubble si era fatto cupo e preoccupato.

«È il corpo di evacuazione. Quella donna aveva detto che sarebbero arrivati presto. E proprio ora che la città è in preda al panico... Ken, ecco a che punto siamo!»

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