2 L’incredibile

Quando tornarono nei laboratori, il resto del personale li sta­va attendendo. Erano in tutto una dozzina di uomini, di età varia, da quella di Crisci a quella del vecchio Beitz, e se ne stavano, rabbrividendo, di fronte all’edificio, nella fredda e rossastra luce del sole. Anche Johnson era con loro, in attesa della sua risposta. Hubble guardò Johnson, poi tutti gli altri.

«È meglio che rientriamo» disse.

Nessuno rivolse quelle domande che pur premevano den­tro ciascuno di loro. Silenziosamente, seguirono Hubble at­traverso il portone dell’edificio. Si muovevano a scatti, con impaccio, come se la tensione nervosa fosse divenuta tale da inibire i loro riflessi. Anche Kenniston li seguì, ma non per tutto il percorso.

Si fermò davanti alla porta del suo ufficio, e disse: «Vo­glio accertarmi che non sia successo niente a Carol.»

«Non dirle nulla di quanto è accaduto, Ken» gli consi­gliò Hubble.

«No» ribatté Kenniston. «Non le dirò nulla.»

Entrò nel suo piccolo ufficio e chiuse la porta. Allungò una mano sulla scrivania per afferrare il ricevitore, ma poi la ri­trasse. Il terrore che prima lo aveva sconvolto ora si era tra­sformato in una specie di torpore, di insensibilità, come se fosse stato troppo grande per essere contenuto in un corpo umano e fosse traboccato fuori, portando con sé tutta la for­za e la volontà. Guardò quel familiare strumento e pensò alla sua inutilità, alla inutilità di quei grossi elenchi della guida telefonica, con una quantità di nomi e di numeri appartenen­ti a persone che erano una volta vissute nei villaggi e nelle città vicine e che ora non esistevano più, da... da quanto tem­po? Un’ora e poco più, se si pensava in un dato modo. Ma, se si pensava in un altro modo...

Sedette sulla poltroncina della scrivania. Aveva lavorato a lungo seduto su quella poltroncina e ora tutto quel lavoro non aveva più alcun significato. Troppe cose avevano cessato di avere significato. Progetti e idee, dove trascorrere la luna di miele, il modo in cui desiderava vivere, in quale casa, tut­to. La Florida e la California e New York erano parole senza senso, come ieri e domani. Tutto, era scomparso, i tempi e i luoghi, e non restava più nulla, eccetto Carol. E forse nemmeno lei, Forse se n’era andata con sua zia per una piccola gita in campagna e, se non si trovava in Middletown quando quella cosa terribile era accaduta, anch’essa, allora, se n’era andata, per sempre... sempre...

Afferrò il ricevitore con ambo le mani e ripeté il numero più volte. La centralinista fu molto paziente, con lui. Tutti telefonavano a Middletown, tutti si chiamavano, e al di so­pra di quei frammenti di conversazioni confuse, Kenniston udiva rimbombare nelle sue orecchie le pulsazioni del suo cuore, e pensava che non aveva alcun diritto di desiderare che Carol fosse ancora là, in casa sua. Avrebbe dovuto anzi pregare il Cielo che fosse andata in qualche altro posto, per­ché non poteva desiderare che una persona amata fosse co­stretta a fronteggiare quella vita terribile, che li attendeva. E che vita li attendeva? Chi poteva immaginarselo, in mezzo a tutti quegli orrori indistinti che avrebbero potuto prendere forma?

«Ken?» disse una voce, nel suo orecchio. «Ken, sei tu? Pronto!»

«Carol!» disse Kenniston. Tutta la stanza scomparve, come in una nebbia, ai suoi occhi, e non vi fu più che quella voce.

«Ken! È tanto tempo che cerco di chiamarti. Che cosa è accaduto? La città è tutta sottosopra. Ho visto un lampo ter­ribile nel cielo, ma non vi è stato alcun temporale, e poi, quel­la scossa... E tu, come stai?»

«Sì, sì, sto benissimo...» Non era affatto spaventata, Ca­rol, almeno non ancora. Era ansiosa, preoccupata, ma non spaventata. Un lampo e una scossa. Allarmante sì, ma non terrificante, non certo la fine del mondo... Kenniston si irri­gidì, facendo forza su se stesso, e disse: «Non lo so ancora, che cosa sia stato.»

«Ma puoi saperlo? Qualcuno dovrebbe saperlo.» Non era al corrente, naturalmente, che Kenniston lavorava in un centro atomico. A lui non era stato consentito di dirlo a nes­suno, nemmeno alla sua fidanzata e, per lei, Ken non era al­tro che un semplice tecnico di un laboratorio industriale, va­gamente occupato in prove di materiali e cose del genere. La ragazza non aveva mai dimostrato molta curiosità per il suo lavoro, e lui gliene era stato grato, perché ciò gli aveva rispar­miato la necessità di mentirle. Ora le era anche più ricono­scente, perché Carol non poteva crederlo capace di darle informazioni sull’accaduto. In quel modo, avrebbe potuto risparmiarle la verità ancora per un poco, e rimettersi, lui per primo, dal colpo ricevuto.

«Farò del mio meglio» la rassicurò. «Ma finché non saremo sicuri di che si tratta, desidero che tu e tua zia rima­niate in casa, lontano dalla strada. Non si può sapere come si comporterà la gente, se è presa dal panico. Me lo prometti? Sì... sì. Verrò da te non appena mi sarà possibile.»

Kenniston riappese il ricevitore e, non appena interrotto il contatto con Carol, perse nuovamente il contatto con la realtà. Si guardò attorno, e l’ufficio gli parve d’improvviso co­me un ambiente irreale, perché non aveva più significato per lui. Avrebbe voluto andarsene al più presto, eppure, quando si fu alzato, rimase per un poco con le mani appoggiate alla scrivania, mentre le parole di Hubble gli martellavano in te­sta. Ricordava l’immagine del sole e delle stelle, il triste e in­consueto aspetto della Terra. Si sforzava di convincersi che era tutto impossibile, eppure i fatti non si potevano negare. La lunga sequenza del tempo e poi, d’un tratto, una forza di­rompente... Desiderava disperatamente di fuggire. Riscuo­tendosi, uscì nel corridoio e si diresse all’ufficio di Hubble.

Erano tutti lì, i dodici uomini del personale e Johnson. Johnson si era rifugiato in un angolo. Lui aveva visto ciò che era accaduto laggiù, ai limiti della città, mentre gli altri non si rendevano ancora conto. Cercava di capire l’accaduto e la spiegazione che di esso aveva appena udita. Non era una co­sa piacevole vederlo ripiegato in quello sforzo mentale. Ken­niston guardò gli altri. Aveva lavorato a stretto contatto con tutti loro. Credeva di conoscerli molto bene, avendo vissuto con loro i successi e gli insuccessi del lavoro comune. Capiva ora, invece, che erano tutti estranei, sia verso di lui, sia tra di loro. Erano soli, ognuno in balia della propria paura.

«Anche se questo fosse vero» stava dicendo, in tono quasi truce, il vecchio Beitz «non potete però affermare esattamente quanto tempo sia trascorso. E soprattutto, ba­sandovi unicamente sulle stelle.»

«Non sono un astronomo» ribatté Hubble «ma chiun­que può calcolarlo dai diagrammi, in base al moto delle stelle e ai mutamenti delle costellazioni. Non esattamente, certo, ma con quell’approssimazione che può, almeno per ora, inte­ressarci.»

«Ma se la continuità del tempo fosse stata realmente spezzata, se questa città avesse realmente fatto un balzo di milioni di anni...» La voce di Beitz si perdette in un mormorio indistinto. Si morse le labbra, cosciente della inutilità di quanto stava dicendo, e rimase, come tutti gli altri, a guarda­re Hubble con una espressione cupa.

«Non crederete certamente a tutto questo, finché non avrete visto coi vostri occhi» concluse Hubble, scuotendo il capo. «Non vi biasimo affatto. Ma per il momento, dovrete accettare la mia spiegazione come una possibile ipotesi.»

Morrow si schiarì la gola.

«E che direte alla gente... agli abitanti della città? Avete intenzione di dir loro la verità?» domandò.

«Almeno una parte della verità dovranno conoscerla» rispose Hubble. «La temperatura si farà più fredda, molto più fredda, specialmente durante la notte, e dovranno essere preparati ad affrontare questa evenienza. Ma dobbiamo evi­tare le manifestazioni di panico. Stanno venendo da me il sindaco e il capo della polizia, e decideremo la cosa con loro.»

«E quei due ne sono già a conoscenza?» domandò Kenniston.

«No» rispose Hubble.

Johnson si mosse d’improvviso. Si avvicinò a Hubble: «Sarà al sicuro, mio figlio?»

«Vostro figlio?» domandò Hubble, guardandolo inter­detto.

«Sì. Se n’è andato stamattina di buon’ora alla fattoria di Martisen, per farsi preparare un aratro. Quella fattoria si tro­va a due miglia fuori dalla città, verso nord. Che ne è stato di lui, signor Hubble... è al sicuro?»

Quello era il segreto tormento che non aveva ancora espresso a parole.

«Credo che non abbiate da preoccuparvi per lui, signor Johnson» rispose Hubble con pietosa menzogna.

Johnson fece col capo un cenno affermativo, ma appariva sempre preoccupato.

«Grazie, signor Hubble» disse. «Sarà meglio che torni a casa, ora. Ho lasciato mia moglie in una crisi di dispera­zione.»

Un paio di minuti dopo la sua partenza, Kenniston udì al­l’esterno la sirena di un’auto, che venne a fermarsi davanti al­l’edificio.

«Dovrebbe essere il sindaco» disse Hubble.

Un ben debole appoggio, in una circostanza come questa, pensò Kenniston. Non che il sindaco fosse un cattivo uomo. Non era più presuntuoso, inefficiente o venale di qualsiasi altro sindaco di provincia. Gli piacevano i bambini e l’oratoria, si preoccupava dei colori della sua cravatta e si diceva che fosse, comunque, un buon marito e un buon padre. Ma Kenniston non poteva certo immaginarsi Bertram Garris come capo del suo popolo. Questi suoi pensieri non mutarono af­fatto quando Garris entrò con le sue guance rosee di uomo ben pasciuto, con quel suo viso di piccolo uomo soddisfatto della sua piccola carriera nella sua piccola città. In quel mo­mento, appariva considerevolmente turbato e perplesso, ma solo superficialmente, anzi, forse più interessato che spaven­tato dalla prospettiva di essere al centro di un avvenimento importante.

Kimer, il capo della polizia, era tutt’altra cosa. Era alto e angoloso, era stato testimone di molte brutture ed esprimeva una specie di dura saggezza. Non un uomo brillante, certo, pensò Kenniston, ma capace di imporre le cose che si dove­vano fare. E Kimer appariva assai più preoccupato del sin­daco.

Garris si volse immediatamente a Hubble. Era ovvio che aveva un grande rispetto per lui e che era orgoglioso di tro­varsi da pari a pari con un personaggio tanto importante che, com’egli sapeva, era uno degli scienziati atomici più in vista nella nazione.

«Avete qualche notizia, dottor Hubble? Non abbiamo ancora potuto metterci in comunicazione con l’esterno e cor­rono dappertutto le voci più disparate. Credevo dapprima che aveste avuto un’esplosione qui nel laboratorio, ma...»

Kimer lo interruppe.

«Si sta spargendo la voce che una bomba atomica ci ha colpiti, dottor Hubble. Molti abitanti sono spaventati. Se la paura si diffonde, dovremo presto fronteggiare il panico. Ho sparpagliato i miei agenti nelle strade per calmare la popola­zione, ma desidererei avere una storia precisa da raccontare, e soprattutto una storia che sia credibile.»

«Una bomba atomica!» esclamò il sindaco Garris. «Ma è una sciocchezza, questa! Siamo tutti vivi e non vi è stato alcun danno. Il dottor Hubble può ben dirvi che le bombe atomiche...»

Per la seconda volta, Garris fu interrotto brevemente, que­sta volta da Hubble.

«Non si tratta di una bomba ordinaria, e le voci che corrono sono purtroppo vere, a questo proposito.» Tacque un attimo e poi, lentamente, sillabando le parole, aggiunse: «Una bomba superatomica è esplosa un’ora fa, per la pri­ma volta nella storia, proprio su Middletown.»

Hubble lasciò che i due nuovi venuti comprendessero il si­gnificato delle sue parole. Era una cosa piuttosto penosa, e Kenniston distolse lo sguardo per guardare fuori della fine­stra, verso quel cielo annebbiato e quel sole rosso e triste, e si sentì un nodo allo stomaco. “Eravamo stati ammoniti” pensò “per anni, che stavamo giocando con forze troppo potenti per noi.”

«La bomba non ci ha distrutti» stava dicendo Hubble.

«In questo, siamo stati fortunati. Ma ha avuto certi... effetti.»

«Ma io non capisco» disse il sindaco, con tono lamen­toso. «Non capisco davvero... Certi effetti? Quali?»

Hubble espose loro con tranquilla chiarezza le sue conclu­sioni.

Il sindaco e il capo della polizia di Middletown, uomini normali di una città normale, abituati a vivere la loro vita in modo normale, ascoltavano quella cosa incredibile. Ascolta­vano, cercando di comprendere. Cercavano di comprendere, ma non vi riuscivano. Perciò respinsero quella conclusione incredibile.

«Ma è pazzesco» esplose irosamente Garris. «Middle­town scaraventava nel futuro? Solo a sentir dire una cosa si­mile... Che cosa volete farci credere, dottor Hubble?»

Si espresse in modo anche più vivace di questo. E altret­tanto fece Kimer. Ma Hubble li ridusse alla ragione. Tran­quillo, implacabile, indicò loro il paesaggio desolato attorno alla città, il freddo che si faceva sempre più acuto, il sole ros­so e invecchiato, la cessazione di ogni contatto col mondo esterno. Spiegò sommariamente la natura del tempo e dello spazio, e in che modo quella cosa incredibile si era realizza­ta. I suoi due ascoltatori non potevano comprendere le sue teorie scientifiche. Ma le accettavano con la fiducia che gli uomini del ventesimo secolo avevano per gli interpreti delle complesse scienze che essi non erano in grado di capire. Le conseguenze fisiche le comprendevano tuttavia perfetta­mente. Anche troppo bene, ora che vi erano costretti dall’evi­denza.

Infine si convinsero. Il sindaco Garris si lasciò cadere su una sedia. Il suo viso non appariva più roseo e le guance si erano fatte cascanti.

La sua voce non era più che un bisbiglio, quando do­mandò: «E adesso, che cosa facciamo?»

Hubble aveva una risposta pronta, almeno per una parte di quella domanda.

«Dobbiamo fare in modo che non si sparga il panico» disse. «Gli abitanti di Middletown dovranno apprendere la verità molto lentamente. Questo significa che nessuno degli abitanti deve per ora uscire dalla città... altrimenti capirebbe subito ogni cosa. Vi consiglierei di annunciare che il terreno attorno alla città è contaminato dalla radioattività, impeden­do a chiunque di uscire dal perimetro urbano.»

Kimer, il capo della polizia, afferrò subito con patetico ze­lo quella possibilità di fronteggiare un problema che poteva più facilmente comprendere.

«Posso mettere uomini e barricate alle estremità delle strade, verso la campagna, questo è abbastanza semplice.»

«E la compagnia della Guardia Nazionale si sta riunen­do nell’Arsenale» intervenne il sindaco Garris. Aveva anco­ra la voce tremante e l’espressione stordita.

«E come vanno i servizi pubblici?» domandò Hubble.

«Sembra che ogni cosa funzioni perfettamente... l’elet­tricità, il gas e l’acqua potabile» rispose il sindaco.

“Me l’ero immaginato” pensò Kenniston. La centrale ter­moelettrica, il serbatoio dell’acqua e l’impianto di gas artifi­ciale della città di Middletown avevano superato, con gli abi­tanti e le case, l’abisso del tempo.

«I servizi, i viveri, i combustibili, tutto deve essere imme­diatamente razionato» stava dicendo Hubble. «Proclama­te questo come misura d’emergenza.»

Il sindaco Garris parve più sollevato nel sentirsi dire ciò che doveva fare.

«Sì. Provvederemo subito.» Poi domandò, timidamen­te: «Non vi è alcuna possibilità di mettersi in contatto col resto del mondo?»

«Il resto del mondo» gli ricordò Hubble «è rimasto dietro di noi di alcuni milioni di anni. Dovrete ricordarvi di questo.»

«Già... è vero. Me ne dimentico continuamente» disse il sindaco. Poi rabbrividì e cercò di pensare ai compiti che lo attendevano. «Ci occuperemo subito di quanto avete sugge­rito.»

Quando i due se ne furono andati, Hubble guardò acci gliato i suoi colleghi silenziosi. «Parleranno dell’accaduto, naturalmente. Ma se la cosa si diffonde lentamente, non sarà tanto preoccupante. Ci darà modo di accertare, prima, alcu­ne cose.»

Crisci scoppiò in un riso stridente.

«Se tutto ciò è vero, dev’essere un bello scherzo! Tutta la città scaraventata nel futuro, verso la fine del mondo, senza che nemmeno lo sappia! Cinquantamila persone che non san­no ancora, per esempio, che la loro cugina Agnes, abitante a Indianapolis, è morta e ridotta in polvere da milioni di anni!»

«E non debbono saperlo» disse Hubble. «Non ancora, per lo meno. Non ancora, finché non avremo chiarito con precisione che cosa dobbiamo fronteggiare, in questa Terra del futuro.»

Continuò poi a pensare ad alta voce.

«È indispensabile andare a vedere che cos’è accaduto là fuori, fuori della città, prima di poter fare qualsiasi progetto. Kenniston, dovresti andare a prendere una jeep. E porta pa­recchia benzina di scorta. E anche abiti pesanti. Ne avremo bisogno, là fuori. E, Ken... porta anche delle armi con te.»

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