9 Accelerazione

Come Geers aveva predetto, prima che passassero quattro mesi la ragazza si era completamente sviluppata. Rimaneva per la maggior parte del tempo in una tenda a ossigeno, sebbene, a periodi sempre più lunghi, imparasse a respirare naturalmente. Alla fine del primo mese avevano smesso di nutrirla per iniezioni ed era passata a un biberon. Ma oltre a questo non veniva fatto nulla per stimolare la sua intelligenza e lei se ne stava sdraiata, inerte, come un neonato, fissando il soffitto. Man mano che continuava a crescere, Geers si faceva sempre più apprensivo, ma la crescita si arrestò a un metro e sessantasei: era una giovane donna completamente sviluppata.

«Ed è anche piuttosto bella,» commentò Hunter con uno schiocco delle labbra.

Geers non permetteva a nessuno salvo che a Hunter, alla Dawnay e ai loro assistenti di vederla. Mandava ogni giorno un rapporto strettamente confidenziale al Ministero della Difesa e il direttore generale della Ricerca fece visita due volte, stabilendo con lui dei piani per il futuro della ragazza. Per mantenere segreta la sua esistenza vennero prese estreme precauzioni, attorno all’edificio del calcolatore e del laboratorio venne montata la guardia giorno e notte, e a tutti coloro che avevano dovuto essere messi al corrente del segreto era stato fatto giurare il silenzio. A parte Reinhart, a cui lo disse Osborne in via privata, e a parte un gruppo di ufficiali superiori e di uomini politici di Londra, nessuno al di fuori della squadra di ricerca di Thorness sapeva dell’esistenza della ragazza.

Fleming, così pensava Geers, era l’elemento più dubbio dell’intero gruppo, e vennero date a Judy istruzioni ben precise di sorvegliarlo. Non avevano quasi mai parlato, dalla primavera precedente. Lui aveva fatto a malincuore uno sgarbato tentativo di scusarsi, ma lei aveva tagliato corto e da allora quando si incontravano alla base si ignoravano reciprocamente. Almeno, si diceva Judy, non lo aveva spiato: il fatto che lui si fosse staccato dall’esperimento della Dawnay al quale lei era stata assegnata dopo la morte di Bridger, significava che lui non era la sua principale occupazione. Qualsiasi rimorso di coscienza sentisse per il passato, era nascosto dall’anestetico di un’indifferente apatia, ma adesso era diverso. Prendendo il coraggio a due mani, andò a cercarlo nella sala del calcolatore, sentendosi le gambe stranamente fiacche. Gli passò la lettera di istruzioni che le era arrivata.

«Ti spiacerebbe leggerla?» disse senza preamboli.

Fleming vi gettò uno sguardo e gliela riconsegnò. «È su carta intestata del Ministero della Difesa: leggila tu. Sono pignolo riguardo a quello che tocco.»

«Sono preoccupati per la sicurezza della nuova creatura,» spiegò Judy rigidamente, ritirandosi di fronte all’attacco di lui. Fleming rise.

«Ti diverte?» gli chiese. «Ne sarò io responsabile.»

«E chi sarà responsabile di te?»

«John!» Il viso di Judy si imporporò: «Dobbiamo sempre stare con i fucili puntati?»

«Pare di sì, vero?» disse in un tono a metà tra comprensione e indifferenza. «Ho paura di non andare pazzo per la tua preziosa creatura.»

«Non è mia. Io non faccio altro che il mio dovere. Non ti sono nemica.»

«No. Sei proprio il tipo che si lascia trascinare dalle situazioni.» Fece scorrere lo sguardo per il locale, disperato. «Oh, finalmente l’ho detta!»

Judy fece un ultimo tentativo per avvicinarglisi. «Sembra che siano passati dei secoli da quando ce ne andavamo in barca a vela.»

«Sono passati davvero dei secoli.»

«Siamo ancora gli stessi.»

«In un mondo diverso.» Si mosse come se se ne volesse andare.

«È ancora lo stesso mondo, John.»

«E va bene, diglielo, a quelli.»

Passò Hunter. «La stiamo tirando fuori.»

«Chi?» Fleming distolse con sollievo lo sguardo da Judy.

«La ragazzina… Fuori dalla sua tenda a ossigeno.»

«Possiamo venire anche noi?» chiese Judy.

«Questa è un’occasione speciale: una festa d’inaugurazione.» Hunter le rivolse un sorriso stereotipato e allusivo. Poi entrò nell’altra stanza. Fleming lo guardò con amarezza.

«In ogni pacchetto, omaggio di mostri viventi, grandezza naturale.»

Judy si sorprese a ridacchiare. Sentiva che d’improvviso si erano riavvicinati di chilometri.

«Detesto quell’uomo, è così adulatore.»

«Spero che la uccida,» disse Fleming. «Forse come medico vale abbastanza poco.»

Passarono insieme nel laboratorio. Hunter, sorvegliato dalla Dawnay, stava dando istruzioni per l’apertura della parte inferiore della tenda a ossigeno. Sotto la tenda c’era una stretta lettiga, che due assistenti spinsero fuori delicatamente. Tutti gli altri si disposero in cerchio mentre il lettino scivolava fuori con la creatura, la fanciulla ormai adulta, su di esso: prima i piedi, coperti da un lenzuolo, poi il corpo, pure coperto. Giaceva supina, e quando il suo volto venne scoperto, Judy rimase senza fiato. Era un volto forte e bello, dagli alti zigomi e dai larghi lineamenti baltici. I suoi capelli, lunghi e chiari, erano sparsi sul cuscino, gli occhi chiusi, e respirava placidamente come se dormisse. Sembrava un’edizione bionda e purificata di Christine.

«È Christine!» sussurrò Judy. «Christine!»

«Non può essere,» disse Hunter bruscamente.

«C’è una rassomiglianza superficiale,» ammise la Dawnay.

Hunter l’interruppe. «Abbiamo fatto un’autopsia sull’altra ragazza. Inoltre, quella era bruna.»

Judy si rivolse a Fleming.

«Ma che scherzo è?»

Fleming scosse il capo. «Non lasciatevi ingannare. Non lasciate che inganni nessuno di voi. Christine è morta. Christine era solo uno schema.»

Per un momento nessuno parlò; la Dawnay prese il polso della ragazza e si chinò a guardarla in viso. Gli occhi della ragazza si aprirono, guardarono vacuamente il soffitto.

«Che vuoi dire?» chiese Judy. Le sembrava di rivedere Christine, morta, eppure quella creatura aveva qualcosa di simile a lei, viva.

«Voglio dire,» spiegò Fleming, come se rispondesse a tutti loro, «che la macchina ha preso un essere umano e ne ha fatto una copia. Si è solo sbagliata nel registrare alcune cose, il colore dei capelli, per esempio ma, in linea di massima, ha fatto un buon lavoro. Si può tradurre in cifre l’anatomia umana. Ed è quanto ha fatto; e poi si è servita di noi per ritradurle.»

Hunter guardò la Dawnay e accennò agli assistenti di portare la lettiga in un’ala adiacente.

«Ad ogni modo, ci ha dato quello che volevamo,» disse la Dawnay.

«Davvero? È il cervello che conta, il corpo non ha importanza. Non ha creato un essere umano… Ma una creatura straniera che sembra un essere umano.»

«Il dottor Geers ci ha detto la sua teoria.» Hunter si allontanò per assistere al risveglio della ragazza. La Dawnay esitò un attimo prima di seguirli.

«Può essere che lei abbia ragione,» ammise, «e in tal caso sarà ancora più interessante.»

Fleming si controllava con sforzo visibile. «Cosa intendete farne?»

«La educheremo.»

Fleming si volse e uscì dal laboratorio, per tornare alla sala del calcolatore; Judy lo seguiva.

«Ma cosa c’è di male?» chiese Judy. «Chiunque altro…»

Si volse verso di lei. «Ogni volta che un’intelligenza superiore ne incontra una inferiore, la distrugge. Ecco cosa c’è di male. Gli uomini dell’età del ferro hanno eliminato quelli dell’età della pietra; i Visipallidi hanno sterminato gli Indiani. E cosa accadde di Cartagine quando i Romani decisero di farla finita?»

«Ma è male, questo, a lungo andare?»

«È male per noi.»

«E perché questa creatura dovrebbe?…»

«I forti sono sempre spietati con i deboli.»

Judy gli posò timidamente una mano sul braccio. «Allora i deboli farebbero bene a unirsi.»

«Avresti dovuto pensarci prima,» rispose lui.

Judy pensò che era meglio non insistere; tornò alla sua vita lasciandolo alle sue preoccupazioni e ai suoi dubbi.


Quell’anno non si ebbe una primavera precoce. Il cupo grigiore continuò per tutto aprile, intonandosi agli umori neri della base. A parte l’esperimento della Dawnay, non c’era nulla che andasse dritto. Il personale permanente di Geers e la squadra per lo studio dei missili lavoravano indefessamente, senza alcun risultato apprezzabile: non c’erano mai stati tanti lanci di prova come allora, ma non ne venne fuori nulla di soddisfacente. Dopo ogni tentativo fallito le nuvole dell’Atlantico tornavano a gravare sul promontorio, a mostrare che nulla sarebbe mai migliorato.

Solo la fanciulla fioriva come una pianta esotica in una serra. Un’ala del laboratorio della Dawnay venne attrezzata a nursery, con un appartamento per la ragazza. Qui si occupavano di lei e la preparavano per la sua parte, come la principessa di una fiaba. La chiamarono Andromeda, dal nome del suo luogo di origine, e le insegnarono a mangiare, a bere, a star seduta eretta e a muoversi. In principio era piuttosto lenta a imparare come usare il suo corpo: come diceva la Dawnay il suo sviluppo fisico non era come nei bambini normali. Ma fu presto evidente che poteva apprendere a una velocità prodigiosa. Non era mai necessario ripeterle due volte la stessa cosa: una volta comprese le possibilità di qualcosa, le padroneggiava senza esitazione e senza sforzo.

Fu lo stesso per quel che riguardava il parlare. All’inizio sembrava che non ne sapesse assolutamente nulla: non aveva mai pianto, come fanno i bambini, e bisognò insegnarle a parlare come a un bambino sordo, rendendola conscia delle vibrazioni delle corde vocali e del loro effetto. Non appena però capì il fine del linguaggio, lo imparò con facilità estrema, man mano che le venivano insegnate le parole. Nel giro di poche settimane era diventata una persona che parlava, in grado di comunicare.

Sempre nel giro di poche settimane, aveva imparato a muoversi come un essere umano, un po’ rigidamente, come se il suo corpo funzionasse a istruzioni e non per suo istinto, ma con grazia e senza goffaggine. Per lo più era confinata in compagnia della sua scorta, anche se, quando proprio non diluviava, veniva portata ogni giorno in brughiera, in un’auto coperta, e le veniva permesso di camminare e di prendere un po’ d’aria sotto scorta armata, però lontana dagli occhi di chiunque, sia della base che di fuori.

Non si lamentava mai, qualunque cosa le facessero. Accettava le visite mediche, l’insegnamento, la sorveglianza continua, come se non avesse volontà o desideri propri. In realtà, non dava a vedere alcuna emozione: mostrava, sì, fame prima di un pasto, e stanchezza alla fine di una giornata, ma comunque era sempre stanchezza fisica, mai mentale. Era sempre gentile, sempre remissiva e molto bella, si muoveva come in un sogno.

Geers e la Dawnay organizzarono la sua educazione con una velocità che condensava tutta una cultura universitaria in un periodo da corso estivo. Quando ebbe afferrato le basi dell’aritmetica decimale, non ebbe più difficoltà con la matematica. Sarebbe potuta essere una macchina calcolatrice: si districava tra le cifre con la logica infallibile di un prontuario di calcoli, e non sbagliava mai. Sembrava capace di tenere a mente senza alcuno sforzo le progressioni più complesse. Per il resto, veniva imbottita di nozioni come un’enciclopedia. Geers e i professori che furono mandati a Thorness in un’interminabile, impressionante processione accademica — non per istruire direttamente la ragazza, poiché la sua esistenza era segreta, ma per guidarne gli istruttori — gettavano le basi di una cultura generale e non specializzata, cosicché alla fine di quel corso e di quell’estate, in teoria sapeva del mondo tanto quanto un laureato intelligente e ricettivo. Quel che le mancava era ogni senso di esperienza umana, ogni atteggiamento spontaneo verso la vita. Benché fosse vivace e, in giusta misura, comunicativa, pareva che camminasse e parlasse in stato di sonnambulismo.

«Ha ragione,» ammise la Dawnay rivolta a Fleming. «Non ha un cervello, ha un calcolatore.»

«Non è la stessa cosa?» Fleming fissò la fanciulla bionda e sottile che stava leggendo al tavolo di quella che era divenuta la sua stanza: era una delle sue rare visite nel regno della Dawnay. Il laboratorio era stato smantellato e trasformato in un insieme di stanze che sembravano uscite da una rivista di architettura; la fanciulla ne era una suppellettile.

«È infallibile,» commentò la Dawnay. «Non dimentica nulla. Non fa mai un errore. Già ora sa molto più di quel che sa la maggior parte della gente.»

Fleming si accigliò. «E continuerete a rimpinzarla di nozioni finché ne saprà più di voi.»

«Forse. I signori in alto hanno dei progetti su di lei.»

I progetti di Geers erano abbastanza chiari. Nonostante avessero fatto uso del nuovo calcolatore, i pressanti problemi delle apparecchiature di difesa restavano insoluti. La difficoltà principale era costituita dal fatto che non sapevano come usarlo. Lo toglievano di mano a Fleming per parecchie ore al giorno e cercavano di fargli elaborare velocemente una grande quantità di calcoli: ma non avevano la possibilità di attingere al suo potenziale effettivo, né di usare la sua immensa intelligenza per risolvere dei problemi che non gli venivano posti in termini di cifre. Se, considerava Fleming, le creature nate e cresciute con l’aiuto della macchina, avevano con essa un’affinità, allora sarebbe stato possibile usarle come interpreti. Il mostro che era nato per primo ovviamente non era capace di comunicare al calcolatore le necessità umane, ma con la ragazza era un altro paio di maniche. Se avessero potuto impiegarla come intermediario, avrebbero potuto fare qualcosa di molto notevole.

Il ministro della Difesa non fece alcuna obiezione all’idea, e, sebbene Fleming mettesse in guardia Osborne, come aveva fatto con Geers, Osborne non aveva influenza presso gli uomini al potere. Fleming poté solo tenersi in disparte e vedere come i fini della macchina venissero inconsapevolmente assecondati da gente che non voleva dargli ascolto. Anche lui non aveva che un tortuoso filo di logica su cui basarsi. Se si sbagliava, si era sbagliato sempre, fin da principio, e la vita non era quello che pensava. Ma se aveva ragione, si stavano incamminando verso la tragedia.


Quando Geers e la Dawnay portarono per la prima volta la ragazza nella sala del calcolatore, anche Fleming era presente.

«Per l’amor di Dio!» Passò lo sguardo da Geers alla Dawnay in un ultimo appello senza speranza.

«Sappiamo tutti come la pensa, Fleming,» disse Geers.

«Allora non fatela entrare qua dentro.»

«Se vuole lagnarsi, si rivolga al ministro.» Si volse verso la porta: la Dawnay si strinse nelle spalle; le pareva che Fleming creasse un sacco di complicazioni gratuitamente.

Geers tenne la porta aperta per Andromeda che entrò scortata da Hunter che le camminava accanto, leggermente più indietro, come due personaggi di Jane Austin. Andromeda si muoveva con rigidità, ma era perfettamente lucida di spirito: il viso calmo, gli occhi che registravano ogni particolare. In un certo senso era tutto formale e irreale, come se dovessero cominciare un minuetto da un momento all’altro.

«Questa è la sala di controllo del calcolatore,» le spiegò Geers, mentre lei si guardava attorno. Sembrava un padre gentile ma severo. «Si ricorda che gliene ho parlato?»

«Perché dovrei dimenticarmene?»

Sebbene parlasse in modo lento e artificioso, la sua voce, come il suo viso, era forte e affascinante.

Geers la guidò per il locale. «Questo è il gruppo di ingresso. L’unico modo di fornire informazioni al calcolatore è battere a macchina qui. Porta via molto tempo.»

«Credo bene.» Esaminò con calmo interesse la tastiera.

«Se vogliamo comunicare con il calcolatore,» proseguì Geers, «la cosa migliore è selezionare qualche informazione dal gruppo di uscita e di reintrodurlo.»

«È un sistema molto primitivo,» commentò lentamente la ragazza.

La Dawnay le si avvicinò affiancandolesi. «Ciclope, dall’altra stanza può passargli direttamente delle informazioni per mezzo di questo cavo coassiale.»

«Ed è questo che volete che faccia?»

«Vogliamo cercare di scoprire se funziona,» spiegò Geers.

La ragazza alzò il capo e notò che Fleming la fissava. Non si era accorta di lui, prima, e lo guardò senza espressione.

«Chi è?»

«Il dottor Fleming,» rispose la Dawnay. «È lui che ha progettato il calcolatore.» La ragazza si diresse rigidamente verso di lui e gli tese la mano.

«Piacere.» Parlava come se ripetesse una lezione. Fleming ignorò la mano tesa continuando a fissarla. Lei rispondeva al suo sguardo senza batter ciglio e dopo qualche momento lasciò ricadere la mano.

«Lei deve essere un uomo intelligente,» disse, senza espressione. Fleming rise.

«Perché lo fa?»

«Far cosa?»

«Ridere… si dice così?»

Fleming si strinse nelle spalle. «La gente ride quando è allegra, e piange quando è triste. Qualche volta ridiamo anche quando siamo tristi.»

«Perché?» Continuava a fissarlo in viso. «Cosa vuol dire essere felici, o tristi?»

«Sono sentimenti.»

«Io non li sento.»

«No. Lei non può.»

«Perché li avete, voi?»

«Perché siamo imperfetti.» Fleming ricambiò lo sguardo come una sfida. Geers dava segni di impazienza.

«Funziona tutto bene, Fleming? Il quadro di controllo non registra nulla.»

«Qual è il quadro di controllo?» chiese Andromeda, volgendosi. Geers glielo mostrò e lei rimase a fissare le file di lampade spente mentre Geers e la Dawnay glielo illustravano, spiegandole al tempo stesso l’uso dei terminali.

«Vorremmo che lei si mettesse lì, in mezzo,» le disse Geers.

La ragazza si diresse con decisione al quadro e quando fu vicina, le luci cominciarono a lampeggiare. Si fermò.

«Va tutto bene,» la rassicurò la Dawnay. Geers tolse le custodie ai terminali e spinse avanti la ragazza mentre Fleming, nervosissimo, guardava la scena senza parlare. La ragazza avanzò riluttante, il viso teso e rigido. Quando giunse al quadro, si fermò, i terminali a pochi centimetri dalle tempie. Le luci cominciarono a lampeggiare più velocemente. Il ronzio del calcolatore riempiva la stanza. Lentamente, senza che nessuno glielo dicesse, Andromeda sollevò le mani verso le piastre.

«È sicuro che sia neutralizzato?» Geers fissava Fleming preoccupatissimo.

«Si neutralizza da solo.»

Non appena le mani della ragazza toccarono le piastre metalliche, essa tremò. Stava immobile, il viso pallidissimo, come in trance: poi si lasciò andare e barcollò indietro. La Dawnay e Geers la sostennero facendola sedere su una sedia.

«Tutto bene?» chiese Geers.

La Dawnay annuì. «Ma guarda un po’.»

Le luci del quadro di controllo erano tutte accese e il ronzio del calcolatore si faceva più forte di quanto fosse mai stato.

«Che cosa è successo?»

«Mi sta parlando,» disse la ragazza. «Mi conosce.»

«Che cosa dice?» chiese la Dawnay. «Cosa sa di lei? E come le parla?»

«Noi… noi comunichiamo.»

Geers sembrava terribilmente perplesso. «In cifre?»

«Lo si potrebbe esprimere in cifre,» rispose guardando davanti a sé, lo sguardo vuoto. «Ci vorrebbe molto tempo per spiegarlo.»

«E lei può comunicare…?» La Dawnay fu interrotta da una forte esplosione nella stanza accanto. Il quadro di controllo si spense, il ronzio cessò.

«Che diavolo succede?» chiese Geers.

Fleming si volse senza rispondere precipitandosi verso la prima ala del laboratorio, dove erano ospitati la creatura e il suo serbatoio. Dai fili di collegamento sopra di esso veniva del fumo. Quando li tirò fuori, i capi erano anneriti, e ne pendevano brandelli di tessuto animale carbonizzato. Guardò nel serbatoio e le sue labbra si strinsero in una linea sottile.

«Cosa gli è successo?» La Dawnay si precipitò nella stanza seguita da Geers.

«È stato folgorato dalla corrente.» Fleming mostrò i fili. «C’è stato un altro scoppio ed è rimasto ucciso.»

Geers diede un’occhiata all’interno del serbatoio e si ritrasse disgustato.

«Cosa ha fatto agli elementi di controllo?» chiese.

Fleming lasciò cadere i resti carbonizzati dei cavi. «Non ho fatto nulla. Il calcolatore sa come regolare il suo voltaggio, sa come bruciare i tessuti, sa come uccidere.»

«Ma perché?» chiese Geers.

Istintivamente volsero il capo verso la porta della sala del calcolatore. Sulla soglia era la ragazza.

«Perché è stata lei.» Fleming si diresse verso Andromeda, minaccioso, la mascella irrigidita. «Glielo ha appena detto, vero? Adesso sa di avere uno schiavo migliore. Non ha più bisogno di questa povera creatura. È questo che ha detto, vero?»

Gli ricambiò uno sguardo privo di espressione. «Sì.»

«Vede?» Si rivolse a Geers. «Abbiamo un’assassina. Può darsi che quella di Bridger sia stata una disgrazia; può darsi che quello di Christine sia stato un incidente, anche se io lo chiamerei piuttosto omicidio preterintenzionale, ma questo è stato un vero omicidio premeditato.»

«Era solo una forma di vita primitiva,» osservò Geers.

«Ed era inutile.» Si girò verso la ragazza. «Vero?»

«Era di troppo,» confermò lei.

«E la prossima volta potrebbe essere lei di troppo, o io, o chiunque altro di noi.»

Il viso della ragazza continuava a essere privo di espressione e a non registrare emozione alcuna. «Abbiamo solo elminato del materiale superfluo.»

«Abbiamo?…»

«Il calcolatore e io.» Si portò la mano alla fronte. Fleming chiuse gli occhi.

«Siete la stessa cosa, vero? Un’intelligenza divisa in due.»

«Sì,» ammise lei, priva di intonazione. «Io capisco…»

«Allora capisca anche questo.» La voce di Fleming, agitata, salì di tono, e il giovane avvicinò il viso a quello di lei: «Questa è un’informazione: uccidere è male.»

«Male? Che cos’è ‘male’?»

«Lei ha parlato di uccidere, poco fa,» disse Geers.

«Oh, Dio,» sbottò Fleming esasperato. «Ma qui dentro non c’è proprio nessuno col cervello a posto?»

Fissò Andromeda ancora per un istante, poi uscì dal locale quasi di corsa.

Bouldershaw Fell era sempre lo stesso, come quando Reinhart vi aveva condotto Judy per la prima volta. Sulle cicatrici lasciate nella brughiera dagli scavi, erano cresciute erbe ed eriche, e lungo i muri degli edifici correvano nere strisce, lungo le grondaie, dove era traboccata l’acqua per le bufere invernali: ma il triplice arco posava ancora immobile sulla sua grande conca, e, all’interno dell’osservatorio, macchinario e personale continuavano a svolgere il loro lavoro silenzioso e metodico. Il banco di controllo era ancora affidato a Harvey, e ai suoi lati si alzavano ancora i banchi di direzione e gli apparecchi di calcolo fiancheggiando la larga finestra: le fotografie delle stelle ricoprivano ancora le pareti, sebbene non più fresche e recenti come una volta.

Solo indizio dei gravi fatti che li preoccupavano era un immenso planisferio sotto vetro sul quale erano segnate a inchiostro di china le traiettorie dei missili in orbita. Esso tradiva ciò che la calma esteriore dell’osservatorio nascondeva, l’angoscia e la febbre con cui osservavano la minaccia del cielo sopra di loro crescere, di giorno in giorno, spietatamente. Reinhart parlava di questa mappa come della «scritta murale» e lavorava giorno e notte con la squadra dell’osservatorio e disegnava, non appena andava in orbita, ogni nuova traccia, inviando rapporti urgenti e pessimistici a Whitehall.

Nei mesi precedenti erano stati osservati quasi un centinaio di questi sinistri ordigni, impossibili a identificare, ed era stato stabilito che la loro area di lancio si trovava all’interno di un triangolo di parecchie centinaie di miglia, tra la Manciuria, Vladivostok e le isole settentrionali del Giappone. Nessuno dei paesi circonvicini lo ammetteva. Come diceva Vandenberg, potevano essere di tre qualsiasi delle potenze appartenenti alle Nazioni Unite.

Vandenberg andava di frequente in visita al telescopio e aveva incontri lunghi e infruttuosi con Reinhart. Tutto quello di concreto che potevano dedurre dalle loro scoperte era che si trattava di ordigni a reazione, lanciati da circa quaranta gradi di latitudine nord e da circa centotrenta a centocinquanta gradi di longitudine est, e che viaggiavano sopra la Russia, l’Europa occidentale e le Isole Britanniche, alla velocità di circa sedicimila miglia all’ora, e tra le trecentocinquanta e le quattrocento miglia di altezza. Dopo aver sorvolato l’Inghilterra per lo più passavano sopra l’Atlantico del nord, sulla Groenlandia e sulle regioni settentrionali del Canada, concludendo probabilmente la loro traiettoria sulla medesima area, sul mare della Cina settentrionale. Qualunque rotta percorressero, venivano fatti deviare perché passassero sull’Inghilterra e sulla Scozia: ovviamente erano telecomandati e guidati con molta precisione su questo piccolo bersaglio. Sebbene non si sapesse nulla delle loro dimensioni e della loro forma, emettevano un segnale di direzione, ed erano evidentemente abbastanza grandi da trasportare una carica nucleare.

«Non so quale ne sia lo scopo,» ammise Reinhart. Questi apparecchi lo ossessionavano. Per quanto infelice fosse per come erano andate le cose a Thorness, era ora completamente assorbito da questo nuovo e terrificante andamento degli avvenimenti.

Vandenberg aveva teorie convincenti e ragionevoli. «Il loro scopo è questo: qualcuno in Oriente vuole che noi si sappia che essi ci sono tecnicamente superiori. Ci sventolano davanti al naso questi missili per mostrare al mondo che non abbiamo la possibilità di render loro pan per focaccia. È una nuova forma di guerra fredda.»

«Ma perché proprio su questo paese?»

Sembrava che Vandenberg fosse un po’ dispiaciuto per il professore. «Perché siete abbastanza piccoli e importanti per rappresentare una specie di ostaggio. Quest’isola ha sempre rappresentato un buon bersaglio.»

«Be’…» Reinhart accennò con il capo alla carta murale. «Qui ci sono le prove. L’Occidente non si prepara forse a presentare la questione al Consiglio di Sicurezza?»

Vandenberg scosse il capo. «No, finché non possiamo negoziare da una posizione di forza. Gli piacerebbe che ci rivolgessimo piagnucolando alle Nazioni Unite, e ammettessimo la nostra debolezza. Allora ci avrebbero in loro potere. La prima cosa di cui abbiamo bisogno, invece, è qualche mezzo di difesa.»

Reinhart sembrava scettico. «Cosa intendete fare?»

«Intendiamo muoverci il più in fretta possibile. Geers sostiene…»

«Oh, Geers!»

«Geers sostiene,» Vandenberg ignorò l’interruzione, «che se possiamo far lavorare quella ragazza in collaborazione con il suo calcolatore, professore, potremo ottenere piuttosto in fretta qualche idea.»

«Quello che era il mio calcolatore,» corresse Reinhart amaramente. «Le auguro ogni bene.»

La notte dopo la partenza di Vandenberg arrivò Fleming. Era tardi e Reinhart stava ancora lavorando, cercando di determinare l’origine dei segnali da terra che facevano cambiare il corso ai satelliti in orbita, quando sentì il rumore dello scappamento dell’auto di Fleming. Per Fleming era un po’ come tornare a casa; quella stanza familiare, Harvey al banco di controllo, la figura onesta e paterna del professore che lo aspettava. Dei tre, Fleming sembrava il più distrutto.

«C’è una tale atmosfera di buon senso, qui.» Il suo sguardo percorse la stanza, grande, ordinata. «Un’aria calma e pulita.»

Reinhart sorrise. «No, non c’è molto buon senso in questo momento.»

«Possiamo parlare?»

Reinhart lo guidò verso un paio di comode poltrone che erano state preparate insieme a un piccolo tavolo, per i visitatori, in un angolo sul retro dell’osservatorio.

«Ti ho detto al telefono, John, che non posso fare proprio nulla. Si preparano a usare la creatura come aiuto del calcolatore, per le ricerche missilistiche di Geers.»

«Ed è proprio quanto vuole il calcolatore.»

Reinhart si strinse nelle spalle. «Ne sono fuori, ora.»

«Ne siamo fuori tutti. Solo mi ci sto attaccando con le unghie e con i denti. Quando dicevamo di poter togliere la corrente… Be’, adesso non possiamo più, vero?» Fleming cincischiava nervosamente una scatola di fiammiferi che aveva tratto di tasca per accendere le loro sigarette. «Ormai il calcolatore è padrone di se stesso. Ha i suoi protettori, i suoi alleati. Se questa creatura che sembra una donna fosse scesa da un disco volante, a quest’ora sarebbe già stata eliminata. L’avrebbero riconosciuta per quello che è in realtà; ma siccome ci è stata presentata in un modo molto più sottile, siccome le è stata data una forma umana, viene accettata alla faccia di tutto. E la sua è una gran bella faccia. È inutile rivolgersi a Geers e compagni: ho tentato. Professore, ho paura.»

«Abbiamo tutti paura,» ribatté Reinhart. «Quante più cose scopriamo dell’universo, e più questo diventa terrificante.»

«Senta.» Fleming si piegò in avanti, serio. «Usiamo il cervello. Questa macchina, un cervello figlio di un altro mondo, ha eliminato il suo mostro monocolo, ha eliminato Christine, eliminerà me, se mi troverò sulla sua strada.»

«E allora tientene lontano,» disse stancamente Reinhart. «Se sei in pericolo tientene lontano finché sei in tempo.»

«Pericolo!» Fleming sbuffò. «Ma lei pensa che io voglia morire in qualche modo orribile, come Dennis Bridger, per amore del governo o della Intel? Io sono soltanto il prossimo della lista. Se vengo allontanato o vengo ucciso, a chi toccherà poi?»

«Il problema è sapere chi viene per primo, in questo momento.» Reinhart sembrava un medico di fronte a un caso disperato. «Non posso aiutarti, John.»

«E Osborne?»

«Non è lui a tenere le redini, ora.»

«Potrebbe ottenere dal suo ministro di andare dal primo ministro.»

«Il primo ministro?»

«È pagato anche lui, no?»

Reinhart scosse il capo. «Non potrai dimostrare nulla, John.»

«Ho alcuni argomenti.»

«Credo che nessuno di loro sia nello stato d’animo più adatto per ascoltarti.» Con un piccolo gesto della mano Reinhart indicò la carta sul muro. «Ecco quello che ci preoccupa, in questo momento.»

«A cosa serve, questa?»

Reinhart glielo spiegò. Fleming sedeva, ascoltando, teso e avvilito, frantumando la scatola di fiammiferi.

«Non possiamo essere sempre i più bravi.» Trascurò le spiegazioni del professore. «Almeno con esseri umani possiamo venire a patti.»

«Quali patti?» chiese Reinhart.

«Non importa quali… in confronto a quello a cui probabilmente ci troviamo davanti. Per una civiltà una bomba è una morte veloce. Ma la lenta conquista da parte di un altro pianeta…» La sua voce finì in un mormorio.


Il primo ministro si trovava nel suo ufficio dai pannelli di quercia ai Comuni. Era un anziano signore dall’aspetto sportivo con ammiccanti occhi blu. Sedeva al centro di un lato del lungo tavolo che riempiva a metà la stanza e ascoltava il ministro della Difesa. La luce filtrava dolcemente nella stanza attraverso le doppie finestre. Qualcuno bussò alla porta, e il ministro della Difesa aggrottò la fronte; era un giovanotto molto brillante cui non piaceva venire interrotto.

«Oh, ecco qui la scienza.» Il primo ministro sorrise cordialmente all’ingresso di Osborne e di Ratcliff. «Conosce Osborne, vero, Burdett?»

Il ministro della Difesa si alzò e strinse loro la mano, indifferente. Il primo ministro li invitò a sedersi.

«Non è una giornata meravigliosa, signori? Ricordo che quel giorno a Dunkerque era un tempo come questo. Sembra che sulle disgrazie della nazione risplenda sempre il sole.» Si rivolse a Burdett. «Vuole vuotare il sacco lei per noi?»

«Si tratta di Thorness,» spiegò Burdett a Ratcliff. «Vogliamo entrare in completo possesso del calcolatore e degli annessi e connessi. Eravamo già d’accordo, in linea di massima, no? e il primo ministro ed io pensiamo che sia giunto il momento.»

Ratcliff lo guardò senza grande affetto. «Avete già la possibilità di usarlo.»

«Ne abbiamo un bisogno maggiore, vero, Eccellenza?» Burdett si rivolse al primo ministro.

«Abbiamo bisogno di un nuovo apparecchio intercettatore, signori, e ne abbiamo bisogno alla svelta.» Dietro i suoi modi amabili, pigri, alquanto vecchio stile, c’era una grande decisione, un piglio d’affarista. «Nel millenovecentoquaranta avevamo gli Spitfire, ma in questo momento sia noi che i nostri alleati occidentali non abbiamo nulla in grado di affrontare quel che ci sta capitando addosso.»

«E non avremo nessuna prospettiva,» aggiunse Burdett, «per mezzo delle armi convenzionali.»

«Potremmo collaborare, no?» chiese Ratcliff a Osborne, «per produrre qualcosa di nuovo.»

Burdett non era tipo da perdere tempo. «Possiamo occuparcene noi se prendiamo possesso dell’apparecchio di Thorness e della ragazza.»

«La creatura?» Osborne alzò molto educatamente un sopracciglio, ma il primo ministro gli strizzò l’occhio in modo rassicurante.

«Il dottor Geers è dell’opinione che se noi usiamo questa signora dalla curiosa origine affinché si faccia interprete delle nostre richieste presso il calcolatore, e affinché ci ritraduca i suoi calcoli, potremmo risolvere molto in fretta un mucchio dei nostri problemi.»

«Se vi potete fidare delle sue intenzioni.»

Il primo ministro pareva interessato. «Non riesco a capire bene.»

«Una o due persone della squadra hanno dei dubbi circa le sue capacità,» mormorò Ratcliff, più con speranza che con convinzione. Nessun ministro ama perdere terreno anche se per difenderlo deve usare degli argomenti dubbi. Il primo ministro risolse la questione con un cenno della mano.

«Oh, sì, mi è stato detto.»

«Fino a oggi, Eccellenza, questa creatura è stata tenuta sotto osservazione dal nostro gruppo,» disse Osborne. «La professoressa Dawnay…»

«La Dawnay potrebbe restare.»

«In un ruolo di consulente,» aggiunse in fretta Burdett.

«E il dottor Fleming?» chiese Ratcliff.

Il primo ministro si rivolse di nuovo a Burdett. «Fleming sarebbe utile, vero?»

Burdett si accigliò. «Sarà necessario un controllo completo e un servizio di sicurezza molto stretto.»

Ratcliff giocò la sua ultima carta. «Siete sicuri che sia disposta, la ragazza?»

«Propongo di chiederglielo,» disse il primo ministro. Premette il pulsante di un campanello sul tavolo, e quasi immediatamente un giovanotto apparve sulla soglia. «Preghi il dottor Geers di far entrare la sua amica.»

«L’avete fatta venire qui?» Ratcliff fissava Osborne con aria accusatrice, come se fosse colpa sua.

«Sì, mio caro.» Anche il primo ministro fissava Osborne con aria interrogativa. «La ragazza è… ehm…?»

«Sembra proprio normale.»

Il primo ministro emise un piccolo sospiro di sollievo e si alzò quando la porta si aprì per lasciare passare Geers e Andromeda.

«Entri, dottor Geers. Entri, mia cara.»

Andromeda fu fatta sedere sulla sedia di fronte a lui. Stava in silenzio, il capo leggermente abbassato, le mani intrecciate in grembo: come una dattilografa in un colloquio d’assunzione.

«Tutto questo le deve apparire molto strano,» disse dolcemente il primo ministro. La ragazza rispondeva lentamente, con frasi correttissime.

«Il dottor Geers mi ha spiegato.»

«Le ha spiegato perché l’ha portata qui?»

«No.»

«Burdett?» Il primo ministro gli passò l’incarico di procedere nell’interrogatorio. Ratcliff guardava davanti a sé, di cattivo umore: Burdett si spostò più avanti, sull’orlo della sedia, appoggiò i gomiti al tavolo, incrociò le dita e fissò intensamente Andromeda.

«Questo paese… Lei conosce questo paese?»

«Sì.»

«Questo paese è minacciato dai missili.»

«Lo sappiamo.»

«Lo sappiamo?» Burdett la fissò con intensità ancora maggiore. Andromeda non si scompose; il suo viso era privo di qualsiasi espressione.

«Io e il calcolatore.»

«Come fa a saperlo il calcolatore?»

«Ci scambiamo le informazioni.»

«È proprio quel che speravamo,» disse il primo ministro.

Burdett proseguì: «Abbiamo missili da intercettazione, razzi di vario tipo, ma nulla che sia una combinazione di velocità, raggio d’azione e precisione per… ehm…» Cercò il termine di gergo adatto.

«Per colpirli?» chiese la ragazza con semplicità.

«Esattamente; le forniremo tutti i particolari sulla velocità, la quota e la rotta; in pratica, cioè, le possiamo dare una grande quantità di dati, ma abbiamo bisogno che vengano tradotti in termini pratici di meccanica.»

«È difficile?»

«Per noi, sì. Quello che stiamo cercando è un’arma di intercettazione molto perfezionata, che possa prendere decisioni da sola, all’istante.»

«Capisco.»

«Le dovrebbe piacere lavorare a questa ricerca con noi,» disse gentilmente il primo ministro, come se chiedesse un piacere a un bambino. «Il dottor Geers le dirà quel che bisogna fare e le darà tutte le facilitazioni perché lei progetti davvero queste armi.»

«E il dottor Fleming la potrà aiutare per quel che riguarda il calcolatore,» aggiunse Ratcliff.

Per la prima volta Andromeda alzò lo sguardo.

«Non avremo bisogno del dottor Fleming,» disse, e qualcosa passò nella sua voce calma e misurata, come un’ombra fredda nella luce del sole.


Tornata da Londra, Andromeda passava la maggior parte del suo tempo nell’ufficio progetti, a uno o due isolati dall’edificio del calcolatore: preparava i dati per la macchina, e li consegnava perché venissero calcolati. Qualche volta andava direttamente a comunicare con il calcolatore con il risultato che in seguito dalla stampatrice uscivano calcoli lunghi e complessi, che lei portava via per tradurli in termini di progettazione. I risultati si rivelavano superiori a quello che Geers aveva auspicato. Un nuovo sistema di comandi e nuove formule balistiche uscivano già pronti dalla tavola da disegno, e quando venivano sperimentati si dimostravano all’altezza di quanto si richiedeva. La ragazza e la macchina, in collaborazione, potevano compiere il lavoro teorico di sviluppo di un anno in una sola giornata. I risultati non solo erano interessanti ma, ovviamente, efficienti. Era chiaro che sarebbe stato possibile costruire nel giro di breve tempo un missile da intercettazione completamente nuovo.

Durante le ore di servizio Andromeda aveva libertà di movimento all’interno della base; e sebbene dopo il lavoro sparisse sotto scorta nel suo appartamento fu presto una figura familiare alla base. Judy diffuse la voce che si trattava di un’esperta di ricerche distaccata dal Ministero della Difesa.

La settimana seguente dal n. 10 di Downing Street venne emesso un comunicato:

«Il governo di Sua Maestà si è accorto da qualche tempo del passaggio di un numero crescente di ordigni spaziali, forse missili, sopra queste isole. Sebbene gli ordigni, sconosciuti ma di origine terrestre, passino sul nostro paese a grande velocità e a grande altezza, non c’è ragione di immediato allarme. Il governo di Sua Maestà sottolinea, tuttavia, che essi costituiscono una deliberata violazione del nostro spazio aereo nazionale, e che ci si prepara a intercettarli e identificarli.»

Fleming ascoltava la trasmissione sul suo transistor, nel suo alloggio di Thorness. Non era più il responsabile del calcolatore, e Geers aveva suggerito che sarebbe potuto essere più felice se se ne fosse tenuto lontano. Tuttavia lui restava a Thorness, in parte per ostinazione e in parte per un presentimento di imminente pericolo, sorvegliando i progressi di Andromeda e dei due giovani assistenti che erano stati assunti per darle una mano al calcolatore. Non faceva alcun tentativo di avvicinarla, né di avvicinare Judy, che continuava a girare attorno inutilmente guardinga, e che fungeva da legame tra Andromeda e gli uffici direttivi; ma quando ebbe sentito quel comunicato si diresse all’edificio del calcolatore con la vaga impressione che bisognasse fare qualcosa.

Judy lo trovò seduto sulla sedia girevole di fronte al quadro di controllo, a rimuginare. Dopo quel loro ultimo scontro, non gli aveva più rivolto la parola, ma lo aveva tenuto d’occhio, preoccupata e con tenerezza nascosta che non l’aveva mai lasciata.

Avanzò fino al banco di controllo e si fermò davanti a lui. «Perché non rinunci, John?»

«Ti piacerebbe, eh?»

«No, non mi piacerebbe, ma non combini niente a roderti il fegato.»

«È un simpatico giochetto a triangolo, vero?» La guardava di sotto in su, sardonico. «Io sorveglio la ragazza e tu sorvegli me.»

«Non ti serve a nulla.»

«Gelosa?» le chiese.

Scosse il capo con impazienza. «Non essere assurdo.»

«Sono tutti così maledettamente sicuri del fatto loro.» Fissò meditabondo l’apparecchiatura di controllo. «Forse mi è sfuggito qualcosa di questa macchina o della ragazza.»

Mentre Fleming e Judy parlavano, Andromeda entrò nella sala del calcolatore. Si fermò sulla soglia, un fascio di fogli in mano, e attese che terminassero. Era tranquilla, ma in lei non c’era modestia alcuna. Quando parlava con Judy o con gli altri che lavoravano con lei, aveva un’aria di autorità superiore e indiscussa. Non faceva concessioni neppure a Geers: era perfettamente educata, ma li trattava tutti come esseri intellettualmente inferiori.

«Desidererei parlare di questi al dottor Geers,» spiegò dalla soglia.

«Ora?» Judy cercava di opporle un pacato disprezzo.

«Ora.»

«Vedo se è libero,» rispose Judy, e uscì. Andromeda attraversò la stanza, diretta al quadro di controllo, ignorando Fleming; qualcosa però lo spinse a fermarla.

«È felice del suo lavoro?»

Si volse a guardarlo, senza parlare. Fleming si drizzò sulla sedia, improvvisamente in guardia.

«Si sta rendendo assolutamente indispensabile, vero?» le chiese nel tono che aveva usato con Judy.

Lo guardò seria. Pareva una statua, con i suoi lineamenti ben disegnati, i lunghi capelli e le braccia abbandonate, l’abito semplice e chiaro. «Per piacere, faccia attenzione a quel che dice,» gli rispose.

«È una minaccia?»

«Sì.» Parlava senza enfasi, come se enunciasse dei semplici dati di fatto. Fleming si alzò di colpo.

«Santo cielo! Non voglio che…» Si interruppe sorridendo. «Forse mi è davvero sfuggito qualcosa.»

Qualsiasi cosa avesse in mente, non era chiaro alla ragazza. Si volse per andarsene.

«Aspetti un attimo.»

«Ho da fare.» Ma si volse di nuovo verso di lui in attesa; lui le si avvicinò lentamente, la squadrò come se la stesse prendendo in giro.

«Devi fare qualcosa per te, se vuoi avere influenza sugli uomini.» Andromeda restava immobile. Fleming alzò una mano ad accarezzarle i capelli e la fece scorrere lungo la tempia. «Dovresti tirarti indietro i capelli, allora potremmo vedere come sei. Molto graziosa.»

Lei si ritrasse e la mano di lui ricadde ma Andromeda continuò a tenere gli occhi su di lui, sorpresa e perplessa.

«Oppure potresti usare del profumo,» disse. «Come quello di Judy.»

«È quello che le dà quell’odore?»

Annuì. «Non molto esotico. Acqua di lavanda o qualcosa del genere. Ma buona.»

«Non la capisco.» Una piccola ruga segnava la pelle liscia della sua fronte. «Buono, cattivo. Bello, brutto. Non c’è una distinzione logica.»

Lui sorrideva ancora. «Vieni qui.»

Andromeda esitò, poi fece un passo verso di lui. Con calma, deciso, lui le pizzicò un braccio.

«Ahi!» Andromeda arretrò, con un improvviso lampo di paura negli occhi, e si fregò la pelle nel punto dove lui le aveva fatto male.

«Bello o brutto?» chiese lui.

«Brutto.»

«Perché sei stata fatta per sentire il dolore.» Sollevò di nuovo la mano e lei vi si appoggiò. «Questa volta non voglio farti male.»

Lei rimase rigida, mentre lui le accarezzava la fronte, come una gazzella accarezzata da un bambino, sottomessa ma pronta a fuggire. Le dita di lui scesero lungo la guancia, lungo il collo nudo.

«Bello o brutto?»

«Bello.» Lo guardava per vedere quel che avrebbe fatto poi.

«Sei fatta per provare il piacere. Lo sapevi?» Ritirò gentilmente la mano e si allontanò da lei. «Non so se era questa l’intenzione, ma dandoti forma umana… gli esseri umani non vivono secondo la logica.»

«L’ho notato.» Era piti sicura di sé, ora, come era stata prima che lui cominciasse a parlare; ma la sua attenzione era ancora tutta presa da lui.

«Noi viviamo attraverso i nostri sensi. Sono essi a darci il nostro istinto per il bene e per il male, i nostri giudizi estetici e morali. Senza di essi probabilmente a quest’ora ci saremmo già distrutti.»

«Fate del vostro meglio, vero?» Guardò i suoi fogli con un sorriso di disprezzo. «Siete tutti dei bambini con tutti i vostri missili e i vostri razzi.»

«Non mettere anche me in questa faccenda.»

«No, non la metto in questa faccenda.» Lo guardò pensosa. «Ad ogni modo, intendo salvarvi. Tutto qui, davvero.» Fece un piccolo gesto a indicare i fogli che aveva in mano.

Judy entrò e, come aveva fatto Andromeda, si fermò sulla soglia. «Il dottor Geers la può ricevere.»

«Grazie.» Il ruolo ora era cambiato; senza che fosse stato detto, il rapporto tra loro tre era mutato. Sebbene Fleming osservasse ancora Andromeda, lei ricambiava lo sguardo con una consapevolezza diversa.

«Ho un cattivo odore?» chiese.

Fleming si strinse nelle spalle. «Devi scoprirlo da te, ti pare?»

Andromeda seguì Judy fuori dall’edificio e camminò con lei lungo il sentiero di cemento fino all’ufficio di Geers. Non avevano nulla da dirsi e nulla da spartire, salvo una specie di circospetta indifferenza. Judy la fece entrare nell’ufficio di Geers e la lasciò. Il direttore era seduto dietro la scrivania, al telefono.

«Sì. Procediamo splendidamente,» stava dicendo. «Un solo controllo ancora, e possiamo cominciare a costruire.»

Depose il ricevitore; Andromeda posò i fogli sulla scrivania, indifferente, impassibile, come se gli portasse una tazza di tè.

«Ecco tutto quel che vi serve, dottor Geers,» gli disse.

Загрузка...