10 Azione

Il nuovo missile venne costruito e sperimentato a Thorness. Fu lanciato, recuperato e ne furono fatte delle copie: il primo ministro mandò Burdett a parlare con Vandenberg. Il generale era parecchio preoccupato per il progetto di Thorness. Gli sembrava che si procedesse troppo alla svelta per essere sul sicuro. Sebbene i suoi capi volessero che si passasse all’azione al più presto, aveva dei grossi dubbi sul risultato di una tecnica straniera, e desiderava che il razzo venisse mandato a collaudare negli Stati Uniti; ma inaspettatamente il governo di Sua Maestà si era impuntato.

Burdett lo affrontò nella sala di operazioni sotterranea.

«Giusto per una volta abbiamo i mezzi per mandare avanti da soli questo progetto.» Il giovane ministro, nel suo inappuntabile abito blu, con la cravatta del collegio, aveva un’aria molto efficiente, spigliata e acuta. «Naturalmente ci accorderemo quando sarà giunto il momento di usarlo.»

Vandenberg grugnì. «Possiamo sapere come lo sfrutterete?»

«Opereremo un’intercettazione.»

«Come?»

«Reinhart a Bouldershaw Fell ci darà notizie sul nostro bersaglio e il gruppo di Geers eseguirà il lancio.»

«E se fallisse?»

«Non fallirà.»

I due stavano di fronte, intransigenti: Burdett gentile e sorridente, il generale duro e ostinato. Dopo un momento Vandenberg si strinse nelle spalle.

«Tutto d’un tratto questa è diventata una faccenda personale.»

Su questo si lasciarono, e Burdett disse a Geers e a Reinhart di andare avanti.

Quasi ogni giorno a Bouldershaw venivano captate tracce recenti. Harvey sedeva dietro la grande finestra che guardava sul Fell e man mano che andavano avanti le registrava.

«… 12 agosto ore 3,50, ora di Greenwich. Ordigno spaziale N. 117 sorvola sulla rotta 2697/451. Altezza 400 miglia. Velocità approssimativa 17.500 miglia all’ora…»

L’enorme conca all’esterno che sembrava vuota e immobile sotto la sua alta struttura, era continuamente all’erta e piena dei riflessi dei segnali. Ogni ordigno che la sorvolava emetteva il suo segnale e lo si poteva sentire avvicinarsi dall’altra parte del globo. Nell’osservatorio c’erano analizzatori elettronici che mostravano il percorso dei bersagli su uno schermo a raggi catodici, mentre un dispositivo automatico di rilevazione e di individuazione del campo era collegato via terra con Thorness. A Thorness, sulla cresta della scogliera, era disposta una fila di razzi; un «primo lancio,» come lo chiamavano, e due di riserva. I tre missili, a forma di matita, con il muso affusolato e la coda munita di pinne, si levavano, in fila, sulle loro basi di lancio, e risplendevano argentei nella luce fredda e grigia. Erano stranamente piccoli, molto sottili e con una bellissima linea. Sembravano frecce incoccate e pronte ad allontanarsi in volo da tutte le pesanti e complicate strutture delle operazioni di lancio. Ognuno, fornito di carburatore e stipato delle apparecchiature necessarie, portava nella punta affusolata una piccola carica nucleare. Il controllo da terra era operato attraverso il calcolatore che veniva fatto funzionare a turno da Andromeda e dai suoi assistenti. I segnali dei bersagli, provenienti da Bouldershaw, passavano attraverso la sala di controllo, e venivano interpretati all’istante e inoltrati all’intercettatore. Il volo di intercettazione poteva venire diretto con la massima precisione.

In quel periodo avevano libero accesso alla sala di controllo solo Geers e il suo personale di lavoro. A Fleming e alla Dawnay era stata data, a titolo di cortesia, la possibilità di assistere su uno schermo, in un altro edificio, all’intercettazione: Andromeda lavorava tranquillamente al calcolatore e Geers si agitava ansioso e con aria di importanza tra la zona di lancio, l’edificio del calcolatore e la sala di controllo. Si trattava di un piccolo centro di operazioni dove si esaminavano i meccanismi del decollo. Un telefono diretto lo collegava al Ministero della Difesa. Judy era tenuta sotto pressione dal maggiore Quadring, che faceva fare un doppio controllo su tutti coloro che entravano e uscivano.

L’ultimo giorno di ottobre, Burdett conferì con il primo ministro poi telefonò a Geers e a Reinhart.

«Il prossimo.»

Reinhart e Harvey rimasero in osservazione per trentasei ore prima di captare una nuova traccia, poi, al far dell’alba, raccolsero un segnale molto debole e il sistema automatico di collegamento entrò in azione.

A Thorness, l’equipaggio ancora insonnolito si raccolse e Andromeda, che non mostrava alcun segno di fatica, stette ad osservare mentre gli altri controllavano le informazioni attraverso il calcolatore. Venne subito calcolato il tempo optimum per il lancio e fu comunicato al centro di controllo; ebbe inizio il conto alla rovescia. Sullo schermo dei radar si poté vedere molto presto una traccia del bersaglio. Nella stanza del calcolatore c’era uno schermo per Andromeda, un altro al centro di controllo per Geers, un terzo a Londra, nella sala operazioni del Ministero della Difesa, e un controllo generale a Bouldershaw, sorvegliato da Reinhart. Anche a Bouldershaw si poteva sentire il segnale del satellite: un blip-blip continuo che veniva amplificato e diffuso dagli altoparlanti fino all’osservatorio.

A Thorness gli altoparlanti continuavano a diffondere il conto alla rovescia, e le squadre di lancio continuavano a lavorare velocemente attorno alle basi dei razzi, sulla scogliera. Allo zero doveva essere effettuato il «primo lancio,» e se questo non avesse funzionato, il secondo, e se necessario, anche il terzo, seguendo calcoli di volo fatti tenendo conto del tempo di decollo. Andromeda aveva sostenuto che non ce n’era bisogno, ma tutti gli altri erano consci dell’umana fallibilità. Né Geers né alcuno dei suoi superiori potevano permettersi un fiasco.

Il conto alla rovescia scese di cifra in cifra, arrivando allo zero. Nella grigia luce mattutina del promontorio, i razzi di decollo del «primo lancio» all’improvviso fiorirono rossi. L’aria si riempì di frastuono, la terra tremò e l’alta matita sottile scivolò su nel cielo. In pochi secondi era sparita al di sopra delle nuvole. Nella sala di controllo, nella sala di operazioni e nell’osservatorio, visi preoccupati guardavano la sua scia apparire sullo schermo a raggi catodici. Solo Andromeda sembrava sicura e per nulla preoccupata.

A Bouldershaw, Reinhart, Harvey e la loro squadra seguivano le due tracce del proiettile e dell’intercettatore, che andavano lentamente convergendo, e sentivano il blip-blip del satellite risuonare più forte e più chiaro man mano che sì avvicinava. Poi le tracce si incontrarono e in quel medesimo istante il rumore cessò.

Reinhart si precipitò verso Harvey per battergli la schiena, fuori di sé e con scarsa dignità.

«È andata…!»

«…Centro!» Geers sollevò il suo telefono collegato con Londra. Andromeda si allontanò dallo schermo della sala di controllo come se non fosse successo nulla di importante. A Londra Vandenberg, nella sala operazioni, si volse ai suoi colleghi inglesi.

«Bene, che ne dite?»

Quella sera venne fatta alla stampa una dichiarazione ufficiale:


«Il Ministero della Difesa ha annunciato che un missile è stato intercettato da un nuovo razzo inglese, trecentosettanta miglia sopra le Isole Britanniche. I resti del missile di origine sconosciuta, e i resti del missile intercettatore si sono disintegrati rientrando nell’atmosfera terrestre, ma l’intercettazione è stata seguita su apparecchi radar e può, dichiara il Ministero, essere controllata fin nei più minuti dettagli.»


Da Whitehall si levò un respiro di sollievo quasi udibile, seguito da calorose autocongratulazioni. Il governo tenne una seduta insolitamente allegra e nel giro di una settimana il primo ministro mandava ancora a chiamare Burdett.

Il ministro della Difesa si presentò, ordinato e sorridente, avvolto da un’aura di fiducia e di lozione dopobarba. «Nessuna nuova traccia?» chiese il primo ministro.

«Neppure una.»

«Niente in orbita?»

«No, niente ha sorvolato questo paese, Eccellenza, dopo l’intercettazione.»

«Bene.» Il primo ministro meditava. «Reinhart avrebbe comunque avuto il titolo di Sir.»

«E Geers?»

«Oh, già. Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico.»

Burdett si preparava ad affrontare gli affari seri. «E il calcolatore e il suo… ehm, agente, Eccellenza?»

«Potremmo dare alla ragazza il titolo di Donna,» disse il primo ministro, ammiccando.

«Voglio dire,» disse Burdett, «che cosa sarà di loro? Il ministro della Scienza vuole riaverli.»

Il primo ministro continuava ad avere un’aria divertita. «Non possiamo tenercelo, vero?»

«Abbiamo per esso un programma militare molto pesante.»

«Anche un programma economico molto pesante.»

«Che intende dire, Eccellenza?»

«Voglio dire,» disse seriamente il primo ministro, «che se questa particolare combinazione può darci dei risultati a questo livello, può ottenere anche un mucchio di altre cose. È naturale che debba ancora lavorare per la Difesa, ma al tempo stesso ha un potenziale industriale molto alto. Vogliamo diventare ricchi, lo sa, oltre che forti. Gli scienziati ci hanno dato, e io gliene sono molto grato, la macchina pensante più avanzata del mondo. Ci darà la possibilità, come nazione, di fare un balzo avanti in molti campi e sarebbe anche ora.»

«Vuole continuare a occuparsene, Eccellenza?» Burdett era un miscuglio di irritazione e deferenza.

«Sì. Farò una dichiarazione al paese nei prossimi giorni.»

«Non intende renderlo pubblico?»

«Non si agiti.» Il primo ministro lo guardava con indulgenza. «Dirò qualcosa circa gli effetti, ma i mezzi resteranno segretissimi. Questa sarà responsabilità sua.»

Burdett annuì. «Che posso dire a Vandenberg?»

«Gli dica di mettersi tranquillo. No, gli dica che ci prepariamo a ritornare di nuovo un grande piccolo paese, ma che continueremo a collaborare con gli alleati. Con tutti gli alleati che possiamo trovare, anzi.» Fece una pausa per un attimo; Burdett aspettava educatamente. «Andrò io stesso a Thorness non appena mi sarà possibile.»

La visita fu combinata in pochi giorni; ovviamente per il ministro era una faccenda degna di avere la precedenza. Judy e Quadring ebbero qualche difficoltà a nasconderlo alla stampa, perché la curiosità del pubblico era al vertice: ma alla fine tutto fu stabilito con la dovuta segretezza, e il campo e i suoi abitanti vennero tirati a lucido silenziosamente e discretamente. Geers era visibilmente cambiato: la sicurezza per lui era una sensazione nuova. Era come se avesse deposto le armi. Era pieno di vivacità, ma affabile, e non solo permetteva nuovamente alla Dawnay e a Fleming l’accesso al calcolatore, ma li aveva vivamente pregati di partecipare al corteo per la visita del primo ministro. Voleva che tutti, diceva, avessero quel che gli spettava.

Fleming personalmente aveva dei dubbi su tali esibizioni, ma se li teneva per sé: almeno avrebbe avuto una possibilità di parlare. Il giorno della visita si recò di buon’ora nell’edificio del calcolatore, dove trovò Andromeda che aspettava, sola. Anche lei sembrava trasformata. Aveva spazzolato all’indietro i lunghi capelli e invece dell’abito diritto di tutti i giorni indossava una specie di tunica greca, che le segnava busto e gambe, ondeggiandole attorno.

«Accidenti,» disse, «ti accadrà qualcosa di prettamente umano se te ne vai in giro così addobbata.»

«Ti riferisci a questo vestito?» chiese lei, con un vago interesse.

«Farai un’impressione dell’accidente, ma d’altronde la fai lo stesso. Non ci sarà possibilità di averti, ora, vero?» le chiese amaramente. Andromeda gli lanciò un’occhiata senza rispondere. «Ti chiederà probabilmente di succedere al n. 10 e tu penserai che noi dormiremo tranquilli nel nostro letto ora che abbiamo visto quanto sei forte. Probabilmente pensi che siamo tutti degli sciocchi.»

«No, tu non sei uno sciocco,» ribatté lei.

«Se non fossi uno sciocco non saresti qui ora. Hai fatto piombare giù dal cielo con un colpo un pezzettino di metallo — sa Dio come — e di punto in bianco sei in una posizione di comando.»

«Era quanto si voleva.» Gli stava di fronte, senza espressione.

«E qual è il prossimo passo?»

«Dipende dal programma.»

Le si avvicinò. «Sei una schiava, vero?»

«Perché non te ne vai?» gli chiese.

«Andarmene?»

«Ora. Finché puoi.»

«Fammi andare via tu.» La fissava, duro e ostile, ma lei volse il capo.

«Può darsi che io lo debba fare,» rispose. Rimase fermo, sfidandola a continuare, ma lei non si voleva lasciar trascinare. Dopo qualche secondo Fleming guardò l’orologio e grugnì.

«Vorrei tanto che questi buffoni di diplomatici l’avessero già finita.»

Quando il primo ministro si decise ad arrivare era scortato da ufficiali, uomini politici e segugi di Scotland Yard. Geers li condusse al calcolatore. Erano seguiti da Burdett e da Hunter e da un codazzo di persone meno importanti, in una teoria che finiva con Judy, che veniva per ultima e chiudeva le porte dietro di loro. Con un ampio gesto Geers indicò la sala di controllo.

«Questo, Eccellenza, è il calcolatore.»

«Del tutto incomprensibile per me,» disse il primo ministro, come se questo fosse un vantaggio. Si accorse della presenza di Andromeda. «Buon giorno, madamigella. Congratulazioni.»

Si diresse verso di lei con la mano protesa, che lei prese e strinse un po’ rigida.

«Lei capisce tutto questo?» le chiese. Andromeda sorrise educatamente. «Sono certo che è così, e gliene siamo tutti molto grati. È davvero un grosso cambiamento per noi, in questo paese, essere capaci di fare una dimostrazione di forza. Ci prenderemo molta cura di lei. La trattano bene?»

«Sì, grazie.» La comitiva le stava attorno a semicerchio, osservandola e ammirandola, ma lei non disse altro. Fleming colse lo sguardo di Judy e accennò al primo ministro. Per un momento lei non capì che cosa lui desiderasse, poi comprese e si affiancò a Geers.

«Non credo che al primo ministro sia stato presentato il dottor Fleming,» mormorò. Geers si accigliò; il suo atteggiamento amichevole pareva un po’ fragile, in alcuni punti.

«Bene, bene.» Il primo ministro non pareva trovare altro da dire ad Andromeda. Si volse di nuovo a Geers.

«E dove tenete i razzi?»

«Glielo farò vedere, Eccellenza, e vorrei che visitasse il laboratorio.»

Si mossero, lasciando Judy dov’era. «Il dottor Fleming…» tentò, senza alcun successo. Ma essi non la sentirono. Fleming fece un passo avanti.

«Mi scusi un istante…»

Geers gli rivolse uno sguardo torvo.

«Non ora, Fleming.»

«Ma…»

«Cosa desidera quel giovanotto?» chiese con mitezza il primo ministro. Geers sfoderò un sorriso.

«Nulla, Eccellenza, non vuole nulla.»

Il primo ministro, pieno di tatto, continuò nella sua strada e quando Fleming fece un passo avanti Hunter gli mise una mano sul braccio.

«Per amor del cielo!» sibilò Hunter.

Sulla porta che dava nell’ala del laboratorio Geers si volse.

«Meglio che lei venga con noi.» Si rivolgeva ad Andromeda, ignorando gli altri.

«Venga, mia cara,» disse il primo ministro, tirandosi da lato per lasciarla passare. «Prima la bellezza e il cervello.»

Tutta la processione sfilò nel laboratorio, salvo Judy.

«Vieni?» chiese a Fleming, che si teneva alle loro spalle, fissandoli.

Lui scosse il capo. «Magnifico, vero?»

«Ho fatto del mio meglio.»

«Splendido.»

Judy cincischiava il fazzoletto. «Avrebbero almeno dovuto permetterti di parlare. È un bel furbone, anche se sembra una vecchia zitella.»

«Come un certo altro.»

«Chi?»

«Uno che veniva dalla montagna.» Le rivolse un pallido sorriso, «Uno dei pifferi di montagna che andavano per suonare e furono suonati.»

Judy conosceva il detto, e si sentì irritata. «Andremo tutti a farci suonare, tranne te, vero?»

«Sai cosa mi ha appena detto Andromeda?»

«No.»

Lui cambiò idea e passò lo sguardo da Judy al quadro di controllo. «Ho un’idea in testa.»

«Un’idea che potrei capire?»

«Guarda come ticchetta bene, come è liscio e ritmico.» Il calcolatore lavorava con regolarità, con un ronzio soffocato e le luci che lampeggiavano ordinate. «Fa le fusa come se ci avesse già pappati. E se ora io tirassi via la corrente?»

«Non te lo permetterebbero.»

«O se prendessi un martello e lo facessi a pezzetti?»

«Non riusciresti a metterti in salvo, con le sentinelle. E comunque potrebbero ricostruirlo.»

Fleming estrasse da un cassetto del banco di controllo un blocco e alcuni fogli. «Allora non ci resta che dargli un colpo dal lato intellettuale, ti pare? Ho già procurato un colpetto alla fanciulla, ora sarebbe bene cominciare con lui.» Sì avvide che lei lo fissava dubbiosa. «Non avere paura, non dovrai dare fiato alle trombe. Ritornano da questa parte?»

«No. Usciranno dalla porta del laboratorio.»

«Bene.» Cominciò a copiare sul blocco dei numeri dal foglio.

«Cos’è?»

«Una formula abbreviata della creatura.»

«Andromeda?»

«Chiamala come ti pare.» Continuava a scarabocchiare. «È così che la chiama la macchina. Non è proprio una formula, è un numero di matricola.»

«Che vuoi fare?»

«Fare un po’ di cambiamenti.»

«Non avrai intenzione di combinare dei guai?»

Lui scoppiò a ridere. «Meglio che tu continui a fare da cicerone; per questa storia ci vorrà un po’ di tempo.»

«Avviserò le sentinelle.»

«Avvisa chi ti pare.»

Lei esitò, poi si diede per vinta e andò a raggiungere la comitiva. Quando se ne fu andata Fleming controllò le cifre poi si diresse con il blocco verso l’unità di ingresso. «Ti darò io qualcosa a cui pensare,» disse a voce alta rivolto alla macchina. Poi sedette e cominciò a scrivere il messaggio.

Aveva appena finito quando entrò Andromeda.

«Pensavo che fossi andata a vedere i razzi.»

Lei si strinse nelle spalle. «Non è interessante.»

Le lampade del quadro di controllo cominciarono a lampeggiare più forte e all’improvviso si senti uno schianto terribile provenire dalla stampa-dati di uscita che cominciò a lavorare furiosamente.

Andromeda levò lo sguardo, sbalordita. «Che accade?»

Fleming si diresse veloce alla stampatrice e lesse le cifre man mano che venivano battute sul foglio.

Sorrise. «Sembra che il tuo amico sia andato fuori dai gangheri.»

Andromeda attraversò la stanza e guardò al di sopra della spalla di lui.

«Ma non significa nulla!»

«Esatto.»

La stampatrice, senza preavviso, come aveva cominciato, smise di stampare, lasciandoli immersi nel silenzio.

«Cosa hai fatto?» chiese la ragazza. Lesse attentamente tutte le cifre senza capire. «Non ha alcun significato!»

Fleming le rivolse una smorfia. «No. Per un momento ha perso il proprio controllo. Penso che abbia dei disturbi psichici.»

«Che cosa gli hai fatto?» chiese la ragazza. Si mosse verso i terminali ma Fleming la fermò.

«Tienti lontana.»

Si fermò, incerta. «Che cosa gli hai fatto?»

«Gli ho dato solo alcune informazioni.»

Guardandosi attorno Andromeda vide il blocco al di sopra dei tasti dell’unità di ingresso. Si avvicinò lentamente e lo lesse.

«Questa è la mia formula… a rovescio.»

«Messa al negativo,» confermò Fleming.

«Penserà che sono morta.»

«Proprio quel che volevo io.»

Lo fissò, sbalordita. «Perché?»

«Volevo fargli sapere che non può pretendere che tutto vada secondo la sua volontà.»

«È stata una stupidaggine.»

«Sembra che ti valuti parecchio,» commentò, pieno di disprezzo.

Lei si volse ai terminali. «Bisogna che gli dica che sono viva.»

«No!» La tenne ferma per le braccia.

«Devo. Pensa che io sia morta e devo dirgli che non è vero.»

«E allora io gli dirò di nuovo che sei morta. Posso tirare avanti questo giochetto finché il calcolatore non capirà più se è vero o no.»

Allungò un braccio per prendere il blocco di fogli dalla tastiera. «Dammelo.» Andromeda liberò un braccio. «Non puoi averla vinta, lo sai bene.» Si volse di nuovo per allontanarsi, e quando Fleming fece per fermarla, d’improvviso gridò: «Lasciami in pace! Vattene! Fuori di qua.»

Stavano di fronte, tremanti tutti e due, come se non potessero muoversi. Poi Fleming l’afferrò saldamente con entrambe le mani, attirandola a sé.

L’annusò, sorpreso. «Hai usato del profumo.»

«Lasciami andare. Chiamo le sentinelle.»

Fleming cominciò a ridere. «Prendi fiato, allora.»

Andromeda dischiuse le labbra e lui vi depose un bacio. Poi, staccandola da sé, le braccia tese, la scrutò.

«Bello o brutto?»

«Lasciami sola, per piacere.» La voce di lei era malcerta. Lo guardava confusa, poi abbassò lo sguardo, ma lui continuava a tenerla.

«A chi appartieni?»

«Appartengo a quello che mi dice il mio cervello.»

«Allora dimmi questo…» La baciò ancora con sensualità ma senza passione, a lungo.

«No,» implorò Andromeda, ritraendosi. Lui la teneva stretta a sé parlandole dolcemente.

«Non ti piace il sapore delle labbra, o quello del cibo, o il profumo e la sensazione dell’aria fresca di fuori, o le colline oltre il filo spinato, con il sole, l’ombra e le allodole che cantano? E la vicinanza degli esseri umani?»

Scosse lentamente il capo. «Non sono importanti.»

«No?» Parlava con la bocca sulla bocca di lei. «Quale che sia l’intelligenza incorporea alla quale devi fedeltà, non ne ha tenuto conto, ma sono importanti per la vita organica, come scoprirai.»

«Si può tener conto di qualsiasi cosa,» rispose lei.

«Ma non se ne è tenuto conto nei calcoli.»

«Possono essere introdotti.» Sollevò il capo a guardarlo. «Non puoi batterci, dottor Fleming. Smettila di provarci, prima di avere la peggio.»

La lasciò andare. «È probabile che io abbia la peggio?»

«Sì.»

«E perché mi metti in guardia?»

«Perché provo qualcosa per te,» spiegò, e lui le rivolse un mezzo sorriso.

«Parli quasi come un essere umano.»

«Allora è tempo che la smetta. Per piacere, vattene, John, ora.» Lui restò immobile, ostinato, ma c’era nella voce di lei una nota di supplica che non c’era mai stata prima, e sul suo volto un’espressione di infelicità. «Per piacere. Vuoi che venga punita?»

«Da chi?»

«Da chi credi?» Andromeda fissò le apparecchiature di controllo del calcolatore. Fleming era colto di sorpresa: a questo non aveva pensato mai.

«Punita? Questa è bella.» Si infilò in tasca i fogli zeppi di cifre e si avviò alla porta. Sulla soglia si volse per lanciarle un’ultima frecciata: «A chi appartieni?»

Lei lo guardò andarsene e poi, riluttante, si volse verso il quadro di controllo e vi si diresse, lentamente, come se ci fosse costretta. Sollevò le mani per metterle a contatto con i terminali, poi esitò. Aveva il volto teso ma continuò ad alzare le mani fino a toccare le piastre. Per un attimo il solo risultato fu che le luci si misero a lampeggiare più forte mentre la macchina digeriva le informazioni che Andromeda le dava, poi il voltmetro sotto il quadro, all’improvviso, segnò il massimo.

Andromeda emise un grido di dolore e cercò di staccare le mani dalle piastre, ma la corrente la teneva prigioniera. La lancetta del voltmetro cadde ma solo per tornare a sollevarsi e Andromeda gridò di nuovo… Poi una terza volta e una quarta e ancora, ancora, ancora…

Anche questa volta fu Judy a scoprirla. Entrò qualche minuto dopo, cercando Fleming, e vide con orrore la ragazza abbandonata sul pavimento, nel medesimo punto in cui era crollata Christine.

«Oh, no!» Le parole le sfuggirono; le corse accanto per voltarla. Andromeda era ancora viva, e al contatto delle mani di Judy si ripiegò su se stessa, lamentandosi e toccandosi piano le mani. Judy sollevò quel capo biondo e se lo posò in grembo, poi le prese le mani aprendogliele. Erano nere e ustionate salvo che dove la carne si apriva rossa fino all’osso.

Judy le lasciò con dolcezza. «Com’è accaduto?» Andromeda gemette ancora aprendo gli occhi. Judy mormorò: «Le tue mani…»

«È facile medicarle.» La voce della ragazza era appena udibile.

«Cosa è accaduto?»

«Qualcosa non ha funzionato, ecco tutto.»

Judy la lasciò e telefonò al dottor Hunter.


Da quel momento gli eventi precipitarono con la velocità di un cataclisma. Hunter fece alle mani di Andromeda una fasciatura provvisoria, e cercò di persuaderla ad andare all’infermeria della base, ma lei si rifiutò di lasciare il calcolatore prima di avere visto Madeleine Dawnay.

«Faremo più in fretta così,» assicurò loro. Sebbene soffrisse per lo shock, lesse con la massima attenzione tutti i fogli della Dawnay, risolutamente, fino a trovare la parte che la interessava. Hunter le aveva fatto delle iniezioni locali per alleviare il dolore alle mani, ma tra queste e le fasciature aveva molta difficoltà a muoversi; ciò nonostante riuscì a trovare i fogli che voleva e li portò alla Dawnay. Riguardavano la produzione di enzimi nella formula DNA.

«E cosa ce ne facciamo di questi?» La Dawnay li guardava dubbiosa.

«Per ottenere la formula di un tessuto isolato. Potete prepararlo molto in fretta,» spiegò Andromeda e riportò i fogli al calcolatore. Era pallida, debole e camminava a fatica. La Dawnay, Hunter e Judy l’osservavano preoccupati. Lei si mise di nuovo tra i terminali e sollevò le mani bendate. Ma questa volta non accadde nulla e dopo qualche istante la macchina cominciò a stampare dati.

«È la formula di un enzima, potete prepararlo molto facilmente.» Indicò alla Dawnay il foglio stampato, quindi si rivolse a Hunter. «Vorrei stendermi, ora. Per piacere. L’enzima mi può essere applicato sulle mani con una base medicamentosa, quando la professoressa Dawnay lo avrà preparato; ma cercate di fare il più in fretta possibile.»

Restò ammalata per parecchi giorni; Hunter le medicava le mani con l’unguento fatto in base alla formula, una volta che la Dawnay lo ebbe preparato. La cicatrizzazione fu miracolosa: il nuovo tessuto, una carne soffice e fresca, ben diversa dal tessuto indurito delle cicatrici, rimarginò le ferite nel giro di poche ore e formò uno strato nuovo di pelle rosea sui palmi. Quando si fu rimessa dagli effetti dell’elettroshock, anche le sue mani erano come rigenerate.

Hunter, nel frattempo, aveva fatto rapporto a Geers, e Geers aveva mandato a chiamare Fleming. Il direttore, che non era ancora sicuro dell’origine dell’incidente, aveva il viso e le labbra tesi per la preoccupazione: la breve stagione del suo cameratismo era finita.

«Ebbene, così lei ha deciso di farlo saltare!» strepitò contro Fleming picchiando il pugno sul ripiano lustro. «Non consulta nessuno… è troppo intelligente. Tanto intelligente che scassa la macchina e, maledizione, quasi fa uccidere la ragazza.»

«Se non vuole neppure ascoltare quel che è accaduto.» La voce di Fleming si levò a sovrastare la sua, ma Geers lo interruppe.

«So che cosa è accaduto.»

«Era là, lei? Andromeda sapeva che sarebbe stata punita. Avrebbe dovuto cacciarmi via, avrebbe dovuto cancellare quanto avevo introdotto nel calcolatore ma non lo ha fatto o non abbastanza presto. Ha esitato, mi ha messo in guardia, ha lasciato che me ne andassi, poi è andata a toccare i terminali…»

«Credevo che lei se ne fosse andato,» gli ricordò Geers.

«Certo che me n’ero andato. Le sto raccontando come sono senz’altro andate le cose: Andromeda fece sapere alla macchina che era viva, che le erano state date delle false informazioni, che la sorgente delle informazioni era in circolazione e che lei non l’aveva fermata. Così la macchina l’ha punita dandole una serie di scosse elettriche. Sa come fare, adesso: lo ha imparato a spese di Christine.»

Il direttore l’ascoltava con un’impazienza che non si dava neppure la pena di dissimulare. «Lei sta lavorando di fantasia,» disse infine.

«No, non sto lavorando di fantasia, Geers. Era inevitabile che accadesse, solo che non l’ho capito in tempo.»

«Ha il suo lasciapassare?» Gli occhi di Geers attraverso gli occhiali sprizzavano scintille. «Per l’edificio del calcolatore.»

Fleming sbuffò frugandosi in tasca. «Non può dirmi nulla, su questo. È perfettamente in ordine.»

Glielo passò attraverso la scrivania. Geers lo prese, l’esaminò e lentamente lo stracciò.

«Perché?»

«Ci costa troppo, Fleming. Basta.»

Fleming a sua volta percosse la scrivania con un pugno. «No, rimango alla base.»

«Stia dove le pare. Ma i suoi contatti con il calcolatore sono finiti. Mi spiace.»


Geers si sentiva meglio adesso che Fleming era fuori dai piedi, e ancora meglio si sentì quando seppe del miglioramento di Andromeda. Volle sapere tutte le notizie possibili sull’enzima dalla Dawnay e da Hunter, poi si mise in comunicazione sulla sua linea diretta con Whitehall. La reazione fu quella che si immaginava. Mandò a chiamare Andromeda, la interrogò e sembrò molto soddisfatto.

Fleming, un anno o due prima, avrebbe cominciato a bere, ma questa volta non aveva nemmeno voglia di fare questo. Lo stesso impulso che lo aveva legato al calcolatore, lo legava ora alla base: sebbene ormai non potesse fare più nulla, sebbene non potesse prendere parte alcuna all’esecuzione del progetto, rimase alla base, solitario e incerto; faceva lunghe passeggiate, se ne stava sdraiato sul letto. Si era nel cuore dell’inverno, ma di un inverno calmo e grigio che sembrava nascondere qualcosa di molto drammatico.

Fleming, circa una settimana dopo l’incidente, o la punizione, come pensava lui, tornava da una passeggiata in brughiera quando vide un’auto enorme, straordinariamente lucida, di fronte all’ufficio di Geers; e mentre passava accanto, ne vide uscire un ometto quadrato dalla testa calva.

«Dottor Fleming!» L’uomo calvo sollevò una mano per fermarlo e salutarlo.

«Cosa fa qui?»

«Spero che non le spiaccia,» disse Kaufmann. Fleming si guardò attorno. «Se ne vada.»

«Per piacere, Herr Doktor, non si senta in imbarazzo.» Kaufmann gli sorrise. «Sono qui in veste assolutamente ufficiale. Agente numero uno ai Lloyds. Non la comprometto.»

«Non ha compromesso neppure Bridger, vero?» Fleming accennò col capo al cancello principale. «Quella è l’uscita.»

Kaufmann sorrise di nuovo, e tirò fuori la scatola di cigarillos. «Fuma?»

«Qualche volta, quando sono nervoso,» rispose. «Non mi interessa nulla di quel che può offrirmi. Provi alla porta accanto.»

«È quel che faccio.» Kaufmann rise e si ficcò un sigaro tra i denti. «É proprio quel che faccio. L’ho fermata, Herr Doktor, per dirle che non la importunerò più; ho altri mezzi, ora, molto migliori, molto più onesti.»

Sorrise ancora, accese il sigaro, ed entrò senza esitazioni nel vestibolo dell’ufficio di Geers.

Fleming andò di corsa agli uffici del Servizio di Sicurezza, ma Quadring era via e non si sapeva dove fosse Judy. Finalmente riuscì a prendere contatto con Judy, per telefono, ma quando la ragazza giunse all’ufficio di Geers, il direttore stava giusto accompagnando fuori Kaufmann. Sembrava che i due uomini fossero in rapporti molto cordiali, e Geers fumava uno dei cigarillos di Kaufmann.

«In materia d’affari,» diceva Kaufmann, «il procedimento è senza importanza. Non siamo curiosi; è il risultato che conta, no?»

«Noi vendiamo dei risultati.» Geers aveva il viso illuminato dal suo miglior sorriso. Gli tese una mano. «Auf wiedersehen.»

Judy li vide stringersi la mano e vide Kaufmann tornare alla propria auto. Quando il direttore si girò per rientrare nel suo ufficio, disse: «Posso parlarle un minuto?»

Il sorriso di Geers si spense. «Sono piuttosto occupato.»

«Ma è una questione importante. Lei sa chi è quell’uomo?»

«Si chiama Kaufmann.»

«Intel.»

«Giusto.» Le dita di Geers si contrassero sulla maniglia.

«Era a Kaufmann che il dottor Bridger intendeva vendere…» cominciò Judy, ma Geers l’interruppe.

«So tutto del caso Bridger.»

Dietro la voce di lui Judy sentì il rumore dell’auto che si allontanava. Questo fece sembrare terribilmente impellente quanto sentiva: doveva ficcarglielo in testa.

«Era la Intel. Portavano via i segreti…»

Geers superò la soglia. «Non mi stanno sottraendo dei segreti,» ribatté altezzoso.

«Ma…» Senza esserne richiesta Judy lo seguì all’interno e scoprì la Dawnay che lo aspettava, in silenzio, nell’ufficio. All’improvviso si sentì sconcertata è mormorò confuse parole di scusa alla professoressa.

«Non si preoccupi per me, cara,» rispose la Dawnay in tono neutro, e si diresse all’altro capo della stanza. Geers sedette all’altro capo della scrivania e fissò Judy con aria formale.

«Stiamo trattando un accordo commerciale.»

«Con la Intel?» L’orrore e l’assurdità di tutta la situazione le si affollarono alla mente: le pazzie accumulate negli ultimi mesi e anni. Rimase a bocca aperta davanti a lui, davanti alla lucida scrivania, finché ritrovò la voce. «Mi è stato affidato questo incarico perché non ci fidavamo di loro. Al dottor Bridger è stata data la caccia fino a farlo morire, da me, tra gli altri, perché…»

«Le condizioni ambientali sono cambiate.»

La ragazza fissò il suo viso presuntuoso e affettato, e perse completamente le staffe. «Queste condizioni vanno a genio ai politicanti.»

«Ora basta,» esplose Geers.

La Dawnay, calma, nel suo angolo, fece un debole tentativo. «La ragazza ha ragione, sa, e noi scienziati di tanto in tanto diventiamo un po’ invidiosi in proposito. Siamo in balìa degli elementi. Non possiamo ingannare.»

«Anch’io sono uno scienziato,» ribatté Geers, maligno.

«Lo era.» La parola sfuggì a Judy prima che avesse modo di fermarla. Si aspettava un’esplosione ma Geers riuscì a controllarsi, facendosi di ghiaccio.

«A rigor di termini, la cosa non la riguarda. Ciò di cui ora il governo ha bisogno è un mercato mondiale. Quando Andromeda si bruciò le mani, elaborò una sintesi per il personale del laboratorio della professoressa Dawnay. Ha visto le sue mani?»

«Le ho viste ustionate.»

«Non c’è alcun segno di ustione, ora. Nessuna cicatrice, nulla. Dall’oggi al domani.»

«Ed è questo che sta vendendo alla Intel?»

«Attraverso la Intel. A tutti coloro che ne hanno bisogno.»

Judy cercò di capire quel che non funzionava nel ragionamento, e finalmente comprese: «Perché non attraverso l’organizzazione internazionale di sanità?»

«Non prendiamo in considerazione la carità all’ingrosso. Ma un ragionevole equilibrio di mercato.»

«Dunque non vi interessa a chi stringete la mano?» chiese disgustata Judy. Si sentiva adesso completamente fredda. E si volse alla Dawnay. «Anche lei fa parte di questa storia?»

La Dawnay esitò. «L’enzima non è ancora in grado di essere messo sul mercato. Abbiamo bisogno di una formula più raffinata. André, la ragazza, sta preparando i dati per il calcolo.» Avevano preso tutti l’abitudine di chiamarla André.

«Così, tutto lo stabilimento sta lavorando per la Intel.»

«Spero di no,» disse la Dawnay, e sembrò quasi che fosse dalla parte di Judy.

Geers intervenne.

«Senta, Madeleine, questo è troppo!»

«Allora non vi ruberò altro tempo.» Judy si diresse alla porta. «Ma in questa storia io non c’entro, e non c’entra neppure il dottor Fleming.»

«Sappiamo da che parte sta il dottor Fleming,» commentò sardonico Geers.

«E sapete anche da che parte sto io,» ribatté Judy, e se ne andò sbattendo la porta.

L’istinto le suggeriva di andare subito da Fleming, ma non riusciva proprio ad affrontare il rischio di un’altra snobbata. Fu la Dawnay, invece, che andò a trovarlo, verso sera, mentre di ritorno dall’ufficio andava al calcolatore. Lo trovò nel suo alloggio, intento a guardare il primo ministro che parlava alla televisione.

«Entri,» la invitò, senza espressione. E le fece posto ai piedi del letto. La Dawnay fissava lo schermo azzurrino che tremolava; cercò di avere fiducia nel viso sicuro, maturo, sportivo e aristocratico del primo ministro, e nella sua voce lenta e strascicata. Fleming stava seduto a guardare e ad ascoltare, con lei.

«Fino dai giorni placidi e felici della regina Vittoria,» annunciava la voce senza corpo, «questo paese non ha più avuto una posizione di preminenza così evidente nei campi dell’industria, della tecnica, e soprattutto della sicurezza, come ai giorni nostri…»

La Dawnay sentiva che non riusciva a concentrare la propria attenzione. «Mi spiace averla interrotta.»

«No, non mi ha interrotto.» Fece una smorfia accennando all’apparecchio. «Spegniamo quel vecchio idiota.»

Si alzò e spense lui stesso il televisore, poi le versò da bere. «È una visita mondana?»

«Stavo solo andando verso il calcolatore, quando ho visto le sue finestre illuminate. Grazie.» Accettò il bicchiere.

«Lavoro straordinario?» le chiese.

Lei sollevò il bicchiere guardandolo al di sopra del bordo. «Dottor Fleming, io ho detto parecchie cose poco generose nei suoi confronti, in passato.»

«Non è la sola.»

«Riguardo il suo atteggiamento.»

«Mi sbagliavo, vero? Così dice il primo ministro. Mi sbagliavo in pieno.» Parlava più con dolore che con rabbia, e si versò da bere, ma poco.

«Ho dei dubbi,» disse la Dawnay. «Comincio ad avere dei dubbi.»

Fleming non rispose ma la Dawnay aggiunse: «Anche Judy Adamson comincia ad avere dei dubbi.»

«Meraviglioso,» grugnì lui.

«Ha combattuto una vera battaglia, con Geers, oggi pomeriggio. Devo dire che mi ha dato da pensare.» Prese un sorso e lo mandò giù lentamente, guardando con calma attraverso il bicchiere e rimuginando la situazione. «Sembra abbastanza onesto, fare uso di quel che abbiamo, di quel che lei ci ha dato.»

«Non insista.»

«Eppure non so. Nella potenza di quella macchina c’è qualcosa di corruttore. Lo si vede dall’effetto che ha sulla gente di qui e sul governo.» Accennò al televisore. «Come se fosse una cosa perfettamente normale, la gente di buon senso viene presa da una volontà non sua. Penso che tutti e due, noi, lo abbiamo sentito. Eppure, tutto ciò sembra abbastanza inoffensivo.»

«Davvero?»

Gli parlò della produzione dell’enzima. «È benefico. Rigenera le cellule, ecco tutto. Influirà su un sacco di cose, dall’innesto epidermico all’invecchiamento. Sarà, dopo gli antibiotici, il ritrovato medico più importante.»

«Una manna per molta gente.»

Quando la Dawnay si mise a parlare della questione Intel, lui reagì appena.

«Dove andremo a finire?» si chiese la Dawnay. Non aspettava una risposta ma ne ebbe ugualmente una.

«Un anno fa questa macchina non aveva alcun potere al di fuori del suo edificio, e anche lì eravamo noi a tenerla sotto controllo.» Parlava senza passione, come se ripetesse un’antica verità. «Ora tutta la nazione dipende da essa. Cosa accadrà? Ha sentito, non è vero? Torneremo a essere la massima potenza del mondo, e chi sarà l’eminenza grigia nascosta dietro a questo trono?»

Indicò la televisione, come aveva fatto prima la Dawnay. Poi sembrò che fosse stanco di quella conversazione; si diresse al giradischi e l’accese.

«Avrebbe potuto tenerlo sotto controllo?» La Dawnay non voleva lasciar cadere l’argomento.

«No, negli ultimi tempi, no.»

«Cosa avrebbe potuto fare?»

«Avrei fatto dell’ostruzionismo, per quanto possibile.» Tirò fuori un disco da una pila di microsolco. «E lo sa, ora che ha la sua creatura a dargli informazioni sul mio conto. È riuscito a farmi cacciar via. ‘Lei non può vincere,’ mi ha detto Andromeda.»

«La ragazza le ha detto questo?»

Fleming annuì e la Dawnay aggrottò la fronte guardando nel suo bicchiere semivuoto. «Non so. Forse è inevitabile. Forse è l’evoluzione.»

«Senta…» Depose il disco e si volse verso di lei. «Posso prevedere un tempo nel quale creeremo una forma di intelligenza più alta alla quale, alla fine, noi cederemo. E probabilmente sarà una forma inorganica, come questa. Ma sarà qualcosa che noi stessi abbiamo creato, e possiamo progettarlo per il nostro bene, o per quello che noi definiamo il bene. Questa macchina non è stata progettata per il nostro bene, o, se lo è stata, qualcosa non ha funzionato.»

La donna finì di bere. Quello che lui diceva era molto probabile, anzi, più che probabile: c’era in quanto lui diceva una sana logica che negli ultimi tempi le era sfuggita. Da bravo scienziato empirista, la Dawnay sentiva che in qualche modo doveva venire provato.

«Chi può dirlo, se non lei?» gli chiese.

Fleming scosse il capo. «Nessuno di questa gente.»

«Potrei fare qualcosa io?»

«Lei?»

«Io ho accesso al calcolatore.»

Lui perse all’improvviso ogni interesse per il disco. Il suo viso si illuminò come se dentro di lui si fosse acceso un circuito elettrico. «Sì, perché no? Potremmo tentare un piccolo esperimento.» Sollevò dal tavolo il blocco sul quale aveva scritto la formula di André al negativo. «Ha qualcuno laggiù che possa introdurlo?»

«André?»

«No, non lei. Qualsiasi cosa lei faccia, Madeleine, non le dia la sua fiducia.»

La Dawnay si ricordò dell’operatore. Raccolse il blocco e Fleming le mostrò la sezione che avrebbe dovuto introdurre.

«Non capisco più nulla, devo ammetterlo,» disse. Poi depose il bicchiere e uscì.

Attraversando il recinto, sentì uscire dall’alloggio di Fleming le prime battute di un brano musicale di qualche postschönberghiano: poi si ritrovò nell’edificio del calcolatore dove si udiva solo il ronzio della macchina. Nella sala di controllo c’era André e un giovane operatore. André se ne stava ancora più per conto suo da quando era successo l’incidente delle mani. Si aggirava per l’edificio del calcolatore come un fantasma e se ne allontanava raramente. Non faceva alcun tentativo di comunicare con chicchessia, e sebbene non avesse mai un atteggiamento ostile, era completamente riservata. Quando la Dawnay entrò, la guardò con scarso interesse.

«Come va?» chiese la Dawnay.

«Abbiamo introdotto tutti i dati,» rispose André. «Credo che otterrete presto la formula.»

La Dawnay si allontanò e raggiunse l’operatore all’unità di entrata. Era un giovane da poco laureato che si stava perfezionando, e che non faceva domande, ma eseguiva quanto gli veniva detto.

«Introduca anche questo.» La Dawnay gli diede il blocco. Lui lo pose sulla tastiera e cominciò a battere.

«Cos’è?» chiese André sentendo il rumore.

«Una cosa che voglio mi venga calcolata.» La Dawnay la tenne lontana dal calcolatore fino a che il quadro di controllo, all’improvviso, prese a lampeggiare selvaggiamente.

«Cosa sta introducendo?» André allungò una mano verso il blocco e lesse. «Dove l’ha trovato?»

«È affar mio,» rispose la Dawnay.

«Perché si immischia in questa storia?»

«È meglio che ci lasci sole,» disse la Dawnay all’operatore. Quello, obbediente, si alzò e uscì dalla stanza. André attese che fosse uscito.

«Non le voglio male,» disse poi, e nella sua voce non c’era passione, ma solo una grande forza. «Perché se ne immischia?»

«Come osa parlarmi così?» La Dawnay sentiva che la sua voce suonava debole e ridicola, ma non riuscì a rispondere altrimenti. «Io ti ho creato. Io ti ho fatto.»

«Lei mi ha fatto?» André la guardò con disprezzo, poi si diresse al quadro di controllo e mise le mani sui terminali. Immediatamente le lampade si calmarono ma continuarono a lampeggiare per tutto il tempo che la ragazza rimase lì, forte e sicura come una giovane dea. Dopo un minuto si scostò, guardò la Dawnay.

«Ci stiamo stancando parecchio di questo… questo giochetto,» disse calma, come se stesse trasmettendo un messaggio. «Né lei, né il dottor Fleming, né alcun altro può mettersi tra noi.»

«Se cerchi di farmi paura…»

«Non so cosa abbia messo in macchina. Non posso assumermene la responsabilità.» Sembrava che Andromeda fissasse qualcosa al di là della Dawnay. Rumorosamente, la stampa-dati di uscita si mise in azione, e la Dawnay a quel suono si mosse. Seguì André fino al calcolatore, e quando arrivò il messaggio era finito. André esaminò il foglio, poi lo strappò dal rotolo e glielo passò.

«La formula del suo enzima.»

«Tutto qui?» La Dawnay provava una sensazione di sollievo.

«Non le basta?» chiese André e l’osservò andarsene con viso fermo e ostile.


La Dawnay aveva tre assistenti che lavoravano con lei in quel periodo: un chimico ricercatore e due aiutanti perfezionandi, un ragazzo e una ragazza. Tutti insieme lavorarono a una sintesi chimica basata sulla nuova formula. Questa sintesi comportava un certo lavoro di manipolazione, ma poiché non aveva un effetto irritante, nessuno di loro se ne preoccupava. Nel giro di un paio di giorni, tuttavia, cominciarono tutti a sentire segni di stanchezza e di deperimento. Sembrava che non ci fosse motivo alcuno, e continuarono a lavorare ma alla fine del terzo giorno, la ragazza ebbe un collasso e il mattino seguente la Dawnay e l’uomo erano altrettanto malandati.

Hunter li portò all’infermeria, dove furono presto raggiunti dal ragazzo. Di qualsiasi natura fosse la malattia, il suo corso si faceva sempre più veloce; non si avevano febbre o infiammazioni, ma le vittime deperivano, semplicemente. Le cellule morivano, i processi di base del metabolismo rallentavano o si fermavano, e uno dopo l’altro gli ammalati si indebolirono finendo in coma. Hunter era disperato e fece appello a Geers che mise a tacere tutta la faccenda.

Fleming non venne a conoscenza dei particolari fino al quarto giorno, quando Judy ruppe il silenzio per parlargliene. Telefonò subito a Reinhart e gli chiese di venire da Bouldershaw; e persuase Judy a trovargli una certa carta. Quando Judy gliela diede si rinchiuse con essa per tutta la notte nel suo alloggio e ne uscì il mattino seguente, sfinito ma soddisfatto. Ma ormai la ragazza era morta.

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