5 Atomi

Judy lo lasciò alle prime luci dell’alba e tornò al suo alloggio. Per mezzogiorno era arrivato da Londra il primo contingente, che venne ricevuto nella mensa. Judy si muoveva in quella folla di abiti grigioferro distribuendo degli opuscoli; si sentiva fresca, viva e felice. Fleming era nell’edificio del calcolatore con Bridger e Christine: stavano introducendo la sezione finale dei dati. Reinhart e Osborne erano a colloquio con Geers.

Vandenberg, Watling, Mrs. Tate-Allen e il fedele e muto Newby giunsero con il treno delle due, e due delle auto più belle vennero mandate a riceverli. Il ministro era atteso per le tre, in elicottero; era questo un tipico capriccio bizzarro ed esibizionista, sul quale il resto della compagnia sorvolò educatamente, senza alcun commento.

Per quell’ora la pioggia era cessata e una guardia d’onore venne schierata lungo la pista d’atterraggio.

Insieme alla guardia d’onore c’erano ad attendere Reinhart e il maggiore Quadring; quest’ultimo indossava la sua migliore uniforme di gala con tutte le medaglie lustre, Reinhart si stringeva invece in un impermeabile di plastica tutto inzaccherato.

Gli altri, ospiti e ospitanti, si affollavano sotto il portico dell’edificio del nuovo calcolatore e scrutavano il cielo con occhi speranzosi. Osborne manteneva la conversazione su un piano molto diplomatico, nitrendo.

«Non credo che lei sapesse, generale, che le Isole Britanniche si stendessero tanto a nord, vero?» Si rivolgeva a Vandenberg che dava segni di irrequietezza e di malcelata irritazione. «Eh, Geers?»

Geers indossava un vestito nuovo e se ne stava impettito di fronte agli altri sentendosi più che mai «il direttore.»

«Hanno covato un cigno o un brutto anatroccolo?» gli chiese Mrs. Tate-Allen.

«Non saprei. Abbiamo tempo soltanto per lavori pratici.»

«E questo non è pratico?» si informò Osborne.

Watling ricordò: «Volavo qui sopra, durante la guerra.»

«Davvero?» chiese Vandenberg, senza il minimo interesse.

«Voli di ricognizione sull’Atlantico settentrionale, quando ero nel Servizio costiero.»

Ma nessuno lo ascoltava. L’elicottero era arrivato. Sorvolò il terreno come un uccello agitato, poi si posò sulle sue gambe idrauliche. Per un minuto l’elica trinciò l’aria, poi si arrestò; lo sportello venne aperto e ne scese Sua Eccellenza James Ratcliff. La guardia d’onore presentò le armi, Quadring fece il saluto militare e Reinhart si diresse verso il ministro; gli strinse la mano e lo condusse verso la compagnia raccolta sotto il portico. Ratcliff aveva un aspetto molto disteso, come se avesse appena fatto un bagno. Strinse la mano a Geers e sorrise radioso e affettato agli altri.

«Lieto di conoscerla, dottore. Molto gentile da parte sua ospitare da voi il nostro apparecchio.»

Geers era trasformato.

«Siamo onorati, signore, di vedere svolgere qui opere del genere,» rispose con il suo miglior sorriso. «La pura ricerca in mezzo a noi, rudi meccanici.»

Osborne scambiò un’occhiata con Reinhart.

«Entriamo?» propose Osborne.

«Sì certo.» Il ministro sorrideva a tutti. «Salve, Vandenberg, simpatico da parte sua essere venuto.»

Geers li precedette e afferrò la maniglia della porta.

«Faccio strada io?» Lanciò un’occhiata di sfida a Reinhart.

«La prego,» rispose questi.

«Da questa parte, Eccellenza.» E Geers li guidò all’interno.

Adesso nella sala del calcolatore le luci erano tutte in funzione e Geers svolse con un certo orgoglio il suo compito di cicerone. Reinhart e Osborne gli lasciarono questa incombenza; Fleming gli lanciò un’occhiata amara dal banco di controllo. Geers presentò Bridger e Christine e, con aria indifferente, Fleming.

«Conosce il dottor Fleming, Eccellenza? Il progettista.»

«I progettisti sono nella costellazione di Andromeda,» ribatté Fleming. Ratcliff scoppiò a ridere come se fosse una battuta molto spiritosa.

«Bene, avete fatto proprio un bel lavoretto. Ora capisco perché volevate tanto denaro.»

Il gruppo proseguì nella visita. Mrs. Tate-Allen era molto colpita dalle lampade al neon; i signori in grigio studiavano, perplessi e interessati, gli scomparti verniciati di blu, e Fleming fu costretto a schierarsi con Osborne nella retroguardia.

«Non c’è niente di più bello che sfoggiare il proprio lavoro.»

«È un complimento, a dire la verità,» ribatté Osborne. «Affidato tutto a lei: la conoscenza, l’investimento, la capacità.»

«Poveri pazzi.»

Ma Osborne non era d’accordo. Dopo aver girato attorno al gruppo della memoria, l’intera comitiva si radunò davanti al banco di controllo.

«Ebbene?» chiese Ratcliff.

Fleming raccolse un foglio coperto di cifre.

«Questi,» mormorò, a voce così bassa che quasi nessuno lo udì, «sono gli ultimi gruppi dei dati trovati nel messaggio.»

Reinhart ripeté a voce più alta, prese il foglio e spiegò: «Ci prepariamo a inserire questi dati attraverso l’imboccatura d’ingresso e a mettere in funzione tutto il meccanismo.»

Passò il foglio a Christine che sedette alla telescrivente e cominciò a battere sui tasti. Aveva un aspetto molto capace e attraente, tutti l’ammiravano. Quando ebbe finito Fleming e Bridger girarono degli interruttori e premettero dei pulsanti sul banco di controllo e attesero. Il ministro attendeva. Un ronzio continuo proveniva dal retro del calcolatore, peraltro il silenzio era completo. Qualcuno tossicchiò.

«Tutto a posto, Dennis?» domandò Fleming. Poi le lampade di controllo cominciarono a lampeggiare.

Dapprima la cosa fece un grande effetto. Vennero date delle spiegazioni; in tal modo si poteva osservare il procedere dei dati attraverso la macchina; non appena i calcoli fossero stati completati, i risultati sarebbero stati stampati su quel rotolo di carta…

Ma non accadde nulla; un’ora dopo stavano ancora aspettando. Alle cinque il ministro risalì senza un sorriso sul suo elicottero che si alzò e si allontanò verso sud. Alle sei i visitatori che rimanevano andarono alla stazione per prendere l’ultimo treno per Aberdeen, accompagnati da un Reinhart mortificato e dalle labbra ermeticamente chiuse. Alle otto Bridger e Christine finirono il turno.

Fleming rimase nella sala di controllo deserta, ascoltando il ronzio dell’apparecchio e osservando il pannello che lampeggiava senza interruzione. Judy lo raggiunse non appena poté e sedette accanto a lui al banco di controllo. Fleming non parlava, neppure per imprecare o recriminare, e Judy non trovava nulla di appropriato da dire.

Le lancette dell’orologio a muro stavano avvicinandosi alle dieci quando le lampade del quadro smisero di lampeggiare. Fleming sospirò e fece per avvicinarsi all’apparecchio. Judy gli sfiorò un braccio con la punta delle dita come per confortarlo. Lui si volse per baciarla, e mentre la baciava la stampatrice entrò in azione.


Reinhart si fermò per la notte ad Aberdeen, dove si svolgeva un seminario di università scozzesi. Il seminario era una scusa; non voleva fare il resto del viaggio faccia a faccia con la comitiva educatamente condiscendente di Londra. La sua sola consolazione fu di incontrare una vecchia amica, Madeleine Dawnay, professoressa di chimica a Edimburgo. Era probabilmente la miglior biochimica del paese, meravigliosamente abile, rassicurante e con il fascino, dicevano i suoi allievi, di una provetta piena di pelle secca. Chiacchierarono a lungo, poi lui si ritirò nella sua stanza d’albergo e rimase lì a rodersi.

Il mattino seguente ricevette un telegramma da Thorness: SCALA REALE ALL’ASSO. TORNI SUBITO. FLEMING. Disdisse la prenotazione sull’aereo per Londra, prese il biglietto del treno e ripartì di nuovo verso nord-ovest portando la Dawnay con sé.

«Che significa?» gli chiese quest’ultima.

«Spero proprio che significhi che è accaduto qualcosa. Quell’accidente di apparecchio costa parecchi milioni di sterline e ieri pensavo che saremmo diventati lo zimbello di Whitehall.»

Non sapeva davvero perché portasse con sé la professoressa. Forse per averne un appoggio morale.

Quando telefonò alla base da Thorness per chiedere un’auto e un secondo lasciapassare, la sua chiamata fu passata direttamente nell’ufficio di Quadring.

«Maledetti scienziati,» brontolò Quadring con il suo attendente. «Vanno e vengono come se questa fosse una fiera.»

Prese il lasciapassare che l’attendente aveva compilato e percorse il corridoio fino all’ufficio di Geers. Solitamente era una persona abbastanza cordiale, ma Judy era appena stata da lui per fare rapporto sulla sparatoria e si sentiva irritato e con i nervi a fior di pelle.

«Le dispiacerebbe firmarlo, signore?» Posò il lasciapassare sulla scrivania di Geers.

«Di chi si tratta?»

«È una persona che il professor Reinhart sta portando qui.»

«Ha già controllato chi è questo signore?»

«È una signora, a dire il vero.»

«Come si chiama?» Geers lanciò un’occhiata al documento attraverso le lenti bifocali.

«È la professoressa Dawnay.»

«Dawnay? Madeleine Dawnay?» Lo guardava con rinnovato interesse. «Non c’è da preoccuparsi per lei. Eravamo insieme a Manchester, prima che lei se ne andasse.»

Sorrise, ricordando, mentre firmava la tessera. Quadring si mosse a disagio.

«Non è facile tener d’occhio tutta questa gente del Ministero della Scienza.»

«Finché se ne stanno nei loro alloggi?» Geers gli restituì il lasciapassare.

«Ma non ci stanno.»

«Chi non ci rimane?»

«Uno è Bridger. Va molto spesso all’isola con la sua barca.»

«Gli piace studiare gli uccelli.»

«Pensiamo che si tratti d’altro. A mio parere porta con sé dei documenti.»

«Documenti?» Geers alzò lo sguardo di botto, facendo luccicare gli occhiali. «Ha delle prove?»

«No.»

«Be’, allora…»

«Non potremmo farlo perquisire al molo d’attracco?»

«E se non avesse nulla addosso?»

«Mi stupirebbe.»

«E noi ci faremmo la figura degli stupidi, non le pare?» Geers si tolse gli occhiali e fissò il maggiore con aria poco incoraggiante. «E se avesse qualcosa in ballo lo metteremmo in guardia.»

«Ha senz’altro qualcosa in ballo.»

«Allora trovi dei fatti concreti su cui basarci.»

«Non vedo come sia possibile.»

«È lei il responsabile del Servizio di Sicurezza di qui.»

«Sì, signore.»

Per un istante Geers gli dedicò la sua piena attenzione.

«E che mi dice di Miss Adamson?»

Quadring raccontò.

«Null’altro?»

«Che si sappia, no.»

«Hum.» Ripiegò le stanghette degli occhiali con un colpo secco che chiudeva l’argomento. «Se sta andando all’edificio del calcolatore può dare il lasciapassare alla professoressa Dawnay.»

«Non sto andando là.»

«Allora mandi qualcuno. E le porga i miei saluti. Anzi, se finiscono a un’ora ragionevole potrebbero passare da me per bere un bicchierino.»

«Benissimo, signore.» Quadring si allontanò lentamente dalla scrivania.

«E anche Fleming, direi, se è con loro.»

«Sissignore.»

Giunse alla porta. Geers fissava il soffitto con aria meditabonda, ripensando a Madeleine Dawnay.

«Vorrei che potessimo fare più ricerca fondamentale. Ci si stanca del lavoro di realizzazione.»

Quadring uscì dalla comune.

In conclusione fu Judy a portare il lasciapassare. La Dawnay era nella sala di controllo del calcolatore e Reinhart e Bridger glielo facevano visitare, mentre Christine cercava di rintracciare al telefono Fleming. Judy consegnò il lasciapassare e venne presentata.

«Relazioni pubbliche? Bene, sono contenta che si permette alle ragazze di fare qualcosa,» disse la Dawnay con la sua voce maschile e animata. Fissava tutti con occhi acuti ma non privi di gentilezza. Reinhart si agitò un poco: era più nervoso del solito.

«Che cosa voleva, John?»

«Non lo so,» rispose Judy. «Per lo meno io non ci capisco gran che.»

«Mi ha mandato un telegramma.»

Dopo un minuto Fleming si precipitò dentro.

«Ah, eccoti qua.»

Reinhart gli balzò incontro.

«Cos’è accaduto?»

«È solo?» chiese Fleming guardando gelido la Dawnay.

Un po’ irritato Reinhart fece le presentazioni, e spostava il peso del corpo nervosamente da un piede all’altro mentre la Dawnay interrogava Fleming a proposito del calcolatore.

«Madeleine è perfettamente al corrente.»

«Beata lei. Vorrei esserlo anch’io.» Fleming pescò in tasca un foglio ripiegato e lo diede al professore.

«Di che si tratta?» Reinhart l’apri. Fleming l’osservava divertito come un ragazzino che stia facendo uno scherzo a un adulto. Il foglio portava stampate parecchie righe di cifre.

«Quando le ha stampate?» chiese Reinhart.

«Ieri notte, dopo che lei se n’era andato. Judy e io eravamo qui.»

«Non me l’avevi detto,» intervenne Bridger in tono di rimprovero.

«Te n’eri già andato.»

Alla vista delle cifre Reinhart si accigliò: «Ha un qualche significato per te?»

«Non lo riconosce?»

«Non posso dire di sì.»

«Non è la spaziatura relativa dei livelli di energia nell’atomo di idrogeno?»

«Davvero?» Reinhart passò il foglio alla Dawnay.

«Vuoi dire,» chiese Bridger, «che all’improvviso si è messo a stampare questo?»

«Sì, potrebbe essere.» La Dawnay scorreva lentamente con lo sguardo le cifre. «Sembrano le frequenze relative. Che cosa straordinaria.»

«Tutta la cosa è un po’ fuori dal comune,» commentò Fleming.

La Dawnay rilesse le cifre e annuì.

«Non capisco bene.» Judy si domandava se non fosse insolitamente ottusa.

«Sembra che qualcuno lassù,» la Dawnay indicò il cielo, «si sia dato un gran daffare per dirci quello che già sappiamo sull’atomo di idrogeno.»

«Se è tutto qui.» Judy guardò Fleming che non diceva nulla. Madeleine Dawnay si rivolse a Reinhart.

«È un po’ una delusione.»

«Per me non è una delusione,» ribatté calmo Fleming. «È un punto di partenza. Il problema è questo: vogliamo andare avanti?»

«Come potete andare avanti?» chiese la Dawnay.

«Be’, l’idrogeno è l’elemento comune a tutto l’universo, no? Di conseguenza questa è una cognizione, anche se molto semplice, universale. Se non la riconoscessimo nella macchina non ci sarebbe nessun elemento che le permetta di andare avanti. Ma se noi la riconosciamo può procedere alla domanda seguente.»

«Quale domanda seguente?»

«Non lo sappiamo ancora. Ma questo, ci scommetto, è una prima mossa di un gioco molto lungo di domande e risposte.» Le tolse di mano il foglio e lo passò a Christine. «Inseriscilo.»

«Davvero?» Christine passò lo sguardo da lui a Reinhart.

«Davvero.»

Reinhart rimase in silenzio, ma qualcosa in lui era mutato. Non era più scoraggiato, e i suoi occhi guizzavano vivaci. Mentre tutti gli altri formavano un gruppo silenzioso e pensieroso, Christine sedette alla telescrivente d’entrata e Bridger armeggiò al banco di controllo.

«Adesso,» disse. Era, se possibile, più silenzioso di Fleming e Judy non riusciva a decidere se era geloso, apprensivo, o se soltanto cercava, come gli altri, di risolvere il problema.

Christine batteva rapidamente sulla tastiera, e il calcolatore continuava a ronzare dietro i suoi pannelli di metallo. Si sentiva incombere la sua presenza massiccia, indifferente, in attesa. La Dawnay guardava le file di comparti blu, le luci che lampeggiavano ritmicamente con meno timore di quello provato da Judy, ma con interesse.

«Domande e risposte: ci crede, lei?»

«Se lei se ne stesse lassù, tra le stelle, non potrebbe chiederci direttamente quel che sappiamo, ma questo coso sì.» Fleming indicò le attrezzature di controllo del calcolatore. «Se partiamo dall’idea che sia progettato e programmato appunto per fare questo lavoro per conto loro.»

La Dawnay si rivolse nuovamente a Reinhart. «Se il dottor Fleming è sulla strada giusta, siete davvero in possesso di qualcosa di terribile.»

«Fleming ha un istinto particolare per queste cose,» disse Reinhart guardando Christine.

Quando questa ebbe terminato di battere non accadde nulla. Bridger muoveva le manopole del banco di controllo mentre gli altri aspettavano. Fleming pareva perplesso.

«Che succede, Dennis?»

«Non so.»

«Potresti esserti sbagliato,» disse Judy.

«Non ci siamo ancora sbagliati.»

Un attimo dopo le lampade sul quadro di controllo cominciarono ad accendersi e spegnersi e un minuto più tardi la stampa-dati di uscita entrò rumorosamente in azione. Le si radunarono tutti intorno, guardando la larga striscia bianca di carta che si svolgeva dal suo rullo, coperta da righe e righe di cifre.


In uno dei lunghi e bassi mobili dell’ufficio di Geers era installato un mobile bar. Il direttore posò quattro bicchieri sul ripiano ed estrasse dallo scaffale inferiore una bottiglia di gin.

«Quel che Reinhart e i suoi ragazzi stanno facendo è molto emozionante.» Indossava il suo secondo miglior vestito ma sfoggiava i suoi modi più raffinati a beneficio della Dawnay. «Un piccolo contrattempo, ieri, ma penso che ora tutto sia in perfetto ordine.»

La Dawnay, sprofondata in una poltrona, levò lo sguardo e fissò Reinhart negli occhi. Geers, intento a versare del bitter in un bicchiere, continuava a chiacchierare.

«Non abbiamo altro che ferraglia, a dire il vero, qui in questo deserto. Costruiamo una buona parte della missilistica nazionale, questo è vero, e c’è un sacco di materiale complesso che viene usato da noi, ma non mi spiacerebbe rivestirmi dei vecchi panni e tornare al lavoro di laboratorio. È abbastanza?»

Depose il bicchiere che aveva riempito sulla scrivania, al livello degli occhi della Dawnay. La base dei bicchieri era coperta da un tessuto di cellulosa per impedire che lasciassero il segno.

«Bene, grazie.» La Dawnay riusciva appena a vedere e toccare il bicchiere senza alzarsi. Geers frugò nel bar in cerca di un’altra bottiglia. «E per lei, Reinhart, dello sherry?» Lo sherry venne versato. «È così seccante stare dietro una scrivania da direttore… Cin cin… Che bello rivederla, Madeleine. Di che cosa si è occupata?»

«DNA, cromosomi, l’origine della vita.» La Dawnay parlava in tono burbero. Rimise il bicchiere sulla scrivania e accese una sigaretta soffiando il fumo dal naso come un uomo. «Mi sono ficcata in una strada senza uscita. Me ne stavo giusto andando via per riflettere un po’ quando ho incontrato Ernest.»

«Resti qui a riflettere.» Geers le rivolse un simpatico sorriso che subito cancellò. «Dove si è cacciato Fleming?»

«Avrà finito tra un minuto,» rispose Reinhart.

«Quel suo ragazzo è veramente in gamba, anche se è così maldestro,» osservò Geers. «In realtà tutto il suo gruppo, nell’insieme, è un po’ maldestro, no?»

«Ma abbiamo anche ottenuto dei risultati.» Reinhart non si scaldava. «La macchina ha cominciato a stampare.»

Geers alzò le sopracciglia.

«Dice davvero? E che cosa stampa?»

Glielo spiegarono.

«Molto strano. Davvero molto strano. E cosa è accaduto quando avete inserito la risposta?»

«Ne è uscita una massa enorme di cifre.»

«Che cosa sono?»

«Non ne ho la più pallida idea. Le abbiamo studiate ma per ora…» Reinhart si strinse nelle spalle.

Fleming entrò, accennando appena a bussare.

«Sono capitato giusto?»

«Entri, entri,» invitò Geers, come se parlasse a uno studente promettente ma goffo. «Sete?»

«Quando non ne ho?»

Fleming portava i fogli usciti dalla stampa-dati. Li buttò sulla scrivania per prendere il bicchiere.

«Niente di bello?» chiese Reinhart.

«Assolutamente niente. O c’è qualcosa di sbagliato nel calcolatore o c’è qualcosa di sbagliato in noi.»

«È questo l’ultimo materiale?» chiese Geers rimettendo in ordine i fogli e chinandosi a guardarli. «Ci dovrà far sopra un sacco di analisi, vero? Se possiamo aiutarla in qualche modo…»

«Dovrebbe essere semplice.» Fleming era remissivo e preoccupato, come se tentasse di vedere qualcosa che continuava a sfuggirgli. «Sono sicuro che deve esserci qualcosa di molto semplice. Qualcosa che dovremmo riconoscere.»

«C’era una parte, qui…» Reinhart prese i fogli e li scorse in cerca di qualcosa. «Mi sembra vagamente familiare. Dia un’altra occhiata a quella parte, Madeleine.» La Dawnay ubbidì.

«Che cosa si aspetta?» chiese Geers a Fleming versandogli da bere.

«Non so. Non so ancora quale sia il gioco.»

«Non l’interesserebbe l’atomo di carbonio, vero?» Con un accenno di sorriso la Dawnay sollevò lo sguardo.

«L’atomo di carbonio!»

«Non è espresso così come lo esprimeremmo noi: ma potrebbe essere la descrizione della struttura del carbonio.» Soffiò il fumo dal naso. «Era questo che lei voleva dire, Ernest?»

Reinhart e Geers si chinarono di nuovo sui fogli.

«Io sono un po’ arrugginito, a dir la verità,» commentò Geers.

«Ma potrebbe essere così, no?»

«Sì, potrebbe essere. Ma mi chiedo se è tutto qui.»

«Non ci sarà nient’altro,» rispose Fleming. Pareva molto sicuro e non più preoccupato. «Considerate la storia fin dal principio. Pensate alla domanda sull’idrogeno. Ci sta chiedendo a che tipo di vita apparteniamo. Tutte queste altre cifre rappresentano altri modi possibili di creare esseri viventi. Ma noi, su questi, non sappiamo nulla, perché la vita sulla Terra è basata sull’atomo di carbonio.»

«Be’, può essere una teoria,» mormorò Reinhart. «E adesso che facciamo? Introduciamo in risposta le cifre che si riferiscono al carbonio?»

«Se vogliamo che quello sappia di che cosa siamo fatti, non se ne dimenticherà.»

«Presuppone forse che abbia un’intelligenza?» domandò Geers che non aveva tempo per le fantasticherie.

«Senta,» Fleming gli si rivolse. «Il messaggio da noi captato ha fatto due cose: ha stabilito un progetto, e poi ci ha dato moltissime informazioni basilari da mettere nel calcolatore quando l’avessimo costruito. Noi non sapevamo allora cosa fossero quelle informazioni, ma cominciamo a saperlo ora; con quello che c’era nel programma originario e con quello che gli abbiamo detto noi, quello può ottenere tutte le cognizioni che desidera sul nostro conto, e imparerà ad agire di conseguenza. Se questa non è un’intelligenza, non so proprio cosa sia.»

«È una macchina molto utile,» commentò la Dawnay.

Fleming si rivolse a lei.

«Solo perché non è fatto di protoplasma, nessun chimico riesce a considerarlo come un essere pensante.»

La Dawnay sospirò.

«Di che hai paura, John?» chiese Reinhart.

«Dei suoi fini. Non è stata messa qui per divertimento. Né per il nostro bene.»

«Lei è un po’ nevrotico a questo proposito,» disse la Dawnay.

«Pensa?»

«Vi è stata offerta una fortuna inaspettata. Sfruttatela.» La donna si rivolse a Reinhart. «Se usate il metodo del dottor Fleming e vi introducete la formula del carbonio può darsi che otteniate qualche altra cosa. Può darsi che riusciate a ottenere strutture più complicate, e avete una meravigliosa macchina per elaborarle. Tutto qui. Applicatelo.»

«John?» Reinhart si rivolse a Fleming.

«Può fare a meno di contare su di me.»

«Vuole occuparsene lei, Madeleine?» chiese il professore.

«Perché non lei?» gli chiese la donna.

«Dall’astronomia alla biosintesi è un passo molto lungo. Se la sua università potesse privarsi di lei…»

«Possiamo ospitarvi.» Geers, quando si muoveva, si muoveva in fretta. «Ha confessato di essere a un punto morto.»

La Dawnay rifletteva.

«Ci starebbe a lavorare con me, dottor Fleming?»

Fleming scosse il capo. «C’è qualcosa a cui dobbiamo pensare bene prima ancora di cominciare.»

«Non la vedo così.»

«Sono giunto dove volevo. Andare oltre, in realtà, vorrebbe dire solo dimostrare che sono in grado di portare a termine la cosa. Ma per me la strada finisce qui.»

Reinhart aprì la bocca per parlare ma Fleming si volse per uscire.

«D’accordo,» disse Reinhart. «Vuole occuparsene lei, Madeleine?»

Presero gli ultimi accordi dopo che Fleming se ne fu andato.


La Dawnay si trasferì alla base la settimana seguente e si mise al lavoro al calcolatore: l’aiutavano Bridger e Christine e Geers ora era pieno di entusiasmo e di attenzioni. Fleming tornò a Londra e Judy non ricevette sue notizie: essendo un ufficiale in servizio, legata a un giuramento, Judy doveva restare dove le era stato ordinato. In un certo senso era un sollievo essere libera da quella loro equivoca relazione. Dopo quell’unica notte nella villetta di Fleming la ragazza lo aveva tenuto, per quanto possibile, a distanza; era divisa tra l’istinto, che la spingeva ad amarlo, e la netta sensazione di non volere che lui la scambiasse per qualcosa che lei non era. Almeno, mentre era via, Judy non doveva fare rapporto su di lui, ma solo su Bridger, e questo le costava meno.

Bridger non offrì indizi a nessuno. Judy si tenne lontana dalla brughiera e le pattuglie di Quadring non scoprirono nulla. Bridger stesso si faceva sempre più triste e riservato. Lavorava con la solita competenza, ma senza entusiasmo, e passava i ritagli di tempo osservando le ultime migrazioni di uccelli dai nidi di Thorholm.

L’autunno si incupiva nell’inverno. Di ritorno a Londra, Fleming si mise a studiare l’intero messaggio, e tutti i suoi calcoli originali. A Bouldershaw Fell continuavano a intercettare il segnale. Ma ormai era soltanto routine. Il codice era sempre lo stesso; Fleming non riusciva a trovare in tutto il suo lavoro nulla che indicasse quello che temeva.

A Thorness la Dawnay faceva dei progressi notevoli.

«Quel ragazzo aveva ragione su un punto,» diceva a Reinhart. «La storia delle domande e delle risposte. Introduciamo le cifre dell’atomo di carbonio e immediatamente la macchina comincia a stampare roba sulla struttura delle molecole proteiniche.»

Quando ebbe introdotto nuovamente tali informazioni, la macchina cominciò a porre un numero di domande sempre maggiore. Presentava le formule di una grande varietà di strutture basate sulle proteine e voleva chiaramente che le venissero fornite informazioni in maggior quantità su tale argomento. La Dawnay mise al lavoro il suo reparto di Edimburgo, e a risultato della collaborazione reintrodussero nella macchina tutto quello che era conosciuto sulla formazione delle cellule. Prima della fine dell’anno la macchina aveva dato loro la struttura molecolare dell’emoglobina.

«Perché l’emoglobina?» chiese Judy che aveva seguito a Edimburgo la Dawnay nel tentativo di capire quello che accadeva.

«L’emoglobina del sangue porta il rifornimento di elettricità al cervello.»

«E vi ha offerto questa alternativa a un’intera serie di altre?» chiese Reinhart. Si erano incontrati tutti e tre nello studio della Dawnay, in uno dei vecchi grigi palazzi dell’università; Madeleine aveva spiegato loro che desiderava un benestare del Ministero.

«Sì,» confermò. «Come prima. E abbiamo reintrodotto anche questa.»

«Dunque ora la macchina sa come funziona il nostro cervello?»

«Conosce molto più di questo, oggi come oggi.»

Reinhart si strofinava il mento.

«Ma perché diavolo vuole saperlo?»

«Lei è sotto l’influenza di Fleming, vero?» lo rimproverò la Dawnay. «Non è che ‘voglia sapere’ qualcosa. Si limita a calcolare delle risposte logiche da informazioni che noi stessi le diamo e da quelle che già possiede. Perché è una macchina calcolatrice.»

«È tutto qui?» Judy, per quel poco che ne sapeva, condivideva i dubbi di Reinhart.

«Cerchiamo di essere scientifici in questa faccenda,» aggiunse la Dawnay. «Non mistici.»

«Professor Reinhart, lei…»

Reinhart pareva a disagio. «Fleming direbbe che la macchina vuole sapere con che tipo di intelligenza ha a che fare, che tipo di calcolatori siamo, quanto è grande il nostro cervello, come lo nutriamo, in che tipo di creatura il nostro cervello vive.»

«Il giovane Fleming ha dei disturbi emotivi, se vuole sapere il mio parere,» disse la Dawnay; accennò agli scaffali colmi di incartamenti e documentazioni. «Abbiamo tanto materiale ora che quasi ci affoghiamo, ma ho una mezza idea di quel che si tratta, ed è per questo che volevo vederla. Penso che ci abbia dato il progetto di base per una cellula vivente.»

«Una che?»

«Non che ci serva a qualcosa. C’è questa enorme quantità di numeri: è troppo complesso perché li possiamo mai capire completamente.»

«E perché?»

«Ma guardi che razza di roba. Possiamo riconoscere degli stralci di strutture cromosomiche e così via, ma ci vorrebbero anni per analizzare tutto.»

«Se questo è quel che dobbiamo fare.»

«Cosa intende dire?»

Reinhart si sfregò nuovamente il mento. C’era in lui qualcosa di molto confortevole e umano anche quando era immerso nelle sue riflessioni.

«Voglio parlare a Fleming e a Osborne,» disse.

Alla fine li riunì nell’ufficio di Osborne. A quel punto aveva tutti gli elementi in mano e voleva che si agisse. Fleming sembrava invecchiato e stanco, come se la molla dentro di lui si fosse allentata. Aveva il viso segnato, gli occhi iniettati di sangue.

Osborne se ne stava elegantemente appoggiato allo schienale e ascoltava Reinhart.

«La professoressa Dawnay si trova per le mani quella che sembra essere la struttura cromosomica dettagliata di una cellula.»

«Una cellula vivente?»

«Sì. È qualcosa che non abbiamo mai conosciuto prima: l’ordine in cui sono disposte le molecole di acido nucleico.»

«Allora potreste davvero costruirne una?»

«Se possiamo usare come controllo il calcolatore, e se possiamo costruire un dispositivo chimico che agisca sulle istruzioni non appena vengano fuori — di fatto, insomma, se possiamo costruire un sintetizzatore di DNA — allora penso che si possa cominciare a costruire un tessuto vivente.»

«È quello che i biologi cercano di fare da anni, vero?»

«Volete davvero permettergli di costruire un organismo vivente?» domandò Fleming.

«La Dawnay vuole tentare,» rispose Reinhart. «Fleming non vuole. Che facciamo?»

«Perché non vuole, lei?» chiese Osborne a Fleming con aria indifferente, come se si trattasse di una faccenda qualsiasi.

«Perché siamo stati spinti in questa storia da una specie di costrizione esterna,» rispose Fleming stancamente. «È quello che continuo a ripetere dal giorno in cui abbiamo costruito quell’apparecchio dell’accidente, e non c’è nulla che possa farmi cambiare idea. Madeleine Dawnay immagina che si possa sfruttare quella macchina come se si trattasse di una qualsiasi attrezzatura dà laboratorio: è una bella ottimista. Se vuole giocare alla sintesi di DNA se ne stia a farsela nella sua università. Non lasciatele usare il calcolatore. Oppure, se proprio dovete, almeno, ner prima cosa, toglietegli la memoria.»

«Reinhart?» Osborne si rivolse languidamente al professore. Qualsiasi impressione Fleming gli avesse fatto, non la diede a vedere.

«Non so,» mormorò Reinhart. «Davvero non so. Proviene da un’intelligenza straniera, ma…»

«Possiamo sempre togliere la corrente?…» concluse Fleming per lui. «Senta, l’abbiamo costruito per provare il contenuto del messaggio. È così? Bene, lo abbiamo dimostrato, lo abbiamo messo in azione per scoprire i suoi fini. Ora conosciamo anche questi.»

«Davvero?»

«Io lo so. È una quinta colonna intellettiva che proviene da un altro mondo, da un’altra forma di esistenza. Ha in se stessa il germe della vita, ma anche il seme della distruzione.»

«Ma lei ha qualche elemento per affermarlo?» chiese Osborne.

«Niente di tangibile.»

«E allora come possiamo…?»

«E va bene, andate pure avanti!» Fleming si alzò dirigendosi alla porta. «Andate avanti e vedrete quel che accadrà. Ma non venite poi a piangere da me.»

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