3 Approvazione

Il nuovo istituto di elettronica era situato in una piazza che un tempo era stata in stile Reggenza, ora riservata ai pedoni, circondata da alti edifici in vetro e cemento, dalle facciate di marmo. L’istituto possedeva parecchi piani riservati agli apparecchi calcolatori, e dopo laboriosi intrighi di corridoio Reinhart riuscì a ottenere per Fleming un’amnistia e a installarvi, con la possibilità di usare gli strumenti, lui e il resto della squadra. A Bridger, poiché si avvicinava il termine del suo contratto, fu data una giovane assistente che si chiamava Christine Flemstad, e Judy, con disgusto suo e di tutti gli altri, venne ancora destinata a loro.

«Accidenti,» borbottava Fleming, «a cosa serve un addetto alle public relations se rappresentiamo un segreto di stato così stramaledetto che non possiamo guardarci nello specchio neanche per lavarci i denti?»

«Dovrei venire a sapere di che si tratta, se me lo permetterete, in modo che quando la cosa sarà divulgata…»

«Lei dovrà essere al corrente?»

«Le spiace?» Il tono di Judy era incerto, come se fosse lei e non Fleming a essere da biasimare per primo. Si sentiva legata a lui da un vincolo inspiegabile.

«Non c’è da preoccuparsi!» commentò Fleming. «Più donne ci sono meglio è.»

Ma, come aveva già annunciato a Bouldershaw, non aveva tempo. Passava tutte le sue giornate e buona parte della notte riducendo a cifre comprensibili l’enorme massa di dati del telescopio. Qualsiasi accordo avesse preso lui, o Reinhart avesse preso per lui, l’aveva reso più controllato e aveva intensificato le sue capacità lavorative. Guidava Bridger e la ragazza con determinazione solida e costante, e sopportava pazientemente ogni supervisione e ogni routine. Formalmente l’incaricato era Reinhart, e Fleming gli portava obbedientemente tutti i risultati: ma quelli della Difesa non erano mai lontani e Fleming cercava perfino di essere gentile con Watling, che soprannominarono «ali d’argento.» Il resto della squadra era meno soddisfatto. Tra Bridger e Judy c’era un’evidente freddezza. E Bridger, comunque, attendeva con impazienza il momento in cui se ne sarebbe andato; Christine aveva chiaramente tutte le possibilità di succedergli. Era giovane e bella e quanto a serietà sul lavoro assomigliava a Fleming, e senza possibilità d’equivoco considerava Judy una seccatrice. Appena ne aveva la possibilità le dichiarava battaglia.

Poco tempo dopo che avevano lasciato Bouldershaw, Harries era stato ritrovato: Watling Io rivelò in una delle sue visite alla squadra. Harries era stato assalito nella casa dell’allibratore, legato in un’auto, picchiato e abbandonato in un mulino fuori uso, dove era stato lì lì per morire. Aveva vagato con una gamba rotta, senza poter uscire, vivendo dell’acqua che gocciava da un rubinetto e di un po’ di cioccolata che aveva in tasca, finché, dopo tre giorni, era stato trovato da un bracconiere. Non tornò tra loro, e Watling raccontò solo a Judy i particolari. La ragazza se li tenne per sé, ma cercò di sondare Christine sul passato di Bridger.

«Da quanto tempo lo conosce?»

Erano in un piccolo edificio, esterno alla sala del calcolatore principale. Christine lavorava a un piccolo cavalletto, immersa in un gran disordine di schede perforate; Judy gironzolava attorno, desiderando avere una sedia sua personale.

«Ero sua compagna di ricerche a Cambridge.» Nonostante i suoi genitori fossero di origine baltica, Christine parlava come una ragazza inglese di buona cultura.

«Lo conosceva bene?»

«No. Se desidera il suo curriculum accademico…»

«Mi chiedevo soltanto…»

«Che cosa?»

«Se non si sia mai comportato in modo… strano.»

«Be’, non ho mai dovuto portare una cintura di castità.»

«Non volevo dire questo.»

«E che voleva dire, allora?»

«Non le ha mai chiesto di aiutarlo a fare qualcosa, collateralmente?»

«Perché mai avrebbe dovuto?» Si rivolse a Judy e la guardò con occhi severi e ostili. «Alcuni di noi hanno un vero lavoro da portare avanti.»

Judy si diresse alla sala del calcolatore e osservò le macchine che ticchettavano e vibravano. Ogni macchina aveva il proprio tecnico, uomini e donne dall’aspetto assolutamente neutro, vestiti di camici identici. Al centro un lungo tavolo, sul quale i calcoli che uscivano dal calcolatore venivano ammonticchiati in pile di schede perforate e rotoli di nastro registrato e lunghe strisce di carta provenienti dalle stampatrici. La quantità di cifre contemplata dal calcolatore era incredibile, e pareva assolutamente estraneo a qualsiasi elemento umano: era un insieme di macchinari che parlava un suo gergo privato.

Judy aveva imparato un po’ di quanto stava facendo la squadra. Il messaggio di Andromeda era continuato per parecchie settimane, senza ripetersi, poi era ritornato al punto di partenza e aveva ricominciato tutto una seconda volta. Questo li aveva messi in grado di riempire la maggior parte delle lacune della prima trasmissione: poiché la Terra girava, si poteva ricevere il messaggio solo nelle ore in cui l’emisfero occidentale si trovava di fronte alla costellazione di Andromeda, e per dodici ore su ventiquattro la sorgente si trovava sotto la linea dell’orizzonte. Quando il messaggio ricominciò per la seconda volta, la rotazione della Terra era in un diverso rapporto rispetto alla costellazione di Andromeda, così che si poteva ricevere parte dei passaggi che erano andati perduti; e alla fine della terza ripetizione lo ebbero tutto. Il personale di Bouldershaw Fell continuava a intercettare, ma non si aveva alcun mutamento. Quale che fosse la sorgente aveva una cosa ben precisa da dire e insisteva nel dirla.

Nessuno degli iniziati ormai dubitava più che si trattasse di un messaggio; persino il reparto del commodoro Watling faceva riferimento a esso come alla «trasmissione di Andromeda,» quasi che la sorgente e l’identità del messaggio fossero fuori discussione. Il lavoro su questo messaggio veniva catalogato come progetto A. Era un messaggio molto lungo e i punti e le linee, una volta tradotti in linguaggio matematico comprensibile, ammontavano a parecchi milioni di lunghi gruppi di cifre. Senza i calcolatori il passaggio a forma normale avrebbe richiesto una vita: e anche con questi richiedeva parecchi mesi. A ogni macchina era stato insegnato cosa fare delle informazioni che le venivano date: e questo, aveva imparato Judy, si chiamava programmazione. Una programmazione consisteva in un insieme di calcoli introdotti su schede perforate, che facevano fare alla macchina il lavoro richiesto. Vi veniva poi introdotto il gruppo di cifre che dovevano essere analizzate, i dati, cioè, e la macchina nel giro di pochi secondi dava la risposta. Questo processo doveva venire ripetuto per l’esame di ogni nuovo gruppo di cifre. Fortunatamente i calcolatori più piccoli potevano venire usati per preparare il materiale per quelli più grandi, e tutte le macchine possedevano, oltre all’unità di ingresso, di controllo, di calcolo e di uscita, una notevole memoria, cosicché le nuove risposte potevano venire basate sull’esperienza di quelle precedenti.

Era Reinhart, gentile, tollerante, saggio e pieno di tatto, che aveva spiegato la maggior parte di ciò a Judy. Dopo l’episodio di Bouldershaw, accettava più cordialmente la sua presenza, e aveva cominciato a dimostrarle una certa simpatia, facendole capire che gli spiaceva la situazione in cui lei si trovava. Sebbene fosse preso fino al collo dai fragili rapporti tra i reparti che permettevano loro di portare avanti il lavoro, in quel periodo le sue spiccate doti di capo erano particolarmente in evidenza. In qualche modo riuscì a tenere Fleming nei giusti binari, e a tenere a bada le autorità, e, ciò nonostante, aveva ancora il tempo di occuparsi delle idee e dei problemi di ciascuno; nel frattempo restava discretamente in secondo piano, passando di problema in problema come un angelo custode silenzioso, efficiente e molto penetrante.

Era solito prendere Judy per un braccio e parlarle con molta semplicità di quel che stava facendo, come se avesse moltissimo tempo a disposizione e una preparazione eccezionale. Ma per farle capire il calcolatore giunse a un punto al quale dovette rivolgersi a Fleming, e Fleming proseguì da solo. I calcolatori, comprese Judy, erano il primo e grande amore di Fleming, ed egli comunicava con loro per mezzo di una magica facoltà di intuizione.

Non c’era nulla di strano in lui; solo possedeva una facilità sovrumana per il loro linguaggio. Diguazzava nella matematica in base due come un pesce nel mare e operava dei brevi tagli logici che risparmiavano a Bridger e a Christine le parecchie ore necessarie al controllo; ma non lo colsero mai in errore.

Un giorno, poco prima di quando Bridger sarebbe dovuto partire, Reinhart li sequestrò per una seduta più lunga del solito, alla fine della quale andò dritto al Ministero. Il giorno dopo il professore e Fleming tornarono insieme a Whitehall.

«Ci siamo tutti?»

La voce equina di Osborne nitriva per tutta la lunghezza della sala delle conferenze. Attorno alla lunga tavola stavano circa trenta persone, a gruppi, chiacchierando. Sulla lucida superficie di mogano erano disposti, a intervalli, taccuini, blocchi di fogli, e matite; e al centro del tavolo erano preparati dei vassoi d’argento carichi di brocche d’acqua e bicchieri. A un capo del tavolo c’era un blocco più grande, dagli angoli ricoperti di cuoio bulinato, per l’Uomo Importante.

Vandenberg e Watling erano in un gruppo, Fleming e Reinhart in un altro, e un rispettoso circolo di funzionari statali in abito grigio scuro circondava un’abbagliante matrona dall’abito a fiori. Osborne, con aria esperta, li teneva d’occhio, poi fece cenno al più giovane degli uomini in grigio, che stava in piedi dietro alla porta. Il giovane sparì nel corridoio e Osborne prese posto a capotavola. «Ehm,» nitrì. Gli altri occuparono i propri posti e Vandenberg, su invito di Osborne, sedette alla destra del posto principale. Fleming, accompagnato da Reinhart, sedette con ostentazione all’estremità opposta. Ci fu un istante di silenzio, poi la porta si spalancò e James Robert Ratcliff, ministro della Scienza, entrò. Fece con la mano un cenno affabile a uno o due giovani che accennavano ad alzarsi. «Comodi, comodi,» e prese posto dietro la cartelletta lavorata. Aveva una nobile testa dai capelli grigi, forse eccessivamente elegante, e viso e mani dal colorito sano. Le dita erano molto forti, quadrate, capaci. Sorrise cordialmente all’assemblea.

«Buon giorno, signore e signori; spero di non essere in ritardo.»

I più nervosi scossero il capo, mormorando di no.

«Come sta, generale?» Ratcliff si rivolse a Vandenberg con un gesto che ricordava vagamente Cesare.

«Vecchio e malato,» rispose Vandenberg che non era né una cosa né l’altra.

Osborne tossicchiò. «Vuole che faccia qualche presentazione?»

«Grazie. Vedo delle facce nuove.»

Osborne conosceva il nome di tutti e il ministro elargiva a ciascuno un grazioso cenno del capo o un gesto della mano. Si scoprì che l’infiorata primadonna era una certa Mrs. Tate-Allen, rappresentante della commissione finanziatrice. Quando giunsero a Fleming la reazione del ministro cambiò.

«Ah… Fleming, non più indiscrezioni, spero.»

Fleming gli lanciò una torva occhiata.

«Ho tenuto la bocca chiusa, se è questo che vuol dire.»

«Proprio questo.» Ratcliff ebbe un sorriso affascinante e passò oltre, a Watling.

«Cercheremo di non sprecare troppo tempo.» Sollevò la sua bella testa da antico romano e guardò il professor Reinhart all’altro capo del tavolo.

«Ha qualche bella notizia per noi, professore?»

Reinhart tossicchiò diffidente, dietro la sottile mano esangue.

«Il qui presente dottor Fleming ha fatto un’analisi.»

«Mi scusi.» Mrs. Tate-Allen sorrise radiosa. «Ma non credo che sia stata chiarita esattamente la posizione del qui presente Mr. Newby.»

Mr. Newby era un ometto piccolo, esile, che pareva abituato alle umiliazioni.

«Oh, giusto, forse dovreste colmare le lacune, Osborne.»

Osborne eseguì.

«E ora?»

Venti paia di occhi, compresi quelli del ministro, si posarono su Fleming.

«Sappiamo di che si tratta.»

«Oh, bene,» esclamò Mrs. Tate-Allen.

«Di che si tratta?»

Fleming guardò, tranquillo, il ministro.

«Si tratta del programma di un calcolatore,» spiegò pacatamente.

«Il programma per un calcolatore, ne è ben sicuro?»

Fleming si limitò ad annuire. Tutti gli altri parlavano.

«Per piacere, signori,» gridò Osborne, lasciando cadere un pugno sulla tavola.

La confusione si placò. Mrs. Tate-Allen alzò una mano guantata di blu.

«Temo, Eccellenza, che alcuni di noi non sappiano cos’è il programma di un calcolatore.»

Mentre Fleming spiegava, Reinhart e Osborne si appoggiarono allo schienale della sedia e respirarono, sollevati. Il ragazzo si stava comportando bene.

«L’avete provato su un calcolatore?» chiese Mrs. Tate-Allen.

«Abbiamo usato dei calcolatori per decifrarlo. Non abbiamo nulla che possa comprenderlo tutto.» Si batté i fogli contro la fronte. «E questo non è molto ampio.»

«Se aveste la possibilità di usare un calcolatore più grande…» suggerì Osborne.

«Non è solo questione di dimensioni. Si tratta in realtà di qualcosa di più di un semplice programma.»

«Di che si tratta, allora?» chiese Vandenberg, sistemandosi più comodamente sulla sua sedia. Gli si prospettava una seduta piuttosto lunga.

«È in tre sezioni.» Fleming sistemò i suoi fogli come se questo rendesse la cosa più chiara. «La prima parte è una progettazione, o piuttosto è un’impostazione matematica che può essere interpretata come una progettazione. La seconda parte è il programma vero e proprio, il codice normale, come lo chiamano. La terza e ultima parte sono i dati, cioè le informazioni mandate affinché la macchina ci lavori su.»

«Sarei lieto di poter…» Vandenberg tese una mano e i fogli gli vennero passati. «Non dico che abbia torto. Ma vorrei che il nostro personale delle segnalazioni controllasse il vostro procedimento.»

«Faccia pure,» assentì Fleming. Appena i fogli cominciarono a girare attorno al tavolo, si fece un rispettoso silenzio, ma ovviamente Mrs. Tate-Allen sentiva che era necessario un qualche commento.

«Interessantissimo, devo dire.»

«Interessante?» Fleming pareva sul punto di esplodere. Reinhart gli strinse il braccio con forza. «È la cosa più importante che sia avvenuta dall’evoluzione del cervello in poi.»

«Bene, John,» mormorò Reinhart. Il ministro proseguì.

«Che conta di fare, ora?»

«Costruire un calcolatore che possa elaborarlo.»

«Sta davvero esponendo la possibilità,» Sua Eccellenza parlava lentamente, scegliendo con attenzione le parole, come se fossero dei cioccolatini, «che qualche altra creatura, in qualche lontana zona della galassia, qualche essere che non ha mai avuto prima alcun contatto con noi, ci abbia ora mandato, a tutto nostro vantaggio, il progetto e il programma per il tipo di macchina elettronica…»

«Sì,» confermò Fleming. Sua Eccellenza proseguì: «… che noi per caso possediamo sulla Terra?»

«Non la possediamo.»

«Possediamo il tipo, se non il modello. Le par probabile?»

«È così.»

Fleming faceva un’impressione piuttosto dubbia sull’uditorio. Tipi del genere li avevano visti altre volte. Giovani scienziati genialoidi, ostinati e irritabili, che non sopportavano i processi delle commissioni e che tuttavia andavano trattati con grande pazienza, perché forse avevano nella loro personalità qualcosa di valido. Questi ufficiali facilmente caricaturabili non erano pazzi: erano abituati a giudicare la gente e le situazioni. Molto dipendeva da quello che pensavano Reinhart, Vandenberg e Osborne. Ratcliff si rivolse interrogativamente al professore.

«L’aritmetica è universale,» mormorò il professore, «e così può essere per il calcolo elettronico.»

«Può essere l’unica forma di calcolo, in ultima analisi…» interferì Fleming. Vandenberg alzò lo sguardo dai fogli.

«Mi chiedo…»

«Guardi.» Fleming lo interruppe. «Il messaggio continua a essere ripetuto. Se ha un’idea migliore, vada a lavorarci su.»

Reinhart, a disagio, lanciò un’occhiata di sottecchi a Osborne che stava sorvegliando l’andamento della partita come l’arbitro di un incontro di cricket.

«Non si può usare una macchina già esistente?» chiese Osborne.

«Ho già detto di no.»

«Sembra una domanda abbastanza ragionevole,» osservò mitemente Sua Eccellenza. Fleming gli si rivolse appassionatamente.

«Questo programma è davvero enorme. Non mi pare che lei comprenda il problema fino in fondo.»

«Allora spiega, John,» esortò Reinhart.

Fleming prese fiato e continuò con più calma. «Se volete che un calcolatore vi dia dei risultati decenti, deve essere in grado di accogliere un programma di circa cinquemila gruppi di istruzioni. Se volete che giochi a scacchi, e potete farlo giocare a scacchi — io ho giocato a scacchi con dei calcolatori, — dovete riempirlo con circa quindicimila istruzioni. Per manipolare questo materiale,» accennò ai fogli davanti a Vandenberg, «avete bisogno di un calcolatore che possa contenere un miliardo, o, più precisamente, decine di miliardi di cifre, prima ancora che possa cominciare a lavorare sui dati.»

Finalmente l’uditorio gli aveva concesso la sua piena attenzione: questa era l’apparizione fugace di un cervello che potevano rispettare.

«È certo questione di mettere insieme abbastanza unità,» disse Osborne.

Fleming scosse il capo.

«Non è questione di dimensioni. È necessaria una nuova concezione. Non c’è nessun apparecchio sulla Terra…» Cercò un esempio, e gli altri attesero che ne trovasse uno. «Il nostro calcolatore più recente lavora ancora in microsecondi. Questa è una macchina che deve lavorare in micromillisecondi, altrimenti saremo tutti dei vecchietti prima che abbia finito di esaminare questa enorme quantità di dati. E ci vorrebbe una memoria, probabilmente una memoria a bassa temperatura, che avesse al minimo la capacità del cervello umano, ma con un controllo molto più efficiente.»

«È provato?» chiese Ratcliff.

«Ma cosa crede? Dobbiamo prima trovare i mezzi per dimostrarlo. Quale che sia l’intelligenza che ci ha mandato questo messaggio, è molto avanti rispetto a noi. Non sappiamo perché abbiano mandato questo messaggio e a chi, ma è qualcosa che noi non saremmo stati in grado di fare mai. Noi siamo soltanto degli homo sapiens che percorrono faticosamente il loro cammino. Se vogliamo interpretarlo…» Fece una pausa. «Se…»

«Questa è una teoria, no?»

«È un’analisi.»

Sua Eccellenza fece ancora una volta appello a Reinhart.

«Pensa che possa venir dimostrato?»

«Posso dimostrarlo,» disse Fleming.

«Chiedevo al professore.»

«Posso dimostrarlo, costruendo un calcolatore in grado di elaborare questi dati,» insisté Fleming, per nulla scoraggiato. «Ecco quel che si deve fare.»

«Le pare realistico?»

«È quanto chiede il messaggio.»

Sua Eccellenza cominciava a perdere la pazienza. Tamburellava le dita quadrate sul tavolo.

«Professore?»

Reinhart prese in considerazione non tanto quel che credeva, ma ciò che doveva dire.

«Ci vorrebbe molto tempo.»

«Ma è veramente necessario farlo?»

«Forse.»

«Avrei bisogno, per lavorarci, del miglior calcolatore disponibile,» disse Fleming, come se tutto fosse già stato stabilito. «E della mia squadra attuale, al completo.»

Osborne pareva preoccupatissimo. La soluzione era ancora molto confusa, per chiunque sapesse come vanno di solito queste cose, e il ministro cominciava a dimostrare che si stava irritando.

«Possiamo mettere a sua disposizione i calcolatori delle università,» disse, come se parlasse di questioni di routine quotidiana. La pazienza di Fleming a un certo punto toccò il limite massimo.

«Crede davvero che di questi tempi le università abbiano le attrezzature migliori?» Puntò un dito verso Vandenberg. «Chieda ai suoi colleghi dell’esercito dove sono in questo paese le uniche macchine calcolatrici decenti.»

Ci fu un attimo di gelido silenzio. Tutti fissavano il generale americano.

«Avrei avuto bisogno di un preavviso per rispondere a questa domanda.»

«Non ne ha bisogno, perché sarò io a dirlo. Al centro missilistico di Thorness.»

«È impegnato nei lavori per la difesa.»

«Certo,» commentò Fleming sprezzante.

Vandenberg non rispose. Quel giovane rappresentava un problema di pertinenza del ministro. L’assemblea attendeva, mentre Ratcliff tamburellava con le dita sulla cartella di cuoio bulinato e Osborne, senza molte speranze, calcolava il punteggio. Il suo capo era certo impressionato, ma non convinto. Fleming, come tutti gli uomini sinceri, non era un buon avvocato. Aveva avuto le sue possibilità, e più o meno le aveva sprecate tutte. Se il ministro non ne avesse fatto nulla, tutta la faccenda si sarebbe risolta in uno sfoggio di teoria accademica. Se avesse deciso d’agire, avrebbe dovuto negoziare con l’esercito, avrebbe dovuto convincere non solo il ministro della Difesa, ma anche la Commissione alleata di Vandenberg, del fatto che il giuoco valeva la candela. Ratcliff prendeva tempo. Gli piaceva che la gente dovesse aspettarlo.

«Potremmo farne richiesta,» disse infine. «Sarebbe una faccenda che riguarda il Consiglio.»


Per un po’ di tempo, dopo la riunione, la squadra non ebbe nulla da fare. Prudentemente, Reinhart e Osborne portavano avanti passo passo i negoziati, ma Fleming non poteva proseguire in tal modo. Bridger sbrigava il lavoro che gli restava. Christine sedeva tranquilla nel suo ufficio a controllare e ricontrollare il lavoro già svolto. Ma Fleming si allontanò da tutto e prese con sé Judy.

«Non serve a niente stare a gingillarsi mentre quelli prendono una decisione,» e se la trascinava dietro perché lo aiutasse a distrarsi. Non che le facesse la corte. Solo gli piaceva averla con sé ed era una compagnia affettuosa e decisamente piacevole. Il motivo principale del suo scontento, andava scoprendo Judy, era che non poteva sopportare la pomposità e gli artifici. Quando affrontavano l’argomento del suo lavoro, talvolta era amaro e violento, ma quando si lasciava il lavoro alle spalle questi argomenti diventavano soltanto un bersaglio per il suo particolare umorismo, mordente e pepato.

«L’Inghilterra sta lentamente scivolando verso occidente,» disse una volta che lei lo interrogò sulla situazione generale, e lo disse con un sogghigno. Quando la ragazza cercò di giustificarsi per il suo scatto a Bouldershaw Fell, si limitò a darle una pacca sul didietro.

«Perdona e dimentica, questo è il mio motto,» disse, e le offrì da bere. Per fargli piacere lei sopportava un mucchio di cose: lui amava la musica moderna, che lei non capiva; amava correre in macchina, cosa che la spaventava; e cosa che la spaventava ancor più, gli piaceva andare a vedere i film western. Era terribilmente stanco, eppure era senza pace. Passavano da un cinema a un concerto, da un concerto a una lunga corsa in auto, dall’auto a una potente bevuta e, alla fine, lui era sfinito ma almeno pareva felice, anche se lei non lo era. Capiva che stava vivendo sotto una maschera.

Andavano di rado nel piccolo ufficio dell’istituto, e quando erano là Fleming corteggiava Christine. Certo Judy non poteva fargliene una colpa. Per altre cose non si occupava affatto di lei: era una ragazza incredibilmente carina e la cosa finiva lì. Lei, come confidò a Bridger, era «innamorata del suo cervello.» Ma pareva che non gradisse particolarmente essere brancicata e pizzicata. Continuava, tranquilla, a occuparsi del suo lavoro. Però gli faceva qualche domanda a proposito di Thorness.

«C’è mai stato, dottor Fleming?»

«Una volta.»

«Com’è?»

«Distaccato e bellissimo, come lei. E anche potente, inanimato e privo di immaginazione, a differenza di lei.»

Era sottinteso che se fosse stato permesso a Fleming di recarsi lassù, lei l’avrebbe seguito. Watling aveva esaminato i suoi precedenti e li aveva trovati impeccabili. Padre e madre Flemstad erano fuggiti dalla Lituania quando gli eserciti russi l’avevano invasa, e Christine era nata e cresciuta in Inghilterra. I suoi genitori, prima di morire, erano stati naturalizzati inglesi, e Christine era stata sottoposta a ogni possibile controllo.

L’attività di Dennis Bridger pareva assai più interessante. Man mano che si avvicinava il giorno della partenza, riceveva un numero sempre maggiore di interurbane assolutamente inspiegabili, che sembravano preoccuparlo molto sebbene non ne parlasse mai. Un mattino, che era solo nell’ufficio con Judy, sembrava più spaventato del solito. Quando il telefono squillò, le strappò letteralmente il ricevitore di mano. Era chiaro che qualcuno lo aveva chiamato a rapporto: borbottò qualche parola di scusa e uscì dall’ufficio. Judy lo osservava dalla finestra: attraversò il recinto e scese in strada dove lo attendeva un’auto molto grande e lussuosa. Appena si fu avvicinato una portiera si aprì e ne scese un autista immenso, altissimo, che indossava l’uniforme che di solito, nei nostri pensieri, associamo a un coupé de ville del secolo diciannovesimo: la giacca abbottonata per tutta la lunghezza, color senape chiaro, pantaloni stretti al ginocchio e gambali di cuoio lustro.

«Il dottor Bridger?»

Portava occhiali scuri e aveva un accento straniero strascicato e indefinibile. L’auto era lucente e maledettamente bella, come un moderno aereo senz’ali. Due antenne radio, gemelle, si alzavano dalle pinne posteriori, alte più di un uomo, anche di quell’uomo. L’insieme era assurdamente sproporzionato.

L’autista tenne aperta la portiera posteriore dell’auto mentre Bridger entrava. Il sedile era enorme: il pavimento ricoperto di un soffice tappeto, i finestrini tinteggiati in azzurro, e in un angolo era seduto un omino tarchiato dalla testa completamente calva.

L’omino tese una mano inanellata.

«Sono Kaufmann.»

L’autista tornò al suo posto al di là del divisorio di vetro e l’auto si avviò.

«Le spiace se facciamo un giro qui attorno?» Non era possibile sbagliarsi sull’accento di Kaufmann: era tedesco, benestante e duro. «Nascono tanti pettegolezzi se si è visti in giro.»

Qualcosa ronzò dolcemente all’altezza del suo orecchio. Sollevò il ricevitore d’avorio che gli stava di fronte su una forcella. Bridger vedeva l’autista parlare in un microfono accanto al volante.

«Ja.» Kaufmann ascoltò per un secondo, poi si volse a guardare fuori dal finestrino posteriore. «Ja, Egon, capisco. Giri in tondo, allora, va bene? Und Stuttgart… la comunicazione con Stoccarda.»

Rimise il ricevitore al suo posto e si rivolse a Bridger.

«L’autista dice che un tassi ci sta seguendo.» Bridger si guardò attorno nervosamente. Kaufmann rise o, almeno, mise in mostra i denti. «Non c’è motivo di preoccuparsi. Ci sono sempre dei tassi a Londra. Si accorgerà che non andiamo da nessuna parte. Quello che importa è che io abbia la mia comunicazione con Stoccarda.» Estrasse un astuccio d’argento che conteneva dei cigarillos. «Fuma?»

«No, grazie.»

«Mi ha mandato un messaggio per telescrivente, a Ginevra.» Kaufmann prese un cigarillo. «Alcuni mesi fa.»

«Sì.»

«Da allora non abbiamo più avuto sue notizie.»

«Ho cambiato idea.» Bridger ebbe delle contrazioni nervose.

«E ora forse è giunto il momento di cambiarla ancora. Siamo rimasti molto perplessi, sa, negli ultimi mesi.» Parlava seriamente, ma in tono cordiale e tranquillo. Con aria colpevole, Bridger guardò ancora fuori dal finestrino posteriore.

«Non si preoccupi, davvero. Ci pensiamo noi.» Estrasse un accendino d’argento tempestato di pietre e aspirò accendendo il cigarillo. «C’era davvero un messaggio?»

«Sì.»

«Da un pianeta?»

«Da un pianeta molto lontano.»

«Da Andromeda?»

«Esatto.»

«Be’, meno male che è a quella distanza.»

«Cosa è…» Bridger arricciò il naso al fumo del sigaro.

«Di che si tratta? Ora le spiego: in America, mi trovavo in America in quel periodo, erano tutti sossopra, in allarme. E anche in Europa, dappertutto. E poi il vostro governo dichiara: ‘Non è niente. Ve lo diremo tra un po’ di tempo.’ E così via. E la gente dimentica. I mesi passano e a poco a poco la gente dimentica. Ci sono altre cose di cui preoccuparsi. Ma c’è qualcosa, in realtà.»

«Non ufficialmente.»

«No, no, ufficialmente non c’è altro. Abbiamo tentato, ma c’è un bel muro di silenzio. Tutti tengono la bocca chiusa.»

«Me compreso.»

Avevano fatto un mezzo giro di Regent’s Park. Bridger guardò l’orologio.

«Devo essere di ritorno per il pomeriggio.»

«Lavora per il governo inglese?»

Kaufmann fece la domanda come se si trattasse di una qualsiasi conversazione di cortesia.

«Faccio parte della loro squadra,» rispose Bridger.

«Lavora al messaggio?»

«La cosa non l’interessa.»

«Qualsiasi cosa che abbia una pur minima importanza ci interessa. E questa potrebbe essere di grande importanza.»

«Forse. E forse no.»

«Ma andrà avanti, col lavoro? La prego, non assuma quell’aria misteriosa. Non sto cercando di estorcerle informazioni.»

«No, non andrò avanti.»

«Perché?»

«Non voglio restare tutta la mia vita in un ufficio governativo.»

Oltrepassarono lo zoo e proseguirono verso Portland Place. Kaufmann, con aria soddisfatta, tirava boccate dal suo sigaro mentre Bridger attendeva. Quando svoltarono verso ovest, in Marylebone, Kaufmann disse:

«Le piacerebbe un lavoro più redditizio, con noi?»

«Pensavo infatti a una cosa del genere,» confessò Bridger, abbassando gli occhi.

«Fin dall’incidente di Bouldershaw?»

«Ne era al corrente?» Bridger lo guardò fisso. «Da Oldroyd?»

«Naturale che lo sapevo.»

Era molto affabile, quasi affettuoso. Bridger tornò a esaminarsi le scarpe.

«Non voglio nessuna grana.»

«Non dovrebbe lasciarsi scoraggiare così facilmente,» disse Kaufmann. «E al tempo stesso non deve mettere la gente sulle nostre tracce. Potremmo aver qualcos’altro per le mani.»

Svoltarono di nuovo verso nord, in Baker Street.

«Penso che dovrebbe restare dove si trova,» disse. «Ma dovrebbe tenersi in contatto con me.»

«Quanto?»

Kaufmann spalancò gli occhi.

«Come ha detto?»

«Se vuole che le passi le informazioni…»

«Incredibile, dottor Bridger,» rise Kaufmann. «Ma lei non ha un briciolo di tatto.»

Il telefono squillò e Kaufmann sollevò il ricevitore.

«Kaufmann. Ja. Ja. Das ist Felix?»

Fecero ancora due giri attorno al parco e poi fecero scendere Bridger a pochi metri dall’istituto. Judy osservava il suo ritorno, ma lui non le rivolse la parola. Diffidava terribilmente di lei.

Mezz’ora più tardi il tassi che aveva seguito l’auto di Kaufmann si fermò di fronte a una cabina telefonica e ne scese Harries. Le sue gambe erano ancora incerottate e si muoveva rigidamente, ma lui si riteneva già in grado di lavorare. Pagò l’autista e si trascinò fino alla cabina telefonica. Non appena il suo tassi si fu allontanato, un’altra macchina si fermò ad attenderlo.


Rispose al telefono l’assistente di Watling, un annoiato tenente di cavalleria (infatti, allora, il Ministero della Difesa era già stato «integrato»).

«Capisco. Be’, farebbe bene a venire qui a fare il suo rapporto.»

Quando ebbe riattaccato il ricevitore entrò maestosamente Watling, nervoso e seccato dopo un altro incontro con Osborne.

«Chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere. Ecco tutto quel che sanno fare.» Scagliò la cartella su una sedia. «Nessuna novità?»

«Harries ha telefonato.»

«Ebbene?»

Watling prese possesso della sua scrivania, un severo tavolo metallico in una severa stanza di cemento con le istruzioni antincendio sulla porta. L’assistente inarcò le sopracciglia.

«Dice che Bridger è stato visto in compagnia di Persona Nota.»

«Chi? La pianti con questo gergo.»

«Kaufmann, signore.»

«Kaufmann?»

«Intel, gente del cartello internazionale.»

Watling fissava la spoglia parete di fronte a sé. Di grandi «cartelli» industriali soprannazionali ce n’erano ancora moltissimi, in barba a tutte le leggi antitrust e al Mercato Comune. Formalmente non andavano contro la legge, ma erano comunque molto potenti fino ad esercitare in alcuni casi una stretta quasi mortale sul commercio europeo. In un periodo in cui l’Occidente era esposto alla possibilità di boicottaggio da parte di tutte le nazioni dalle quali dipendeva per le materie prime, le prospettive di guadagno per le agenzie di commercio poco scrupolose erano notevolissime. E l’Intel era conosciuta e poco apprezzata ovunque per la sua mancanza di scrupoli. Con ogni probabilità tutto ciò che finiva nelle sue mani sarebbe stato venduto con il massimo profitto in un’altra capitale non appena il mercato si fosse rivelato favorevole.

«Nient’altro?»

«No. Hanno fatto due o tre giri in quella specie di transatlantico di Kaufmann e sono tornati alla base.»

Watling si accarezzava il mento, mettendo insieme con metodo e chiarezza frammenti di pensiero.

«Pensa che si tratti di quella stessa faccenda che stava combinando a Bouldershaw?»

«Harries la pensa così.»

«E cioè la stessa faccenda per cui Harries è stato rapito e pestato?»

«In parte.»

«Be’, sono proprio gli ultimi che devono essere al corrente.»

Una volta che qualcosa finiva nelle mani della Intel, era maledettamente difficile ripescarla. Avevano un’organizzazione perfettamente legale a Londra, degli uffici registrati in Svizzera e filiali in almeno tre continenti. Le informazioni scivolavano lungo le loro linee private come argento vivo e a questo riguardo non c’era molto da fare. I mandati di perquisizione non servivano a niente. Quando si arrivava a dare un’occhiata a un ufficio di Piccadilly, la mercanzia di cui si andava in caccia era stata scambiata con manganese o bauxite al di là di qualche frontiera nemica. Nulla era sacro, nulla era sicuro.

«Penso che Bridger continuerà a fornir loro un mucchio di informazioni,» commentò Watling.

«Tra poco dovrebbe andarsene,» gli ricordò il suo assistente.

«Dubito che lo farà, ora, lo hanno corrotto.» Sospirò. «Ad ogni modo verrebbe a sapere tutto da Fleming. Sono amici per la pelle.»

«Pensa che anche Fleming ci sia dentro?»

«Ah.» Watling spinse indietro la sedia e si strinse nelle spalle. «Quello è proprio un ingenuo senza speranza. Spiffererà la cosa a tutti solo per dimostrare quanto è indipendente. Pensi a quel che è successo l’ultima volta. E ora dovremo averli con noi.»

«E come è possibile?»

«Come è possibile? Dovrebbe scrivere un libro di fraseologia, lei. Traslocheranno nei quartieri del Ministero della Guerra. Ecco come. Baracca e burattini. Fleming vuole costruire il suo supercalcolatore al Centro di ricerche missilistiche di Thorness.»

«Davvero?»

«Segreto di Stato.»

«Sissignore.» L’assistente era languidamente discreto. «È stato già deciso?»

«Lo sarà. Posso sentir odore di idiozie quando le ho sottovento. Vandenberg è furioso, e così tutti gli alleati, non me ne stupirei. Ma Reinhart è interessatissimo a questa storia, e così Osborne, e così il loro ministro. E anche il Consiglio dei ministri sarà interessatissimo, credo.»

«Allora non possiamo tenerceli lontani?»

«No, ma possiamo sorvegliarli. Faremmo bene a incaricare Harries di questa faccenda, tanto per cominciare.»

«A Thorness hanno già un personale di sicurezza. Esercito,» osservò l’assistente con orgoglio.

Il commodoro sospirò. «Harries può lavorare con loro.»

«Harries non vuole più averci a che fare.»

«Perché?»

«Dice di esser sicuro che hanno mangiato la foglia.»

«Come? Oh, scusi.» Watling gli rivolse un ampio sorriso. «E come è possibile?»

«Be’, a Bouldershaw l’hanno picchiato. Forse pensano che si occupi di una faccenda più importante.»

«Forse è così. Dov’è ora Harries?»

«Li sta seguendo. Verrà più tardi a far rapporto.»


Ma Harries non giunse più tardi a far rapporto, anzi, non tornò più. Judy e Fleming scoprirono il suo cadavere il mattino seguente, sotto la capote della macchina di Fleming.

Judy aveva vomitato, poi insieme erano andati alla stazione di polizia e il corpo era stato portato via; i provvedimenti del caso erano stati presi. Allora tornarono in ufficio dove trovarono un messaggio che ordinava a Fleming di presentarsi subito al Ministero della Scienza. Judy, che rimase ad aspettare insieme a Christine, venne interrogata da Watling; si sentiva spaventata e addolorata. Christine continuava a svolgere il suo lavoro, e si interruppe solo per dare a Judy due aspirine, con l’aria di chi fa la carità senza considerare né colpe né meriti.

Prima di partire per il Ministero, Fleming aveva baciato Judy su una guancia. Lei gli sorrise, ancora in preda alla nausea.

«Dovevano proprio scaricarlo su di me?» brontolò Fleming.

«Non l’hanno scaricato su di te, l’hanno scaricato su di me, a titolo di avvertimento.»

Andò alla toilette e vomitò di nuovo.

Fleming tornò prima di pranzo, esultante ed effervescente. Strappò Christine dalla sua sedia e la strinse a sé.

«È andata!»

«Andata?» Judy si fermò sbalordita all’altro capo della stanza.

«Autorizzazione in triplice copia dagli ufficiali superiori del nostro ‘commodoro a reazione.’ Hanno spalancato le loro auree barriere di filo spinato.»

«Thorness?» chiese Christine respingendolo. Fleming si appoggiò al tavolo da disegnatore.

«Ci è stato graziosamente concesso l’uso dei loro cari apparecchi, cioè dei cari apparecchi dei contribuenti, riservati finora a quelli che volevano giocare alla guerra.»

«Quando?» chiese Judy.

Fleming si allontanò dal tavolo, attraversò la stanza e l’abbracciò.

«Appena saremo pronti. Ordine di precedenza assoluta sul grande calcolatore. Tranne naturalmente in caso di quella che, tanto per ridere, viene definita situazione di emergenza nazionale. Siamo esentati dalle ispezioni mattutine, potremo uscire con dei lasciapassare, ci prenderanno le impronte digitali, ci faranno il lavaggio del cervello ed esamineranno le nostre chiome in cerca di parassiti. Ma noi costruiremo la meraviglia del secolo.» Lasciò Judy e tese le braccia a Christine. «Tu e io, cara. Glielo insegneremo, a quei signori, vero? ‘È provato?’ vuol sapere Sua Eccellenza. Glielo proveremo. Vengano pure dai quattro angoli del mondo e gliela facciamo vedere noi… come disse quella celebre spogliarellista. Oh, ecco ‘ali d’argento’ che viene a darci il ruolino di marcia.»

Cominciò a canticchiare il motivo di Silver wings among the gold e invitò a pranzo le due ragazze; ma Judy non riuscì a mangiare. Di Bridger non si sapeva niente.


Watling tornò nel pomeriggio, composto ma severo, come un diplomatico in visita. Li fece sedere tutti e tre mentre teneva la sua conferenza.

«Ciò che è accaduto a Harries dipendeva esclusivamente dal fatto che lavorava con voi.»

«Ma se era l’uomo delle pulizie!»

«Era del servizio di spionaggio militare.»

«Oh!»

Questa per Christine e per Fleming era una novità. E lui reagì con furiosa disinvoltura.

«Colpa nostra, come si suol dire.»

«Colpa nostra.»

«Bello.»

«Non si illuda che sia accaduto in conseguenza di quel che state facendo. Non siete ancora tanto importanti.» Le ragazze ascoltavano attentamente Watling, che si rivolgeva esclusivamente a Fleming. «Harries, probabilmente, ha scoperto qualcosa mentre lavorava per proteggervi.»

«Perché proteggerci se non siamo importanti?»

«C’è gente, altra gente, che non sa se siete o no importanti. Sanno che qualcosa bolle in pentola, e questo grazie a lei che non ha tenuto il becco chiuso. Forse ha un grande valore strategico e forse no.»

«Sapete chi ha ucciso Harries?» domandò Fleming tranquillo. Forse cominciava a sentire la sua parte di responsabilità in quella morte.

«Sì.»

«È già qualcosa.»

«E sappiamo chi li ha pagati per farlo.»

«Allora siete a cavallo.»

«Già, a parte il fatto che non possiamo beccarli,» spiegò rigidamente Watling. «Per ragioni diplomatiche.»

«Bella anche questa.»

«Non è un bel mondo.» Passò lo sguardo su di loro come se compisse un dovere sgradevole. Era un uomo modesto e semplice che non amava fare prediche. «Voi, miei cari, che fino a oggi avete fatto una vita placida e tranquilla nei vostri laboratori, dovete capire una cosa: ora siete in azione. Se il suo progetto darà i risultati che vogliamo, avremo un’attrezzatura preziosa.»

«Chi, ‘avremo’?»

«Il paese.»

«Ah, già, certo.»

Watling non gli badò. Ne aveva già sentite abbastanza sull’atteggiamento di Fleming verso l’Autorità Costituita.

«Anche se non funzionerà, attirerà l’attenzione. Thorness è un posto importante e la gente si darà un gran daffare per sapere cosa ci si sta combinando. Questo è il motivo per cui vi metto in guardia, tutti voi.» Li fissò uno ad uno con i suoi penetranti occhi azzurri. «Non siete più all’università, siete nella giungla. Può sembrarvi solo vecchia burocrazia soffocante, piena di chiacchiere inutili e di banali dichiarazioni di uomini politici o di funzionari governativi, come me, ma è una giungla lo stesso. Posso garantirvelo. Si comprano e si vendono i segreti, si rubano le idee e qualche volta si uccide. Ecco come vanno le cose a questo mondo. Vi pregherei di ricordarlo.»

Quando se ne fu andato, Fleming tornò ai calcolatori, e Judy andò a Whitehall a prendere istruzioni per il futuro. In giornata, sul tardi, tornò Bridger, preoccupato, cercando di Fleming.

«Dennis.» Fleming schizzò fuori dalla sala del calcolatore. «Ce ne andiamo!»

«Ce ne andiamo?»

«A Thorness. Abbiamo il vento in poppa.»

«Oh, bene,» mormorò Bridger indifferente.

«Il ministro della Scienza l’ha avuta vinta. Il genere umano si prepara a compiere un piccolo passo avanti nella giungla, per dirla come i nostri amici in uniforme. Perché non cambi idea? Unisciti a noi sapienti!»

«Sì. Grazie, John.» Bridger si fissava i piedi e arricciava il naso, a disagio. «Ero venuto a cercarti per questo. Ho cambiato idea.»

Quando Judy arrivò da Osborne, questi era al corrente.

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