Judy si teneva il più possibile lontana da Fleming e quando per caso le capitava di incontrarlo, lui di solito era in compagnia di Christine. Tutto era cambiato dopo la morte di Bridger: perfino quel precoce soffio di clima primaverile era presto svanito, lasciando sulla base e su Judy un manto grigio di tristezza. Con sofferenza anche maggiore capiva come fosse probabile che Christine prendesse nella vita di Fleming non solo il suo posto ma anche quello di Dennis Bridger: lavorava e collaborava con lui come lei stessa non aveva mai fatto. In un primo tempo Judy pensò che non sarebbe mai riuscita a sopportare questa situazione e, scavalcando Geers, scrisse lei stessa direttamente a Whitehall, chiedendo di essere trasferita. L’unico risultato che ne ottenne fu un ennesimo colloquio con Geers.
«Il suo lavoro qui, Miss Adamson, è appena cominciato.»
«Ma l’affare Bridger è chiuso.»
«È finito Bridger, forse, ma il caso no.» Sembrava non accorgersi affatto del suo disagio. «Quelli dell’Intel hanno avuto tanto quanto basta a stuzzicargli l’appetito e ora che hanno perso Bridger cercheranno qualcun altro… Forse uno dei suoi amici.»
«Pensa che il dottor Fleming venderebbe informazioni?» chiese sdegnata.
«Chiunque lo farebbe, se gliene diamo la possibilità.»
In conclusione, però, fu Fleming e non Judy a far rapporto sulla prima mossa dell’Intel.
Lui, Christine e la Dawnay avevano trovato il sistema per assicurare le piastre di contatto con un encefalografo a quella che sembrava essere la testa di Ciclope, e Christine aveva aiutato Fleming a collegarlo per cavo ai terminali ad alto voltaggio del calcolatore. Ai dispositivi sottostanti il quadro di controllo aggiunsero un trasformatore, attraverso il quale fecero passare il circuito, cosicché la corrente, quando arrivava a Ciclope, aveva pressappoco l’intensità della batteria di una lampadina. Ciò nonostante l’effetto fu spaventoso. Non appena fu dato il contatto, la creatura si irrigidì completamente, e le lampade del quadro di controllo registrarono delle grosse interferenze. Dopo un po’, tuttavia, la creatura e la macchina sembrarono trovare un punto di equilibrio: i dati continuavano con regolarità il loro processo, sebbene dalla stampa-dati non uscisse nulla e sebbene Ciclope nel suo serbatoio nuotasse placidamente guardando fuori dallo spioncino con il suo unico occhio.
Tutto questo lavoro aveva occupato parecchi giorni e a Christine era stata lasciata la responsabilità della sala di controllo e del laboratorio, ora collegati, con istruzioni di chiamare la Dawnay e Fleming se si fosse verificato qualcosa di strano. La Dawnay si concesse il meritato riposo, ma Fleming, di tanto in tanto, visitava l’edificio del calcolatore per fare dei controlli e per vedere Christine. Man mano che i giorni passavano la trovava sempre più tesa e in capo a una settimana era diventata così nervosa che si sentì costretto ad affrontare con lei l’argomento.
«Senti… Sai bene che questa faccenda mi spaventa maledettamente, ma non sapevo che facesse paura anche a te.»
«Non mi fa paura,» gli rispose. Erano nella sala di controllo, dove stavano osservando le luci che continuavano a lampeggiare sul quadro. «Però mi dà una sensazione strana.»
«Quale?»
«Questa faccenda dei terminali, e…» Esitò lanciando un’occhiata nervosa verso l’altra stanza. «Quando sono là dentro sento quell’occhio che mi osserva continuamente.»
«Osserva tutti.»
«No. Me in modo particolare.»
Fleming abbozzò un sorriso. «Non me ne meraviglio. Anch’io ti osservo.»
«Pensavo che tu avessi altro da fare.»
«Avevo altro da fare.» Accennò una carezza poi cambiò idea e si diresse alla porta. «Sii prudente.»
Percorse il sentiero della scogliera fino alla spiaggia, dove poteva stare solo, in silenzio, a riflettere. Era un pomeriggio grigio e vuoto: la marea si stava ritirando e la sabbia sembrava una distesa di tetra ardesia grigia tra i promontori di granito. Avanzò fino alla riva, a capo basso, le mani in tasca, cercando di esaminare mentalmente quanto stava accadendo all’interno del calcolatore. Tornò lentamente verso la battigia rocciosa: era troppo profondamente immerso nei suoi pensieri per notare un uomo tarchiato e calvo che, seduto su un masso, fumava un sottile sigaro.
«Un momento, per piacere, signore.» La voce gutturale lo colse di sorpresa.
«Chi è lei?»
L’ometto calvo trasse dal taschino della giacca un biglietto da visita e glielo porse.
«Non so leggere,» disse Fleming.
L’uomo calvo sorrise. «Lei, ad ogni modo, è il dottor Fleming.»
«E lei?»
«Non le direbbe nulla.» L’ometto calvo era lievemente affannato.
«Come è arrivato qui?»
«Facendo il giro del promontorio. Si può, quando c’è bassa marea, ma è proprio una scalata.» Trasse un portasigari di argento. «Fuma?»
Fleming lo ignorò. «Che cosa vuole?»
«Sono venuto a fare una passeggiata.» Si strinse nelle spalle e rimise l’astuccio in tasca. Pareva che stesse riprendendo fiato. «Anche lei viene qui spesso.»
«Questo è territorio riservato.»
«Non il litorale. In questo libero paese il litorale…» Alzò ancora le spalle. «Mi chiamo Kaufmann. Non l’ha mai sentito?»
«No.»
«Il suo amico, Herr Doktor Bridger…»
«Il mio amico Bridger è morto.»
«Già. L’ho saputo.» Kaufmann aspirò il fumo del suo cigarillo. «Molto triste.»
«Conosceva Dennis Bridger?» chiese Fleming, perplesso e sospettoso.
«Oh, sì. Abbiamo collaborato per qualche tempo.»
«Lei lavora per la…» La verità cominciava a farglisi luce e cercava di ricordare il nome.
«Per la Intel? Sì.»
Kaufmann scoccò un sorriso a Fleming soffiando dal naso una piccola nube di fumo. Fleming tolse le mani di tasca.
«Sloggi.»
«Prego?»
«Se ne vada da questo terreno entro cinque minuti o chiamerò le sentinelle.»
«No, per piacere.» Kaufmann sembrava offeso. «È stata una così bella occasione, questa, di incontrarla.»
«E così bella per Bridger?»
«A nessuno è spiaciuto più che a me. Inoltre era molto utile.»
«E molto morto.» Fleming guardò l’orologio. «Mi ci vorranno cinque minuti per risalire la scogliera. Quando sarò in cima avviserò le sentinelle.»
Si volse per andarsene, ma Kaufmann lo richiamò.
«Dottor Fleming, lei ha dei sistemi molto più redditizi per passare i prossimi cinque minuti. Non le sto suggerendo di far qualcosa di disonesto.»
«E questo è splendido, vero?» commentò Fleming tenendosi a distanza.
«Pensavamo, piuttosto, che le sarebbe piaciuto lasciare il servizio statale per un onorevole lavoro con noi. Credo che lei non sia molto contento, qui.»
«Lasciamo stare, mio Herr amico, d’accordo?» Fleming indietreggiò e si fermò a guardarlo dall’alto. «Forse non adoro il governo, forse non sono felice, ma anche se li odiassi a morte, anche se fossi all’ultimo respiro e non ci fosse nessun altro al mondo a cui rivolgersi, preferirei crepare piuttosto che rivolgermi a voi.»
Poi gli volse le spalle e risalì il sentiero della scogliera senza voltarsi indietro.
Andò diritto all’ufficio di Geers e trovò il direttore intento a dettare un rapporto al magnetofono.
«E lei che gli ha risposto?» chiese Geers quando Fleming ebbe terminato il suo resoconto.
«Ma le pare…» Sul viso di Fleming affiorò un’ombra di disgusto. «È già abbastanza difficile tenere questa storia fuori dalle mani dei bambini e dei lattanti, senza offrirla in pasto anche ai truffatori.»
Lasciò l’ufficio chiedendosi perché mai si fosse preso quella briga: ma in realtà era una delle poche azioni che in tutti quei mesi parlassero in suo favore.
Sulla spiaggia vennero istituiti dei turni di sorveglianza, furono innalzate barriere di cavalli di Frisia che dal promontorio si spingevano nel mare, il personale di sicurezza di Quadring eseguì un rastrellamento del territorio circostante e della Intel per molto tempo non si ebbero più notizie. Nell’edificio del calcolatore gli esperimenti proseguivano senza alcun risultato tangibile, fino a quando la Dawnay non tornò dalle sue vacanze; e allora, un mattino, all’improvviso, il calcolatore cominciò a stampare dati. Fleming si rinchiuse nel suo alloggio con i fogli di stampa, e dopo un centinaio di ore di lavoro telefonò, chiedendo di Reinhart.
Da quello che era riuscito a decifrare, il calcolatore stava facendo una serie di domande assolutamente nuove, che riguardavano tutte dimensioni, aspetto e funzioni del corpo. Era possibile, a quanto diceva Fleming, ridurre qualunque forma fisica in termini matematici e questo era, a quanto sembrava, ciò che chiedeva il calcolatore.
«Per esempio,» disse a Reinhart e alla Dawnay quando si disposero tutti insieme a lavorarci, «vuole avere notizie sull’udito. C’è un’enorme quantità di domande che riguardano le frequenze acustiche, e ci chiede ovviamente come produciamo i suoni e come li sentiamo.»
«Ma come può sapere che parliamo?» indagò la Dawnay.
«Perché la sua creatura ci vede usare la bocca per comunicare e le orecchie per ascoltare. Tutte queste domande derivano dalle osservazioni del vostro mostriciattolo. Probabilmente può anche avvertire le vibrazioni delle voci e ora che è collegato alla macchina può trasmetterle tutte le sue osservazioni.»
«Lei sta lavorando di fantasia.»
«Come se lo spiega, altrimenti?»
«Non vedo come possiamo analizzare tutta la struttura umana,» disse Reinhart.
«Non è necessario. La macchina continua a fare delle ipotesi intelligenti, e noi dobbiamo solo reintrodurre quelle giuste. È la solita storia. Non riesco a capire come mai, a questo punto, non abbia ancora trovato un sistema più veloce. Sono certo che ne è capace. Forse la creatura non ha risposto alla sua aspettativa.»
«Vuole tentare?» chiese Reinhart alla Dawnay.
«Tenterò qualunque cosa,» rispose.
In questo modo la seconda fase del progetto andò avanti: Christine se ne stava al calcolatore, facendo le letture e reintroducendo i risultati. Era sempre in stato di tensione nervosa, ma non diceva nulla.
«Vuoi passare a qualche altra incombenza?» le chiese Fleming una sera in cui si ritrovarono da soli nella sala del calcolatore.
«No. Mi affascina.»
Fleming fissò il suo viso pensoso, molto bello. Non la corteggiava più come era solito fare prima di cominciare a interessarsi veramente a lei, quando Christine era solo una ragazza del laboratorio. Si ficcò le mani in tasca, voltandole la schiena e uscì dall’edificio. Quando lui se ne fu andato, Christine attraversò la sala di controllo dirigendosi verso l’ala del laboratorio. Le costava sempre un certo sforzo entrare nella sala dove si trovava il serbatoio, e si fermò un istante sulla soglia, il viso teso, facendosi forza. Non si udiva alcun suono, salvo il continuo ronzio del calcolatore, ma quando giunse nel raggio dello spioncino praticato nel fianco del serbatoio, la creatura cominciò ad agitarsi, dimenandosi contro le pareti del serbatoio e facendo schizzare il liquido dall’apertura superiore.
«Buona,» disse a voce alta. «Sta’ buona!»
Si piegò, meccanicamente, e guardò attraverso lo spioncino: l’occhio era là, che la guardava fisso, ma la creatura si stava facendo sempre più agitata e muoveva le estremità del suo corpo come una medusa. Christine si passò una mano sulla fronte; si sentiva lievemente stordita per la posizione china, ma quell’occhio la teneva legata, come per ipnosi. Rimase così per un lungo minuto, e poi per un altro, riuscendo sempre meno a pensare. Lentamente, come per volontà sua, la mano destra salì lungo la parete del serbatoio e le sue dita cercarono il filo che lo collegava al cavo encefalografico. Toccarono il filo, e, quando furono percorse dalla leggera corrente, ne vibrarono.
Nell’attimo in cui toccò il filo la creatura si mise tranquilla. La guardava ancora fissamente, ma non si muoveva più. L’intera costruzione era immersa in un profondo silenzio; si sentiva solo il ronzio del calcolatore. Christine si raddrizzò lentamente, come se fosse in trance, continuando a stringere il filo. Le sue dita lo percorsero fino a toccare la guaina del cavo, e si richiusero su di esso, facendolo scivolare nell’interno della mano. Il cavo non era stato fissato: era legato con due nodi tra il serbatoio e il muro del laboratorio, ed era fermato lungo la parete con pezzi di nastro isolante, avvolto, a intervalli di qualche metro, attorno a dei chiodi. Seguendo il cavo con la mano, Christine camminò rigidamente verso la parete, la seguì fino alla porta che dava sulla sala del calcolatore. Aveva gli occhi aperti, sbarrati, ma non vedeva. Il cavo spariva in un buco praticato nella superficie di legno della porta e quando non poté andar oltre la ragazza sembrò perduta. Alzò allora l’altra mano e afferrò di nuovo il cavo dall’altra parte della porta.
Lasciò ricadere la mano destra e passò nell’altra stanza tenendo il cavo nella sinistra. Continuò il suo cammino lungo la parete, lentamente, fino all’estremità dell’intelaiatura dell’apparecchio di controllo, con un respiro profondo e faticoso, come se dormisse e fosse tormentata da un sogno. Al centro dell’intelaiatura dell’apparecchio il cavo passava nel trasformatore sotto il quadro di controllo. Le luci del quadro lampeggiavano continuamente, con un ritmo quasi ipnotico, e gli occhi di Christine si fissarono su di esse come si erano fissati sull’occhio della creatura. Rimase di fronte al quadro, per alcuni istanti, come se non intendesse andare oltre: poi, lentamente, la sinistra lasciò il cavo. Alzò di nuovo la destra e con tutte e due si attaccò ai fili ad alta tensione che correvano dal trasformatore ai due terminali dietro la sua testa. Questi fili erano ricoperti di nastro isolante, fino sotto ai terminali, dove il filo scoperto era fissato alle piastre sporgenti. Le mani di Christine li risalirono lentamente, centimetro per centimetro.
Il suo viso era pallido e teso: cominciò a tremare come il giorno in cui Fleming per la prima volta l’aveva fatta andare tra le piastre dei terminali. Stringeva i cavi: le dita si muovevano lentamente lungo di essi. Poi toccò il filo scoperto.
Accadde tutto molto rapidamente. Quando la corrente la percorse in pieno, il suo corpo si contorse. Cominciò a gridare, le gambe le si piegarono, la testa le cadde all’indietro, e restò appesa ai terminali con le braccia spalancate, come crocifissa. Le lampade del quadro di controllo lampeggiavano furiosamente, illuminandole il viso contorto, e nell’altra stanza cominciarono dei tonfi insistenti.
Durò circa dieci secondi. Poi il suo grido bruscamente venne interrotto, dal quadro di valvole sopra il capo di Christine partì una fragorosa esplosione, le luci si spensero, le sue dita si aprirono lasciando il filo nudo, e Christine cadde pesantemente, ammasso sconvolto, sul pavimento. Per un attimo regnò il silenzio. La creatura smise di agitarsi e il ronzio del calcolatore cessò, come se gli avessero tagliati i fili. Squillò il campanello di allarme.
Fu Judy la prima ad arrivare sul teatro della tragedia: passava vicino all’edificio quando l’allarme aveva incominciato a suonare sulla parete del portico. Spinta la porta, corse precipitosamente lungo il corridoio, fino alla sala di controllo. Dapprima non vide nulla. Le luci del soffitto funzionavano ancora, ma il banco di controllo nascondeva il pavimento di fronte al quadro. Poi vide il corpo di Christine: si precipitò verso di lei, le si inginocchiò accanto.
«Christine!»
Adagiò il corpo sulla schiena. Il viso di Christine la fissava, senza vita; le mani ricaddero mollemente sul pavimento: erano nere e bruciate fino all’osso. Judy cercò di sentire il cuore della ragazza, ma era fermo.
«Oh, mio Dio!» pensò. «Perché devo sempre trovarmi io di fronte alla morte?»
Le notizie raggiunsero Reinhart che era tornato a Londra. Quando le riferì a Osborne ne ottenne una risposta diversa da quella che si attendeva; Osborne ne era certamente preoccupato, ma sembrava tormentato da altri pensieri e accolse questa notizia come un grattacapo fra i tanti. Reinhart era stupito, non capiva: non solo Osborne, ma tutti gli altri che incontrava durante le sue continue visite agli uffici di Whitehall sembrava avessero in capo qualche peso segreto. Pensò di andare a Bouldershaw Fell dove non si recava da parecchio tempo, nel tentativo di liberarsi dell’atmosfera oppressiva che si sentiva attorno, ma venne a sapere che il radiotelescopio era stato messo sotto controllo militare e che era sorvegliato con estrema severità dal Servizio di Sicurezza del Ministero della Difesa. Questo passo era stato compiuto senza preavviso la settimana precedente, mentre Reinhart si trovava a Thorness. Era furibondo di non essere stato consultato, e andò a trovare Osborne, ma Osborne era troppo occupato per potergli concedere un appuntamento.
Nel giro di pochi giorni arrivarono i risultati dell’autopsia di Christine. Al professore fu risparmiata almeno la dura prova di dare spiegazioni ai parenti, perché i genitori di lei erano morti e non aveva altri familiari in Inghilterra. Fleming gli mandò una lettera breve e triste nella quale gli diceva che il calcolatore non era stato danneggiato e che, circa la morte di Christine, aveva una sua teoria. Poi giunse una lettera più lunga, nella quale diceva che il circuito, dopo l’esplosione, era stato riparato, e che il calcolatore ora stava lavorando a pieno regime, trasferendo alla memoria un quantitativo fantastico di informazioni; Fleming però non diceva che genere di informazioni. Un paio di giorni dopo gli telefonò la Dawnay, per dirgli che il calcolatore aveva cominciato a stampare dati. Ne usciva una massa enorme di cifre, e per quello che potevano capire lei e Fleming, questa volta non erano sotto forma di domanda, ma erano informazioni.
«Sono altrettanto formule per la biosintesi,» disse. «Fleming pensa che chieda un nuovo esperimento; e credo che sia nel giusto.»
«Altri mostri?» chiese Reinhart, al telefono.
«Forse. Ma questa volta è una faccenda più complessa. Sarà un lavoro terribile. Avremo bisogno di facilitazioni molto maggiori, temo, e di molto più denaro.»
Reinhart fece un altro tentativo di vedere Osborne, e fu convocato, con sua grande sorpresa, al Ministero della Difesa.
Quando arrivò, Osborne aspettava nell’ufficio di Vandenberg. Erano presenti anche Vandenberg e Geers: sembrava che avessero già parlato, a lungo. La borsa di Geers era buttata aperta sul tavolo, e i molti documenti che conteneva erano già stati tirati fuori ed esaminati. Qualcosa di stridente e ostile nell’atmosfera della stanza mise in guardia il professore.
«Si accomodi,» disse Vandenberg automaticamente, senza sorridere. Ci fu una pausa forzata; tutti aspettavano che qualcun altro parlasse; poi Vandenberg aggiunse: «Mi è stato detto che avete fatto fuori un’altra persona.»
«È stato un incidente,» rispose Reinhart.
«Certo, certo. Due incidenti.»
«Il governo ha ricevuto i risultati dell’inchiesta,» disse Osborne, fissando il tappeto. Geers tossicchiò nervoso e cominciò a riordinare le carte.
«Dunque?» Reinhart guardò il generale e attese.
«Mi spiace, professore,» disse Vandenberg.
«Di che cosa?»
Per la prima volta Osborne lo guardò. «Dobbiamo accettare un cambio di controllo, una restrizione generale.»
«Perché?»
«La gente comincia a farsi delle domande. E si scoprirà presto che voi avete quella creatura viva sulla quale state facendo esperimenti.»
«Si riferisce forse all’Associazione per la protezione degli animali? È solo una serie di molecole che abbiamo messo insieme noi.»
«Questo non li renderà più contenti.»
«Non potete interrompere a metà…» Lo sguardo di Reinhart passò dall’uno all’altro, cercando di indovinare che cosa avessero in mente. «La Dawnay e Fleming hanno appena cominciato a lavorare su una nuova pista.»
«Lo sappiamo,» disse Geers battendo sui fogli che stava rimettendo nella cartella.
«E allora?…»
«Mi spiace,» ripeté Vandenberg. «Il vostro lavoro finisce qui.»
«Non capisco.»
Osborne si mosse a disagio sulla sedia. «Ho fatto del mio meglio. Abbiamo tutti combattuto come potevamo.»
«Combattuto chi?»
«Quelli del governo sono molto decisi.» Osborne pareva ansioso di evitare i particolari. «Abbiamo perso la nostra causa, Ernest. È stato tutto discusso e siamo stati sconfitti nelle alte sfere.»
«E ora, poi,» interferì Vandenberg, «voi avete eliminata un’altra persona.»
«Questa è solo una scusa.» Reinhart si drizzò in tutta la sua statura per affrontare l’altro, dietro la scrivania. «Volete che lasciamo perdere la faccenda perché vi fa gola il calcolatore. Inventate ogni sorta di pretesti…»
Vandenberg sospirò. «È così che vanno le cose. Non mi aspetto che lei capisca il nostro punto di vista.»
«E voi non ci aiutate a capirlo.»
Geers fece scattare la serratura della sua cartella e accennò un breve sorriso.
«Reinhart, la verità è che vogliono il suo ritorno a Bouldershaw Fell.»
Reinhart lo guardò con disgusto.
«A Bouldershaw Fell? Non mi ci lasciano neppure entrare.»
Geers fissò il generale con aria interrogativa e questi gli rispose con un cenno.
«Il governo ci ha messo a parte di alcune cose,» disse con aria di importanza.
«È della massima segretezza, lei capisce,» aggiunse Vandenberg.
«Allora forse sarebbe bene non dirmi nulla.» Reinhart se ne stava irrigidito come un animale preso in trappola.
«Ma lei dovrà saperlo,» insisté Geers. «C’entrerà anche lei. Il governo ha lanciato un S.O.S. Vogliono che tutti voi vi mettiate al lavoro per la Difesa.»
«Senza nessuna considerazione per quel che stiamo facendo?»
«È una decisione del governo.» Osborne fissava il tappeto. «Abbiamo ottenuto le migliori condizioni possibili.»
Vandenberg si alzò dirigendosi verso la carta geografica al muro.
«Le potenze occidentali sono profondamente preoccupate.» Neppure lui guardava Reinhart. «A causa di alcune tracce che abbiamo captato.»
«Quali tracce?»
«In particolare è stato il vostro radiotelescopio a captarle. È il solo apparecchio in nostro possesso che abbia un livello di precisione abbastanza alto. Ci sta dando la rotta di molti ordigni in orbita.»
«Terrestri?» Reinhart esaminò le traiettorie tracciate sulla carta. «È questo che vi preoccupa tanto?»
«Sì. Qualche potenza dell’altro emisfero li mette in orbita uno dopo l’altro; ma i nostri vecchi schermi di controllo non hanno un raggio d’azione abbastanza vasto. L’Agenzia spaziale nelle Nazioni Unite non ha alcuna idea in proposito, come non ne ha l’alleanza occidentale. Nessuno ne ha.»
Geers concluse per lui: «Così desiderano che se ne occupi lei.»
«Ma non è il mio campo.» Reinhart stava deciso di fronte alla scrivania. «Io sono un astronomo.»
«E quello che sta facendo adesso, è forse nel suo campo?» chiese Vandenberg.
«No, ma è di lì che prende le mosse… Da una sorgente astronomica.»
Per un minuto nessuno gli rispose.
«Bene, questo è quanto vuole il governo,» disse alla fine Osborne.
«E il lavoro di Thorness?»
Vandenberg si volse a lui. «La vostra squadra — quello che ne rimane — sarà diretta dal dottor Geers.»
«Geers!»
«Io sono il direttore della base.»
«Ma lei non ne conosce neppure i primi elementi…» Reinhart si trattenne.
«Sono un fisico,» ribatté Geers. «O, perlomeno, lo ero. Credo di poter rispolverare tutto quanto in fretta.»
Reinhart lo fissò, sprezzante. «È quello che ha sempre voluto, no?»
«Non l’ho voluto io,» rispose Geers astioso.
«Signori!» nitrì Osborne con aria di riprovazione.
Vandenberg tornò pesantemente alla sua scrivania. «Non facciamone una questione personale.»
«E il lavoro di Fleming e della Dawnay?» chiese Reinhart.
«Non li butterò a mare,» disse Geers. «Avremo bisogno, qualche ora al giorno, del calcolatore, ma ci si può mettere d’accordo…»
«Se buttate a mare me…»
«Non vi si muove nessuna accusa, Ernest,» disse Osborne. «Come vedrete dalla prossima lista d’onorificenze.»
«Al diavolo la vostra lista.» Le unghie di Reinhart si conficcarono nel palmo della mano. «Il lavoro in cui sono impegnati Fleming e la Dawnay è il progetto di ricerca più importante che sia mai stato fatto in questo paese. È l’unica cosa che mi interessa.»
Geers lo guardò attraverso gli occhiali scintillanti. «Faremo il possibile per loro, se si comportano bene.»
«Ci saranno alcuni cambiamenti, Miss Adamson.»
Judy si trovava nell’ufficio di Geers, di fronte al dottor Hunter, il sovrintendente sanitario della base. Questi era un omone ossuto, che aveva molto più del militare che del medico.
«La professoressa Dawnay si prepara a iniziare un nuovo esperimento, ma non sotto la direzione del professor Reinhart, questa volta. Reinhart ne è fuori.»
«E allora chi?…» Lasciò la domanda in sospeso. Non le piaceva quell’uomo, e non le piaceva avere a che fare con lui.
«Sarò io il responsabile.»
«Lei?»
Hunter, forse, era abituato a questo genere di insulti; sulla sua faccia larga, grossolana, apparve solo l’ombra di una smorfia.
«Certo, io sono soltanto un umile medico. L’autorità suprema sarà nelle mani del dottor Geers.»
«E se la professoressa Dawnay avesse qualcosa da obiettare?»
«No, non ha nulla da obiettare. L’organizzazione non le importa molto. Quello che dobbiamo fare per lei è disporre le cose in bell’ordine. Il dottor Geers avrà la suprema giurisdizione sul calcolatore, e io lo aiuterò negli esperimenti biologici. Ora lei…» raccolse un foglio dalla scrivania del direttore, «… lei era stata assegnata al Ministero della Scienza. Bene, può dimenticarselo. Tornerà con noi. Ho bisogno del suo aiuto per mantenere ben sicura la nostra parte dell’operazione.»
«Cioè il programma della professoressa Dawnay?»
«Sì. Penso che stiamo per creare una nuova forma di vita.»
«Una nuova forma di vita?»
«Le toglie il respiro l’idea, vero?»
«Che genere di forma?»
«Non lo sappiamo ancora, ma quando lo sapremo dovremo tenercelo per noi.»
Le rivolse un sorriso confidenziale. «Avremo il privilegio di fare da padrini a un grande avvenimento.»
«E il dottor Fleming?» chiese Judy guardando dritto di fronte a sé.
«Rimarrà qui, su richiesta del Ministero della Scienza: ma credo che ormai non abbia più gran che da fare.»
Fleming e la Dawnay accolsero quasi senza commenti la notizia dell’allontanamento di Reinhart. La Dawnay era completamente assorbita da quello che stava facendo, e Fleming isolato e solitario. La sola persona a cui avrebbe potuto parlare era Judy, ma la evitava. Sebbene lui e la Dawnay lavorassero sempre insieme, continuavano a diffidare l’uno dell’altra e non parlavano mai tranquillamente di qualcosa che non fosse l’esperimento: e anche allora gli riusciva difficile convincerla di qualsiasi postulato fondamentale.
«Suppongo,» disse lei una volta che se ne stavano vicino alla stampa-dati d’uscita a controllare nuove valanghe di cifre, «suppongo che queste siano tutte informazioni che ha inserito Ciclope.»
«Alcune, più quello che la macchina ha appreso da Christine quando l’ha presa in trappola.»
«Che cosa poteva apprendere da lei?»
«Non si ricorda quando le dissi che la macchina doveva avere un sistema più svelto per ottenere informazioni sul nostro conto?»
«Ricordo che lei era impaziente.»
«Non solo io. In quei pochi secondi prima che saltassero le valvole, credo che abbia ottenuto molti più dati fisiologici di quanti non se ne potrebbero ottenere in tutta una vita.»
La Dawnay ebbe uno di quei suoi brevi sbuffi asciutti, e lo lasciò a crogiolarsi nelle sue riflessioni. Fleming raccolse un pezzo di cavo e si diresse al gruppo di controllo, dove si fermò di fronte al quadro lampeggiante, tenendo in mano, sovrappensiero, i capi scoperti del filo. Raggiunto uno dei terminali, vi fissò uno dei capi del cavo, poi, tenendolo per la parte isolata, avvicinò lentamente l’altro capo al terminale opposto.
«Che sta cercando di fare?» La Dawnay si precipitò verso di lui. «Ne farà un arco voltaico.»
«Non credo,» rispose Fleming. Mise il capo scoperto del filo a contatto con il terminale. «Vede?» Al contatto delle due superfici metalliche ci fu solo una piccola scintilla.
Fleming lasciò cadere il filo e rimase pensieroso per qualche istante, poi alzò lentamente le mani verso i terminali, così come aveva fatto Christine.
La Dawnay fece un passo avanti per fermarlo. «Per l’amor di Dio!»
«Non si preoccupi.» Fleming toccò simultaneamente i due terminali e non accadde nulla. Rimase immobile, le braccia distese, stringendo le piastre metalliche mentre la Dawnay lo osservava con un miscuglio di scetticismo e e paura.
«Non le pare che ci siano stati abbastanza morti?»
«Ha imparato.» Abbassò le braccia. «Ha imparato. Non conosceva l’effetto degli alti voltaggi sui tessuti organici, finché non l’ha sperimentato su Christine. Non sapeva che avrebbe danneggiato anche se stesso. Ma ora che lo sa, prende le sue precauzioni. Se prova a passare attraverso questi elettrodi, la macchina ridurrà il voltaggio. Su, provi.»
«No, grazie, ne ho abbastanza delle sue idee.»
Fleming la guardò duramente.
«Non ci troviamo di fronte a un macchinario. Siamo di fronte a un cervello, e a un cervello maledettamente buono.» Lei non rispose ed egli uscì.
Nonostante l’urgenza del lavoro per la Difesa, Geers trovava tempo e mezzi per aiutare la Dawnay. Era il tipo che si nutre di lavoro, come una locusta; il fatto di avere una quantità enorme di cose sotto il proprio controllo soddisfaceva le riposte ambizioni della sua mente e sostituiva forse il genio creativo che gli era mancato. Riuscì a fare in modo che fosse messo a disposizione della Dawnay un maggior numero di attrezzature e faceva rapporto sui suoi progressi con orgoglio crescente. Lui sarebbe stato più in gamba di Reinhart.
Al complesso del calcolatore fu aggiunto un nuovo laboratorio che avrebbe ospitato l’enorme, complicato sintetizzatore di DNA e durante le settimane successive furono installati apparecchi cristallografici a raggi X di recente progettazione, e apparecchiature per la sintesi chimica, per ottenere fosfati, deossiribosio, adenina, timina, citosina, tirosina e altri ingredienti necessari a formare le molecole di DNA, il germe della vita. Nel giro di pochi mesi avevano in formazione una elica di DNA di circa cinque bilioni di lettere del codice nucleotidico, e prima della fine dell’anno avevano ottenuto un’unità genetica di cinquanta cromosomi, simile a quella umana ma leggermente più grande.
Nei primi giorni di febbraio la Dawnay, nel suo rapporto, annunciò l’esistenza di un embrione vivente apparentemente umano.
Hunter si precipitò al laboratorio per vederlo. Mentre passava nella sala del calcolatore, incrociò Fleming, ma non gli rivolse la parola. Fleming si era limitato alla sua parte di lavoro, come aveva promesso, e non aveva fatto alcun tentativo di dare la propria collaborazione in campo biochimico. Hunter trovò la Dawnay nel laboratorio, china su una piccola tenda ad ossigeno, circondata dai suoi apparecchi e da molti dei suoi assistenti.
«Vive?»
«Sì.» La Dawnay si drizzò per guardarlo.
«Che aspetto ha?»
«È un bambino.»
«Un bambino… Un essere umano?»
«Direi di sì, sebbene creda che Fleming non sarebbe d’accordo.» Ebbe un sorriso soddisfatto. «Ed è una femmina.»
«Non riesco a crederci…» Hunter sbirciò nella tenda a ossigeno. «Posso dare un’occhiata?»
«Non c’è gran che da vedere: è solo un fagottino.»
Sotto la ricopertura di plastica della tenda c’era qualcosa che sarebbe potuto essere umano, ma il corpo era protetto da una coperta e il viso da una mascherina. Un tubo di gomma spariva sotto la coperta all’altezza del collo.
«Respira?»
«Aiutandola. Polso e respirazione normale. Peso, tre chili. Quando sono arrivata qui, non avrei mai pensato…» Si interruppe, sopraffatta improvvisamente, inaspettatamente, dall’emozione. Poi continuò, a voce più bassa: «E pensare a tutta quell’alchimia per trasformare il metallo in oro, per creare la vita.» Sfiorò il tubo di gomma e riprese il suo solito fare burbero. «La nutriamo per ipodermoclisi. È probabile che le sia sconosciuto il normale istinto di poppare. Bisognerà insegnarglielo.»
«Ci ha procurato una bella grana, professoressa,» commentò Hunter, che era colpito, sì, ma si preoccupava già delle responsabilità formali.
«Vi ho dato una vita umana, creata da esseri umani. La natura ci ha messo due miliardi di anni per fare un lavoro del genere. Noi ci abbiamo messo quattordici mesi.»
I modi rassicuranti, da medico di famiglia, tornarono a riaffiorare in Hunter: «Voglio essere il primo a congratularmi.»
«Ne parla come se si trattasse di una nascita normale,» disse la Dawnay, cercando di sorridere e di sbuffare contemporaneamente.
Sembrava che la piccola creatura, sotto la sua tenda, traesse profitto dal suo nutrimento endovenoso. Cresceva circa due centimetri al giorno, ed era chiaro che non avrebbe passato la normale fanciullezza di ogni bambino. Geers fece rapporto al direttore generale della Ricerca, al Ministero della Difesa, spiegando che al ritmo attuale la bambina avrebbe raggiunto le dimensioni di un’adulta nel giro di tre o quattro mesi.
Nelle sfere ufficiali la reazione a tutta questa storia fu un miscuglio di orgoglio e di segretezza. Il direttore generale richiese un rapporto completo che venne catalogato come segretissimo. Lo trasmise poi al ministro della Difesa che lo comunicò, in sintesi, a un primo ministro stupito e sbalordito. La cosa fu comunicata anche al governo, sotto la clausola della massima segretezza e Ratcliff tornò al suo ufficio, al Ministero della Scienza, alquanto scosso e incerto su quel che doveva essere il prossimo passo da compiere. Dopo lunghe riflessioni diede ordine a Osborne, che scrisse a Fleming invitandolo a fare un rapporto ufficioso.
Fleming rispose con una parola: «Uccidetela.»
Con regolare procedura fu convocato nell’ufficio di Geers e gli fu chiesto di dare spiegazioni.
«Non capisco,» disse Geers strizzando gli occhi fino a ridurli a una fessura dietro gli occhiali, «non capisco come la cosa la riguardi.»
Fleming pestò un pugno sull’enorme scrivania.
«Sono ancora sì o no un membro della squadra?»
«In un certo senso.»
«Allora forse lei farà bene ad ascoltarmi. Può avere l’aspetto di un essere umano, ma non lo è. È un’appendice della macchina, come l’altra creatura, solo è più perfezionata.»
«È basata su qualche elemento questa sua teoria?»
«È basata sulla logica. L’altra creatura era un primo abbozzo, un primo tentativo di produrre un organismo simile al nostro e perciò a noi accettabile. Questo è un tentativo migliore, basato su un numero di informazioni maggiore. Ho lavorato su quelle informazioni: so quanto sono premeditate.»
Geers socchiuse appena gli occhi. «E ora che questo miracolo è portato a termine lei vorrebbe che lo uccidessimo?»
«Se non lo fate ora, non ne sarete mai più capaci. La gente giungerà a considerarlo una creatura umana. Diranno che lo assassiniamo. Ci fregherà — la macchina ci fregherà, — proprio come vuole.»
«E se decidiamo di non seguire il suo consiglio?»
«Allora almeno tenete la creatura lontana dal calcolatore.»
Per un minuto Geers rimase in silenzio, gli occhiali scintillanti, poi si alzò per concludere il colloquio.
«Lei, Fleming, è qui solo per tacita tolleranza, e per cortesia verso il ministro della Scienza. Il giudizio in questo caso sta a me e non a lei. Faremo quello che riterrò meglio, e lo faremo qui.»