Fred Hoyle John Elliot A come Andromeda

1 Arrivo

La luce filtrava appena dal cielo mentre risalivano Bouldershaw Fell. Judy sedeva vicino al professore sul sedile posteriore dell’auto che percorreva la strada da Bouldershaw centro all’aperta brughiera; lanciò un’occhiata speranzosa fuori dal finestrino ma solo quando furono quasi in cima alla collina vide il radiotelescopio.

Si levò all’improvviso di fronte a loro: tre massicci piloni che si univano in cima a formare un arco triangolare, stagliato preciso contro il cielo declinante. Tra i sostegni, sul terreno, si incurvava una conca di cemento delle dimensioni di una arena, e sopra, sospesa alla sommità dell’arco, una conca metallica più piccola, rivolta in basso, puntava una lunga antenna verso il terreno. Le dimensioni della struttura non davano subito all’occhio; apparivano soltanto sproporzionate rispetto al paesaggio. Solo quando l’auto vi giunse e vi si fermò sotto, Judy cominciò a rendersi conto di quanto grande fosse. Era completamente diversa da tutto ciò che aveva mai visto: completamente e decisamente a sé, come una scultura.

Tuttavia, nonostante la sua singolarità, non c’era nulla di particolarmente minaccioso in quella struttura alta, incombente, che predicesse loro lo straordinario e disastroso futuro che ne doveva nascere.

Scesi dall’auto si fermarono un istante, nell’aria mite e dolce che riempiva loro testa e polmoni, e alzarono lo sguardo ai tre grossi piloni, al riflettore metallico che scintillava alto sopra di loro e al pallido cielo sullo sfondo. Tutt’intorno, sulla cima spoglia della collina, erano sparse alcune basse costruzioni e degli apparati minori di antenne, circondati da un reticolato metallico. Udivano solo il fischio del vento tra i piloni e il richiamo dei chiurli e potevano quasi sentire il grande orecchio di cemento e metallo, lì accanto, teso ad ascoltare le stelle.

Il professore si diresse per primo verso l’edificio principale: una costruzione bassa dalla facciata di pietra, con l’entrata non ancora finita e il sentiero d’accesso tracciato da poco. Alcuni uomini stavano fissando i cardini del cancello e dipingendo i cartelli indicatori: tutto aveva un’aria molto nuova e recente sullo sfondo oscuro e dolce della collina.

«Abbiamo tutto l’armamentario di ferri chirurgici necessario,» spiegò il professore con un piccolo gesto della mano. «Qui dentro c’è il centro di controllo.»

Era un uomo sulla sessantina, piccolo, preciso e calmo come un medico di famiglia.

«Mica male il suo rampollo,» commentò Judy.

«È il rampollo più importante che abbia mai aiutato a venire al mondo. Un parto che è durato dieci anni.»

Le rivolse una strizzatina d’occhio e trotterellò con le sue scarpette nere su per i gradini che portavano all’edificio di controllo.

Il vestibolo aveva un aspetto provvisorio ma al tempo stesso familiare. L’inevitabile soffitto a pannelli bucherellati, l’inevitabile pavimento di graniglia, muri di mattoni imbiancati, illuminazione al neon. Un telefono a muro e un distributore di acqua potabile. Sulle pareti laterali due piccole porte e una porta doppia di fronte all’ingresso. Tutto qui. Un lieve sibilo proveniva dalla doppia porta. Quando il professore l’apri il sibilo si fece più forte. Sembrava un’interferenza in un apparecchio radio.

Mentre superavano la doppia porta uscì un uomo con il grembiule scuro degli addetti alla pulizia. I suoi occhi incontrarono per un momento quelli di Judy, ma quando la ragazza socchiuse la bocca egli distolse lo sguardo.

«Buona sera, Harries,» disse il professore.

La stanza in cui entrarono era la sala di controllo, il centro dell’osservatorio. A un’estremità una finestra panoramica offriva la vista della gigantesca struttura all’esterno: di fronte alla finestra c’era un massiccio banco di metallo, simile alla tastiera di un organo, fornito di pannelli, di pulsanti, luci e interruttori. Parecchi giovani stavano lavorando al banco, consultando ogni tanto i due calcolatori che, chiusi in alte custodie metalliche, si levavano ai due lati del banco. Una parete era coperta da ingrandimenti di fotografie di stelle, prese col telescopio; l’altra era per due terzi una divisione in vetro dietro alla quale, in una stanza interna, si vedevano altri giovani lavorare in squadra.

«La cerimonia dell’inaugurazione si svolgerà qui,» annunciò Reinhart.

«Dov’è che il ministro romperà la bottiglia di champagne o taglierà il nastro o farà quel che dovrà fare?»

«Al banco. Schiaccerà un bottone al banco di controllo per metterlo in azione.»

«Non funziona ancora?»

«Non ancora. Stiamo facendo delle prove di collaudo.»

Judy si fermò sulla soglia a osservare attentamente. Era il tipo della donna giovane e attraente che vien spesso definita bella più che graziosa: una pelle fresca, uno sguardo vivo e intelligente, un portamento molto deciso, un tantino goffo. Sarebbe potuta essere un’infermiera o un’ufficialessa dei servizi sussidiari o semplicemente una ragazza uscita da una scuola raffinata. Aveva mani piuttosto grandi e occhi di un azzurro intenso. Sottobraccio teneva un fascio di fogli ed opuscoli che estrasse per consultarli, come se potessero darle una spiegazione di ciò che vedeva.

«È il più grande radiotelescopio di… be’, del mondo.» Il professore si guardò attorno, sorridendo felice. «Non è grande come un interferometro, naturalmente, ma questo possiamo dirigerlo. Si può spostare il fuoco con il piccolo riflettore in cima, e in tal modo seguire una fonte attraverso il cielo.»

«Da questi mi sembrava d’aver capito,» Judy agitò i fogli, «che ci sono degli altri radiotelescopi che funzionano nello stesso modo.»

«Vero. Nel sessanta, quando abbiamo cominciato a costruire questo, ce n’erano già. Ma non hanno la sensibilità del nostro.»

«Perché questo è più grande?»

«Non solo. Anche perché abbiamo apparecchi ricevitori migliori. Questo ci dovrebbe dare una maggior sensibilità al rumore. È tutto installato qui dentro.»

Accennò con la mano piccola e delicata alla stanza dietro il pannello di vetro.

«Vede, tutto ciò che si raccoglie dalla maggior parte delle fonti astronomiche, radiostelle per esempio, è un segnale elettrico molto debole, ed è mescolato a molti altri rumori provenienti dall’atmosfera, dai gas interstellari, da sa il cielo cosa. Be’, il cielo lo sa di certo.»

Parlava con voce precisa, tranquilla, naturale; come un medico che parlasse di un raffreddore. La sensazione del successo, dell’aspettativa, era celata.

«Potete sentire delle fonti che gli altri non riescono a captare?» chiese Judy.

«Lo spero. È quel che vogliamo. Ma non mi chieda come. C’è un gruppo che se n’è occupato.» Abbassò modestamente lo sguardo sui propri piedi. «Il dottor Fleming e il dottor Bridger.»

«Bridger?» Judy alzò gli occhi di colpo.

«In realtà il cervello è Fleming. John Fleming.» Lo chiamò riguardosamente. «John!»

Uno dei giovani si staccò dal gruppo attorno al banco di controllo e si avviò verso di loro.

Gettò un «Salve!» al professore, ignorando Judy.

«Se hai un momento, John. Il dottor Fleming, Miss Adamson.»

Il giovane scoccò un’occhiata a Judy, poi si rivolse al banco di controllo. «Abbassate ’sto maledetto baccano!»

«Cos’è?» domandò Judy. I disturbi atmosferici si ridussero a un debole sibilo. Il giovane alzò le spalle.

«Sibili interstellari, per lo più. L’universo è pieno di materia carica di energia elettrica. Quello che noi riceviamo è una emissione elettrica di queste cariche, che noi avvertiamo come rumore.»

«Il sottofondo musicale dell’universo,» aggiunse Reinhart.

«Se lo deve ricordare, professore,» disse il giovane con una punta di amichevole presa in giro. «Se lo ricordi per le dichiarazioni stampa di Jacko.»

«Jacko non tornerà.» Fleming lo guardò, un tantino sorpreso, e Judy aggrottò la fronte come se le fosse sfuggita una notizia.

«Chi?» domandò al professore.

«Jackson, il suo predecessore.» Si rivolse a Fleming. «Miss Adamson è il nostro nuovo press-agent.»

Fleming la osservò senza particolare piacere. «Bene, vanno e vengono, vero? Si prepara a ereditare le sfere di Jacko?»

«Di che si tratta?»

«Cara signorina, lo scoprirà presto.»

«Sto illustrandole l’organizzazione per giovedì,» spiegò il professore. «L’inaugurazione ufficiale. La signorina si occuperà della stampa.»

Fleming aveva un viso scuro e pensoso, più preoccupato che imbronciato; ma sembrava stanco e amareggiato. Borbottò con un forte accento del Midland:

«Oh, sì, l’inaugurazione ufficiale. Tutte le luci colorate saranno in azione. Le stelle canteranno Rule Britannia tra angelici cori o io me ne andrò al pub.»

«Spero che sarai qui, John.» Il professore sembrava leggermente irritato. «Nel frattempo potresti far fare una visita a Miss Adamson.»

«Ma se ha da fare, no,» intervenne Judy a voce bassa e ostile. Fleming la guardò con interesse per la prima volta.

«Che cosa ne sa di questo posto?»

«Molto poco, per ora.» Sventolò i suoi fogli. «Mi baso su questi.»

Fleming si girò stancamente verso il centro della stanza con un ampio cenno del braccio.

«Questo, signore e signori, è il più grande e il più moderno radiotelescopio del mondo, per non dire che è il più caro. Ha una potenza da quindici a venti volte maggiore di ogni altro apparecchio esistente e, manco a dirlo, è un miracolo della scienza britannica. Per non parlare dell’ingegneria. Gli elementi ricevitori,» accennò fuori dalla finestra, «sono dirigibili, così che possono seguire la corsa di un corpo celeste attraverso i cieli. Ora lei potrà raccontare tutto, vero?»

«Grazie,» rispose Judy, freddamente. Guardò il professore, ma questi sembrava appena appena imbarazzato.

«Mi spiace averti disturbato, John,» disse.

«La prego, è un piacere. Sempre a sua disposizione.»

Il professore rivolse a Judy la sua attenzione da medico di famiglia.

«Le farò fare io una visita.»

«Lei vuole che sia in funzione per giovedì, vero?» chiese Fleming. «Per Sua Eccellenza il ministro?»

«Sì, John. Sarà tutto in ordine?»

«Sembrerà tutto in ordine. Sua Signoria non capirà se funziona o no. E neppure quei ficcanaso dei giornalisti.»

«Preferirei che funzionasse.»

«Già.»

Fleming si volse per tornare al banco di controllo. Judy si attendeva un’esplosione o almeno qualche manifestazione di dignità offesa da parte del professore, ma questi si limitò a scuotere il capo come di fronte a una diagnosi difficile.

«Non si possono fare imposizioni a un ragazzo come John. Si possono aspettare dei mesi per un’idea. Anni. Ne vale la pena, se l’idea è buona, e con lui di solito è così.» Guardò pensosamente il dorso di Fleming che si allontanava: trasandato, trascurato, i capelli e gli abiti in disordine. «Dipendiamo dai giovani, sa: Ha fatto lui tutto il progetto dell’apparecchio a bassa temperatura; lui e Bridger. I ricevitori sono basati su attrezzature a bassa temperatura, e questo non è il mio campo. C’è un paragrafo a questo proposito da qualche parte.» Accennò distrattamente al fascio di fogli di lei. «L’abbiamo un po’ spremuto, temo.»

Sospirò e la condusse a visitare l’edificio. Le mostrò le fotografie murali del cielo di notte dicendole il nome e le caratteristiche delle grandi radiostelle, le principali fonti dei suoni che sentiamo dall’universo. «Questa,» spiegò, indicando le fotografie, «non è affatto una stella, ma due intere galassie in collisione; e questa è una stella che sta esplodendo.»

«E questo?»

«La Grande Nebulosa di Andromeda. M. 31, la chiamiamo, tanto per confonderla con l’autostrada.»

«Si trova nella costellazione di Andromeda?»

«No. La nebulosa è molto, molto oltre Andromeda. Rappresenta da sola un’intera galassia. Non è una cosa da nulla, vero?»

La ragazza fissò la bianca spirale di stelle e annuì.

«Ne ricevete un segnale?»

«Un sibilo, come quello che ha sentito.»

Vicino al muro c’era una grande sfera di plastica trasparente con una palla piccola e scura al centro e altre palle bianche disposte attorno a essa, come gli elettroni nel modello di un atomo.

«Le sfere di Jacko!» Il professore ammiccò. «O la follia di Jacko, come la chiamano. È la rappresentazione di quanto gira in orbita attorno alla Terra. Tutte queste unità bianche rappresentano dei satelliti, dei missili, e via dicendo. Ferraglia. E qui, in mezzo, c’è la Terra.»

Il professore la fece oscillare dolcemente.

«Forse a lei sembra solo un giocattolo. Jacko pensava che poteva interessare la gente del governo che verrà qui a curiosare. Val certo la pena di registrare quel che accade attorno alla Terra, ma tenere un macchinario di questo genere è tempo e denaro sprecato. Eppure l’esercito ce lo chiede e noi, se non possiamo spillare quattrini dal bilancio della Difesa, non otteniamo il denaro di cui abbiamo bisogno.» Pareva che si divertisse a dire malignità. Ebbe un piccolo gesto aggraziato, indicando la stanza e l’enorme struttura di fuori. «Venticinque milioni di sterline, anzi, di più, ecco quanto è costato.»

«Dunque, c’è un interesse militare?»

«Sì, ma è cosa mia, o meglio del Ministero della Scienza. Non del suo Ministero.»

«Faccio parte del suo personale, ora.»

«Non per mio desiderio.» Il suo modo di fare si fece più duro, cosa che non era accaduta quando Fleming era stato un po’ scortese con lui; Fleming, dopotutto, era uno dei suoi.

«Qualcun altro sa la ragione per cui mi trovo qui?» domandò Judy.

«Non l’ho detto a nessuno.»

Lasciò cadere l’argomento e la condusse in un’altra stanza dove si avvicinò, con precauzione, agli apparecchi ricevitori e alle attrezzature di comunicazione.

«Noi rappresentiamo solo un anello della catena di osservatori posti tutt’intorno al mondo, anche se non siamo l’anello più piccolo.» Con una sorta di pura soddisfazione volse lo sguardo attorno ai quadri di comando, ai fili, ai sostegni dell’apparecchio. «Non mi sentivo vecchio quando cominciammo a mettere insieme quest’attrezzatura, ma ora sì. Ti viene un’idea e pensi: ‘Ecco ciò che dobbiamo fare,’ e ti sembra il primo passo da compiere. Un passo molto breve, forse. Poi si comincia: progetto, ricerca, commissioni, costruzione, diplomazia. Un’ora della tua vita qui, un mese là. Speriamo che funzioni. Oh, ecco Whelan! È l’esperto di questa parte dell’osservatorio.»

Judy venne presentata a un giovane dal viso pallido e dall’accento australiano che si precipitò sulla sua mano come su qualcosa che avesse perduto.

«Non ci siamo già conosciuti?»

«Non credo.» La ragazza lo fissò con aria ingenua, gli occhi azzurri spalancati, ma l’altro non si lasciò scoraggiare.

«Ne sono sicuro.»

Judy esitò e si guardò attorno in cerca di aiuto. Harries, l’uomo delle pulizie, era in piedi in mezzo alla stanza e, quando lei lo guardò, scosse impercettibilmente il capo. La ragazza si volse di nuovo a Whelan.

«Mi spiace, non ricordo.»

«Forse a Woomera…»

Il professore la condusse nuovamente nella sala principale di controllo.

«Come si chiama?»

«Whelan.»

Prese un appunto sul suo taccuino. Il gruppo al banco di controllo si era diviso, restava soltanto un giovane, al posto del tecnico di turno, seduto a controllare i quadri. Il professore la condusse direttamente da lui.

«Salve, Harvey.»

Il giovane volse il capo e fece per alzarsi.

«Buona sera, professor Reinhart.» Era educato, almeno. Judy guardava l’enorme apparecchiatura fuori dalla finestra, la brughiera deserta e il cielo che andava ora prendendo un cupo color porpora.

«Conosce il principio su cui si basa questo telescopio?» le chiese Harvey. «Ogni emissione radio proveniente dal cielo colpisce la conca e viene ritrasmessa alle antenne, poi viene ricevuta e registrata dalle apparecchiature qui dentro.» Indicò con la mano la parete divisoria di vetro. Judy non guardò per paura di vedere Whelan, ma Harvey, preciso, ostinato, incolore, già attirava altrove la sua attenzione. «Questo banco di calcolatori ottiene l’azimuth e l’altezza di qualsiasi fonte si voglia mettere a fuoco, e ne segue la traiettoria. C’è un servomeccanismo automatico…»

Finalmente Judy riuscì a fare una scappata nel vestibolo e a restare sola per un attimo con Harries.

«Fai sloggiare Whelan,» gli disse.


Aveva lasciato la valigia all’albergo, in città, ed era salita all’osservatorio senza un’idea molto chiara su ciò che doveva aspettarsi. Aveva visitato parecchie stazioni e in molte aveva lavorato come ufficiale di Sicurezza, da Fylingdales all’isola Christmas. Whelan, come Judy ben sapeva, l’aveva incontrata in una base missilistica in Australia. Con Harries aveva lavorato in una missione a Malvern. Non si considerava una spia e l’idea di dover dare informazioni sui suoi colleghi le risultava sgradevole; ma il Ministero dell’Interno aveva stabilito che lei o qualcun altro venisse trasferito dal Ministero della Difesa, sezione Servizio di Sicurezza, al Ministero della Scienza; un incarico è sempre un incarico. Prima tutti quelli con cui lei lavorava avevano sempre saputo chi fosse e lei aveva sempre pensato che il suo incarico fosse quello di proteggerli. Questa volta, invece, i sospetti erano loro, ai quali lei sarebbe stata spacciata come una di quelle trafficone delle public relations che ficcano il naso dappertutto e fan domande, per non destare allarme. Reinhart lo sapeva e la cosa non gli andava a genio. Quanto a lei, quella parte la disgustava, ma il lavoro è lavoro, e questo, le avevano detto, era un lavoro importante.

Poteva recitare la parte senza difficoltà: aveva un aspetto così onesto, per bene, sembrava una di loro; non doveva far altro che starsene in disparte, ascoltare e imparare. A scoraggiarla era la gente che incontrava; avevano un loro mondo e dei valori loro. Chi era lei per giudicarli o per farli giudicare? Dopo che Harries ebbe annuito e si fu allontanato per far ciò che gli era stato detto, provò un certo disprezzo per sé e per lui.


Il professore partì poco dopo, affidandola a John Fleming.

«Penso che potresti lasciarla al Lion quando torni a Bouldershaw. Abita là.»

Uscirono sulle scale per accompagnarlo.

«Piuttosto simpatico,» commentò Judy.

Fleming grugnì. «Duro come il ferro.»

Trasse di tasca una fiaschetta e bevve, poi l’offri a lei. Al suo rifiuto ne prese un altro sorso: Judy l’osservava, in piedi nella luce del portico, la testa rovesciata all’indietro, il pomo d’Adamo che si muoveva mentre inghiottiva. In lui c’era qualcosa di chiuso, di disperato. Forse, come aveva detto Reinhart, lo avevano spremuto un po’ troppo. Ma non era tutto; dava la sensazione che in lui ci fosse una dinamo in carica permanente.

«Lei giuoca a bocce?» Sembrava avere dimenticato l’indifferenza iniziale nei suoi confronti. Forse perché aveva bevuto. «C’è un campo giù a Bouldershaw. Venga a partecipare ai nostri riusciti passatempi.»

Judy esitava.

«Oh, su, venga. Non la lascerò certo in balìa di questi pazzi di astronomi.»

«Non è un astronomo, lei?»

«Ma le pare? Criogenica, calcolatori: ecco la mia specialità. Non queste stupidaggini cervellotiche.»

Si diressero al piccolo spiazzo dove era ferma l’auto di Fleming. Alla sommità del telescopio brillava una luce rossa, simile a quella di un faro, e dietro di essa, nel cielo scuro, cominciavano ad accendersi le stelle. Se ne potevano già vedere alcune attraverso gli archi altissimi dei piloni, come già catturate dall’uomo. Arrivati vicino alla macchina, Fleming si volse a guardare in alto.

«Ho il presentimento,» disse, e la sua voce risuonò più pacata, gentile, e non più aggressiva, «che si sia giunti al punto di rottura nelle scienze fisiche.»

Cominciò ad abbassare la capote dell’auto, una piccola macchina sportiva, mentre lei passava dall’altra parte.

«La aiuto.»

Parve non sentire.

«A un certo momento, a un certo punto della cerchia delle nostre conoscenze siamo destinati a… hop, andare al di là. Dritto in un nuovo territorio. E potrebbe essere qui, in questo campo.» Avvoltolò la capote dietro il sedile. «’La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’universo.’ Chi l’ha scritto?»

«Churchill.»

«Churchill?» Rise. «Galileo. ‘Egli è scritto in linguaggio matematico.’ Ecco cosa ha detto Galileo. Le serve per un comunicato stampa?»

Judy lo guardò, senza saper bene come prenderla. Fleming le aprì la portiera.

«Andiamo.»

La strada da una parte scendeva nel Lancashire, e dall’altra nello Yorkshire. Nello Yorkshire si dirigeva in una lunga valle dove, ogni poche miglia, si levavano, sul fiume, dei vecchi, alti mulini di mattoni, fino a giungere a Bouldershaw. Fleming guidava molto in fretta, borbottando.

«Mi danno ai nervi… L’inaugurazione… e quei maledetti ministri… Il vecchio professore che si dà un gran daffare a preparare l’elenco degli ospiti d’onore. La banda di quelli del Ministero che scocciano e tormentano tutti. In realtà non è che un qualsiasi osservatorio. Ma siccome è grande e costa un patrimonio diventa proprietà pubblica. Non che ne faccia colpa al professore. Ormai c’è dentro fino al collo. Si è impegnato e deve tirar fuori dei risultati.»

«Be’, non sarà così?»

«Non so.»

«Mi pareva che l’attrezzatura fosse sua.»

«Mia e di Dennis Bridger.»

«Dov’è il dottor Bridger?»

«Giù al campo di bocce. Ci aspetta, e spero che abbia già prenotato una pista. E una bottiglia.»

«Ne abbiamo già una.»

«Cosa ce ne facciamo di una? Viene sete, da queste parti.»

Mentre filavano giù per la buia strada tutta curve, cominciò a parlarle di sé e di Bridger. Tutti e due avevano studiato all’Università di Birmingham, e avevano fatto insieme dei lavori di ricerca al Cavendish. Fleming era un teorico, Bridger era per l’applicazione pratica, matematico e ingegnere. Bridger era uno scienziato di carriera, deciso a ottenere il massimo nel suo campo. Fleming era un ricercatore puro, a cui interessavano solo i fatti. Ma entrambi disprezzavano il sistema accademico nel quale erano stati educati e se ne stavano per conto loro. Reinhart se li era portati via alcuni anni prima, perché collaborassero al nuovo telescopio. E poiché egli era, con molta probabilità, l’astrofisico più illustre e stimato del mondo occidentale, un vero capo e un cacciatore di talenti, lo avevano seguito senza esitazioni, e lui li aveva spalleggiati, incoraggiati e protetti come un padre, durante il lungo e tortuoso processo di realizzazione.

Si sentiva immediatamente, quando Fleming parlava, la mutua fiducia che, dietro la sua rudezza, lo legava al professore. Bridger, al contrario, era annoiato e irrequieto. Aveva fatto la sua parte, e, come disse Fleming senza modestia né presunzione, avevano dato al loro vecchio amico il più favoloso apparecchio della Terra.

Non fece domande sul conto di Judy e lei se ne stette in silenzio. La ragazza salì nella sua stanza e lui rimase ad attenderla nel bar del Lion. Quando giunsero al campo di bocce, Fleming era sfinito.

Il campo di bowling era un cinema riadattato che spiccava in un lago di luce al neon e di riflettori nello sfondo buio della vecchia cittadina di provincia. Pareva che la clientela non provenisse da quelle strade acciottolate. Per lo più erano ragazzi. Portavano pantaloni di tela, giubbotti di cuoio, capelli a spazzola, maglioni con le iniziali. Era difficile immaginarli nell’intimità delle vecchie case che si allineavano lungo le squallide valli dello Yorkshire. Le loro intonazioni dialettali erano soffocate da un fiume di musica e dal frastuono e dal tramestìo delle bocce e dei birilli sui tavolati delle piste. Ce n’erano sei o sette: ognuna aveva a un’estremità dieci birilli e all’altra la rastrelliera per le bocce, un tavolino per segnare i punti, una panca e quattro giocatori. Quando una boccia colpiva il bersaglio segnando un punto, un rastrello automatico raccoglieva i birilli e faceva ritornare le bocce alla rastrelliera vicino al giocatore. Salvo che per il momento di atletica concentrazione in cui si gettava la boccia, i giocatori parevano disinteressarsi alla gara: se ne stavano lì attorno, a chiacchierare, a bere coca-cola a garganella. Era un ambiente più americano di quanto fosse stato il cinema: pareva che attraverso lo schermo l’atmosfera statunitense fosse esplosa e si fosse impossessata del pubblico. Ma era così, rifletteva Fleming, che le cose andavano, in quel modo dell’accidente.

Trovarono Bridger, un tipo sottile, segaligno, circa dell’età di Fleming, che giocava su una pista in compagnia di una ragazza tutta curve con un maglione rosso e pantaloni gialli molto aderenti. Petto e capelli erano tirati su al massimo, il viso truccato come quello di una ballerinetta, e camminava come una stellina di Hollywood; ma quando aprì bocca trapelò tutto il suo Yorkshire. Tirò una boccia con energia notevole e tornò indietro per appoggiarsi alla spalla di Bridger succhiandosi un dito.

«Uh!, mi è venuto via un pezzo di pelle.»

«Questa è Grace.» Pareva che Bridger si vergognasse un pochino della ragazza. Era prematuramente sciupato e nervoso, vestito con anonimi abiti sportivi, simile a un impiegato postale la domenica mattina. Strinse la mano a Judy con aria incerta, e quando lei disse: «Ho sentito parlare di lei,» le lanciò un’occhiata rapida e ansiosa.

«Miss Adamson,» presentò Fleming, versando del whisky nella coca-cola di Bridger. «È la nostra nuova addetta alle public relations.»

«Qual è il suo nome di battesimo, cara?» indagò la ragazza.

«Judy.»

«Non ha dell’ansaplasto?»

«Oh, chiedi alla cassa!» intervenne Bridger impaziente.

«Lavora con voi?» chiese Judy a Fleming.

«Genio locale. Proprietà di Dennis. Io non ho tempo.»

«Peccato,» commentò la ragazza. Ma Fleming non le badò. Dopo aver preso un altro sorso dalla fiaschetta, si diresse con passo incerto alla pista. Bridger si rivolse a Judy in tono confidenziale:

«Che le è stato detto di me?»

«Solo che ha lavorato con il dottor Fleming.»

«Non è la mia massima aspirazione.» Pareva deluso. Mosse il naso, come un coniglietto. «Nell’industria potrei prendere cinque volte quel che guadagno qui.»

«È questo che desidera?»

«Appena il complesso sulla collina entra in funzione, taglio la corda.» Lanciò un’occhiata di traverso a Fleming con aria d’intesa, poi si rivolse di nuovo a lei. «Il vecchio John è deciso a restare, ad aspettare l’età dell’oro, e, prima che ottenga qualcosa, sarà vecchio. Vecchio e rispettato. E povero.»

«E forse felice.»

«Non sarà mai felice. Ne manda giù troppe.»

«Chi ne manda giù troppe?» Fleming indietreggiò per il lancio e segnò il punto.

«Tu.»

«D’accordo, bevo troppo. Amico, bisogna pur avere qualcosa a cui tenersi attaccati.»

«Cosa c’è che non va nella strada che ti sei prescelto?» domandò Bridger arricciando il naso.

«Senti,» Fleming si abbandonò sulla panca accanto a loro. «Hai tutte le intenzioni di camminare per una strada; poi cambi passo e non ti ritrovi più. Parlavamo di Galileo… perché? Perché lui era il Rinascimento. Lui e Copernico e Leonardo da Vinci. Ed è stato allora che hanno fatto il grande salto, abbattendo tutte le barriere, e han dovuto starsene in piedi per conto loro in mezzo a un universo grande, enorme, sconfinato.»

Si alzò, prese dalla rastrelliera un’altra pesante boccia, e la sua voce si alzò sopra l’assordante frastuono della musica e del giuoco.

«Abbiamo posto nuove barriere, molto più oltre; ma questo è un secondo Rinascimento. Un bel giorno, mentre noi non ce ne accorgiamo, tutti presi a parlare di politica, di calcio e di quattrini, allora d’improvviso tutte le barriere che conosciamo verranno abbattute, via!, come questa!»

Diede un gran colpo con la boccia facendo cadere dal tavolo segnapunti le bottiglie di coca-cola.

«Ehi, sta’ attento, animale!» Bridger si chinò a raccogliere le bottigliette e asciugò con un fazzoletto il liquido sparso. «Mi spiace, Miss Adamson.»

Fleming buttò il capo all’indietro, ridendo.

«Judy, si chiama Judy.»

Bridger, piegato sulle ginocchia, cercava di togliere la macchia dalla gonna di Judy.

«Temo proprio che rimarrà la macchia.»

«Non importa.» Judy non gli badava. Fissava Fleming, interdetta e affascinata. Poi il momento passò.

«Dottor Fleming, al telefono.»

Dopo un minuto Fleming tornò, scuotendo la testa come per schiarirsi le idee. Tirò in piedi Bridger.

«Andiamo, Dennis. Vogliono noi.»


Harvey era solo nella sala di controllo: sedeva al banco e regolava la sintonia del ricevitore. La finestra di fronte a lui era nera come una lavagna e la stanza era silenziosa: si sentiva solo, dall’altoparlante, un suono crepitante, basso e continuo. All’esterno, silenzio; poi il rumore dell’auto di Fleming.

Fleming e Bridger entrarono dalla porta girevole, e si fermarono, battendo le palpebre, nel cerchio di luce. Fleming, turbato, fissò Harvey.

«Che c’è?»

«State a sentire.» Harvey alzò una mano e loro si fermarono, in ascolto.

In mezzo alle scariche, ai sibili e ai fischi che venivano dall’altoparlante, giungeva un’unica nota, debole e spezzata, che però si ripeteva continuamente.

«Alfabeto Morse,» affermò Bridger.

«Non è a gruppi.»

Ascoltarono ancora.

«Breve e lunga,» aggiunse Bridger, «ecco cos’è.»

«Da dove proviene?» chiese Fleming.

«Da qualche parte di Andromeda. Ne stavamo esplorando la zona…»

«Da quanto dura?»

«Da un’ora circa. Siamo sul massimo, ora.»

«Puoi muovere il riflettore?»

«Penso di sì.»

«Non dovremmo farlo,» intervenne Bridger. «Non dovremmo cominciare subito a fare esperimenti.»

Fleming lo ignorò.

«Il servo-apparecchio è già in azione?» chiese.

«Sì, dottor Fleming.»

«Bene, cerchi di captarlo.»

«No, John, ascolta.» Bridger tese vanamente una mano per toccare il braccio di Fleming.

«Può essere uno Sputnik, o qualcosa del genere,» disse Harvey.

«C’è qualcosa di nuovo in orbita?» Fleming si liberò dalla stretta di Bridger.

«Nulla, che si sappia.»

«Qualcuno potrebbe avere lanciato in orbita qualcosa di nuovo…» cominciò Bridger, ma Fleming lo interruppe.

«Dennis.» Cercava di pensare con lucidità. «Vai a mettere in funzione un registratore, da bravo. E anche uno stampatore.»

«Non sarebbe meglio controllare?»

«Dopo, controlliamo.»

Fleming uscì lentamente nel vestibolo, si chinò sul distributore d’acqua e si sciacquò a lungo il viso. Quando tornò, fresco, lucido e notevolmente sobrio, trovò Bridger già al lavoro nella sala apparecchi, e Harvey che telefonava all’ingegnere di turno. Quando i motori elettrici entrarono in funzione, le luci si abbassarono un istante. Il riflettore metallico, in alto là fuori, si mosse in silenzio, impercettibilmente. Il suo movimento compensava il moto terrestre. Dall’altoparlante il suono giunse un poco più alto.

«Non si può sentirlo meglio?»

«Non è un segnale molto distinto.»

«Hum.» Fleming aprì un cassetto del banco di controllo e ne trasse un catalogo. «Le sue coordinate galattiche non si sono spostate?»

«Difficile a dirsi. Non lo inseguivo. Ma non possono essersi spostate di molto.»

«Allora non è qualcosa in orbita?»

«Direi di no.»

Harvey si piegò ansiosamente sul quadro di controllo acustico. «Non potrebbe essere qualche dilettante che ritrasmette in alfabeto Morse dalla Luna?»

«Non sembra un vero alfabeto Morse. E la Luna non è ancora sorta.»

«O da Marte, o da Venere. Spero di non avervi messi in allarme per niente.»

«Andromeda, ha detto?»

Harvey annuì. Fleming sfogliava il catalogo, leggendo e ascoltando contemporaneamente. Tornò gentile e silenzioso come era stato prima con Judy, in macchina. Sembrava un ragazzino studioso.

«Continua a seguirlo?»

«Sì, dottor Fleming.»

Fleming andò al banco e premette il pulsante del telefono interno.

«Dennis, lo ricevi?»

«Sì,» la voce di Bridger risuonava metallica, «ma non ha alcun senso.»

«Può darsi che prima di mattina ne abbia. Sto cercando di farmi un’idea della distanza.»

Fleming interruppe la comunicazione e attraversò il locale, con un libro in mano, dirigendosi alle carte astronomiche sulla parete di fondo.

Lavorarono per un po’: nella stanza il solo rumore erano i suoni che venivano dallo spazio. Fleming controllava la fonte e Harvey, con il grande e silenzioso telescopio all’esterno, manteneva il contatto.

«Che ne pensa?» chiese Harvey infine.

«Secondo me viene da molto, molto lontano.»

Lavorarono e ascoltarono ancora, mentre il segnale continuava a giungere, senza fine.

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