9

Quando tornai da Rog e Bill, nel salotto belvedere di Bonforte, loro stavano mangiandosi le unghie dal nervosismo. Non appena m’affacciai all’uscio, Corpsman balzò in piedi e mi si precipitò incontro. — Dove diavolo s’era cacciato? — protestò.

— Ero dall’imperatore — risposi freddamente.

— È rimasto assente cinque o sei volte più del necessario.

Non mi presi la briga di rispondere. Da quando c’era stato tra noi quel famoso battibecco sul mio discorso, io e Corpsman c’eravamo limitati a sopportarci, continuando a collaborare nei limiti dell’indispensabile. Ma il nostro era un matrimonio di convenienza, non d’amore. Lavoravamo insieme, ma in verità l’ascia di guerra era tutt’altro che seppellita, a meno che non intendesse seppellirla lui, nella mia schiena… Non avevo fatto sforzi particolari per guadagnarmi la sua amicizia, e sinceramente non vedevo il motivo per cui avrei dovuto farne. Secondo il mio parere, i genitori di un individuo così spregevole non potevano che essersi incontrati di sfuggita a un ballo mascherato.

Non credo che l’animosità tra colleghi giovi alla troupe, ma Corpsman era disposto ad accettarmi in una sola veste: quella del domestico, con il cappello in mano e "ai suoi ordini, signore". E questo non ero assolutamente disposto a concederglielo, neppure per conservare l’armonia. Io ero un professionista, assunto per compiere un lavoro molto difficile, attinente alla professione drammatica, e i professionisti non usano la scala di servizio: i professionisti sono trattati con rispetto.

Lo ignorai, quindi, e rivolgendomi a Rog domandai: — Dov’è Penny?

— Da lui - mi rispose Clifton. — Insieme con Dak e il professore.

— L’avete portato qui?

— Sì. — Clifton mostrò un attimo d’esitazione. — È in una stanza del suo appartamento personale: quella che dovrebbe servire da camera da letto alla padrona di casa, se ci fosse. Era l’unico posto dove lo potevamo curare pur conservando la massima discrezione. Spero non le dispiaccia.

— Oh, niente affatto.

— Non le darà il minimo fastidio. Le due camere da letto, come forse avrà già potuto notare, comunicano solo attraverso gli spogliatoi, e abbiamo chiuso a chiave la porta che li divide. È fatta di materiale antiacustico.

— Mi sembra un’ottima sistemazione — commentai. — Come sta?

— Meglio… molto meglio, nel complesso — rispose lui, rabbuiandosi. — I suoi periodi di lucidità diventano sempre più lunghi. — Esitò. — Può andare lei stesso a fargli visita, se lo desidera.

La mia esitazione fu ancor più lunga della sua. Alla fine mi decisi a domandare: — Secondo il professor Capek, quanto tempo ci vorrà perché possa mostrarsi in pubblico?

— Non si può dire… Ci vorrà qualche tempo.

— Ma quanto? Tre o quattro giorni? Quanto basta per rimandare tutti gli appuntamenti e farmi sparire dalla scena? Senta, Rog, non so come spiegarmi, ma penso che, anche se mi piacerebbe andarlo a trovare e porgergli i miei omaggi, non sarebbe consigliabile farlo. Penso che non dovrei assolutamente vederlo prima d’essere comparso per l’ultima volta in pubblico al posto suo. Non so… potrebbe danneggiare la qualità della mia interpretazione. — Avevo commesso il grave errore di partecipare ai funerali di mio padre. Per anni, in seguito, quando avevo pensato a lui, non ero riuscito a immaginarlo che morto, nella bara; solo adagio adagio, poco per volta, ero poi riuscito a ricomporre la sua vera figura, quella dell’uomo energico e dominatore che mi aveva guidato con mano ferma e che mi aveva avviato sul cammino dell’arte. Temevo potesse capitarmi qualcosa di simile anche con Bonforte; ora stavo impersonando un uomo prestante, nel pieno vigore fisico e intellettuale, come l’avevo visto e udito nelle registrazioni stereovisive. Temevo, vedendolo nella malattia, che il ricordo del suo viso emaciato sopraffacesse poi la sua immagine, impedendomi di recitare bene la parte come avevo fatto fino a quel momento.

— Non volevo insistere — rispose Clifton. — Lei sa meglio di me il da farsi. Forse potremmo evitargli di comparire in pubblico, ma vorrei che lei rimanesse sempre a nostra disposizione, pronto per ogni eventualità, finché lui non si sia rimesso completamente.

Stavo quasi per ribattere che era anche l’idea dell’imperatore, ma mi frenai in tempo… l’essere stato scoperto dall’imperatore mi aveva causato un profondo turbamento, e mi aveva anche fatto uscire dal personaggio che interpretavo. Il pensiero del sovrano, comunque, mi richiamò alla mente un particolare che dovevo ancora chiarire. Tirai fuori la lista dei ministri, quella con la correzione, e la diedi a Corpsman. — Ecco l’elenco approvato dal sovrano, Bill, da passare ai servizi stampa. Come può notare c’è un solo cambiamento: de la Torre al posto di Braun.

— Cosa?

— Jesus de la Torre al posto di Lothar Braun. Così ha preferito l’imperatore.

Clifton era stupefatto; Corpsman, oltre che stupefatto, era anche arrabbiato. — E che importanza ha il parere dell’imperatore? Lui non ha nessun diritto di dare consigli politici!

— Bill ha ragione, Capo — disse lentamente Clifton. — Nella mia qualità di esperto di diritto costituzionale, le assicuro che il beneplacito del sovrano è puramente nominale. Lei non doveva permettergli di far cambiamenti.

Avrei voluto mettermi a insultarli, e fu solo la personalità calma e moderatrice di Bonforte a impedirmelo. Era stata una giornata campale e, nonostante una brillante interpretazione, si era conclusa con un disastro inevitabile. Avrei voluto dire a Rog che se Guglielmo non fosse stato quel grandissimo uomo che era, regale nel pieno senso della parola, ci saremmo trovati tutti nei pasticci… solo perché non mi avevano istruito a sufficienza per la parte. Ma invece mi limitai a ribattere seccamente: — Cosa fatta capo ha!

— Lo dice lei! — protestò Corpsman. — Ho consegnato ai giornalisti l’elenco due ore fa. Adesso lei dovrà fare un passo indietro e mettere a posto le cose. Rog — continuò — sarà meglio che tu chiami il Palazzo e…

— Basta! — troncai netto io.

Corpsman ammutolì, e io proseguii a voce più bassa. — Rog, è probabile che lei abbia perfettamente ragione dal punto di vista legale. Non lo so. So però che l’imperatore s’è sentito in dovere di mettere in dubbio la nomina di Braun. Ora, se voi due ve la sentite d’andare a discuterne con l’imperatore, fate pure. Quanto a me, non ne ho la minima intenzione. Non vedo l’ora di togliermi di dosso questo vestito anacronistico, levarmi le scarpe, e bere qualcosa, un bel bicchierone pieno. Poi me ne andrò a letto.

— No, attenda un momento, Capo — obiettò Clifton.

— Deve comparire alla stereovisione per cinque minuti, non di più, per annunciare la lista dei ministri.

— Ci pensi lei. È lei il vice Primo Ministro in questo Gabinetto.

— Va bene — fu tutto quel che seppe dire Rog.

— E Braun? — insisté Corpsman. — Gli avevamo promesso la nomina.

Clifton lo guardò meditabondo. — Non ho visto nessun dispaccio in cui lo dicessimo espressamente, Bill — disse.

— Ci siamo limitati a chiedergli se fosse eventualmente disposto ad accettare una nomina, come a tutti gli altri. È questo che vuoi dire?

Corpsman esitò, come un attore poco sicuro della parte. — Certo, certo. Ma equivale a una promessa.

— Non mi pare. Almeno non prima che sia avvenuta la proclamazione ufficiale.

— Ma la proclamazione è avvenuta, ti assicuro. Due ore fa.

— Uhm… Bill, temo che dovrai richiamare i giornalisti per avvisarli di aver commesso un errore. O se preferisci li chiamerò io, e dirò che per sbaglio è stata passata loro una lista preliminare non ancora approvata dall’onorevole Bonforte. Comunque bisogna correggere la lista prima dell’annuncio ufficiale in stereo.

— Se capisco bene, intenderesti lasciargli fare come vuole lui?

Con quel "lui", credo che Bill alludesse più a me che a Guglielmo, ma Rog, nella sua risposta, sembrò aver capito il contrario. — Sì. Bill, non è questo il momento di provocare una crisi costituzionale. Non ne vale la pena, per così poco. Vuoi quindi, per favore, provvedere alla correzione? O dovrò farlo io?

L’espressione di Corpsman mi richiamò alla mente quella di un gatto costretto a obbedire con la forza: "Lo faccio solo perché non ho scelta". Ci lanciò un’occhiata bieca, scosse le spalle, e mormorò: — Va bene, lo farò. Studierò le parole migliori per dirlo, tanto per salvare la faccia con un minimo di dignità.

— Grazie, Bill — rispose Rog, affabile.

Corpsman si volse per andarsene. Lo chiamai: — Bill! Visto che deve andare a parlare con le agenzie d’informazione, dica loro ancora una cosa.

— Eh? Cosa vuole ancora?

— Niente di speciale. — La stanchezza di recitare la parte e le tensioni che si erano create mi avevano sopraffatto. — Dica solo che l’onorevole Bonforte ha preso il raffreddore e che il suo medico l’ha costretto a letto per un periodo di riposo. Ne ho piene le tasche e voglio starmene un po’ tranquillo — spiegai.

— Va bene — disse con sarcasmo Corpsman. — Dirò "polmonite" invece di "raffreddore".

Quando Bill se ne fu andato, Rog si avvicinò per dirmi: — Non se la prenda, Capo. Nel nostro lavoro ci sono giornate buone e giornate in cui tutto sembra nero.

— No, Rog. Ho davvero intenzione di marcare visita. Anzi lo annunci pure alla stereo, stasera.

— Oh.

— Conto di mettermi a letto e di restarci. Non mi pare che ci sia nulla di strano se Bonforte avrà il "raffreddore" finché non sarà pronto per ritornare sulla scena. Tutte le volte che compaio in pubblico aumenta la possibilità che qualcuno scopra il trucco… Inoltre, tutte le volte che compaio in pubblico, quel gelosone di Corpsman trova sempre qualcosa da ridire. Un attore non può dare il meglio di se stesso se c’è sempre davanti a lui qualcuno che lo disprezza, in continuazione. Quindi, basta: cala il sipario.

— Non se la prenda, Capo. D’ora in poi farò in modo che Corpsman non le venga più tra i piedi. Qui non è più come sull’astronave. C’è un mucchio di posto per tutti.

— No, Rog, ormai ho deciso. Oh, non abbia timore. Non vi abbandonerò di punto in bianco. Rimarrò con voi finché l’onorevole Bonforte non sarà di nuovo in grado di riprendere i contatti con la gente, casomai dovesse sorgere qualche situazione d’emergenza — ricordavo con un certo turbamento come l’imperatore m’avesse detto di continuare a recitare la parte e come fosse sicuro che l’avrei fatto — ma è davvero preferibile che mi teniate nascosto. Finora tutto è andato per il meglio, no? Oh, certo, loro lo sanno, qualcuno lo sa, che non poteva essere Bonforte la persona che ha preso parte alla cerimonia dell’adozione. Comunque, coloro che sanno non oseranno certo parlare dell’accaduto, e anche se lo facessero non potrebbero dimostrare nulla. Quelle stesse persone possono sospettare che oggi, all’udienza reale, ci fosse un sosia di Bonforte, ma non possono averne la sicurezza: c’è sempre la possibilità che Bonforte sia guarito abbastanza in fretta da partecipare all’udienza. Dico bene?

Clifton assunse un’espressione strana, di leggero imbarazzo, e mormorò: — Temo che invece siano ben sicuri che si trattava di un sosia. Capo.

— Eh?

— Le abbiamo un po’ indorato la pillola perché non s’innervosisse troppo. Fin dalla prima visita, il professor Capek ha detto che occorreva un miracolo perché Bonforte ritornasse abbastanza in forma da poter partecipare oggi all’udienza. E come lo sapeva il professore, così lo potevano sapere benissimo anche coloro che gli hanno somministrato la droga.

Mi accigliai. — Allora mi prendeva in giro, prima, dicendomi che stava meglio? Voglio sapere la verità, Rog. In che condizioni è, adesso?

— Prima dicevo la verità, Capo. Per questo le ho suggerito d’andare a fargli visita… anche se poi sono stato felicissimo che lei si sia rifiutato di farlo. Però — aggiunse — forse la miglior cosa sarebbe andare a parlargli.

— Uhm… No. — I motivi per cui non desideravo vederlo mi parevano ancora validi. Se avessi dovuto comparire nuovamente in pubblico nei suoi panni, non volevo correre il rischio d’essere tradito dal mio subcosciente. L’interpretazione esigeva d’imitare una persona che stesse bene. — Rog, alla luce di quanto lei mi ha detto or ora, tutto ciò che le dicevo risulta pienamente valido, ancor più di prima. Se i nostri avversali hanno la sicurezza che oggi s’è presentata una controfigura al posto suo, non possiamo rischiare di farmi comparire ancora una volta in pubblico. Oggi li abbiamo colti di contropiede, o forse non c’era assolutamente il modo di smascherarmi, date le circostanze; ma la prossima volta non si lasceranno cogliere alla sprovvista. Prepareranno qualche trabocchetto, qualche prova che io non riuscirei mai a superare… e allora bum! il palloncino scoppierà e il bel gioco sarà finito. — Ci pensai un attimo. — È meglio che la mia "malattia" duri per tutto il tempo necessario. Bill ha ragione: meglio dire "polmonite".


La forza della suggestione è tale che la mattina seguente mi destai col naso chiuso e la gola dolorante. Il professor Capek mi sottopose a una cura energica, e per l’ora di colazione mi sentivo ritornato quasi normale. Ciò nondimeno, egli emise un bollettino medico per comunicare che "l’onorevole Bonforte è stato colpito da un’infezione virale". Poiché le città a tenuta ermetica e ad aria condizionata della Luna sono appunto tali, nessuno ha il desiderio d’esporsi al contagio di una malattia i cui germi sono trasmessi per via aerea. Non ci fu alcun tentativo di superare i miei chaperon e di venire a trovare l’illustre infermo. Per quattro giorni lessi e curiosai nella biblioteca di Bonforte, attingendo a piene mani alla raccolta dei suoi scritti e ai suoi libri… Scoprii che tanto la politica quanto l’economia possono risultare molto affascinanti. Quegli argomenti, fino a quel momento, non mi erano mai sembrati molto concreti. L’imperatore mi mandò fiori delle serre reali… chissà se erano proprio per me?

Non importa. Mi concessi il lusso di oziare, crogiolandomi nel piacere d’essere nuovamente me stesso, "Il Grande Lorenzo" o anche il prosaico Lawrence Smith, non fa differenza. Scoprii che era diventato automatico immedesimarmi nel personaggio di Bonforte non appena entrava qualcuno, ma non lo potevo controllare. Tuttavia non ce ne fu mai davvero bisogno; vidi solo Penny, Capek e, in un’occasione, Dak.

Ma anche a mangiar loto, dopo un po’ ci si stanca. Al quarto giorno non ne potevo più di quella stanza, che mi riusciva più odiosa di qualsiasi anticamera d’impresario teatrale che avessi mai sperimentato in vita mia. Mi sentivo solo, nessuno si occupava di me; le visite di Capek erano strettamente professionali, e quelle di Penny erano brevi e rare. Per di più, aveva smesso di chiamarmi "onorevole Bonforte".

Quando arrivò Dak gli mostrai tutto il mio entusiasmo. — Dak, che piacere! Cosa c’è di nuovo?

— Niente d’importante. Con una mano cerco di mettere in ordine la Tom Paine, mentre con l’altra aiuto un po’ Rog a rimediare a qualche faccenda politica imprevista. Per mettere a punto questa campagna elettorale si farà venire l’ulcera: ci scommetterei otto contro tre. — Si mise a sedere. — Uff, la politica!

— Ehm… già. Ma come ha fatto, lei, a entrare in politica? Così, dal di fuori, pensavo che i voyageur si tenessero lontani dalla politica almeno quanto gli attori, in particolare lei.

— È vero e non è vero. Per lo più se ne infischiano di chi sta al potere, purché possano continuare a portare le loro carrette in giro per il cielo. Ma per poterlo fare occorre merce da trasportare, e la merce vuol dire commercio e il commercio, per essere redditizio, deve essere completamente aperto, cioè ogni astronave deve poter andare dove preferisce, senza l’impaccio di quelle sciocchezze delle dogane e delle zone interdette. Libertà. Ed ecco dove si casca: nella politica. Quanto al mio caso, in origine mi ero mosso per sostenere il permesso di "viaggio continuo", in modo che le merci che seguivano la rotta dei tre pianeti non dovessero pagare due volte i dazi doganali. Non occorre dirle chi avesse proposto l’emendamento: Bonforte. Una cosa tira l’altra, ed eccomi qua, comandante del suo yacht già da sei anni, e rappresentante alla Grande Assemblea dei miei colleghi di corporazione, a partire dalle ultime elezioni generali. — Trasse un gran sospirone. — Se vuol sapere la verità, non so bene neppure io come siano andate effettivamente le cose.

— Allora immagino che sia ansioso di rinunciare alla carica. Non intenderà mica ripresentarsi alle elezioni?

Mi fissò sbalordito. — Eh?… Amico, finché non si entra nella politica non si sa cosa significhi essere vivi.

— Ma se ha appena finito di dirmi…

— Sì, sì. So benissimo cosa le stavo dicendo. È un mestiere pericoloso, spesso anche sporco, composto solo di lavoro pesante e d’un mucchio di dettagli noiosi. Ma è l’unico passatempo adatto per le persone adulte. Tutti gli altri passatempi sono per bambini. Tutti. — Tacque; dopo un momento si alzò. — Devo correre.

— Oh, no, resti ancora un po’ a tenermi compagnia.

— Non posso assolutamente. Domani si riunisce la Grande Assemblea e devo dare una mano a Rog. Anzi, non sarei neanche dovuto venire.

— Ah — feci — davvero? Si riunisce l’Assemblea? Non lo sapevo.

Sapevo che la Grande Assemblea, vale a dire quella uscente, doveva riunirsi ancora una volta prima dello scioglimento per prendere atto della nomina del nuovo governo, ma non ci avevo pensato. Era una cosa d’ordinaria amministrazione, superficiale e meccanica come sottoporre l’elenco dei ministri alla graziosa approvazione dell’imperatore. — E lui potrà partecipare alla riunione? — chiesi.

— No. Ma non se ne preoccupi. Penserà Rog a scusarsi per la sua… cioè la sua… assenza di fronte all’Assemblea, e chiederà d’adottare il procedimento per procura, previa approvazione. Poi leggerà il discorso del Primo Ministro Designato, discorso che Bill sta preparando ora. Chiederà a nome proprio che il Governo venga votato. Approvazione. Nessun dibattito. Altra approvazione. La seduta è aggiornata sine die… e tutti si precipitano a casa a prepararsi per la campagna elettorale, incominciando a promettere agli elettori due donne ciascuno e cento crediti in tasca ogni lunedì. Normale amministrazione. — Aggiunse: — Ah, dimenticavo. Ci sarà anche qualche membro del Partito dell’umanità che proporrà una mozione di auguri di pronta guarigione e l’invio d’un mazzo di fiori, e la mozione sarà approvata in un alone di sottile ipocrisia. I fiori, preferirebbero mandarli al funerale di Bonforte. — Aggrottò la fronte.

— Sarà davvero tutto così semplice? Cosa succederebbe se non accettassero Rog come rappresentante per procura del Primo Ministro? Pensavo che la Grande Assemblea non accettasse sostituti.

— E di solito non li accetta, quando adotta la procedura ordinaria. O ci si accorda con un deputato dell’opposizione per rimanere assenti in due, oppure ci si fa vivi e si vota. Ma la riunione di domani è una di quelle fatte apposta per far girare a vuoto gli ingranaggi del Parlamento. Se non permetteranno a Bonforte di venir rappresentato per procura, allora dovranno rimanere lì ad aspettare che lui si ristabilisca, prima di poter aggiornare i lavori sine die e di potersi dedicare alla loro ben più seria occupazione di cercare d’ipnotizzare gli elettori. Fino ad oggi, un quorum rappresentativo si è riunito quotidianamente, aggiornando ogni volta la seduta, fin dal giorno delle dimissioni di Quiroga. Questa Assemblea è più morta dello spettro di Cesare, ma per poterla affossare occorre procedere costituzionalmente.

— Sì… ma supponiamo che qualche idiota s’impunti e faccia delle obiezioni?

— Non s’impunterà nessuno, stia tranquillo. Sì, se s’impuntasse potrebbe provocare una crisi costituzionale, ma nessuno lo farà.

Restammo in silenzio per qualche istante. Dak non sembrava più ansioso d’andarsene.

— Dak — dissi — pensa che le cose andrebbero più lisce se mi facessi vedere e se pronunciassi io il discorso?

— Come? Credevo che la cosa fosse già stata discussa. È stato lei stesso a dire che è troppo pericoloso comparire ancora in pubblico, salvo qualche emergenza tra la vita e la morte. Del resto, non le do torto. C’è il vecchio detto della gatta e del lardo…

— Sì, ma questa volta, mi pare, si tratta solo d’una sfilata in passerella, no? Battute fisse come quelle d’un copione? O c’è la possibilità di qualche colpo di scena? Che abbiano in serbo qualche sorpresa che riuscirebbe a mettermi nell’imbarazzo?

— Be’, no. Di solito, in queste circostanze, dopo il discorso si usa tenere una conferenza stampa, ma si potrebbe evitarla con la scusa della sua recente malattia. Potremmo scivolare di soppiatto per il tunnel di sicurezza, e così lei potrebbe evitare i giornalisti. — Poi aggiunse, con un sorriso storto: — Naturalmente c’è sempre il pericolo che qualche malintenzionato riesca a intrufolarsi con la pistola nella galleria dei visitatori… l’onorevole Bonforte la chiamava "il tiro al bersaglio", dopo essere stato ferito da un colpo sparato da lì.

La gamba mi diede una fitta. — Ha intenzione di spaventarmi per non farmi andare?

— No.

— Be’, allora ha scelto uno strano modo per farmi coraggio. Dak, me lo dica sinceramente: lei desidera che io parli domani all’Assemblea, oppure no?

— Certo che lo desidero! Perché diavolo crede che sia venuto a trovarla qui, con tutto il da fare che ho? Solo per fare due chiacchiere?


Il Presidente pro tempore picchiò il martelletto. Il Cancelliere elevò a Dio un’evocazione in cui s’evitava accuratamente ogni differenza tra una religione e l’altra, e tutti fecero silenzio. I seggi erano occupati solo per metà, ma la galleria era stipata di turisti.

Gli altoparlanti ripeterono amplificati i colpi picchiati alla porta come voleva la tradizione; il Cerimoniere indicò la porta con la mazza. Per tre volte l’imperatore ordinò d’essere ammesso, e per tre volte gli fu detto di no. Poi implorò che gli venisse concesso quel privilegio, e l’Assemblea glielo concesse per acclamazione. Restammo tutti sull’attenti mentre Guglielmo entrava e prendeva posto al suo seggio, dietro al banco del Presidente. Era in uniforme d’Ammiraglio Supremo e non aveva scorta, com’era prescritto, perché la sua scorta era costituita dal Presidente e dal Cerimoniere.

Io m’infilai la verga sotto il braccio, mi alzai dal mio posto nel primo banco e, rivolgendomi al Presidente come se non fosse presente il sovrano, presi la parola. Il discorso che pronunciai non fu quello che Corpsman aveva scritto: quello se l’era ingoiato l’oubliette non appena gli ebbi dato un’occhiata. Bill l’aveva fatto diventare una pura e semplice propaganda elettorale e non era né il momento né il luogo per pronunciare un discorso di quel tipo.

Il mio fu breve, obiettivo, rubacchiato direttamente dagli scritti scelti di Bonforte: la parafrasi d’un discorso da lui tenuto quando aveva formato un precedente Governo provvisorio. Affermavo la mia devozione al benessere generale e alla ricchezza collettiva, esortavo tutti ad amarsi reciprocamente, proprio come noi bravi democratici amavamo il sovrano e lui a sua volta ci amava. Era una specie di lirica a versi sciolti, lunga tre o quattro pagine, e se mi distaccai un poco dal precedente discorso di Bonforte fu solo per ripetere le sue idee con parole mie.

Dovettero imporre il silenzio ai visitatori.

Rog si alzò per proporre che i nomi da me citati come facenti parte del Governo venissero confermati. Ci fu l’approvazione, nessuna obiezione, e il Cancelliere proclamò l’unanimità. Mentre avanzavo verso il banco del Presidente, accompagnato da un membro del mio partito e da uno dell’opposizione, potevo scorgere gli appartenenti alla Grande Assemblea mentre davano un’occhiata clandestina all’orologio per vedere se ce l’avrebbero ancora fatta a prendere il traghetto di mezzogiorno.

Poi giurai fedeltà al sovrano, entro i limiti costituzionali e sotto di essi, di difendere e di mantenere i diritti e i privilegi della Grande Assemblea, di proteggere la libertà dei cittadini dell’Impero, dovunque essi fossero e, tra una cosa e l’altra, anche d’eseguire il mio compito di Primo Ministro di Sua Maestà. Una volta il Cancelliere si sbagliò nel formulare le domande e io lo corressi.

Avevo l’impressione di prendermela con calma, come se si fosse trattato del pistolotto iniziale prima d’una rappresentazione… e mi accorsi d’avere le lacrime agli occhi, tanto da non riuscire quasi più a vedere. Quando ebbi terminato, Guglielmo mi disse, senza nessun tono particolare: — È stata una scena memorabile, Joseph.

Non seppi mai se stesse parlando a me o al suo vecchio amico, né la cosa m’importò. Non mi asciugai gli occhi; lasciai che le lacrime mi scivolassero giù per le guance mentre mi voltavo verso l’Assemblea. Attesi che il re fosse uscito, poi chiesi un aggiornamento della seduta.

Quel pomeriggio la Diana, Ltd., dovette far partire tre traghetti supplementari. New Batavia era deserta; rimanevano la Corte e un milione circa di panettieri, pizzicagnoli e impiegati dello Stato, oltre a un Governo ridotto all’essenziale.

Nei giorni che seguirono, poiché ormai il supposto "raffreddore" era guarito ed ero apparso in pubblico nella sala della Grande Assemblea, non c’era più motivo perché continuassi a rimanere nascosto. Come presunto Primo Ministro, non potevo evitare di farmi vedere senza suscitare curiosità e commenti. Come capo nominale d’un partito che s’accingeva a dare inizio a una campagna elettorale, dovevo incontrare gente, almeno qualche persona importante. Così feci quello che dovevo fare, e intanto ricevevo ogni giorno un rapporto sui progressi di Bonforte che s’avviava verso la guarigione definitiva. Continuava a migliorare, seppur lentamente; Capek diceva che era possibile, in caso di assoluta necessità, farlo apparire in pubblico in un qualsiasi momento, ma aggiungeva che non era ancora consigliabile; aveva perso almeno una decina di chili e non era ritornato completamente padrone della mobilità e della coordinazione.

Rog faceva l’impossibile per tenerci tutt’e due lontani dalla gente. L’onorevole Bonforte sapeva ormai che stavano usando una controfigura al posto suo e, dopo un primo accesso d’indignazione, s’era arreso di fronte alla necessità, convenendo che non c’era altro da fare. Rog dava le direttive per la campagna elettorale, consultandosi con Bonforte solo per questioni d’alta politica; riferiva poi a me le risposte perché le rendessi di pubblico dominio, se era necessario.

Ma l’isolamento in cui teneva me era quasi altrettanto pressante. Era difficile farmi visita quanto farsi ricevere da un grande impresario teatrale. I miei uffici erano scavati nella roccia al di là della residenza del capo dell’opposizione (non ci eravamo trasferiti nell’abitazione, molto più sfarzosa, del Primo Ministro, anche se la cosa sarebbe stata perfettamente legale: durante un Governo provvisorio non lo si faceva mai, semplicemente); i miei uffici si sarebbero potuti raggiungere dal retro, passando direttamente dal nostro salotto interno, invece tutti passavano dall’ingresso ufficiale e prima d’arrivare a me dovevano superare almeno cinque posti di controllo, eccetto pochissimi privilegiati che venivano introdotti direttamente da Rog per una galleria laterale: prima entravano nell’ufficio di Penny, poi passavano nel mio.

La disposizione serviva più che altro a guadagnare tempo, in modo che, mentre i miei visitatori arrivavano, io potessi studiare la scheda Farley di ciascuno di essi. Inoltre potevo continuare a consultarla anche quando il visitatore era con me, in quanto avevo un visore inserito nella scrivania, visibile soltanto a chi stava seduto alla mia poltrona. Potevo anche spegnerlo istantaneamente se il visitatore si alzava e incominciava a passeggiare per la stanza. Quel visore serviva anche ad altri usi. Ogni tanto, Rog dava a una persona il trattamento speciale, cioè lo presentava a me e poi ci lasciava soli. Però Rog si fermava nell’ufficio di Penny e mi lasciava un biglietto che mi veniva poi trasmesso per mezzo del visore. Piccoli suggerimenti come: "Baci e abbracci, ma niente promesse", oppure: "Tutto quel che gli preme è un invito a Corte per la moglie; prometterglielo e poi mandarlo via", o ancora: "Attento con questo. Appartiene a una circoscrizione ’ballerina’ e lui è più furbo di quel che sembra. Passalo a me e cercherò di contrattare".

Chi governasse, non lo so. Probabilmente i sottosegretari anziani. Ogni mattina mi trovavo sullo scrittoio un mucchio di carte su cui tracciavo la pesante firma di Bonforte; poi veniva Penny e le portava via. Non ebbi mai il tempo di leggerne una. La mole stessa della macchina imperiale mi spaventava. Una volta Penny mi accompagnò a una riunione che si svolgeva fuori degli uffici, e mi fece attraversare gli Archivi di Stato per arrivare al più presto al luogo stabilito. Chilometri e chilometri di schedari, ciascuno pieno zeppo di microfilm, tutti serviti da un sistema automatico di trasportatori a nastro, in modo che gli impiegati non perdessero tutta la giornata a correre qua e là per prendere una scheda.

Penny affermò di avermene mostrato solo una piccola parte. Tutto il complesso degli schedali occupava una caverna grande come la sala riunioni della Grande Assemblea. Fui contento che governare non fosse la mia professione e che costituisse soltanto, per così dire, un hobby passeggero.

Ricevere gente era una seccatura inevitabile; inoltre risultava in gran parte inutile perché o Rog, o Bonforte tramite Rog, prendevano tutte le decisioni. La mia vera occupazione consisteva nel pronunciare i discorsi elettorali. Avevamo sparso la voce che il medico, temendo che il mio cuore fosse rimasto un po’ indebolito a causa della "infezione virale", m’avesse consigliato di restare nell’ambiente lunare, dove la forza di gravità era minore, per tutta la durata della campagna elettorale. Non osavo infatti farmi vedere sulla Terra, né tanto meno rischiare una puntata su Venere. L’aiuto dello schedario sarebbe risultato insufficiente se avessi dovuto mescolarmi alla folla, per non dire del pericolo sempre presente costituito dalle squadre di sicari degli Azionisti… Nessuno di noi, e io meno di tutti, osava pensare cosa mai avrei potuto raccontare, dopo una piccola iniezione di neodexocaina nei lobi frontali.

Intanto Quiroga stava visitando tutti i continenti della Terra; le trasmissioni stereo lo mostravano di persona, sul podio, davanti alla folla. Ma la cosa non sembrava dare alcuna preoccupazione a Rog Clifton.

Alzava le spalle e diceva: — Faccia pure. Comparendo di persona nel corso di manifestazioni propagandistiche non si ottengono voti nuovi. Serve solo a stancare l’oratore: a quel tipo di raduni partecipano solo i fedelissimi.

Speravo che parlasse con cognizione di causa. Quella campagna elettorale era piuttosto breve: correvano solo sei settimane dal giorno in cui Quiroga s’era dimesso al giorno che egli stesso, prima di dimettersi, aveva fissato le elezioni generali. In quel periodo io parlai quasi tutti i giorni, sia in presa diretta per la rete imperiale, nel tempo concesso ufficialmente e suddiviso in parti uguali tra Coalizione espansionista e Partito dell’umanità, sia registrando discorsi che venivano poi spediti col traghetto per essere trasmessi a determinati gruppi di ascoltatori. Avevamo adottato un metodo fisso: mi arrivava una bozza (probabilmente scritta da Bill, anche se non ebbi più occasione di vederlo), e io la elaboravo. Rog prendeva poi la bozza rivista e la portava via; di solito, quando mi veniva riportata, era pienamente approvata, ma ogni tanto c’era anche qualche correzione scritta di pugno da Bonforte. Ora la sua calligrafia era divenuta talmente incerta e pesante da risultare quasi incomprensibile.

Non mi permisi mai di modificare le parti da lui corrette, anche se spesso me lo concessi sul resto… quando si comincia a parlare, spesso si scopre che c’è un modo migliore, più vivace, di dire le stesse cose. Cominciai anche a rendermi conto della natura delle correzioni di Bonforte; quasi sempre si trattava dell’eliminazione di qualche aggettivo qualificativo, come per dirmi: "Cerca d’essere più brusco, più reciso: se non gli va, cacciaglielo giù con la forza!".

Dopo qualche tempo, le correzioni si fecero sempre più rare. Stavo imparando.

Eppure continuavo a non vederlo. Sentivo che non avrei più potuto impersonarlo con la stessa disinvoltura se l’avessi visto sul suo letto di malato. Del resto, tra i suoi intimi non ero l’unico a essere escluso dalla sua camera. Capek aveva proibito anche a Penny di varcare quella soglia… per il suo bene. Allora però ignoravo tale particolare. In realtà m’ero accorto che Penny, da quando eravamo a New Batavia, si mostrava distratta, irritabile, nervosa. Aveva due occhi cerchiati come quelli d’un tasso… tutte cose che non mancavo di notare, ma che attribuivo alla tensione della campagna elettorale, unitamente alla preoccupazione per la salute di Bonforte. Avevo ragione solo in parte. Capek, accortosi anche lui delle condizioni di Penny, intervenne, sottoponendola a una leggera trance ipnotica, nel corso della quale le fece molte domande. Alla fine le proibì completamente l’accesso alla camera di Bonforte fin quando io non avessi terminato la mia opera e non fossi stato rispedito via.

Infatti la poverina era giunta sull’orlo della follia a furia di passare dal capezzale dell’uomo che amava senza speranza al suo posto di lavoro accanto a un uomo che gli assomigliava fisicamente in tutto e per tutto, che parlava con la stessa voce, ma che godeva di una salute di ferro. Credo che Penny stesse cominciando a odiarmi.

Il caro professor Capek scovò le radici del male, la aiutò con delle suggestioni postipnotiche tranquillanti e, dopo la cura, la tenne lontana dalla stanza del malato. Naturalmente allora non venni informato di tutto ciò; non erano cose che mi riguardassero. Ma Penny si ristabilì e ritornò quella di prima: la segretaria graziosa, cordiale, affabile, efficiente fino all’inverosimile.

E questo per me contò molto. Lo confesso: almeno due volte, se non fosse stato per Penny, me ne sarei fuggito di gran carriera da quell’incredibile corsa nei sacchi.


C’era un solo tipo di riunioni cui dovevo assolutamente presenziare, cioè quelle del Comitato Direttivo della campagna elettorale. Poiché il Partito espansionista non aveva la maggioranza assoluta, essendo soltanto la frazione più ampia di una coalizione di diversi partiti tenuti insieme dalla guida e dalla personalità di John Joseph Bonforte, io dovevo presentarmi al posto suo davanti a quelle primedonne e dar loro lo zuccherino che ne calmasse le bizze. Mi fornivano istruzioni meticolosissime e Rog sedeva sempre al mio fianco per suggerirmi i giusti passi da fare nel caso mostrassi esitazioni. Ma non potevo assolutamente delegare un altro al posto mio.

Circa due settimane prima della data delle elezioni, eravamo attesi a un incontro per discutere l’assegnazione dei seggi "sicuri". La coalizione disponeva sempre di trenta o quaranta seggi in cui risultava vincitrice. Quei seggi potevano venir usati o per conferire a qualcuno i requisiti indispensabili a una nomina ministeriale, o per fornire a qualche personalità un segretario politico (una persona come Penny era molto più utile se era pienamente qualificata: poteva andare e venire per la sala dell’Assemblea, aveva il diritto di partecipare alle riunioni ristrette), o per altri motivi di partito. Lo stesso Bonforte era candidato in un seggio "sicuro": questo gli evitava di dover scendere in piazza a svolgere una campagna elettorale personale. Anche Clifton proveniva da uno di quei seggi. Dak ne avrebbe potuto avere uno se ne avesse avuto bisogno, ma era stato eletto all’unanimità dai suoi colleghi di corporazione. Una volta Rog aveva detto perfino a me che se fossi voluto ritornare alla politica sotto il mio vero nome, bastava una parola e m’avrebbe messo nella lista successiva.

Alcuni dei seggi "sicuri" venivano sempre riservati a funzionali di partito "rassegnatali", vale a dire disposti a rassegnare subito le dimissioni, se fosse stato necessario per far entrare nella Grande Assemblea, mediante un’elezione suppletiva, qualcuno che dovesse far parte del Governo, o simili.

Nel complesso, la scelta dei candidati "sicuri" assumeva l’aspetto di un conferimento di onori politici, e poiché la Coalizione era appunto una coalizione, era necessario che lo stesso Bonforte sciogliesse pazientemente le divergenze d’opinione e passasse una lista al Comitato Direttivo delle elezioni. La lista veniva compilata il più tardi possibile, poco prima che si stampassero le schede, per permettere cambiamenti dell’ultima ora.

Quando Rog e Dak entrarono nel mio ufficio, stavo preparando un discorso; avevo detto a Penny di non chiamarmi per nessun motivo che non fosse almeno l’incendio della città. Quiroga si era lasciato sfuggire un’affermazione azzardata, la sera prima a Sydney, e potevamo facilmente dimostrare che aveva mentito, mettendolo così nell’imbarazzo. Stavo preparando io una risposta, senza aspettare che me ne venisse passata una bozza, e avevo delle buone speranze che la mìa versione venisse poi approvata.

Quando entrarono, dissi: — State un po’ a sentire… — e pronunciai qualche passo saliente. — Cosa ve ne pare? — domandai.

— Dovrebbe bastare — disse Rog. — Dopo un discorso così, possiamo tranquillamente far impagliare la testa di Quiroga e appenderla alla parete come trofeo… — Poi: — Ecco la lista dei seggi "sicuri", Capo. Vuol dare un’occhiata? Ci aspettano tra una ventina di minuti.

— Ah, già. Quella maledetta riunione… Non vedo il motivo per cui dovrei dare un’occhiata alla lista. Avete qualcosa da comunicarmi in proposito? — Però presi lo stesso la lista, e incominciai a leggerla. Grazie al Farley conoscevo tutti i designati e alcuni li avevo anche incontrati di persona. Sapevo anche i motivi per cui occorreva interessarsi personalmente di ciascuno di loro.

D’un tratto gli occhi mi si posarono su un nome: Corpsman, William J.

Cercai di nascondere quello che mi sembrava un senso di fastidio pienamente giustificabile, e dissi senza scompormi: — Vedo che c’è anche Bill nella lista, Rog.

— Oh, sì. Anzi, volevo proprio parlarne con lei. Vede, Capo, come sappiamo benissimo tutti, c’è stato un po’ d’attrito tra lei e Bill. Non che io voglia farne un rimprovero a lei; la colpa è senz’altro di Bill. Ma le cose hanno sempre due facciate. Forse lei può non essersene accorto, ma Bill soffre di un forte senso d’inferiorità. È appunto quello a renderlo così permaloso. Mettendo il suo nome nella lista, penso che si appianeranno tutte le cose.

— Eh?

— Sì. È una cosa che desidera da sempre. Vede, tutti noialtri abbiamo una carica ufficiale, cioè apparteniamo alla Grande Assemblea. E quando dico tutti, alludo a coloro che gli… ehm, le sono più vicini. Bill ne risente. L’ho già sentito, dopo aver bevuto un bicchiere di troppo, dichiarare che si sente uno stipendiato qualsiasi, e questo lo amareggia. A lei la cosa non dà fastidio, no? Al Partito fastidio non ne dà, e del resto è un prezzo abbastanza esiguo, se si pensa che potrà eliminare un’antipatica causa d’attrito in seno ai supremi vertici.

Ormai avevo riacquistato completamente la padronanza di me stesso. — Non sono affari che mi riguardano — dissi. — Perché dovrebbe darmi fastidio, se questo è il desiderio dell’onorevole Bonforte?

Riuscii a cogliere una rapidissima occhiata tra Dak e Rog. — È questo che vuole l’onorevole Bonforte? Vero, Rog?

— Diglielo, Rog — disse seccamente Dak.

Allora, parlando lentamente, Rog spiegò: — È un’idea mia e di Dak. Pensiamo sia una cosa utile.

— Dunque, l’onorevole Bonforte non l’ha approvata? Voi gliene avete parlato, vero?

— No, non gliene abbiamo parlato.

— E perché non l’avete fatto?

— Capo, non mi pare sia il caso di seccarlo con bazzecole come questa. È vecchio, stanco e ammalato. Lo disturbo solo per le più importanti decisioni politiche, e questa non lo è affatto. È una circostanza in cui avremo in ogni caso la maggioranza, indipendentemente dalla persona che presenteremo come candidato.

— E allora perché chiedete la mia opinione?

— Be’, ci pareva doveroso informarla e farle sapere anche il perché. Pensiamo che sarebbe meglio che l’approvasse anche lei.

— Io? Mi state chiedendo di prendere delle decisioni come se fossi l’onorevole Bonforte? Ebbene, io non lo sono! — Battei la mano sul tavolo come faceva lui quand’era nervoso. — Qui si tratta di una decisione che o è al suo livello, e allora dovreste parlarne con lui, oppure non lo è, e allora non dovreste parlarne con me.

Rog si spostò il sigaro di bocca e mormorò: — Bene, allora non le chiedo niente.

— No!

— Eh? Credo di non avere capito.

— Ho detto "No!". Me lo sta chiedendo, e perciò dovete avere qualche dubbio voi due per primi. Perciò, se volete che io sostenga la nomina di Bill di fronte al Comitato come se io fossi Bonforte, allora andate direttamente da lui a chiedergli se l’approva.

Rimasero per un lungo instante in silenzio. Infine Dak trasse un sospiro e disse: — Digli anche il resto, Rog, altrimenti glielo dico io.

Rimasi in attesa.

Clifton si tolse il sigaro di bocca e disse: — Capo, l’onorevole Bonforte ha avuto un collasso, quattro giorni fa, e non è in condizione d’essere disturbato.

M’irrigidii, e presi mentalmente a recitare "Essere o non essere, questo è il problema", sino alla fine. Quando ritornai padrone di me, chiesi: — Ma… è lucido?

— Sembra abbastanza lucido, ma è debolissimo. Quella settimana di prigionia è stata una prova massacrante per lui, più di quanto pensassimo. Dopo il collasso è rimasto in coma per ventiquattr’ore, e ora ha la parte sinistra del volto paralizzata; inoltre, quella stessa parte del suo corpo non si può muovere.

— Oh. Cosa ne dice il professor Capek?

— Ritiene che appena l’embolo si sarà sciolto, Bonforte ritornerà nelle condizioni normali; ora però ha bisogno di molta tranquillità, più di prima. Comunque, Capo, adesso è malato. Dobbiamo quindi rassegnarci a terminare la campagna elettorale senza di lui.

Provai un’ombra di quel senso di smarrimento che mi aveva colto quando era morto mio padre. Non avevo mai visto Bonforte, non avevo mai avuto nulla da lui, oltre a poche correzioni scribacchiate su qualche pagina dattiloscritta. Ma fino a quel momento mi ero sempre appoggiato a lui. Il fatto di sapere che era in quella stanza, dietro la porta, mi aveva reso possibile tutto ciò che avevo fatto fino ad allora.

Trassi un lungo sospiro, lo lasciai uscire, e dissi: — Va bene, Rog. Lo faremo.

— Sì, Capo. — Si alzò. — Dobbiamo andare a quella riunione. Ma… e quella? — Indicò col capo la lista dei seggi "sicuri".

— Già… — mormorai, pensoso. Dopotutto era possibile che Bonforte fosse pienamente disposto a premiare Bill conferendogli il privilegio di farsi chiamare "l’onorevole", tanto per farlo contento. Bonforte era piuttosto generoso in questo genere di cose; non metteva la museruola ai giovenchi che gli macinavano il grano. In una sua opera politica aveva scritto: "Io non sono un intellettuale. Però, se ho un talento particolare, forse è quello di scegliere uomini abili e incoraggiarli a operare".

— Da quanti anni Bill lavora per lui? — chiesi ad un tratto.

— Come? Ah, da circa quattro anni. Forse qualche mese di più.

Evidentemente Bonforte apprezzava la sua opera.

— Quindi era già con lui alla data delle scorse elezioni generali. Perché non l’ha fatto eleggere all’Assemblea, allora?

— Be’, non lo so. Non se n’è mai parlato.

— Quand’è che Penny fu eletta?

— Circa tre anni fa, in un’elezione suppletiva.

— Quindi lei ha già la risposta.

— Temo di non capire.

— Bonforte avrebbe potuto fare eleggere Bill alla Grande Assemblea in un momento qualsiasi — dissi. — Ma non l’ha fatto. Tolga quindi il suo nome, e lo sostituisca con quello di un rassegnatario. Se Bonforte desidera che Bill abbia la carica, potrà sempre farlo eleggere con un’elezione suppletiva… quando lo desidererà.

Il volto di Clifton non mostrò alcuna espressione. Egli si limitò a prendere la lista e a dire: — Molto bene, Capo.

Qualche ora più tardi Bill si licenziò. Immagino che fosse stato Rog a comunicargli che il suo tentativo di forzarmi la mano non era riuscito. Ma quando Rog mi comunicò l’accaduto, provai un profondo senso di malessere e mi sentii colpevole. La mia forse eccessiva ostinazione poteva averci messo tutti in un grave rischio. Ne parlai con Rog, e lui scosse la testa.

— Ma conosce tutto! — esclamai. — È stato lui ad avere l’idea, fin dall’inizio. Pensi un po’ a quante cose esplosive sul nostro conto potrà raccontare al Partito dell’umanità!

— Non se ne preoccupi, Capo. Bill è un individuo spregevole, e io non intendo più avere a che fare con lui; un uomo che ti pianta in asso a metà campagna elettorale: sono cose che non si fanno, mai! Ma Bill non fa la spia. Nella sua professione non si vanno a spifferare i segreti dei clienti, anche se si è litigato con loro.

— Spero che lei abbia ragione.

— Sì, lo vedrà lei stesso. Non se ne preoccupi. Pensi solo al nostro lavoro.

Nei giorni successivi dovetti persuadermi che Rog aveva ragione e che conosceva Bill meglio di me. Non sentimmo più parlare di lui, né direttamente né indirettamente, e la campagna elettorale andò avanti senza scosse, sempre più faticosa, ma senza niente che ci facesse pensare che il nostro gigantesco imbroglio fosse stato svelato. Cominciai a sentirmi meglio, e ritornai con impegno a pronunciare i discorsi di Bonforte. Davo il meglio di me stesso, scrivendoli a volte con l’aiuto di Rog, a volte con la sua semplice approvazione. L’onorevole Bonforte intanto, a detta del professor Capek, andava migliorando lentamente; tuttavia doveva rispettare un riposo assoluto.

Nell’ultima settimana, Rog si dovette assentare per recarsi sulla Terra; è impossibile sbrigare da lontano certe delicate faccende. Dopotutto, i voti provengono dalle circoscrizioni, e un organizzatore in loco talvolta è più utile di un oratore. Tuttavia era necessario che io continuassi a pronunciare discorsi e a partecipare a conferenze stampa. Tiravo avanti con l’aiuto di Dak e con Penny al mio fianco. È chiaro che ormai, a questo punto, ero entrato in profondità nelle cose; riuscivo a rispondere alla maggior parte delle domande senza dovermi fermare a rifletterci sopra.

Due volte la settimana tenevo una conferenza stampa nei miei uffici, e una di esse era appunto indetta per il giorno in cui attendevamo il ritorno di Rog. Avevo sperato che facesse in tempo ad arrivare per l’ora fissata, ma potevo benissimo partecipare anche senza di lui. Penny entrò prima di me, con la borsa dei documenti, e le sentii mandare un’esclamazione soffocata.

Fu allora che vidi Bill, seduto tra i giornalisti, all’estremità opposta del tavolo.

Feci finta di nulla, mi guardai intorno, e dissi con la consueta disinvoltura: — Buongiorno, signori.

— Buongiorno, signor Primo Ministro — risposero alcuni di loro.

— Buongiorno Bill — aggiunsi. — Non sapevo che ci fosse anche lei. Da chi è inviato?

Tutti zittirono rispettosamente per permettere al nostro dialogo di svolgersi con maggior facilità. Naturalmente, tutti i presenti sapevano benissimo che Bill ci aveva piantati in asso… o che era stato licenziato. Mi fece un sorriso bieco e rispose: — Buongiorno, onorevole Bonforte. Lavoro per l’agenzia Krein.

Compresi subito le sue intenzioni, ma non volli dargli la soddisfazione di mostrare timore. — Ottima organizzazione — commentai. — Spero che la paghino per quel che vale. Ma ora, al lavoro. Prima le domande che mi avete sottoposto per iscritto. Le hai tu, Penny?

Sbrigai con rapidità questa parte della conferenza stampa, fornendo le risposte che avevo preparato preventivamente, poi mi misi a sedere comodamente, come facevo sempre, e dissi: — Abbiamo ancora il tempo di discuterne un po’, signori. Avete altre domande da fare?

Naturalmente, ne avevano parecchie. Fui costretto a trincerarmi dietro un "Nessun commento" una volta sola: Bonforte preferiva rispondere così, piuttosto che fornire delle affermazioni ambigue. Alla fine diedi un’occhiata all’orologio e dissi: — Allora direi che basta, per questa mattina, signori — e feci le mosse di alzarmi.

— Smythe! — gridò Bill.

Mi alzai come se niente fosse, e non rivolsi lo sguardo verso di lui.

— Ehi, parlo a lei, fasullo onorevole Bonforte! Smythe! — continuò lui rabbioso, gridando ancora più forte.

Questa volta lo guardai, con stupore… quel tanto di stupore che ritengo si convenga a un’importante personalità politica che viene trattata con maleducazione in un momento in cui non se l’aspetta. Bill era in piedi, con l’indice teso verso di me e il viso paonazzo. — Impostore! Attorucolo da varietà! Imbroglione!

L’inviato del "Times" di Londra, seduto alla mia destra, domandò tranquillamente: — Vuole che chiami le guardie, onorevole?

— No — risposi. — È innocuo.

— Ah, così io sarei innocuo, eh? — rise Bill. — Se ne accorgerà!

Il giornalista del "Times" insisteva. — Onorevole, penso davvero che sia meglio chiamare le guardie.

— No — tagliai corto io, seccamente. — Ora basta, Bill. È meglio che lei se ne vada senza dare più fastidio.

— Le farebbe comodo, eh? — e incominciò a raccontare tutta la storia, parlando in modo concitato. Non fece alcun accenno al rapimento, e non parlò della parte da lui stesso avuta nell’imbroglio, ma lasciò intendere d’avere preferito lasciarci per non trovarsi immischiato in simili indegnità. Attribuì il motivo della sostituzione (e almeno su questo punto disse la verità) a una malattia di Bonforte, ma lasciò capire che potevamo essere stati noi a somministrargli qualche droga.

Rimasi ad ascoltarlo pazientemente sino alla fine. La maggior parte dei giornalisti dapprima si limitò ad ascoltare, con sul viso dipinta l’espressione impacciata d’un estraneo che si trova ad assistere involontariamente a un increscioso litigio fra parenti. Poi, riavutisi dal primo momento di sorpresa, alcuni s’affrettarono a prendere appunti stenografici o a mettere in azione i loro registratori in miniatura.

— Ha finito, Bill? — domandai quando tacque.

— Non le basta?

— Mi basta e avanza. Mi spiace, Bill. Questo è tutto, signori. Devo ritornare al lavoro.

— Solo un istante, signor Primo Ministro! — gridò qualcuno. — Ha intenzione di rilasciare una smentita? — Un altro aggiunse: — Intende sporgere denuncia?

Risposi all’ultima domanda. — No, non intendo sporgere denuncia. Non si querela un malato di mente.

— Ah, così io sarei un malato di mente! — gridò Bill.

— Si calmi, Bill. E per quanto riguarda una smentita, non credo che ce ne sia bisogno. Tuttavia vedo che qualcuno di voi ha voluto prendere degli appunti. Dubito che i vostri editori siano disposti a permettere la pubblicazione di una storia come questa, ma, se lo facessero, penso che un aneddoto potrà rendere più saporito l’articolo. Non avete mai sentito parlare di quel famoso professore che passò quarant’anni a cercare di dimostrare che l’Odissea non è stata scritta da Omero, ma da un altro greco che si chiamava come lui?

Un’educata risatina fece eco alle mie parole. Io sorrisi e feci per andarmene. Ma Bill venne di corsa verso di me e mi afferrò il braccio. — Non se la caverà così, con una battuta di spirito! — L’inviato del "Times", un certo signor Ackroyd, lo prese per le spalle e lo allontanò da me.

— Grazie, signore — gli dissi, e aggiunsi, rivolto a Bill: — Insomma Bill, cosa vuole che faccia? Finora ho cercato di evitarle l’arresto.

— Chiami pure le guardie, imbroglione! Vedremo chi di noi due rimarrà più a lungo in prigione. Aspetti che le prendano le impronte digitali!

Trassi un sospiro e pronunciai con noncuranza le parole più pericolose della mia vita. — Ormai non è più uno scherzo. Signori, penso che sia venuto il momento di porre termine ai dubbi. Penny, mia cara, per favore, vai da qualcuno e fatti dare l’attrezzatura per rilevare le impronte digitali. — Sapevo di essere perduto ma, accidenti, quando si finisce nel maelstrom, il men che si possa fare per coerenza con se stessi è rimanere immobile sull’attenti mentre la nave affonda. Anche un "cattivo" dovrebbe sempre uscire di scena nel modo migliore.

Bill non aspettò.

Afferrò il bicchiere dell’acqua minerale che stava di fronte al mio posto, sul tavolo; l’avevo toccato varie volte. — Si fotta, l’attrezzatura! Questo basterà.

— L’ho già avvertita varie volte, Bill, di moderare il suo linguaggio in presenza d’una signora. Ma può tenere il bicchiere.

— Lo terrò, lo terrò, può starne certo.

— Come vuole. Però ora mi faccia il favore d’andarsene immediatamente, altrimenti sarò costretto a chiamare davvero le guardie.

Bill uscì nel silenzio generale. — Se i signori me lo permettono — dissi — vorrei fare omaggio anche a loro delle mie impronte digitali.

Ackroyd s’affrettò a dire: — Oh, sono certo che non ci occorreranno affatto, signor Primo Ministro.

— Per piacere!… Se volete mettere in un articolo queste affermazioni, è meglio che abbiate delle prove. — Insistevo perché in primo luogo era nel carattere farlo (e in secondo e terzo luogo, non si può essere "un pochino" incinta o "un pochino" smascherati), e perché non volevo che Bill precedesse nella pubblicazione della notizia i miei amici giornalisti che erano presenti; era l’ultima cosa che potevo fare per loro.

Non fu necessario andare a prendere l’attrezzatura per rilevare le impronte. Penny aveva della carta carbone, e qualcuno aveva anche uno di quei blocchetti per appunti "eterni", con fogli di plastica; le impronte vennero riprodotte meravigliosamente. Poi salutai e uscii.

Non andammo più in là dell’ufficio di Penny; appena chiusa la porta, ella cadde a terra di schianto, svenuta. La sollevai e la portai nel mio studio, deponendola sul divano, poi andai a sedermi allo scrittoio e lì, per vari minuti, continuai a tremare come una foglia per la reazione nervosa.

Per tutto il resto del giorno nessuno di noi due riuscì a combinare molto. Cercammo di comportarci nel modo consueto, salvo il fatto che Penny cancellò tutti gli appuntamenti, accampando diverse scuse. Avrei dovuto fare un discorso quella sera stessa, ma pensavo seriamente di rimandarlo. Ascoltai i notiziari stereo per tutta la giornata, ma non riuscii a sentire una sola parola che alludesse all’incidente della mattinata. Pensai che tutti volessero attendere il referto sulle impronte, prima d’arrischiarsi a diffondere la notizia: dopotutto si pensava che io fossi il Primo Ministro di Sua Maestà Imperiale, e in simili casi si chiede una conferma… Così mi decisi a tenere ugualmente il discorso, poiché l’avevo già scritto e mi avevano anche assegnato l’ora. Non potei neppure consultarmi con Dak: era via, a Tycho City.

Credo sia stato il miglior discorso da me pronunciato. Vi misi lo stesso tipo d’impegno che può usare un comico per tranquillizzare la folla in preda al panico nel teatro che brucia. Terminata la ripresa, mi limitai ad affondare il volto tra le mani e a piangere, mentre Penny mi batteva la mano sulla spalla per consolarmi. Non avevamo fatto parola tra noi di quell’orribile avvenimento.

Rog arrivò sulla Luna alle 21 esatte, meridiano di Greenwich, cioè nel momento in cui terminavo il discorso. Appena sceso dal traghetto venne da me a riferire.

Con voce monotona, opaca, gli raccontai tutta quella sporca faccenda. Egli m’ascoltò con in bocca un sigaro spento e con il volto privo d’espressione.

Alla fine gli dissi, con tono quasi di scusa: — Dovevo assolutamente dare quelle impronte, Rog. Capisce anche lei, vero? Se mi fossi rifiutato non sarei più stato nel carattere del personaggio.

— Non se ne preoccupi — disse Rog.

— Come?

— Ho detto: "Non se ne preoccupi". Quando arriverà il referto su quelle impronte dall’Ufficio Identificazioni dell’Aia, lei avrà una piccola ma piacevole sorpresa, e il nostro ex amico Bill ne avrà una anche lui, un po’ più grossa e molto meno piacevole. Se ha già incassato un anticipo del suo sporco denaro, probabilmente gli strapperanno la pelle per farselo restituire. Lo spero sinceramente.

Era impossibile che avessi capito male il significato delle sue parole. — Oh… Ma, Rog — balbettai — non si fermeranno a quello; ci sono molti altri posti dove conservano le mie impronte. Le Assicurazioni Sociali… Sì, un mucchio di posti.

— Cosa crede? Che ne abbiamo trascurato qualcuno? Capo, sapevo benissimo che poteva succedere, una volta o l’altra, quello che è successo oggi. Dal momento in cui Dak ci ha passato parola di completare il piano Mardi Gras, ha avuto inizio il lavoro di copertura necessario, dappertutto. Solo che non mi era parso necessario informarne anche Bill. — Aspirò dal suo sigaro spento, se lo tolse di bocca e l’osservò. — Povero Bill…

Penny mandò un gemito e svenne di nuovo.

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