Il signor Commissario Boothroyd, ovviamente, era stato designato per quell’incarico dal Partito dell’umanità, come del resto tutti i suoi funzionari, eccetto quelli del ramo tecnico: le nomine di questi dipendevano direttamente dallo Stato e non dal partito attualmente al governo. Dak mi aveva però detto di essere quasi sicuro, diciamo sessanta probabilità su cento, che non avesse preso parte al rapimento di Bonforte; Dak lo riteneva una persona stupida, sì, ma onesta. Sempre a proposito delle responsabilità nel complotto, sia Dak che Rog Clifton erano convinti che neppure il Primo Ministro, Quiroga, ne facesse parte; attribuivano il misfatto al gruppo clandestino dei terroristi che si celavano in seno al Partito dell’umanità e che si chiamavano gli "Azionisti": secondo Dak e Rog, il gruppo clandestino era finanziato e fomentato da qualche alto papavero che pensava di approfittare della situazione.
Quanto a me, io avevo sempre creduto che gli azionisti fossero solo quelli che compravano azioni di borsa.
Tuttavia, entro un minuto dal nostro arrivo, saltò fuori una grana che mi portò a chiedermi se davvero l’amico Boothroyd fosse così onesto e così stupido come pensava Dak. Era un particolare di secondaria importanza, ma era proprio una di quelle cose che possono far naufragare un lavoro di sostituzione come il mio. Poiché io ero una Very Important Person in visita, il Commissario era venuto a salutarmi all’arrivo, ma poiché al momento non ricoprivo cariche pubbliche se non quella di appartenente alla Grande Assemblea, e poiché il mio non era un viaggio ufficiale, non vi fu nessuna cerimonia formale. Il Commissario era solo, accompagnato dal suo assistente e da una ragazzetta di una quindicina d’anni.
Lo conoscevo dalle fotografie, e sapevo molte cose di lui; Rog e Penny mi avevano dato molte informazioni sul suo conto e sul comportamento da adottare in sua presenza. Gli strinsi calorosamente la mano, gli domandai come stesse di salute (sapevo che da quando era su Marte soffriva di sinusite), lo ringraziai per la sua ospitalità nel corso della mia ultima visita, e scambiai qualche parola con quell’affabile condiscendenza in cui Bonforte eccelleva. Poi passai alla ragazzina. Sapevo che Boothroyd aveva figli, di cui una dell’età di quella. Non sapevo però (e forse non lo sapevano neppure Rog e Penny) se l’avevo o non l’avevo già vista in altre occasioni.
Fu lo stesso Boothroyd a darmi una mano. — Lei non ha ancora conosciuto mia figlia Deirdre, credo. Ha insistito per venire anche lei…
Nelle registrazioni che avevo studiato, non avevo mai avuto modo di osservare il comportamento di Bonforte nei riguardi delle adolescenti: così, invece di rifarmi a un modello prestabilito, dovetti agire in tutto e per tutto come si sarebbe comportato, secondo me, Bonforte; dovetti pensare di essere lui… un bonario vedovo cinquantacinquenne senza figli e senza nipoti, probabilmente privo di esperienza diretta con ragazzine di quell’età, ma con moltissima esperienza nell’incontrare estranei di tutti i tipi. Quindi trattai la figlia del Commissario come se avesse avuto il doppio dei suoi anni e mi chinai a baciarle la mano. Lei arrossì, confusa e compiaciuta.
Boothroyd fece un sorriso indulgente e osservò: — Su, cara, domandaglielo. Forse non ti capiterà più un’occasione come questa.
Lei arrossì ancora più violentemente e mi disse: — Signore, potrei avere il suo autografo? Tutte le mie compagne di scuola fanno la collezione. Ho quello del signor Quiroga… vorrei avere anche il suo… — e tirò fuori un album che aveva tenuto nascosto dietro la schiena.
Mi sentii come un conducente d’elicottero a cui chiedono di mostrare la patente che ha dimenticato a casa, in un altro paio di calzoni. Avevo studiato come un matto il personaggio di Bonforte, ma non mi sarei mai aspettato di doverne imitare la firma. Accidenti, non si può fare tutto, in due giorni e mezzo!
Ma Bonforte non poteva assolutamente rifiutare una simile richiesta, e poiché io ero Bonforte, sorrisi giovialmente e domandai: — E così lei, signorina, ha già l’autografo di Quiroga?
— Sissignore.
— Solo la firma?
— Sì… cioè, ha anche scritto "Auguri".
Io strizzai l’occhio a suo padre. — Solo "Auguri", eh? Io, alle signorine simpatiche come lei, non scrivo mai meno che "Con molto affetto, incantato dalla sua presenza". Adesso vedrà cosa ho intenzione di fare… — le presi l’album e cominciai a scorrerne le pagine.
— Capo — si affrettò a interrompere Dak — bisogna far presto.
— Calma — gli ordinai, senza alzare la testa. — Tutta la nazione marziana può aspettare, se necessario, quando si tratta di una giovane dama. — Porsi l’album a Penny. — Per favore, vuol prendere nota delle misure di questo album? E ricordarmi di inviare una fotografia con autografo delle dimensioni adatte perché la signorina possa incollarla? Debitamente firmata, è chiaro.
— Sì, onorevole Bonforte.
— Va bene così, signorina Deirdre?
— Ciampoli!
— Allora, d’accordo. E grazie per avermelo chiesto. Ora credo che possiamo accomiatarci, capitano. Signor Commissario, quella è la nostra vettura?
— Sì, onorevole. — Scosse la testa e aggiunse: — Temo che abbia convertito un membro della mia famiglia alle sue eresie espansioniste. Le pare una cosa sportiva? È come sparare a un’anatra di gesso, non trova?
— Così imparerà a non farle frequentare cattive compagnie… non le pare, signorina Deirdre? — Scambiai con loro un’altra stretta di mano. — Grazie per essere venuto ad accoglierci, signor Commissario. Mi scusi, ora, ma non vorrei arrivare in ritardo.
— Ma certo. Sono lieto di averla potuta salutare.
— Grazie, ancora, signor Bonforte!
— Grazie a lei, cara.
Mi volsi lentamente per non apparire scattante o nervoso alla stereovisione. C’erano un gruppo di fotografi, operatori stereo e così via, e molti giornalisti. Bill si stava occupando di rispondere alle domande dei giornalisti e, mentre mi allontanavo con i miei fidi, mi salutò: — A più tardi, Capo — e poi riprese a parlare con uno della stampa. Rog, Dak e Penny mi seguirono nella vettura. C’era la solita folla eterogenea degli spazioporti, non tanta come quella degli spazioporti della Terra, ma abbastanza numerosa. Non mi preoccupavo della gente, visto che Boothroyd non aveva mostrato il minimo dubbio in mia presenza, anche se, sicuramente, molti dei presenti sapevano che io non potevo essere Bonforte.
Ma quelli non m’interessavano. Infatti, se mai avessero pensato di accusarmi, avrebbero automaticamente accusato anche se stessi.
La vettura era una "Rolls extraterra" pressurizzata, ma non mi tolsi la maschera dell’aria perché avevo visto che anche gli altri continuavano a tenerla. Io occupai il sedile di destra, Rog mi si mise accanto, e Penny sedette vicino a lui, mentre Dak cercava di avvolgere le sue lunghe gambe intorno a un seggiolino ribaltabile. Il conducente si volse a guardarci dietro il vetro divisorio, poi avviò il motore.
Rog disse piano: — Ho avuto paura per un momento.
— Non c’era niente di cui preoccuparsi — gli risposi. — E adesso per favore fate tutti silenzio perché debbo ripassare il discorso.
In realtà desideravo solo guardare il panorama marziano; il discorso lo sapevo perfettamente. Il conducente costeggiò il confine settentrionale del Campo, superando alcuni depositi di merci su cui lessi i nomi delle società di navigazione: Verwijs Trading Company Diana Outlines, Ltd., Triplanetaria, I.G. Farbenindustrie. Si vedevano altrettanti uomini che marziani. Noi terricoli abbiamo l’impressione che i marziani siano lenti come serpenti, e in effetti lo sono sul nostro pianeta, dove la gravità è superiore. Ma bisogna vederli sul loro mondo, dove si muovono rapidamente, ritti sui loro piedistalli, con la facilità di una pietra che schizza sull’acqua.
Alla nostra destra, a sud, oltre lo spazioporto, l’argine del Grande Canale delimitava l’orizzonte (un orizzonte troppo vicino, a paragone di quello della Terra) senza lasciar scorgere l’altra riva. Diritto davanti a noi sorgeva il Nido di Kkkah, con l’aspetto d’una città fatata. Stavo osservandolo, e lasciavo veleggiare lo spirito davanti alla sua bellezza fragile, quando Dak si mosse senza preavviso.
Sulla strada non c’era più il traffico intenso che avevamo incontrato vicino ai dock delle compagnie di navigazione, ma di fronte a noi c’era un’altra vettura che ci stava venendo addosso. L’avevo vista anch’io, ma non le avevo prestato un’attenzione particolare. Dak, invece, doveva evidentemente stare all’erta, prevedendo qualche possibile fastidio; quando l’altra macchina ci fu giunta vicina, egli aprì con un movimento brusco il vetro divisorio che ci separava dal conducente, afferrò con una mano il volante e con l’altro braccio prese per il collo l’uomo, tirandolo all’indietro. Fece una brusca sterzata a destra, evitando per un pelo lo scontro con l’altra vettura, poi sterzò di nuovo a sinistra, e per poco non uscimmo di strada. Sarebbe stata una cosa molto spiacevole, perché ormai eravamo fuori del Campo e in quel punto l’autostrada correva a filo del canale.
Un paio di giorni prima, all’Eisenhower, non ero stato molto utile a Dak, ma quella volta ero disarmato e non mi aspettavo che succedessero guai. Questa volta, sulla vettura che ci portava al Nido di Kkkah, anche se ero disarmato come allora, mi comportai decisamente meglio. Dak era già abbastanza occupato a cercar di tenere la macchina sulla strada, sporgendosi dal suo seggiolino alle spalle del conducente, tutto teso in avanti. Il conducente stesso, che era stato colto di sorpresa, ora si era ripreso e si stava divincolando per togliere il volante dalla mano di Dak.
Anch’io mi buttai in avanti, circondai il collo dell’uomo con il braccio sinistro e gli schiacciai il pollice della destra sulla schiena. — Una sola mossa e sei spacciato! - Il tono di voce apparteneva al "cattivo" del Gentiluomo di seconda mano. Anche la frase era tratta dal suo copione. Il mio prigioniero si calmò subito.
— Rog, cosa stanno facendo? — domandò con urgenza Dak.
Clifton si volse a guardare, poi lo informò: — Stanno voltando.
— Bene — ribatté Dak. E a me: — Capo, continui a tenerlo sotto tiro mentre prendo il suo posto. — Così dicendo scavalcò il sedile anteriore, cosa piuttosto difficile, data la lunghezza delle sue gambe e l’affollamento dell’abitacolo della vettura. S’infilò al posto di guida e disse con brio: — Sfido chiunque a raggiungere una Rolls su una strada come questa… — Affondò il piede sull’acceleratore, e la grossa vettura scattò bruscamente in avanti. — Com’è dietro di noi, Rog?
— Hanno appena finito di voltare.
— Bene. Cosa ne facciamo di questo bell’elemento? — chiese, indicando l’ex conducente. — Lo buttiamo fuori del finestrino?
La mia vittima protestò sonoramente: — Non ho fatto niente! — Io gli premetti il pollice contro le costole e lui si zittì subito.
— Oh, non hai fatto niente, poverino! — motteggiò Dak, senza distogliere lo sguardo dalla strada. — Stavi solo cercando di provocare un piccolo scontro… quel che basta per far arrivare l’onorevole Bonforte in ritardo all’appuntamento. Se non mi fossi accorto che stavi rallentando per non farti troppo male, saresti anche riuscito a farcela. Te n’è mancato il coraggio, eh? — Prese una curva a velocità folle; le gomme fischiavano e il giroscopio sudava per tenerci ritti. Poi domandò:
— Come va la situazione, Rog?
— Hanno rinunciato a seguirci, credo…
— Ne ero sicuro. — Dak non rallentò. Credo che stessimo andando per lo meno a trecento all’ora. Proseguì: — Mi chiedo se oseranno tirarci una bomba con uno dei loro sulla vettura. Cosa ne pensi, amico? Sarebbero disposti a sacrificarti?
— Non so di cosa sta parlando. Avrete tutti dei fastidi, per quello che mi fate.
— Ma davvero? La parola di quattro persone rispettabili contro la parola di un avanzo di galera come te? Non vorrai mica farci credere di non essere un deportato? Comunque, l’onorevole Bonforte preferisce che guidi io, e certo tu hai piacere di usargli questa gentilezza, vero? — La ruota passò sopra qualcosa di non più grosso d’un sassolino, ma su quella strada liscia come il vetro, il sobbalzo fece quasi finire me e il mio prigioniero a sbattere la testa contro il soffitto. — "L’onorevole Bonforte!" — Il prigioniero pronunciò queste parole con il tono di una frase sconveniente.
Dak non aprì bocca per qualche istante, poi disse: — Credo sia meglio non buttare ancora fuori quest’individuo, Capo. Adesso accompagniamo lei al luogo della cerimonia, e poi pigliamo lui e lo portiamo in qualche posticino tranquillo. Sono sicuro che ci racconterà un mucchio di cose, a chiedergliele con gentilezza.
Il mio prigioniero cercò di sfuggirmi, ma io strinsi la presa sul collo e affondai più forte il pollice nella sua schiena. Forse un dito pollice non fa lo stesso effetto della canna di una pistola, ma nessuno è disposto a controllarlo a proprio rischio. Lui si mise immediatamente tranquillo. — Non oserete iniettarmi le droghe! — esclamò, con tono di sfida.
— Oh, no, che diamine! — gli rispose Dak, fingendo sorpresa. — Sarebbe illegale! Piuttosto… Penny, hai mica una forcina?
— Sì, certo, Dak. — Sembrava un po’ perplessa, ed ero perplesso anch’io. Però lei non sembrava affatto spaventata, mentre io lo ero certamente.
— Benissimo. Senti, cocco — riprese Dak, rivolgendosi al prigioniero — hanno mai provato a infilarti una forcina sotto le unghie? Dicono che riesca perfino a spezzare il comando ipnotico di non parlare. Agisce direttamente sul subcosciente, o qualcosa di simile. Il guaio è che il paziente grida in modo poco simpatico, diventa molto fastidioso. Così adesso ti portiamo tra le dune del deserto, dove potrai dare fastidio solo agli scorpioni marziani. Dopo che avrai parlato (e qui viene il bello) ti lasceremo libero, non ti faremo niente e sarai padrone di tornartene a piedi in città. Però, attento bene, se starai buono e ti dimostrerai volenteroso ti daremo anche un premio: ti lasceremo la maschera dell’aria per il ritorno.
Dak tacque, e per un istante si udì solo il lamento della sottile aria marziana sul tetto della vettura. Su Marte, un essere umano può anche arrivare a percorrere duecento metri senza maschera dell’aria, se ha il cuore buono. Mi sembra di avere letto di un caso in cui un uomo era riuscito a percorrere quasi un chilometro, prima di morire. Diedi un’occhiata all’indicatore sul cruscotto e vidi che distavamo ventitré chilometri da Goddard City.
— Onestamente, vi giuro di essere all’oscuro di tutto — disse alla fine il prigioniero. — Mi hanno pagato solo perché mi scontrassi con l’altra macchina.
— Cercheremo allora di stimolare un po’ la tua memoria. — Le porte della città marziana erano davanti a noi, ormai, e Dak rallentò l’andatura. — Capo, lei è arrivato. Rog, meglio che tu prenda la pistola e liberi il Capo del nostro ospite.
— Sì, Dak — rispose Rog. Si portò accanto a me e premette sulle costole del malcapitato, sempre con il solo pollice. Io mi spostai. Dak mise il freno a mano, e si fermò proprio davanti alle porte della città.
— Quattro minuti di anticipo! — esclamò soddisfatto. — Ottima vettura, mi piacerebbe averne una. Rog, lascia un po’ la presa e fammi posto.
Clifton obbedì, e Dak colpì di taglio, con mano esperta, il collo dell’uomo. Il conducente svenne e si afflosciò sul sedile. — Così starà più tranquillo mentre lei si avvia verso la città, Capo; non possiamo rischiare noie impreviste da parte sua, proprio qui che ci possono vedere dal nido. Vediamo quanto manca.
Osservammo l’orologio. Mancavano ancora tre minuti e mezzo all’ora stabilita. — Lei dovrà essere puntualissimo — mi disse Dak. — Sa, né in ritardo né in anticipo; dovrà spaccare il secondo.
— Certo — rispondemmo all’unisono io e Clifton.
— Le occorreranno trenta secondi per salire i gradini, più o meno. Come pensa di impiegare i tre minuti che le restano?
Trassi un respiro. — Cercando di calmarmi i nervi — risposi.
— I suoi nervi sono perfettamente a posto. Gli ha giocato un bel tiro, prima. Auguri, vecchio marpione! Fra due ore lei sarà già sulla via del ritorno, con tanti di quei quattrini da sfondarle le tasche. Ormai siamo sulla dirittura finale.
— Lo spero anch’io. È stata una vera faticaccia. Ehm, Dak?
— Sì?
— Scenda un attimo con me. — Uscii dalla vettura e gli feci segno di seguirmi poco distante. — Cosa succederebbe se commettessi un errore, là dentro?
— Come? — ribatté Dak, stupito. — Lei non commetterà nessun errore — aggiunse ridendo, ma il suo tono suonava leggermente forzato. — Penny mi assicura che lei ha mandato giù la parte alla perfezione.
— Sì, ma se m’inceppassi?
— Ma no, non s’incepperà affatto. So benissimo quel che si prova in casi come il suo. L’ho provato anch’io al mio primo atterraggio senza istruttore. Ma appena incominciate le manovre, mi sono trovato così indaffarato a far tutto quello che c’era da fare che non mi è rimasto tempo per sbagliare.
— Dak! — era la voce di Clifton, resa fioca dall’aria marziana, più sottile. — Dak, hai controllato l’ora?
— C’è un mucchio di tempo. Manca ancora più di un minuto.
— Onorevole Bonforte! — era Penny che parlava. Mi voltai e ritornai alla vettura. Lei uscì e mi tese la mano. — Buona fortuna, onorevole Bonforte.
— Grazie, Penny.
Anche Rog mi volle stringere la mano, e Dak mi diede una pacca sulle spalle. — Mancano trentacinque secondi. È meglio che lei s’incammini.
Feci segno di sì col capo e m’avviai per la gradinata. Raggiunsi la sommità, e doveva essere esattamente il momento convenuto, secondo più secondo meno, perché i pesanti portali cominciarono ad aprirsi proprio quando io mi trovavo a qualche passo di distanza. Trassi un profondo respiro e imprecai contro quella maledetta maschera dell’aria.
Poi entrai nella parte.
Non importa assolutamente se siete sulla scena da anni: l’ingresso sul palcoscenico, quando il sipario si alza su una prima, è sempre tremendo. Vi toglie il respiro e vi manda il cuore in gola. D’accordo, conoscete a menadito il copione. D’accordo, avete chiesto all’impresario di controllare l’umore del pubblico. D’accordo, l’avete già recitato altre volte. Ma tutte queste belle cose non contano: in quel primo momento in cui entrate in palcoscenico sapendo che tutti gli occhi sono puntati su di voi, che tutti stanno aspettando le vostre parole, stanno attendendo che facciate qualcosa, magari sperando che ingarbugliate le battute… be’, la paura si fa sentire. Ecco perché ci sono i suggeritori.
Guardai, vidi i miei spettatori, e l’impulso fu quello di scappare a gambe levate. Per la prima volta in trent’anni avevo paura del pubblico.
Gli appartenenti al nido mi si stendevano intorno a perdita d’occhio. Davanti a me c’era uno stretto passaggio, che si apriva in mezzo ai marziani come un sentiero. Dalle due parti i marziani erano migliaia, fitti come mazzi d’asparagi. Sapevo che la prima cosa da fare era d’incamminarmi per quel passaggio, né troppo in fretta né troppo lentamente, e raggiungere l’altra estremità, dove c’era una gradinata che portava al nido interno.
Ma non riuscivo a staccare i piedi da terra.
Allora dissi a me stesso: — Dai, Lorenzo, tu sei John Joseph Bonforte. Sei già venuto qui decine di volte. Questa gente è amica tua. Sei qui perché lo desideri e perché lo desiderano anche loro. Quindi incamminati per quel corridoio. Ta-ta-ta-ta…! - (Sull’aria della marcia nuziale di Mendelssohn).
Incominciai a sentirmi di nuovo Bonforte. Sì, ero Joe Bonforte, l’affabile zio della politica interplanetaria, e avevo la precisa intenzione di condurre a buon fine la cerimonia, per l’onore e la sicurezza della mia razza e del mio pianeta, e per quelli dei miei amici marziani. Trassi un profondo respiro, e feci il primo passo.
Fu proprio quel profondo respiro a salvarmi, perché così facendo aspirai la celestiale fragranza marziana. Migliaia e migliaia di marziani vicini l’uno all’altro… sembrava che qualcuno avesse rovesciato una scatola intera di "Passione tropicale". La convinzione di star annusando quel profumo era talmente forte che mi voltai involontariamente a vedere se per caso Penny mi avesse seguito fin lì. Mi sembrava di sentire il tepore della sua mano nella mia.
M’avviai zoppicando lievissimamente lungo quello stretto corridoio, cercando di procedere con la velocità con cui procede un marziano sul suo pianeta natale. La folla mi si chiudeva alle spalle. Ogni tanto qualche piccolo si staccava dagli adulti e mi scivolava davanti. Per "piccoli" intendo i marziani dopo la scissione, che pesano la metà di un adulto e sono alti tre quarti della sua altezza: Siccome non escono mai dal nido, noi terrestri tendiamo a dimenticare che esistono anche i piccoli dei marziani. Dopo la scissione, ci vogliono almeno cinque anni perché un marziano riacquisti le sue dimensioni normali, perché la sua intelligenza ritorni quella di prima, e insieme ad essa torni la memoria. Durante questo periodo di transizione, si può dire che il piccolo marziano sia un perfetto idiota. Prima la ridisposizione genetica e poi la rigenerazione portate dalla coniugazione e dalla scissione lo mettono fuori combattimento per molto tempo. Una delle bobine di Bonforte conteneva una completa lezione su questi argomenti biologici, accompagnata da alcune riprese stereo di mediocre qualità.
I piccoli, essendo degli allegri idioti, non hanno né i doveri di correttezza degli adulti né le loro responsabilità. Tutti gli adulti provano per loro un affetto smisurato.
Due dei piccoli, entrambi della stessa taglia, la minima, e che a me sembravano perfettamente identici, scivolarono fuori della massa dei marziani e si bloccarono davanti a me, proprio come un cagnolino balordo può fermarsi in mezzo alla strada. Non avevo molte possibilità: o mi fermavo o li calpestavo.
Così mi fermai. Si avvicinarono ancora di più a me, sbarrandomi completamente il passo, e cominciarono a estroflettere pseudoarti, mentre intanto cinguettavano animatamente tra loro. Non riuscivo assolutamente a capire cosa stessero dicendo. In meno che non si dica si misero a tirarmi le falde degli abiti e a farmi scivolare i palpi nelle tasche.
Intorno a me, la folla era così fitta che non potevo assolutamente aggirare i due piccoli marziani. Mi trovavo tra l’incudine e il martello. Per prima cosa, erano così carini che mi facevano davvero venire la voglia di frugarmi in tasca per vedere se c’era una caramella per loro… ma, cosa assolutamente più importante, sapevo anche che la cerimonia dell’adozione doveva rispettare rigorosamente i suoi tempi, come un balletto. Se non mi affrettavo a muovermi, rischiavo di commettere la stessa infrazione classica che aveva reso famoso Kkkahgral il Giovane.
Ma i piccoli non avevano intenzione di allontanarsi da me. Uno di loro aveva trovato il mio orologio.
Trassi un respiro e fui quasi sopraffatto dal profumo. Poi decisi di fare una scommessa con me stesso. Scommisi che l’azione di chinarsi a baciare un bambino fosse una costante universale valida in tutta la Galassia, e che fosse perfino più importante del concetto marziano di correttezza. Così m’inginocchiai, per essere al loro livello, e li coccolai per alcuni istanti, circondandoli con le braccia e dando loro amorevoli pacche sulle scaglie.
Poi mi rialzai e dissi piano: — Adesso basta, cari. Devo proprio andare — il che consumò gran parte della mia riserva di marziano elementare.
I piccoli continuavano a starmi aggrappati, e io li scostai con attenzione ma anche con gentilezza; così potei proseguire lungo il corridoio, cercando d’affrettarmi per recuperare il tempo perduto. Per i primi passi avanzai rigido, ma non sentii nessuna verga fulminarmi alla schiena, e incominciai a pensare che la mia infrazione della correttezza marziana non avesse raggiunto il grado della pena capitale. Arrivai alla gradinata che portava al nido interno e cominciai a scenderla.
La riga di asterischi che vedete qui sopra rappresenta la cerimonia dell’adozione. Perché? Perché riguarda solo i membri del Nido di Kkkah. È una questione di famiglia.
Per fare un esempio: un mormone può avere un mucchio di amici carissimi che non appartengono alla sua setta religiosa: ma credete che questa amicizia arrivi al punto di farli entrare nel Tempio di Salt Lake City? No, nessun estraneo c’è mai entrato né mai c’entrerà. I marziani vanno con disinvoltura da un nido all’altro, ma i nidi interni sono riservati solo agli appartenenti alla famiglia. Nemmeno le loro spose-coniugate godono di questo privilegio. Io quindi non ho il diritto di descrivere i dettagli della cerimonia dell’adozione avvenuta nel nido interno, non più di quanto un affiliato a una loggia massonica abbia il diritto di riferire i dettagli delle cerimonie che hanno luogo nella loggia stessa.
La cerimonia, nelle linee generali, è uguale per tutti i nidi, e la parte che mi spettò è uguale per tutti i candidati. Il mio padrino, uno dei più vecchi amici marziani di Bonforte, Kkkahrrreash, mi si fece incontro sulla soglia, minacciandomi con la verga. Io gli chiesi che mi uccidesse subito se m’ero reso colpevole di qualche mancanza. A essere sinceri, debbo dire che non lo riconobbi, nonostante ne avessi studiato attentamente la fotografia. Ero però sicuro che fosse lui, perché sapevo che così richiedeva il rituale.
Dopo questa dichiarazione di assoluta fedeltà alla Mamma, alla Casa, ai Doveri di Cittadino, e l’assicurazione di avere frequentato regolarmente il Catechismo, ebbi finalmente il permesso d’entrare. ’Rrreash mi guidò per tutte le stazioni di quella via crucis. Mi vennero poste domande e io fornii risposte. Ogni parola, ogni gesto erano stilizzati come quelli di un antico dramma cinese, e io avevo imparato tutto a memoria, naturalmente, altrimenti non avrei proprio saputo come cavarmela. Il più delle volte, infatti, non capii quello che dicevano, e per buona parte del tempo non seppi neppure il significato dei suoni che mi uscivano dalle labbra. Sapevo solo riconoscere le prime battute pronunciate da chi m’interrogava, e rispondevo con frasi imparate a memoria. Il tutto era reso più difficile dalla scarsa illuminazione, preferita dai marziani: procedevo a tastoni come una talpa.
Una volta mi era successo di recitare con Hawk Mantell, poco prima che morisse, quando era già completamente sordo. Lui sì, che era un vero attore! Non poteva neppure usare uno strumento acustico perché il suo nervo uditivo era del tutto morto. Per buona parte del tempo riusciva a leggere la battuta sulle labbra del compagno, ma non sempre la cosa gli era possibile. Egli stesso però aveva fatto da regista, e aveva sincronizzato tutta la recitazione in modo perfetto. Ricordo d’averlo visto recitare una battuta, allontanarsi di qualche passo, poi voltarsi di botto e sparare una risposta fulminante a una frase del compagno che non poteva assolutamente avere udito, con un’esattezza che spaccava il decimo di secondo.
Le cose si svolsero proprio come quella volta con Mantell. Io sapevo la mia parte, e la recitai. Se poi gli altri, i marziani, si siano sbagliati a recitare qualche pezzo della loro, io non c’entro.
Mi sentivo un po’ nervoso perché c’erano sempre almeno una mezza dozzina di verghe puntate contro di me, per tutto il tempo della cerimonia. Continuavo a ripetermi che non mi avrebbero certo fulminato per un banale errore di recitazione: dopotutto io ero solo un povero goffo essere umano, e come minimo mi dovevano dare la sufficienza per incoraggiamento. Ma non ne ero poi tanto sicuro.
Dopo un tempo che mi parve interminabile e che invece non lo fu affatto (in quanto tutta la cerimonia durò esattamente un nono di rotazione marziana) ci dedicammo al banchetto.
Non so che cosa mi propinarono, e forse è meglio che non lo abbia mai saputo. Comunque non mi avvelenarono.
Quindi gli anziani fecero un sacco di discorsi. Io risposi col mio discorso d’accettazione, ed essi mi diedero un nome marziano e una verga. Con ciò ero diventato un marziano anch’io.
Non sapevo come si usasse l’arma, e sarei rimasto imbarazzato nel dover pronunciare il mio nome, ma l’importante era che da quel momento in poi era il mio nome legale su Marte, e che io ero legalmente un membro della più aristocratica famiglia marziana… il tutto esattamente cinquantadue ore dopo che un terricolo, in un momento in cui la sua fortuna era giunta al livello più basso, aveva speso l’ultimo mezzo credito pagando da bere a un estraneo nel bar del Casa Mañana.
Credo che ciò dimostri più che a sufficienza come sia assolutamente sconsigliabile attaccare bottone con gente che non si conosce.
Me ne andai non appena mi fu possibile. Dak mi aveva preparato un discorsetto in cui dichiaravo che per motivi di correttezza mi era necessario partire subito, ed essi mi lasciarono andare. Mi sentivo nervoso come se mi fossi trovato in piena notte nel dormitorio di un convento di monache: ormai il cerimoniale che conoscevo non poteva più guidarmi. Voglio dire che anche il loro comportamento sociale quotidiano è irto di abitudini rigorosissime, molto pericolose, e che io non sapevo i passi giusti da fare. Così recitai la mia scusa e uscii. ’Rrreash e un anziano mi accompagnarono, e io mi concessi il lusso di fare qualche carezza a un’altra coppia di piccoli marziani che incontrammo per la strada (o forse si trattava della stessa coppietta di prima). Quando fui giunto alle porte, i due anziani squittirono un saluto in inglese e mi lasciarono solo; i portali si richiusero alle mie spalle, e io tirai un gran respiro di sollievo.
La Rolls mi aspettava nello stesso punto in cui l’avevo lasciata: scesi di corsa la gradinata. Una portiera si spalancò, e rimasi stupito nel vedere che a bordo c’era Penny, sola. Stupito, sì, ma tutt’altro che dispiaciuto. Le gridai: — Ehi, Ricciolina! Ce l’ho fatta.
— Ne ero sicura — rispose lei.
Le feci un saluto scherzoso alla spada con la mia verga marziana. — Mi chiami Kkkahjjjerrr — le dissi, spruzzando il sedile anteriore con la seconda sillaba.
— Attento con quell’arnese! — fece lei, nervosa.
Le scivolai accanto, sul sedile anteriore, domandandole: — Mi sa dire come si usano queste verghe? — Stava sopravvenendo la reazione dopo la tensione di prima, e io mi sentivo esausto ma di buonumore. Avevo voglia di bere almeno tre cicchetti e di mandare giù una bistecca enorme, per poi star sveglio tutta la notte ad aspettare i primi giornali del mattino con le recensioni della prima.
— No, non so — rispose lei. — Ma stia attento.
— Credo che basti solo schiacciare qui — e così dicendo, lo feci, e subito si disegnò sul parabrezza un foro rotondo largo un pugno, e l’interno della macchina non fu più pressurizzato.
Penny mandò un’esclamazione soffocata. Io mormorai: — Oh… mi spiace. Meglio che la metta via finché Dak non mi abbia insegnato a usarla.
Penny sospirò. — Sì. Stia solo attento a dove la punta — mi consigliò, sempre allarmata, avviando la macchina a una tale velocità da farmi comprendere come non ci fosse solo Dak ad avere il piede pesante sull’acceleratore.
Il vento entrava sibilando dal foro che avevo prodotto nel parabrezza. Domandai: — Perché tanta premura? Ho bisogno di tempo per studiare le risposte per la conferenza stampa. Le ha con lei? E gli altri, dove sono? — Solo allora m’era tornato alla mente l’autista che avevamo fatto prigioniero. Non ci avevo più pensato da quando si erano spalancati i portali del nido.
— No. Non sono potuti venire.
— Penny, ma insomma, cosa succede? — non potei far a meno di chiederle, mentre mi stavo domandando se avrei potuto tenere una conferenza stampa senza previe istruzioni in merito. Forse avrei potuto limitarmi a raccontare qualcosa sulla cerimonia dell’adozione; lì sarei stato sul sicuro.
— Si tratta di… l’onorevole Bonforte… l’hanno trovato!