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Non mi ero mai immischiato nella politica. Mio padre mi aveva messo in guardia sovente dicendo: — Non intrometterti, Lorenzo — e il suo tono era oltremodo solenne. — La pubblicità che ne trarresti sarebbe negativa, di quella che ai bifolchi non garba. — Non avevo mai votato, neppure dopo che l’emendamento del ’98 aveva reso facile per la popolazione priva di residenza fissa (tra la quale sono compresi quasi tutti i membri della mia professione) l’esercizio del diritto di voto.

Comunque, posto che avessi mai avuto delle inclinazioni politiche, queste non si erano mai rivolte verso Bonforte. Lo consideravo un uomo pericoloso, probabilmente un traditore dell’umanità. A dir poco, l’idea di far da bersaglio e di venire ucciso al posto suo mi riusciva… come potrei dire?… piuttosto sgradevole.

Però… che parte!

Avevo recitato una volta da protagonista nell’Aiglon, e avevo anche impersonato Cesare nelle uniche due tragedie degne del suo nome. Ma recitare un simile ruolo dal vivo… be’, è sufficiente a far comprendere cosa sia andare alla ghigliottina al posto di un altro… solo per la possibilità di recitare, anche per pochi istanti, la parte che esige il sacrificio supremo, e così creare il capolavoro perfetto, insuperabile.

Mi chiesi chi potessero essere i miei colleghi che non erano stati capaci di resistere alla tentazione, le altre volte. Erano dei veri artisti, non c’è dubbio, anche se l’anonimato era l’unica testimonianza della riuscita dell’interpretazione. Mi sforzai di ricordare la data esatta degli attentati contro Bonforte, e quali colleghi, tra coloro che avrebbero potuto prendere il suo posto, erano morti o erano scomparsi dalla circolazione nello stesso periodo. Ma non servì a nulla. Oltre a non essere certo dei dettagli della recente situazione politica, c’era il solito fatto che gli attori ti scompaiono continuamente di torno, con una frequenza desolante. È una professione incerta, anche per i migliori.

Mi accorsi che stavo studiando attentamente la sostituzione.

Compresi subito che potevo recitarla senza difficoltà. Diavolo, mi sentivo di poterla fare anche in un incendio, con le gambe legate e con già l’odore del fumo proveniente dagli scenari. In primo luogo, non c’era nessun problema per quanto riguardasse il fisico: io e Bonforte avremmo potuto scambiarci gli abiti senza che facessero una grinza. Quei cospiratori da quattro soldi che mi avevano arruolato di forza avevano dato un’importanza eccessiva alla rassomiglianza fisica, perché essa non significa nulla se non c’è l’arte ad animarla… e non c’è bisogno di molta rassomiglianza se c’è un vero artista a sostenerla. Però debbo ammettere che un po’ di rassomiglianza aiuta, e il loro stupido giochetto con il computer dell’Aia li aveva portati (per puro caso) a scegliere un vero artista il quale, per di più, come struttura fisica sembrava il fratello gemello dell’uomo politico che doveva sostituire. Il profilo di Bonforte ricordava un po’ il mio; anche lui aveva mani lunghe e magre, aristocratiche come le mie… ed è molto più difficile imitare le mani che non i volti.

La sua andatura zoppicante, che si presumeva dovuta a uno degli attentati contro di lui… una bazzecola! Dopo qualche minuto d’osservazione, sentivo di poter scendere dalla cuccetta (a 1 g, beninteso) e imitare alla perfezione il suo modo di camminare, senza neanche bisogno di pensarci sopra. Quel suo vezzo di grattarsi il pomo d’Adamo e poi di passarsi le dita sul mento, quella smorfia quasi impercettibile che faceva quasi ogni volta che si accingeva a parlare… piccoli dettagli che non presentavano difficoltà e che vennero assorbiti istantaneamente dal mio subcosciente come la sabbia assorbe l’acqua.

Certo, aveva una quindicina o una ventina d’anni più di me, ma è più facile invecchiarsi che non ringiovanirsi. Comunque, l’età, per un attore, è unicamente una questione d’atteggiamento interiore, e non ha niente a che fare con l’avanzata regolare del catabolismo.

Entro i primi venti minuti d’osservazione mi sentivo in grado di poterlo imitare sul palcoscenico, o di leggere un discorso al posto suo. Però, da certi accenni, avevo idea che la mia interpretazione richiedesse qualcosa di più. Dak aveva suggerito che avrei dovuto ingannare gente che lo conosceva di persona, forse anche in colloqui a quattr’occhi. Questo era notevolmente più difficile. Per esempio: il caffè, lo prendeva con lo zucchero o senza? E se sì, quanti cucchiaini? Con che mano toglieva la sigaretta dal pacchetto e con che gesto la teneva mentre s’accendeva? Proprio mentre stavo chiedendomelo, ottenni la risposta e la imparai immediatamente a memoria: l’immagine che stava davanti a me prese la sigaretta in un certo modo caratteristico, e mi convinsi che doveva aver usato per anni i fiammiferi e le sigarette scassapolmoni di una volta, prima di arrendersi alla marcia del cosiddetto progresso.

Poi, peggio ancora, bisogna tener presente che un uomo non è una singola complessità, da risolvere una volta per tutte: è una complessità diversa per ciascuna delle persone che la conoscono. Vale a dire che, per aver successo, una sostituzione dev’essere plastica, deve poter mutare per ogni singolo "pubblico", cioè per ogni singolo conoscente della persona che si sostituisce. E questo non è soltanto difficile: è una cosa statisticamente impossibile. Sono tanti piccoli particolari sui quali si corre il rischio d’inciampare. Che esperienze ha in comune il vostro principale con il suo conoscente John Jones? Con cento, con mille altri John Jones qualsiasi? Un sostituto non potrà mai saperlo.

La recitazione in se stessa, come tutte le arti, è un processo d’astrazione che conserva solo i dettagli importanti. Ma per sostituire una persona nella vita, tutti i dettagli possono essere importanti. Alle volte, anche una cosa sciocca come non far rumore mentre si mangia il sedano può rompervi catastroficamente tutte le uova del paniere.

Poi mi venne in mente una triste considerazione: la mia recita, molto probabilmente, doveva risultare convincente solo quel tanto che permettesse a un cecchino di prendermi bene di mira…

Stavo continuando a studiare l’uomo che dovevo sostituire (del resto, che altro potevo fare?) quando la porta si spalancò e udii Dak, in carne e ossa, chiamare: — C’è nessuno in casa? — Le luci si accesero, l’immagine tridimensionale svanì, e io provai la stessa impressione di chi viene bruscamente strappato a un sogno. Girai la testa; la ragazza, Penny, si sforzava di tener sollevato il capo dall’altra cuccetta idraulica e Dak era fermo sulla soglia, tenendosi al montante.

Lo osservai e dissi con un certo stupore: — Come fa a star dritto sotto 2 g? — Intanto una parte della mia mente, la parte professionale che opera per conto suo, stava prendendo nota della posa da lui assunta e la infilava in uno schedario nuovo, etichettato: "Come si sta in piedi a 2g".

— Semplicissimo — rispose sorridendo. — Ho le suole ortopediche.

— Uff!

— Può alzarsi anche lei, se lo desidera. Di solito sconsigliamo ai passeggeri d’uscire dalle cuccette d’accelerazione quando torciamo a più di 1,5 g… è fin troppo facile che qualche scemo inciampi nelle sue scarpe e si spacchi una gamba. Ma una volta ho visto un tipo molto duro, con la taglia del sollevatore di pesi, scendere dal "torchio" e camminare con 5 g… anche se poi è rimasto un po’ scosso per il resto del viaggio. Due g sono sopportabilissime: è come portare un’altra persona a cavalcioni. — Voltò gli occhi verso la ragazza: — Come va, Penny? Gliela stai contando giusta?

— Non mi ha fatto ancora una domanda.

— Ma come? Lorenzo, non la riconosco più! Credevo volesse sapere subito tutte le risposte!

Cercai di scrollare le spalle. — Non vedo che importanza possa avere, ormai, dal momento che non vivrò abbastanza da trarne profitto.

— Eh? Cos’è che le ha tolto la voglia, vecchio marpione?

— Capitano Broadbent — risposi con amarezza — la presenza di questa signora m’impedisce d’esprimermi come vorrei, e perciò non posso sottoporre a un corretto esame i suoi antenati, le sue abitudini, la sua moralità, nonché le sue azioni future. Ma basterà dirle che ho capito benissimo il tiro mancino che lei mi ha giocato costringendomi ad accettare l’incarico, non appena mi sono reso conto dell’identità della persona che dovrò sostituire. Mi limiterò a una domanda sola: chi ha intenzione di assassinare Bonforte? Anche un piccione di gesso ha diritto di sapere chi lo prenderà come bersaglio.

Per la prima volta vidi il volto di Dak assumere un’espressione di sorpresa. Ma si riebbe subito e scoppiò a ridere così di gusto che l’accelerazione parve avere la meglio su di lui. Si lasciò scivolare sul pavimento e appoggiò la schiena alla parete, sempre continuando a ridere.

— Non ci vedo niente da ridere — dichiarai rabbiosamente.

— Lorenzo, vecchio marpione — farfugliò Dak asciugandosi gli occhi — ma è convinto sul serio che l’ho ingaggiata per farle fare da bersaglio?

— Mi pare ovvio — risposi, e gli spiegai le mie deduzioni riguardo ai precedenti attentati contro Bonforte.

Ebbe il buon senso di non ridere più. — Capisco. È convinto che l’abbiamo assunta con un incarico simile a quello degli assaggiatori di corte, nel Medioevo. Be’, cercherò di spiegarle tutto; non credo che giovi alla sua recita la convinzione di dover morire sul posto. Senta, sono col Capo da sei anni e posso assicurarle con tutta certezza che non s’è mai servito di una controfigura… E poi ero presente a due attentati contro di lui, e una volta sono stato io a uccidere l’attentatore… Penny, tu sei col Capo da più di me; dimmi: il Capo ha mai avuto controfigure?

Lei mi osservò freddamente. — Mai. La semplice idea che il Capo incarichi un altro di rischiare la vita al suo posto è una… ecco, mi verrebbe voglia di darle uno schiaffo; ecco cosa si merita!

— Calma, Penny, calma… — fece Dak, conciliante. — Ciascuno di voi ha da fare il suo lavoro, e tu dovrai lavorare con lui. Del resto, la sua idea è sbagliata, certo, ma non è del tutto balorda… prova a pensarci dal di fuori, a metterti nei suoi panni. A proposito, Lorenzo, le presento Penelope Russell. È la segretaria personale del Capo, e quindi la consideri la sua istruttrice numero uno.

— È un onore per me conoscerla, signorina.

— Vorrei poter dire lo stesso!

— Piantala, Penny, altrimenti ti spolvero le rotondità posteriori… sotto 2 g. Lorenzo, sono d’accordo anch’io che fare il sostituto di John Joseph Bonforte comporta più pericoli che farsi spingere sulla carrozzella da un’infermiera… perdiana, lo sappiamo tutt’e due, hanno già tentato diverse volte di far incassare agli eredi la sua assicurazione sulla vita. Ma ora non sono gli attentati che ci preoccupano. Per dirla in breve: per motivi politici che le spiegherò in un secondo momento, stavolta i nostri avversari non oseranno tentare di uccidere il Capo (o lei, quando ne farà le veci). È gente che non scherza, e questo lei ha già avuto modo di constatarlo, pronta a uccidere me o Penny se la nostra morte fosse utile ai loro fini. Ucciderebbero anche lei, Lorenzo, se riuscissero a raggiungerla ora. Ma quando comparirà in pubblico al posto del Capo, lei sarà perfettamente al sicuro. Saranno le circostanze stesse a impedire loro di ucciderla.

Studiò la mia espressione, poi disse: — Allora? Scossi la testa. — Non riesco a capire.

— Adesso no, ma più avanti capirà. È una faccenda complicata, in cui c’entra la particolare mentalità dei marziani. Per ora si fidi di questi accenni; capirà tutto prima di arrivare.

La cosa continuava a piacermi poco. Fino a quel momento, non mi ero accorto che Dak mi avesse detto chiaramente delle bugie, però era abilissimo nell’ottenere lo stesso effetto nascondendomi parte della verità, come avevo imparato a mie spese. — Senta un po’ — dissi — non ho nessun motivo per fidarmi di lei, o di questa giovane signora… mi scusi, signorina. Ma anche se non nutro molte simpatie per il signor Bonforte, devo ammettere che ha la fama di essere onesto in modo addirittura doloroso, talvolta offensivo. Quando potrò parlare a lui? Appena giunti su Marte?

Il viso brutto ma simpatico di Dak fu offuscato da una nube di tristezza. — Temo di no. Penny non le ha detto niente?

— Detto niente di cosa?

— Vecchio marpione, del motivo per cui ci serve una controfigura del Capo. L’hanno rapito.


Avevo mal di testa. Forse perché il peso era raddoppiato, o più probabilmente perché c’erano stati fin troppi colpi di scena.

— Adesso lei lo sa — continuò Dak. — Adesso sa anche perché Jacques Dubois non si fidava a dirglielo finché non fossimo via dalla Terra. Si tratta della notizia più sensazionale dal primo atterraggio lunare in poi, e noi stiamo cercando di venirne a capo, e facciamo come accidenti possiamo per non farlo sapere a nessuno. Speriamo di poter impiegare lei finché non riusciamo a trovarlo e a rimetterlo al suo posto. In realtà, lei ha già incominciato a sostituire Bonforte. Questa astronave non è la Passa al primo turno!, come le avevo detto; è lo yacht privato nonché studio viaggiante del Capo, la Tom Paine. La Passa al primo turno! sta girando in orbita di parcheggio intorno a Marte, col radiofaro che invia il segnale d’identificazione di questa astronave. Queste cose le sanno solo il capitano e l’ufficiale marconista; intanto, mentre loro erano in orbita, la Tom si è tirata su le gonne ed è corsa verso la Terra per prendere a bordo un sostituto del Capo. Incomincia a capire come stanno le cose, amico?

Non ne avevo capito niente, ma preferii non dirlo. — Sì, ma, vede, capitano, se i nemici politici dell’onorevole Bonforte lo hanno rapito, perché tenerlo segreto? Avreste dovuto invece gridarlo ai quattro venti.

— Se fossimo stati sulla Terra, sì. E così pure a New Batavia o su Venere. Ma qui si tratta di Marte. Lei ha mai sentito parlare della leggenda di Kkkahgral il Giovane?

— Eh? No, non credo.

— Dovrebbe studiarsela; le servirebbe a capir meglio come ragionano i marziani. In breve, questo giovanotto Kkkah doveva trovarsi in un dato posto in un determinato momento, migliaia d’anni fa, per ricevere un’alta carica onorifica: come venir nominato baronetto. Per un motivo che, secondo il nostro modo di vedere, non poteva essere imputato a sua colpa, non riuscì ad arrivare in tempo. Era chiaro che l’unica cosa da fare, secondo l’etica marziana, era ammazzarlo. Ma poiché era giovane e aveva un passato encomiabile, alcuni progressisti presenti incominciarono a dire che lo si doveva perdonare concedendogli di ritentare la prova. Ma Kkkahgral non ne volle sapere. Approfittò del suo diritto di costituirsi pubblico accusatore contro se stesso, vinse la causa, e fu condannato a morte. Questo gesto ne fa il simbolo, o come diremmo noi il santo protettore, della correttezza formale marziana.

— Roba da matti!

— Crede proprio? Noi non siamo marziani. È una razza antichissima, e ha elaborato un sistema d’impegni e d’obblighi per ogni circostanza. Il rispetto delle forme e dell’etichetta portato all’estremo immaginabile. Al loro confronto, gli antichi giapponesi sembrerebbero degli anarchici. I marziani non hanno i concetti di "giusto" e "sbagliato", ma di "corretto" e "scorretto", elevati al quadrato, al cubo, e con sopra una spruzzata di selz… Ma, tornando al nostro attuale problema, la cosa ci riguarda perché il Capo stava per venire adottato proprio nel nido di Kkkahgral il Giovane. Comincia a capire, adesso?

No, non capivo ancora. Secondo me, quel tale Kkkah doveva venir fuori da un Grand Guignol della specie peggiore.

— È abbastanza semplice — continuò Broadbent. — Il Capo, senza dubbio, è il maggior esperto di costumi e di psicologia marziana che sia mai esistito. Sta lavorando da anni sui marziani, e l’adozione rappresenta il culmine della sua attività politica. Al mezzogiorno di mercoledì, ora locale, a Lacus Solis, avrà luogo la cerimonia dell’adozione. Se il Capo sarà presente ed eseguirà ogni gesto nel modo corretto, tutto andrà bene. Ma se non ci sarà (e non avrebbe nessuna importanza il motivo della sua assenza) il suo nome diverrà la vergogna di tutti i nidi, da un polo all’altro di Marte, e il maggior colpo politico interplanetario e interrazziale che sia mai stato tentato farà un colossale fiasco. Anzi, peggio ancora, sortirà l’effetto contrario a quello voluto. Il minimo che potrà accadere, secondo me, è che Marte si ritirerà dalla sua già relativa alleanza con l’Impero. Probabilmente ci saranno rappresaglie, e molti uomini saranno uccisi, forse tutti gli uomini ora presenti su Marte. Allora, gli estremisti del Partito dell’umanità riusciranno a far prevalere la loro linea di condotta, e Marte verrà annesso con la forza all’Impero, ma solo dopo che i marziani, fino all’ultimo, saranno stati uccisi. E tutte queste catastrofi deriveranno dal semplice fatto che Bonforte non si sarà potuto presentare alla cerimonia dell’adozione nel nido. I marziani prendono queste cose molto sul serio.

Dak se ne andò d’improvviso come era venuto, e Penelope Russell rimise in moto il proiettore. Mi venne in mente, con stizza, che avrei dovuto chiedergli che cosa frenasse i nostri nemici dall’uccidere me, semplicemente, se bastava impedire a Bonforte (in carne e ossa, o a chi ne faceva le veci) di presenziare a qualche barbara cerimonia marziana per scatenare tutto quel patatrac politico. Ma mi ero dimenticato di domandarglielo: forse perché temevo inconsciamente la risposta…

Mi ci volle poco per ritornare di nuovo ad applicarmi sul personaggio di Bonforte, osservandone i gesti e il modo di camminare, impadronendomi delle sue espressioni, provando a imitarne i toni di voce. Ero immerso nella fantasticaggine tiepida e distaccata della creazione artistica e mi sentivo già nei suoi panni.

Fu una repulsione invincibile a destarmi dal mio sogno ad occhi aperti, quando comparve l’immagine di Bonforte circondata di marziani che lo sfioravano con gli pseudoarti. M’ero talmente immedesimato nel personaggio che mi sembrava di averli addosso… e la puzza era insopportabile. Mi lasciai sfuggire un gemito soffocato e cercai di alzare le mani. — Ferma! - esclamai.

Le luci si accesero e le immagini scomparvero. La signorina Russell mi guardava con aria torva. — Che cosa diavolo le prende?

Cercando di dominare il tremito della voce, le dissi: — Signorina Russell… mi dispiace moltissimo… però, mi scusi… non proietti più quel nastro. Non sopporto i marziani.

Mi guardò come se non credesse alle proprie orecchie, ma con profondo disprezzo. — L’avevo detto — esclamò lentamente, con ironia — che questa grottesca macchinazione non sarebbe approdata a niente.

— Mi spiace proprio, ma è una cosa più forte di me.

Lei non rispose, ma scese laboriosamente dal suo "torchio". Non riusciva a camminare con la stessa disinvoltura di Dak, a 2 g, ma se la cavava abbastanza bene. Uscì senza dire niente, e sbattendosi la porta alle spalle.

Non ritornò. Al suo posto, quando la porta si aprì, entrò un uomo, dentro a quello che sembrava un gigantesco girello da bambini. — Come sta il nostro giovanotto? — esclamò. Era un tizio sulla sessantina, piuttosto pingue, dall’aria paciosa; non c’era bisogno di controllare il suo diploma di laurea per capire che la sua era un’affabilità del tipo "medico di famiglia".

— Oh, bene. Grazie, signore, e lei?

— Non male, ma preferisco le accelerazioni più leggere. — Diede un’occhiata in basso, verso il marchingegno che lo conteneva. — Le piace il mio bustino ambulante? Non sarà molto elegante, ma fa affaticare meno il cuore. A proposito, tanto per evitare possibili dubbi, io sono il professor Capek, medico personale dell’onorevole Bonforte. So già chi è lei. Ora, mi dica un po’, cos’è questa cosa che mi hanno raccontato su lei e i marziani?

Cercai di spiegarglielo come meglio potevo, in toni distaccati.

— Capisco — disse il professor Capek. — Però il capitano Broadbent mi avrebbe dovuto avvertire, perché se l’avessi saputo prima avrei cambiato i programmi del suo addestramento. Il capitano è una persona molto abile, a modo suo, ma qualche volta ragiona più coi muscoli che col cervello… È un estroverso talmente normale che a volte mi fa quasi paura. Ma per fortuna non c’è niente d’irreparabile… Signor Smythe, le chiedo il permesso d’ipnotizzarla. Le do la mia parola di medico che mi servirò dell’ipnosi solo per risolvere questa faccenda, e che non interferirò in alcun modo con l’integrazione della sua personalità. — Trasse di tasca uno di quegli orologi antiquati da taschino che sono un po’ il simbolo della professione medica e mi prese il polso.

— Le do senz’altro il mio permesso — gli risposi subito. — Però debbo farle notare, professore, che non servirà a nulla. È impossibile ipnotizzarmi. — Avevo imparato anch’io le tecniche ipnotiche all’epoca in cui presentavo il mio famoso numero di lettura del pensiero, ma coloro che me le avevano insegnate non erano mai riusciti a ipnotizzarmi. Un pizzico d’ipnotismo serve sempre, in numeri come il mio, specialmente se la polizia locale non è molto pignola nel far rispettare le leggi imposte dai sanitari per limitare l’esercizio abusivo della loro professione.

— Davvero? Be’, allora faremo quel che potremo. Pensi solo a rilassarsi, a mettersi comodo, e parleremo un po’ del suo guaio. — Teneva sempre in mano l’orologio e lo faceva dondolare, torcendo la catenina, anche dopo aver terminato di misurarmi le pulsazioni. Volevo dirgli qualcosa, perché l’orologio rifletteva la luce della lampadina che avevo proprio dietro la testa, ma pensai che si trattasse solo di una specie di tic nervoso di cui egli stesso non era a conoscenza: una cosa troppo banale, a dire il vero, per farla notare a un estraneo col rischio di offenderlo.

— Sono rilassato — lo rassicurai. — Mi chieda pure. Oppure, se preferisce, possiamo provare per associazione libera.

— Si lasci andare — mi disse lui, piano. — Due g ci fanno sentire pesanti, non le pare? Sa come faccio, io? Di solito mi limito a dormire per tutto il tempo. La gravità fa affluire meno sangue al cervello, fa venir sonno. Adesso devono accelerare, devono fare una correzione di rotta. Dormiremo tutti… Ci sentiamo pesanti… Dormiremo tutti…

Stavo per dirgli che era meglio che mettesse via l’orologio, altrimenti poteva scivolargli di mano. Invece mi addormentai.


Al mio risveglio, mi accorsi che l’altra cuccetta d’accelerazione era occupata dal professor Capek. — Salve, giovanotto! — mi salutò. — Ero stufo di quel maledetto girello e ho preferito stendermi qui per distribuire il peso.

— Ah, allora siamo tornati a 2 g?

— Cosa? Ah, sì. Certo. Siamo a 2 g.

— Mi scusi se mi sono addormentato. Ho dormito molto?

— No, non molto. Come si sente?

— Bene. Proprio riposato, debbo dirlo.

— Già, sovente produce anche quest’effetto… Parlo dell’accelerazione, naturalmente. Se la sente di vedere qualche nastro?

— Ma certo, se lo desidera, professore.

— Bene, allora. — Allungò la mano e la cabina piombò nel buio.

Mi aspettavo che mi mostrasse di nuovo i marziani, e preparai la mente a combattere il ribrezzo. Dopotutto, mi dicevo, in altre occasioni ero riuscito benissimo a ignorare la loro presenza; inoltre, un marziano registrato non poteva far male a nessuno… l’altra volta mi avevano colto di sorpresa, tutto qui.

Avevo ragione: le immagini tridimensionali mostravano marziani per tutti i gusti, soli o in compagnia dell’onorevole Bonforte. Mi accorsi che riuscivo a osservarli con distacco, senza paura né ribrezzo.

E d’improvviso mi resi conto che ci provavo gusto a guardarli!

Lasciai sfuggire un’esclamazione, e Capek interruppe il film.

— Qualcosa non va?

— Professore… lei mi ha ipnotizzato!

— Lei mi aveva dato il permesso.

— Ma io non riesco a farmi ipnotizzare.

— Ne sono desolato…

— Uhm, dunque c’è riuscito. Non sono così sciocco da non accorgermene. — E aggiunsi: — Proviamo a vedere di nuovo quei nastri. Non riesco a crederci.

La proiezione riprese e io la osservai con grande stupore. I marziani non erano disgustosi, se li si guardava senza pregiudizi; non erano neppure brutti. Anzi, a guardarli bene, si constatava che avevano la stessa grazia singolare delle pagode cinesi. Sì, non avevano forma umana, ma dopotutto neppure un uccello del paradiso ha forma umana, eppure è una delle più belle cose del creato.

Cominciai anche a notare come i loro pseudoarti riuscissero a essere molto espressivi; come i loro movimenti goffi ricordassero la giocondità spensierata dei cuccioli. Ora capivo che fino a quel momento avevo sempre osservato i marziani con la lente deformante dell’odio e della paura.

Naturalmente, pensavo, mi restava lo sforzo maggiore: abituarmi al loro odore… e d’improvviso mi accorsi che qualcosa mi colpiva l’olfatto: era il loro odore inconfondibile… e non destava affatto il mio disgusto! Anzi mi piaceva. — Professore! — esclamai — questa macchina da proiezione ha anche un impianto per gli odori, no?

— Come? No, credo proprio di no. Peserebbe troppo per uno yacht.

— Eppure giurerei che ce l’ha. Sento chiaramente l’odore dei marziani.

— Ah, certo — rispose, guardandomi un po’ vergognoso. — Giovanotto, le ho fatto una cosa che spero non le dia fastidio.

— E sarebbe?

— Mentre le scrutavamo il cervello, abbiamo scoperto che la sua disposizione nevrotica verso i marziani era suscitata soprattutto dal loro odore. Poiché non avevo tempo di sottoporla a una cura lunga, ho dovuto servirmi di un fattore compensativo. Ho chiesto a Penny… la ragazza che c’era prima, l’avrà vista… che m’imprestasse la sua boccetta del profumo. Temo che d’ora in poi, giovanotto, per il suo naso i marziani profumeranno come una casa d’appuntamenti parigina. Se avessi avuto tempo avrei scelto un odore più casalingo, come fragola o vaniglia. Ma ho dovuto improvvisare…

Annusai. Sì, l’odore aveva il sentore greve di un profumo di lusso, eppure, accidenti, era inequivocabilmente la puzza dei marziani!

— Confesso che mi piace — dissi.

— Non può fare a meno di piacerle.

— Professore, lei ne avrà versato una boccetta intera. La cabina ne sembra inzuppata.

— Come? No, niente affatto. Mi sono limitato a passarle il tappo sotto il naso, mezz’ora fa, poi ho restituito la boccetta a Penny che l’ha riportata via. — Annusò a sua volta. — Mmm… Non si sente più alcun odore, adesso. "Passione tropicale" diceva l’etichetta, e doveva contenere una bella percentuale di muschio. Ho accusato Penny di voler dare all’equipaggio l’ebbrezza spaziale, e lei mi ha riso in faccia. — Allungò la mano e spense il proiettore. — Basta con questa roba, adesso. Intendo farle fare qualcosa di più utile.

Quando la scena sì dileguò, anche la fragranza svanì con l’ultima immagine, proprio come avviene coi proiettori muniti d’impianto odorifero. Mi occorse un certo sforzo per convincermi che era tutta una mia illusione, anche se, come attore, avrei dovuto saperlo perfettamente.

Quando Penny tornò, pochi minuti dopo, il profumo che le aleggiava intorno era esattamente quello dei marziani.

Lo trovai squisito.

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