Avevo ancora il cervello annebbiato dal sonno; scossi la testa per cercare di schiarirmi le idee. — Cosa c’è da agitarsi tanto, Rog? È quanto cercavate di ottenere, no?
— Sì, certo, naturalmente. Ma… — e non proseguì.
— "Ma" cosa? Non riesco a capire. È da anni che lavorate a far progetti per costringere alle dimissioni Quiroga. Adesso che ci siete riusciti… mi sembrate quelle donne che quando arrivano all’altare non sono più sicure di avere ancora voglia di sposarsi. È la classica scena dei fumetti: i cattivi sono scappati e adesso i buoni arrivano a prenderne il posto. No?
— Oh… vedo che lei non ha esperienza della politica.
— Lo sa benissimo che non ne ho. Mi hanno "trombato" la prima volta, da bambino, quando ero giovane esploratore e volevo farmi eleggere caposquadra. Quella delusione me ne ha tolto la voglia per sempre.
— Be’, sa, l’essenziale è far le cose al momento giusto…
— Così mi diceva anche mio padre. Dunque, Rog, se non ho capito male, voi preferireste, avendo la possibilità di far andare le cose a modo vostro, che Quiroga fosse ancora al potere? Mi ha detto lei che "vi hanno dato il via prima del tempo".
— Pressappoco. Mi lasci spiegare. La nostra intenzione era di chiedere un voto di fiducia e poi vincere, per così indire nuove elezioni generali… però aspettando l’occasione favorevole, cioè quando stimassimo di poter vincere le elezioni.
— Ah, e adesso non siete sicuri di vincere? Pensate che Quiroga riotterrà il mandato per altri cinque anni o, se non lui, un altro del Partito dell’umanità?
Dopo averci pensato su, Clifton rispose: — No, credo che anche adesso avremmo buone probabilità di vittoria.
— Eh? Mi pare di non essere ben sveglio. Non volete vincere?
— Certo. Ma non ha capito in che situazione ci hanno messo le dimissioni?
— Temo proprio di no.
— Be’, il governo in carica ha la facoltà d’indire le nuove elezioni generali in qualsiasi momento, nell’ambito dei cinque anni costituzionali. Di solito lo fa quando ritiene che il momento sia favorevole. Ma non rassegna mai le dimissioni tra l’annuncio delle elezioni e le elezioni stesse, a meno che non vi sia costretto. Mi segue?
Compresi che l’accaduto era piuttosto strano, per poco che mi fossi interessato di politica in vita mia. — Mi pare — risposi.
— In questo caso, il governo Quiroga ha indetto le elezioni, e poi si è dimesso, lasciando l’Impero senza governo. Ne consegue che il sovrano deve ora chiamare qualcuno a formare un governo provvisorio che durerà fino alle elezioni. Secondo la legge vigente, l’incarico può essere conferito a chiunque sia stato eletto alla Grande Assemblea, ma in pratica non c’è scelta, dati i precedenti costituzionali: quando un governo dà le dimissioni in blocco (quando insomma non si tratta di un semplice rimpasto), allora il sovrano deve chiamare il capo dell’opposizione a formare il governo provvisorio. È una prassi indispensabile, nel nostro sistema politico; impedisce che le dimissioni siano soltanto formali. In passato si sono visti molti altri metodi; in qualcuno di essi si cambiava governo come cambiarsi di camicia. Ma con il nostro sistema si ha la sicurezza di avere un governo responsabile.
Ero talmente immerso nel tentativo di capire a fondo tutto ciò che era implicito nelle sue parole, che per poco non mi sfuggì la sua affermazione successiva.
— E così, naturalmente, l’imperatore ha convocato a New Batavia l’onorevole Bonforte per affidargli il mandato.
— Eh? New Batavia? — dissi. — Benone! — Stavo pensando che non avevo mai visto la capitale dell’Impero. L’unica volta che ero stato sulla Luna, le vicissitudini della mia professione m’avevano lasciato privo di tempo e di denaro da spendere in viaggi turistici. — Ah — continuai — allora è per questo che siamo partiti. La cosa non mi dà assolutamente fastidio. Suppongo che riuscirete lo stesso a trovare il modo di rispedirmi a casa, anche se la Tom Paine non ritorna subito sulla Terra.
— Come? Santo Cielo, ma lei si preoccupa solo di questo? Quando sarà l’ora, il capitano Broadbent troverà mille modi per farla sbarcare clandestinamente!
— Mi scusi. Dimenticavo che lei ha cose molto più importanti per la testa, Rog. Certo, non vedo l’ora di tornare a casa, adesso che il lavoro è terminato. Ma qualche giorno, o anche un mese sulla Luna non mi darà fastidio. In realtà non ho nulla d’urgente da fare. Però, grazie lo stesso per avermi messo al corrente delle ultime novità. — Lo guardai attentamente in viso. — Rog, se non mi sbaglio, lei ha addosso una preoccupazione del diavolo!
— Come, ma non capisce? L’imperatore vuol vedere Bonforte! L’imperatore, amico! E l’onorevole Bonforte non è assolutamente nelle condizioni di presentarsi all’udienza. I nostri nemici hanno tentato un gambetto… e forse sono riusciti a darci scaccomatto!
— Eh? Un momento, per piacere… Mi pare di capire dove vuole andare a parare, ma guardi che non siamo ancora a New Batavia; ne siamo ancora distanti cento milioni di chilometri, o duecento, o quello che è. Ora che saremo arrivati, le medicine del professor Capek avranno rimesso in sesto Bonforte, e lui potrà presentarsi all’udienza di persona, no?
— Be’… si spera.
— Ma non ne è sicuro?
— Non possiamo averne la certezza. Capek dice che i dati clinici su dosi tanto massicce sono troppo scarsi per poter dare una prognosi. Dipende molto dall’organismo del singolo soggetto, e dal tipo esatto di droga somministrata.
Mi ritornò alla mente quella volta che una comparsa mi aveva fatto bere un forte lassativo, poco prima di una recita. (Ma comunque ero riuscito ad andare in scena lo stesso, e ciò dimostra la superiorità della mente sulla materia… successivamente avevo fatto licenziare quel furbone.)
— Rog, ma allora quell’ultima dose, la più grande di tutte, quella che non era necessaria, non gliel’hanno data per semplice sadismo; gliel’hanno data proprio per giungere alla presente situazione!
— Ne sono convinto. Anche Capek è dello stesso parere.
— Caspita, ma questo significa che Quiroga in persona è il mandante del ratto, che a capo del Governo Imperiale c’è stato un gangster per tutti questi anni!
— Non è detto che sia andata proprio così — ribatté Rog, scuotendo la testa. — È poco probabile, anzi. Sembra però evidente che le stesse ignote personalità che controllano il gruppo terrorista clandestino degli Azionisti, controllano anche tutto il resto del meccanismo del Partito dell’umanità. Non riusciremo mai a ottenere le prove per inchiodarli. Si tratta di gente irreprensibile, al di là di ogni possibile sospetto e di ogni possibile incriminazione. Tuttavia possono avere avvertito Quiroga che ormai era giunto il momento di mettersi da parte e fare il morto… senza dubbio hanno i mezzi per farsi ascoltare. È quasi sicuro — aggiunse — che lo hanno fatto senza dargli indicazioni sul vero motivo per cui il momento risultava così propizio.
— Ma è un modo d’agire da criminali! Intende dire che la più alta personalità dell’Impero accetta di rassegnare le dimissioni con tanta facilità, solo perché qualcuno glielo ordina?
— Temo sia proprio così.
Scossi la testa. — La politica è un gioco sporco.
— No — mi rispose Clifton con espressione seria. — Non è un gioco sporco. È solo che qualche volta s’incontrano dei giocatori che barano.
— Non vedo la differenza.
— C’è un mare di differenza. Quiroga è un tirapiedi, un burattino… l’uomo che toglie le castagne dal fuoco per degli scellerati. Ma John Joseph Bonforte non è assolutamente un burattino, e non ha mai, ripeto mai, fatto da tirapiedi a qualcun altro. Aderisce al Partito perché crede alla causa. Come nostro leader, ci guida con la sua convinzione.
— Mi pento di averlo detto — mormorai, sentendomi colpevole. — Ma allora, cosa facciamo? Diciamo a Dak di prendersela con tutto comodo, in modo che la Tom Paine non giunga a New Batavia finché Bonforte non sia di nuovo in forma per andare all’udienza di persona?
— No, non possiamo indugiare. Non è necessario che l’accelerazione superi 1 g; nessuno pretende che una persona dell’età di Bonforte si sforzi il cuore più del necessario. Ma non c’è da perder tempo. Quando l’imperatore chiama, occorre andare.
— E allora?
Rog mi fissava senza parlare, e io cominciavo a sentirmi a disagio. — Ehi, Rog, non facciamo scherzi! Io non c’entro più, in tutto questo. Ho concluso il mio compito, salvo qualche apparizione sporadica per l’astronave. Sporca o pulita che sia, la politica non è il mio gioco preferito… limitatevi a pagarmi e a rispedirmi a casa, e vi garantisco che non m’interesserò più di politica, neppure per andare a votare!
— Molto probabilmente non ce ne sarà realmente bisogno. Il professor Capek riuscirà quasi certamente a rimetterlo in sesto. Ma non si tratta di una cosa difficile e laboriosa… come la cerimonia dell’adozione. Si tratta solo di un’udienza con l’imperatore e…
— L’imperatore! — quasi gridai. Come la maggior parte degli americani non capivo la monarchia. Anzi non ne approvavo l’istituzione, nel mio intimo, e avevo un timore inconfessato, quasi puerile, dei re. Dopotutto noi americani siamo entrati nell’Impero dalla porta di servizio. Quando rinunciammo alla condizione di associati in base a trattato, per avere i vantaggi di una voce in capitolo negli affari dell’Impero a piena parità di diritto con gli altri, venne esplicitamente convenuto che le nostre istituzioni locali, la nostra Costituzione e così via, sarebbero rimaste intatte, e tacitamente ci si accordò nel senso che nessun membro della famiglia reale si sarebbe mai recato in visita in America. Forse abbiamo fatto male ad agire così, forse, abituandoci alla monarchia, non ne avremmo oggi tanto timore. A ogni buon conto, è notorio che proprio le "democratiche" donne americane hanno la bramosia di venir presentate a Corte, più di chiunque altro.
— Stia pure tranquillo — disse Rog. — Come le dicevo, probabilmente non ci sarà bisogno che si rechi lei all’udienza. Solo, desideriamo avere le spalle coperte anche per questa eventualità. Quello che mi premeva di farle capire, è che un governo provvisorio non dà grattacapi di sorta. Non vara leggi, non fa mutamenti nella politica. E poi m’incaricherò io di tutto. Tutto ciò che lei dovrà fare… e non è affatto detto che debba farlo… è di comparire all’udienza formale da re Guglielmo, e magari mostrarsi a una conferenza stampa, massimo due, con già in tasca le risposte preparate in anticipo, se lui tardasse tanto a guarire. Quanto lei ha già fatto era molto più difficile e impegnativo. Inoltre lei sarà pagato lo stesso, sia che si presenti al re o no.
— Accidenti! La paga non c’entra! È che… con le parole di un famoso personaggio della storia dello spettacolo, "Includetemi… fuori".
Prima che Rog potesse rispondere, Bill Corpsman entrò come un razzo nella cabina, senza bussare. Ci guardò, poi chiese bruscamente a Clifton: — Gliel’hai detto, Rog?
— Sì — rispose lui. — Non vuole.
— Come? Sciocchezze!
— Non sono affatto sciocchezze — protestai. — E a proposito, Bill, la porta da cui lei è entrato ha un bellissimo battente su cui bussare. Tra noi gente di teatro c’è l’abitudine di battere due colpi e di dare una voce: "È presentabile?". Vorrei che lei se ne ricordasse.
— Oh, quante storie! Abbiamo premura. Cosa sono queste ciance che lei si rifiuta?
— Non sono ciance — tagliai corto. — Non è il contratto da me firmato inizialmente.
— Un corno! Forse lei è troppo ritardato di mente per rendersene conto, Smythe, ma ormai ci è dentro fino al collo; non può tirarsi indietro con tanta facilità. Potrebbe risultare una cosa poco igienica per lei…
Mi avvicinai a lui e gli afferrai un braccio. — Cos’è? Una minaccia? Se è così, allora usciamo fuori e discutiamone da uomini.
Liberandosi dalla mia stretta, lui ribatté: — Fuori dove? Siamo su un’astronave! Non la credevo così ottuso. Non ha ancora capito di essere stato lei a causare tutto il pasticcio?
— Come sarebbe a dire?
— Bill è convinto — mi spiegò Clifton — che le dimissioni del governo Quiroga siano dovute al discorso pronunciato ieri da lei. Può anche darsi che non abbia tutti i torti, comunque la cosa non conta. Bill… non puoi cercare d’essere un po’ più educato? A litigare tra noi non si approda a niente.
L’ipotesi d’essere stato io a far rassegnare le dimissioni a Quiroga mi aveva talmente sorpreso da farmi svanire il desiderio di spaccare i denti a Corpsman. Dicevano sul serio, quei due? Sì, avevo pronunciato un bellissimo discorso, ma possibile che un discorso avesse una potenza simile?
Be’, in tal caso, si trattava di quel che si dice un "servizio in giornata"!
Dissi, meditabondo: — Bill, se capisco bene, lei si sta lamentando perché il mio discorso era più efficace del dovuto?
— Come? Perdio, no! Quel discorso non valeva un fico.
— Davvero? Mi pare d’avvertire nelle sue parole una "contraddizion che nol consente". Lei sta affermando che un discorso che non valeva un fico è stato talmente efficace da far rassegnare le dimissioni per lo spavento al Partito dell’umanità. È questo che lei intende dire?
Corpsman era evidentemente seccato. Fece per rispondere qualcosa, e scorse che Clifton faceva una smorfia per non ridere. Si accigliò, cercò di nuovo di parlare, e alla fine scosse le spalle borbottando: — Va bene, granduomo, non insisto; le dimissioni di Quiroga non hanno niente a che vedere con il discorso. Comunque, c’è del lavoro da fare. Cos’è questa storia che lei non è più disposto a reggere la sua parte del peso comune?
Lo guardai, tentando di dominarmi, e fu di nuovo l’influenza di Bonforte ad aiutarmi. Recitare la parte di un personaggio dal temperamento tranquillo tende a dare all’attore una maggiore calma interiore. — Bill, anche qui c’è una contraddizione. Lei mi ha fatto capire chiaramente, fin troppo, che mi considera solo uno stipendiato qualunque. Perciò io ho solo gli obblighi del lavoro per cui mi avete stipendiato, e quel lavoro ormai è finito. Lei non mi può assumere per altri lavori se non sono disposto ad accettarli. E per quello che lei mi sta proponendo ora, non sono disposto.
Stava per rispondere qualcosa, ma l’interruppi: — Non c’è altro. Adesso se ne vada: lei non è il benvenuto, in questa cabina.
Rimase piuttosto sorpreso. — Ma chi diavolo si crede d’essere, da poter dare ordini qui dentro?
— Io sono una nullità. Un’assoluta nullità, come lei stesso mi ha fatto notare più volte. Ma questa è la mia cabina personale, assegnatami dal comandante. Quindi se ne vada, prima che la butti fuori. I suoi modi non mi piacciono.
— Vattene, Bill — disse di rincalzo Clifton, senza perdere la calma. — Lasciando da parte qualsiasi altra considerazione, questa è per ora la sua cabina privata. Quindi è meglio che tu te ne vada. — Rog ebbe un attimo d’esitazione, prima di aggiungere: — Sarà anzi meglio che ce ne andiamo tutt’e due, visto che non caviamo un ragno dal buco. Con permesso… Capo?
— Certamente.
Quando se ne furono andati, per vari minuti rimasi seduto a pensare a quanto era successo. Mi spiaceva d’essermi lasciato trascinare da Corpsman a quel battibecco; non era stata una cosa grave, ma neppure molto dignitosa. Però provai a ripetermi la scena nella mente, e mi convinsi che la mia personale avversione per Corpsman non aveva assolutamente influito sulla mia decisione. Quella decisione l’avevo già presa prima ancora che Corpsman arrivasse.
Udii dalla porta un bussare rapido. — Chi è? — gridai.
— Capitano Broadbent.
— Avanti, Dak.
Entrò, si mise a sedere, e per alcuni momenti sembrò occupatissimo a pulirsi le unghie. Alla fine alzò il viso e disse:
— Cambierebbe idea se mettessi ai ferri quel manigoldo?
— Come? C’è un posto in cui mettere qualcuno ai ferri, sull’astronave?
— No. Ma si potrebbe anche prepararlo.
L’osservai attentamente, cercando di capire cosa gli stesse esattamente frullando per il cervello. — E lei metterebbe davvero Bill ai ferri, solo perché lo chiedo io?
Mi fissò, mi strizzò un occhio, e fece un sorriso. — No. Un uomo che si comportasse così non sarebbe un vero comandante. Sono ordini che non sarei disposto ad accettare neppure da lui. - Indicò con il capo la stanza di Bonforte.
— In questi casi, un uomo deve decidere da solo.
— Sono d’accordo anch’io.
— Ehm… mi hanno detto che lei ha preso or ora una decisione di questo tipo.
— Vero.
— Lo supponevo. Sa, vecchio marpione, da qualche tempo ho incominciato a nutrire un mucchio di rispetto per lei. Da principio pensavo che lei fosse solo una maschera vuota, una faccia, uno smidollato con dentro niente. Ma mi sbagliavo.
— Grazie.
— Per questo non voglio discutere la sua decisione. Mi dica però una cosa. Vale la pena, per me e per lei, d’esaminare ancora una volta tutti gli aspetti della situazione? Lei ci ha già pensato come doveva?
— Mi spiace, Dak, ma sono deciso. Non sono affari di mia competenza.
— Be’, forse lei ha ragione. Mi scusi. Allora, penso che non ci resti altro che sperare che lui si ristabilisca in tempo. — Si alzò. — A proposito — aggiunse — Penny desidererebbe farle visita un momento, se lei non ha intenzione di ritirarsi proprio ora.
Risi senza un briciolo d’allegria. — Solo "a proposito", eh? Mi pare che non sia la sequenza giusta. Adesso non toccherebbe al professor Capek cercare di far leva sulla mia simpatia?
— Ha preferito saltare il turno. Ha troppo da fare con l’onorevole Bonforte. Però le ha mandato un messaggio verbale.
— Eh?
— Dice che lei può andarsene pure all’inferno. L’ha ricamato con qualche fronzolo, ma il succo era quello.
— Davvero? Allora gli dica che gli terrò uno dei posti migliori, di quelli accanto al fuoco.
— Dunque, Penny può venire?
— Ma certo! Però le dica che perde il suo tempo. La risposta è sempre la stessa: "No".
E infatti dissi "sì". Diavolo, perché mai una richiesta deve sempre sembrare più sensata quando c’è un alone di "Passione tropicale" a sottolinearla? Non che Penny abbia usato metodi sleali: non versò neanche una lacrimuccia (né io la toccai neppure con un dito). Ma mi trovai a concederle dei punti, e alla fine non avevo più punti da concedere. Non c’è niente da fare: Penny appartiene a quel tipo di donna che vuole salvare il mondo a tutti i costi, e la sua sincerità è contagiosa.
Tutto il doposcuola che mi ero sciroppato nel viaggio verso Marte non era stato nulla in confronto al vero studio cui mi applicai nel viaggio per New Batavia. Ormai m’ero impadronito dei primi elementi del personaggio: ora era necessario completare i dettagli, preparandomi a essere Bonforte in quasi tutte le circostanze possibili. Mentre da un lato dovevo incontrare il re in udienza formale, dall’altro lato, una volta che fossimo a New Batavia, avrei quasi certamente incontrato un numero indeterminato di persone tra le centinaia o le migliaia possibili. Rog avrebbe cercato di manovrare le cose nel modo usato abitualmente da tutte le grandi personalità quando hanno da fare del lavoro e quel lavoro va fatto, cioè tenendomi lontano dalla gente. Tuttavia avrei dovuto incontrare lo stesso qualche persona: un personaggio pubblico è un personaggio pubblico, non c’è scampo.
Quella specie d’alta acrobazia che m’accingevo a fare m’era resa possibile solo grazie allo "schedario Farley" di Bonforte, probabilmente il migliore che sia mai stato compilato. Farley era un funzionario politico del Ventesimo secolo, credo un contemporaneo di Eisenhower I, e il metodo da lui inventato per trattare le relazioni personali degli uomini politici era una cosa altrettanto rivoluzionaria quanto, nell’arte militare, lo era l’invenzione tedesca dello stato maggiore. Eppure io non ne avevo mai sentito parlare prima che Penny mi mostrasse il "Farley" di Bonforte.
Non era altro che un semplice schedario, pieno di dati e di notizie sulle persone più disparate. Bisogna ricordare però che l’arte della politica "non è altro" che il saper trattare con le persone più disparate. Quello schedario conteneva tutto o quasi tutto ciò che riguardava le migliaia e migliaia d’individui incontrati da Bonforte nel corso della sua lunga carriera politica. Ciascuna scheda era costituita dalle informazioni di cui disponeva su una determinata persona, desunte dai contatti personali di Bonforte con quella stessa persona. C’era tutto, per insignificante che fosse… anzi erano appunto le cose insignificanti le prime voci di ciascuna scheda. Nomi e soprannomi delle mogli, dei figli, degli animali domestici, se ne avevano; i passatempi, i gusti in fatto di cibi e di bevande, i pregiudizi, le stranezze. Nella scheda erano poi trascritti, con la data e il luogo, alcuni commenti che riguardavano tutte le occasioni nelle quali Bonforte aveva parlato con quella particolare persona.
Quando si poteva, era anche compresa una foto. Talvolta c’erano dei dati "accessori", vale a dire informazioni ottenute da Bonforte a seguito di ricerche, e non apprese direttamente da lui. Dipendeva dall’importanza politica della persona. In alcuni casi i dati accessori costituivano una completa biografia di qualche pagina.
Tanto Bonforte che Penny usavano portar sempre su di sé un registratore di tipo mignon, che veniva alimentato dal calore stesso del corpo. Quando Bonforte era solo, aveva l’abitudine di dettare nel registratore ogni volta che ne avesse l’occasione: nelle sale d’aspetto, camminando eccetera. Quando Penny lo accompagnava, prendeva la registrazione sul suo apparecchio, che aveva l’aspetto d’un orologio da polso. Penny non aveva il tempo di trascrivere le registrazioni e di occuparsi dei microfilm; due dattilografe di Jimmie Washington se ne occupavano quasi a tempo pieno.
Per farmi vedere il Farley di Bonforte, Penny me ne mostrò tutto l’archivio (ed era una cosa piuttosto ingombrante, anche a trenta e più pagine per bobina) e mi disse che quelle erano le notizie personali sui conoscenti di Bonforte. Io mi urlamentai (vale a dire che emisi insieme un urlo e un lamento, entrambi profondamente sinceri): — Per l’amor del Cielo, ragazza mia! Te l’avevo detto che era un lavoro impossibile! Come si fa a imparare a memoria tutto?
— No, non ce n’è bisogno, naturalmente.
— Ma se mi hai appena detto che sono le notizie che ricorda dei suoi amici e conoscenti…
— No, non proprio. Ho detto che quelle registrazioni contengono le notizie che desidererebbe ricordare. Ma, visto che non può, perché sarebbe impossibile, lui aggira l’ostacolo in questo modo. Non se ne preoccupi. Non avrà da imparare a memoria niente. Voglio solo farle vedere che tipo di notizie sono disponibili. È compito mio assicurarmi che lui abbia sempre un minuto o due per studiare la giusta scheda Farley, prima che una persona entri a fargli visita. Se ne sorgesse il bisogno, potrei dare una mano anche a lei con lo stesso tipo di servizio.
Esaminai la tipica scheda proiettata sul visore della scrivania. Un certo signor Saunders di Pretoria, credo. Aveva un bulldog chiamato "Snuffles Bullyboy", varia figliolanza priva di alcun interesse, e gli piaceva bere whisky e soda con una punta di limone. — Penny, devo credere che l’onorevole Bonforte fa finta di ricordare dei particolari così insignificanti? Mi sembra una cosa esageratamente affettata…
Invece di offendersi per quello sberleffo al suo idolo, Penny fece gravemente un cenno d’assenso. — Anch’io la pensavo così, all’inizio. Ma lei, Capo, sta guardando la cosa dalla prospettiva sbagliata. Non le è mai successo di segnare su un pezzo di carta il numero di telefono d’un amico?
— Sì, certo.
— E le sembra disonesto? Quando lo fa, si scusa poi con l’amico di non essergli abbastanza affezionato da imparare a memoria il suo numero?
— Come? D’accordo, mi arrendo. Me l’hai fatta.
— Qui ci sono le notizie che vorrebbe poter ricordare se la sua memoria fosse perfetta. Visto che la sua memoria non lo è, non vedo niente di affettato in un metodo come il Farley, come non è affettato servirsi di un’agendina per ricordarsi il compleanno degli amici. Ecco che cos’è il Farley: un’agendina gigantesca, che comprende tutto. Ma ci sono anche altri aspetti. Lei non ha mai incontrato una persona davvero importante?
Cercai di ricordare. Ovviamente, Penny non si riferiva ai grandi della professione drammatica; probabilmente non sapeva neppure che esistessero. — Una volta ho parlato con il presidente Warfield. Ero un ragazzino, avevo dieci o undici anni.
— Si ricorda i particolari?
— Certo! Mi disse: "Giovanotto, come hai fatto a romperti quel braccio?" e io gli risposi: "Andando in bicicletta, signore". Allora lui mi disse: "Sì, è successo anche a me; solo che la mia era la clavicola".
— Lei crede che, se fosse ancora vivo, Warfield ricorderebbe l’episodio?
— No di certo.
— Eppure potrebbe ricordarlo… Può darsi che abbia messo il suo nome nello schedario. Il nostro Farley registra molti incontri con ragazzini di quell’età: poi, diventati uomini, potrebbero incontrarsi di nuovo con Bonforte. Vede, le persone davvero importanti, come il presidente Warfield, incontrano molte più persone di quante ne possano ricordare. Ciascuno, in quella folla senza volto, ricorda la volta che ha incontrato il personaggio famoso, e se ne rammenta con precisione i dettagli. Questo perché ognuno di noi ritiene che la persona più importante della sua vita sia se stesso; un buon uomo politico non dovrebbe mai dimenticarlo. È una prova di cortesia, di amicizia, di calore umano da parte dell’uomo politico ricordare, delle altre persone, quel tipo di piccole cose che esse, probabilmente, ricorderanno di lui. È anche una cosa indispensabile… nella politica.
Mi feci dare da Penny la scheda Farley riguardante re Guglielmo. Era piuttosto esigua, e ciò mi procurò una delusione, finché mi ritenni autorizzato a concluderne che Bonforte non conoscesse bene l’imperatore e che l’avesse incontrato solo in poche occasioni ufficiali. Bonforte era stato Primo Ministro, in precedenza, quando era ancora vivo il vecchio re Federico. Tra le "notizie accessorie" della scheda non c’era la biografia, ma solo un semplice richiamo: "Vedi Casa d’Orange". Non accettai il suggerimento e non andai a vedere: avevo già abbastanza lavoro senza andare a tuffarmi in centinaia di pagine di storia imperiale e preimperiale; del resto mi fidavo delle mie conoscenze: a scuola ho sempre riportato ottimi voti in storia. Tutto ciò che m’interessava sapere dell’imperatore erano le notizie che Bonforte sapeva sul suo conto e che gli altri ignoravano.
Mi venne in mente che nel Farley dovevano comparire anche le schede dei presenti a bordo dell’astronave, in quanto essi erano: 1) persone, 2) che Bonforte aveva incontrato. Chiesi a Penny di passarmele. Lei parve leggermente sorpresa.
Presto però chi fu sorpreso fui io. Sulla Tom Paine c’erano ben sei membri o ex membri della Grande Assemblea. Rog Clifton e Bonforte, ovviamente… ma la prima voce sulla scheda di Dak diceva: "Broadbent, Darius K., onorevole; eletto alla Grande Assemblea per la Lega dei Liberi Naviganti, Divisione Superiore". La scheda diceva inoltre che aveva una laurea in fisica, che era stato campione degli ufficiali di complemento nel tiro alla pistola, ai Giochi Imperiali di nove anni prima, e che aveva pubblicato tre raccolte di poesie sotto lo pseudonimo "Acey Wheelwight". Ciò m’insegnò per sempre a non giudicare una persona semplicemente in base alle apparenze.
C’era anche un’osservazione vergata in fretta, nella calligrafia di Bonforte: "Quasi irresistibile per il gentil sesso e viceversa!".
Anche Penny e il professor Capek erano dei parlamentari. E così Jimmie Washington, eletto (seppi dopo) in un distretto "sicuro". Era il rappresentante della Lapponia, renne e Babbo Natale compresi, senza dubbio. Inoltre aveva ricevuto gli ordini religiosi della Prima Chiesa della Verità Biblica e dello Spirito Santo… una Chiesa di cui non avevo mai sentito parlare, ma che senza dubbio riusciva a spiegare quella sua aria austera e abbottonata, quasi sacerdotale.
Mi divertì soprattutto leggere di Penny: l’onorevole signorina Penelope Tagliaferro Russell. Si era laureata in scienze politiche a Georgetown e a Wellesley, e confesso che la cosa non mi sorprese affatto. Rappresentava all’Assemblea un elettorato femminile universitario di vari distretti, altro seggio "sicuro" (seppi poi), perché quelle donne sono iscritte al Partito espansionista nella proporzione di cinque a una.
Sulla scheda c’erano vari dati sulla sua misura di guanti, sulle altre taglie d’abito, sulle sue preferenze in fatto di colori (e mi sentivo di poterle insegnare qualcosa sul modo di vestirsi) e di profumi ("Passione tropicale", naturalmente), e molti altri particolari, in maggior parte inoffensivi. Ma c’era anche un "commento":
"Nevroticamente onesta — Aritmeticamente inattendibile — Ama vantarsi del suo senso dello humor, che non possiede affatto — Si controlla nella dieta, ma non sa dir di no ai marron glacé — Leggero complesso di ’mamma di tutti’ — Assoluta incapacità di resistere alla tentazione di fronte a qualsiasi forma di parola stampata."
Sotto c’era una seconda aggiunta, scritta di pugno da Bonforte anche questa: "Ah, Ricciolina! Ti ho pescato di nuovo a curiosare."
Quando le restituii le schede, chiesi a Penny se le fosse mai occorso di leggere la sua. Mi rispose semplicemente di farmi i fatti miei. Poi arrossì e si scusò.
Lo studio mi assorbiva la maggior parte del tempo, ma trovai anche il modo di rivedere e completare la somiglianza fisica, controllando al colorimetro la sfumatura del Semiperm, curando le rughe con precisione minuziosa, aggiungendo un paio di nei, e completando l’opera con qualche passata della spazzola elettrica. Per riprendere i miei connotati mi sarei dovuto sottoporre a una dermoabrasione, ma era uno scotto esiguo da pagare per un trucco che non subisse danni, che non si potesse togliere neppure con l’acetone, e che mi garantisse la sicurezza nei riguardi di certi pericoli come i tovaglioli. Arrivai perfino a farmi la cicatrice posticcia alla gamba "zoppa", usando come modello la fotografia conservata da Capek nella cartella clinica di Bonforte. Se Bonforte avesse avuto una moglie o un’amante, ella avrebbe faticato a distinguere l’originale dalla copia solo in base all’apparenza fisica. Per raggiungere una tale perfezione dovetti penare assai, ma almeno, una volta terminata la cosa, la mia mente restò libera di preoccuparsi solo delle parti effettivamente più difficili della sostituzione.
Infatti, durante il viaggio, lo sforzo maggiore fu quello d’immergermi nelle idee e nelle convinzioni di Bonforte, cioè nella dottrina del Partito espansionista. In un certo senso, si potrebbe dire che il Partito espansionista era lui, perché non solo ne era il leader più importante, ma ne era anche il più importante filosofo politico e statista. Allorché il partito era stato fondato, l’Espansionismo era poco più che un movimento basato su una vaga fede in un comune destino: una demagogica coalizione di gruppi che avevano a spartire tra loro solo la convinzione che le frontiere del cielo sarebbero state la cosa più importante nell’avvenire su cui si stava affacciando la specie umana. Bonforte aveva dotato il partito di una dottrina e di un’etica, basate entrambe sulla tesi che la libertà e la parità dei diritti avrebbero sempre dovuto accompagnare l’avanzata della bandiera imperiale. Egli continuava instancabilmente a ribadire il concetto che la specie umana non avrebbe mai più dovuto commettere gli errori di cui si era resa colpevole la razza bianca in Africa e in Asia.
Ma io rimasi molto perplesso sul fatto (su questi argomenti ero un completo ignorante) che i primordi del Partito espansionista mostravano una stretta somiglianza con le teorie politiche propugnate dal Partito dell’umanità. Non sapevo che i partiti, crescendo, spesso cambiano idea come le persone. Sapevo molto vagamente che il Partito dell’umanità era sorto come ramo laterale del Partito espansionista, ma non era una cosa sulla quale mi fossi mai soffermato a pensare. In realtà, era stato un processo inevitabile: mentre i partiti che non avevano alzato gli occhi all’infinità dello spazio scomparivano l’uno dopo l’altro di fronte alle esigenze della storia, e cessavano di venire rappresentati all’Assemblea, era destino che l’unico partito indirizzato sulla giusta via si scindesse in due fazioni.
Comunque, sto correndo troppo. La mia istruzione politica non fu altrettanto schematica né altrettanto ordinata. Dapprima mi lasciai semplicemente affondare nei discorsi tenuti da Bonforte in pubblico. Sì, l’avevo già fatto nel primo viaggio, ma allora mi ero limitato a studiare il suo modo di parlare: ora studiavo il significato delle sue parole.
Come oratore, Bonforte apparteneva alla grande tradizione, ma riusciva ugualmente a essere corrosivo quando s’immergeva nella polemica. Per esempio, il discorso da lui tenuto a Nuova Parigi durante i dibattiti che avevano portato al Trattato con i nidi marziani: al Concordato di Tycho. Era stato appunto quel Trattato a costargli la carica di Primo Ministro; era riuscito a far passare la legge, ma ne erano risultate delle tensioni interne alla Coalizione espansionista, ed egli era uscito sconfitto dal voto di fiducia successivo. Ciò nonostante, il suo successore nella carica, Quiroga, non aveva osato denunciare il Trattato. Ascoltai il discorso con particolare interesse, perché io stesso non ero stato d’accordo, a suo tempo, con il Trattato; l’idea che, sulla Terra, venissero concessi ai marziani gli stessi diritti di cui gli esseri umani godevano su Marte mi era sempre parsa detestabile… finché non avevo visitato il Nido di Kkkah.
— Il mio oppositore — aveva detto Bonforte, con voce leggermente roca — vorrebbe farvi credere che il motto del cosiddetto Partito dell’umanità: "Governo sugli esseri umani, a opera di esseri umani, a favore degli esseri umani" non sia altro che la versione aggiornata delle immortali parole di Abramo Lincoln. Ma se la voce è quella di Lincoln, la mano nascosta dietro la schiena appartiene al Ku Klux Klan. Il vero significato del suo motto, in apparenza innocente, è: "Governo su tutte le razze, ovunque, a opera esclusiva degli esseri umani, e a beneficio e profitto di pochi privilegiati".
E aveva continuato: — "Ma" afferma il mio oppositore "Dio ci ha conferito l’incarico di diffondere la luce tra le stelle, donando ai selvaggi il nostro particolarissimo tipo di civiltà." Queste affermazioni nascono direttamente dalla scuola di sociologia dello Zio Remo, quello delle favole della lepre e della tartaruga. "Noi bravi negri cantare spiritual, padrone bianco pensare lui a tutto!" È una scenetta meravigliosa, ma ve la dipinge dentro una cornice troppo piccola: non si vedono gli staffili, il mercato degli schiavi… e gli uffici amministrativi della piantagione!
Non so se a convincermi sia stata la logica stringente delle sue parole… in effetti non sono neppure sicuro che il loro credo politico facesse appello solo alla logica. Ma la mia mente era nelle condizioni più adatte ad accoglierlo. Desideravo comprendere le sue idee fino al punto di poterle ripetere con altre frasi, e di poterle pronunciare al posto suo se fosse stato necessario.
Comunque fosse, poi, davanti a me c’era un uomo che sapeva quello che voleva e (cosa molto più rara!) perché lo voleva. Non potevo fare a meno di restarne colpito, e ciò mi costringeva a fare un completo esame di coscienza. Per cosa vivevo, io?
Ma… la mia arte, chiaro! Ero nato nel teatro; il teatro mi piaceva, nutrivo la profonda anche se illogica convinzione che l’arte meritasse qualsiasi sforzo… e inoltre non conoscevo altri mezzi per sbarcare il lunario. E oltre a quello?
Le varie scuole filosofiche e i loro sistemi etici non avevano mai esercitato molto fascino su di me. Ne avevo una certa superficiale conoscenza (le biblioteche pubbliche sono una grande risorsa per gli attori a spasso) ma le avevo sempre trovate piuttosto povere di vitamine, un po’ come i baci delle matrigne. Dandogli tempo e carta, un filosofo è capace di dimostrarvi qualsiasi cosa.
Nutrivo il medesimo disprezzo per quel tipo di educazione morale che viene impartito alla maggior parte dei bambini. Buona parte di questa educazione sono chiacchiere ripetute a pappagallo, e quel poco che sembra possedere un significato concreto sono affermazioni sacre come quelle che un "bravo" bambino non disturba mamma quando è stanca, e che un "bravo" uomo è quello che si fa un ricco conto in banca senza farsi pescare. No, grazie tante, tenetevele pure!
E tuttavia anche un cane, in definitiva, ha le sue linee di condotta. Le mie, dunque, quali erano? Come mi comportavo… o almeno come m’illudevo di comportarmi?
Lo spettacolo deve continuare. L’avevo sempre creduto, e ne avevo fatto la mia norma di vita. Ma perché lo spettacolo dovrebbe continuare? Molti spettacoli non meritano neppure di esistere. Be’, perché ci si è impegnati a recitare, perché c’è il pubblico che aspetta: hanno pagato, e gli spettatori hanno il diritto di avere dall’attore il meglio che lui può dare. È un debito; è un debito con i dipendenti del teatro, con l’impresario, con il regista, con gli altri membri della troupe… e con chi vi ha insegnato l’arte drammatica, con tutti coloro che hanno calcato la scena prima di voi, andando a ritroso nella storia, fino ai teatri all’aperto con i sedili di pietra, ai bardi che ripetevano i miti della tribù, seduti in terra nelle antichissime piazze del mercato. Noblesse oblige.
Pensandoci, vedevo come questa considerazione potesse venir generalizzata fino a comprendere ogni forma di lavoro umano. Valore per valore. Costruire con squadra e livella. Giuramento ippocratico. Non tradire i compagni di squadra. Un lavoro onesto per un onesto compenso. Sono cose che non hanno bisogno di venire dimostrate; costituiscono una parte essenziale della vita… sono vere per tutta l’eternità, vere fino agli estremi confini della Galassia.
D’improvviso mi parve di capire dove volesse arrivare Bonforte. Se c’erano dei fondamenti etici che trascendevano il tempo e il luogo, allora essi erano ugualmente validi per gli uomini e per i marziani. Erano validi per qualsiasi pianeta di qualsiasi stella, e se la razza umana non si fosse comportata in modo da rispettarli, essa non avrebbe mai toccato le stelle, perché sarebbe giunta qualche altra razza migliore che l’avrebbe ricacciata indietro per la sua doppiezza.
Il costo dell’espansione si doveva pagare con la virtù. L’altra: "Approfitta sempre degli ingenui", era una filosofia morale troppo meschina, di fronte alle sterminate distese dello spazio.
Tuttavia Bonforte non predicava la dolcezza e la spensieratezza. — Io non sono affatto un pacifista. Il pacifismo è una dottrina troppo comoda e sfuggente, in nome della quale un uomo accetta i benefici del gruppo sociale senza volerli pagare, e in più esige che gli venga detto "Bravo!" per la sua disonestà. Signor Presidente, la vita appartiene a coloro che non temono di perderla! La legge deve venire approvata! — E con queste parole si era alzato ed era passato dall’altra parte dell’Assemblea, per sostenere uno stanziamento militare rifiutato dal suo partito in una riunione ristretta.
E ancora: — Prendete posizione! Prendete sempre posizione! Talvolta sbaglierete, ma chi si rifiuta di prender posizione sbaglia sempre! Il Cielo ci salvi da quei codardi che hanno paura di fare la loro scelta! Alziamoci e facciamoci vedere bene! — (Quest’ultima citazione proveniva da una riunione ristretta degli alti esponenti della Coalizione; Penny l’aveva registrata con il suo apparecchio miniaturizzato e Bonforte l’aveva voluta conservare. Bonforte aveva il senso della Storia; gli piaceva conservare i documenti. Se non l’avesse fatto, avrei avuto ben poco su cui lavorare.)
Decisi che Bonforte era il mio tipo. O almeno era il tipo d’uomo che avrei voluto essere. Ero fiero di doverlo impersonare.
Per quanto posso ricordare, non dormii affatto in quel viaggio, dopo aver promesso a Penny che mi sarei presentato all’udienza reale se Bonforte non avesse potuto farlo. Avevo intenzione di dormire (non vale la pena di affacciarsi sulla ribalta con le borse penzoloni sotto gli occhi), ma l’oggetto dei miei studi aveva catturato il mio interesse, e inoltre c’erano le compresse stimolanti nel cassetto della scrivania di Bonforte… È sorprendente quante cose si possono imparare lavorando ventiquattr’ore al giorno, senza interruzione e con tutto l’aiuto che vi serve.
Poco prima di giungere a New Batavia, venne però da me il professor Capek e mi disse: — Si rimbocchi la manica sinistra.
— Perché? — domandai.
— Perché, quando dovrà parlare con l’imperatore, non vogliamo che lei gli caschi ai piedi morto di stanchezza. Questa iniezione la farà dormire fino al momento dell’arrivo, poi le darò un antidoto,
— Eh? Allora non pensa che lui possa essere a posto?
Capek non rispose, ma si limitò a iniettarmi il liquido. Cercai di finire d’ascoltare il discorso che avevo inserito nel proiettore, ma mi addormentai nel giro di pochi secondi. La successiva cosa che ricordo era la voce di Dak, chino su di me, che mi diceva in tono deferente: — Si svegli, onorevole. Per favore, si svegli. Siamo arrivati al Campo Lippershey.