La mia istruzione proseguì nella stessa cabina (la camera degli ospiti di Bonforte) fino al capovolgimento della nave. Non dormii mai, con l’eccezione dei periodi in cui fui sotto ipnosi, ma non provai mai sonno. O il professor Capek o Penny mi stavano a fianco, pronti ad aiutarmi, e non rimasi solo un momento. Per fortuna, il mio uomo era stato fotografato e cinematografato in tutte le occasioni possibili e immaginabili, al pari di qualsiasi altro personaggio storico, e per di più avevo la stretta collaborazione dei suoi intimi. Il materiale che avevo a mia disposizione era infinito; c’era solo il problema di scoprire quanto ne avrei potuto assimilare, sia da sveglio sia in stato d’ipnosi.
Non so bene quando cessai di provare antipatia per Bonforte. Capek mi assicurò — e non c’è motivo di dubitare delle sue parole — di non avermi indotto alcuna suggestione ipnotica su questo argomento specifico: io non gli avevo chiesto di farlo, e inoltre sono pronto a giurare sulla sua estrema correttezza per quanto riguarda le sue responsabilità morali di medico e d’ipnoterapeuta. Suppongo che il mutamento dei miei sentimenti nei confronti di Bonforte sia stato una cosa del tutto naturale, inevitabile, e che si sia prodotto man mano che andavo immedesimandomi in lui… penso che giungerei a provare simpatia perfino per Jack lo Squartatore, se dovessi studiarne la parte. È una cosa abbastanza comprensibile: per imparare a fondo una parte, occorre immedesimarsi provvisoriamente nel personaggio, assumerne la personalità, diventare lui. E ci sono due sole possibilità: o si prova della simpatia per se stessi, o si finisce suicidi.
Comprendere è perdonare… e io cominciavo a comprendere Bonforte.
Al capovolgimento, ci fu concesso il riposo a 1 g che Dak aveva promesso. Non fummo mai in caduta libera, nemmeno per un istante, perché invece di spegnere la "torcia", cosa che a quanto pare i piloti non fanno mai mentre sono in viaggio, l’astronave descrisse quel che Dak chiamava una deviazione laterale di 180 gradi. I motori restarono accesi per tutto il tempo, e la cosa si svolse piuttosto rapidamente, ma l’effetto risultante alterava in modo curioso il senso dell’equilibrio. Questo effetto ha un nome strano, qualcosa come "accelerazione di Coriolano". O forse di Coriolis?
Non che io me ne intenda molto, di astronavi. Tutto ciò che so è che quelle che partono dalla superficie dei pianeti sono dei razzi veri e propri, ma che i voyageur le chiamano "caffettiere" a causa del getto d’idrogeno o di vapor acqueo che serve a dare la spinta. Non sono considerate delle astronavi atomiche a tutti gli effetti, anche se usano una pila atomica per portare i getti alla temperatura voluta. Invece le astronavi da lunga crociera, come la Tom Paine, cioè le "navi torcia", sono effettivamente navi atomiche (o così mi hanno assicurato) e sfruttano il fatto che E è uguale a mc due… o che sia m che è uguale a Ec due? Sì, avrete capito, quella cosa inventata da Einstein.
Dak fece del suo meglio per spiegarmi tutto quanto, e senza dubbio dev’essere roba molto interessante per chi si sente portato per quel tipo di faccende. Ma io, personalmente, non so immaginare perché mai un gentiluomo dovrebbe preoccuparsi di questo genere di cose. Ho la netta impressione che tutte le volte che quei giovanotti della scienza si danno da fare coi loro regoli calcolatori la vita diventi più complicata. Non potevano lasciare tutto come stava?
Nelle due ore durante le quali ci trovammo con un solo g, fui trasferito nella cabina di Bonforte, dove incominciai a provare i suoi abiti e ad assumere le sue espressioni. Tutti stavano attenti a chiamarmi "onorevole Bonforte", o "Capo", o (quando si trattava del professor Capek) "Joseph", il che, naturalmente, doveva agevolarmi nello studio della parte.
Tutti, ho detto, salvo Penny… Non riusciva assolutamente a chiamarmi "onorevole Bonforte". Si sforzava come meglio poteva, ma proprio non riusciva a farlo. Era chiaro come il sole che apparteneva a quel genere di segretarie che sono innamorate del proprio principale, in silenzio e senza speranza, e che provava per me un’avversione profonda, illogica, ma totalmente spontanea. La cosa risultava fastidiosa per entrambi, soprattutto per il fatto che io la trovavo sempre più attraente. Come si può dare il meglio di se stessi quando si ha sempre tra i piedi una donna che ci disprezza palesemente? A mia volta, io non potevo provare nei suoi confronti la stessa avversione che lei provava per me; anzi mi dispiaceva molto che si comportasse così e la cosa mi seccava notevolmente.
Era un po’ la prova del fuoco, perché a bordo della Tom Paine non tutti erano al corrente del fatto che io non fossi Bonforte. Non sapevo esattamente chi fosse al corrente della sostituzione: potevo riposarmi, riprendere la mia personalità e far domande solo in presenza di Dak, di Penny, e del professor Capek. Ero quasi sicuro che il segretario particolare di Bonforte, il dottor Washington, fosse al corrente di tutto, ma egli si comportò sempre come se fosse all’oscuro di tutto. Era un vecchio mulatto sparuto, dall’aria riservata e dal volto austero. Due altre persone, poi, sapevano certo tutto, ma non si trovavano a bordo della Tom Paine; erano rimasti sulla Passa al primo turno! a fare da paravento, incaricandosi dei comunicati stampa e del disbrigo della corrispondenza. Si trattava di Bill Corpsman, capufficio stampa di Bonforte, e di Roger Clifton. Non saprei ben definire le mansioni di Clifton. Braccio destro politico? Era stato ministro senza portafoglio, come forse ricorderete, quando Bonforte era stato Primo Ministro, ma questo non dice molto. Volendo dare una definizione simbolica, si potrebbe dire che da Bonforte emanava la linea politica, e da Clifton emanavano i suoi aspetti pratici: era lui ad assegnare gli incarichi amministrativi.
Questo piccolo gruppo conosceva sicuramente la situazione; forse anche altri ne erano al corrente, ma evidentemente nessuno ritenne necessario informarmene. In effetti, gli altri funzionari del quartier generale di Bonforte, e così pure l’equipaggio della Tom Paine, si erano accorti che stava succedendo qualcosa di strano, ma non c’era bisogno che sapessero con esattezza la natura della situazione. Molti mi avevano visto salire sull’astronave, ma sotto le spoglie di "Benny Grey". Quando mi rividero ero già "Bonforte".
Qualcuno aveva avuto la buona idea di procurarsi una scatola di cosmetici veramente adatti alla mia professione, tuttavia ne feci pochissimo uso. Da vicino, infatti, il trucco si nota; anche il Silicoderm, visto a breve distanza, rivela un tessuto diverso da quello della pelle vera. Mi limitai quindi a scurirmi la carnagione con un paio di passate di Semiperm, e ad assumere le espressioni del mio personaggio interiormente. Dovetti purtroppo sacrificare molti capelli, e il professor Capek ne inibì le radici. Non fu un gran danno, perché un attore può sempre ricorrere ai posticci, e poi avevo la certezza che quel lavoro m’avrebbe procurato un compenso sufficiente a ritirarmi dalle scene, sempre che l’avessi voluto, per il resto della mia vita.
D’altra parte mi veniva spesso in mente la spiacevole sensazione che "il resto della mia vita" poteva anche non durare molto… ci sono certi vecchi proverbi sull’uomo che sapeva troppo e sul fatto che i morti non parlano. Ma confesso che cominciavo a nutrire una certa fiducia nei riguardi dei miei compagni. Era tutta gente terribilmente simpatica, e ciò era altrettanto rivelatore, sulla personalità di Bonforte, quanto le registrazioni dei suoi discorsi o le sue riprese stereovisive. Stavo imparando che un personaggio politico non è una singola persona, ma è una squadra di persone che collaborano strettamente tra loro. Se lo stesso Bonforte non fosse stato una brava persona, non si sarebbe circondato di collaboratori come i suoi.
I maggiori grattacapi me li procurò la lingua marziana. Come tutti gli attori, anch’io avevo un’infarinatura di marziano, venusiano, gioviano esterno ecc, tanto da riuscire a imitarne i suoni sul palcoscenico o davanti a una macchina da presa. Ma quelle consonanti arrotate o vibrate sono molto difficili da pronunciare. Le corde vocali umane non hanno la versatilità delle membrane acustiche dei marziani, credo, e inoltre la scrittura fonetica di quei suoni per mezzo dell’alfabeto latino, per esempio "kkk" o "jjj" o ancora "rrr", non corrisponde assolutamente al loro vero suono, non più di quanto la "gh" di "gnu" corrisponda all’occlusiva velare con cui la parola "gnu" viene pronunciata da un bantù. Per esempio "jjj" suona come una via di mezzo tra il miagolio d’un gatto e la parola "ciao" pronunciata col birignao.
Per mia fortuna Bonforte non aveva spiccate attitudini per le lingue, e inoltre non dimentichiamo che io sono un attore espertissimo in fatto d’imitazioni. Ho l’orecchio allenato ad afferrare i suoni, e con un minimo di prove sono poi in grado d’imitarli tutti, dal rumore di una sega circolare contro un chiodo piantato nel legno, al chiocciare d’una gallina disturbata mentre cova. Mi bastò quindi imparare il marziano quel tanto (o quel poco) che lo conosceva Bonforte. Bonforte si era dato da fare alacremente per imparare meglio la lingua, e tutte le parole e le frasi che conosceva erano state registrate e analizzate sull’oscilloscopio differenziale per fargli notare i difetti.
Mi misi quindi a studiare i suoi errori e le sue imperfezioni di pronuncia; il proiettore venne trasferito nel suo ufficio e Penny rimase al mio fianco per scegliere le bobine e per rispondere alle mie domande.
Le lingue parlate dagli uomini appartengono a quattro gruppi: flessive, come l’inglese o l’italiano, posizionali, come il cinese, agglutinanti, come l’arabo, polisintetiche (a frasi unitarie) come l’eschimese. Oggi, naturalmente, a queste strutture linguistiche umane occorre aggiungere quelle d’origine extraterrestre, che possono arrivare ad essere strane, quasi impossibili per la mente umana come il venusiano, che è non ripetitivo o emergente. Ma per fortuna il marziano è ancora abbastanza vicino alle forme linguistiche umane. Il marziano elementare, usato nei commerci interplanetari, è una lingua posizionale e comprende solo concetti semplici e ostensivi come ad esempio il loro saluto: "Ti vedo". L’alto marziano, invece, è una lingua polisintetica e molto formalizzata, con un’espressione diversa per ciascuna minuscola sfumatura del loro complesso sistema di premi e castighi, d’obblighi e di debiti. L’alto marziano era risultato troppo difficile perfino per Bonforte: Penny mi disse che riusciva a leggere piuttosto speditamente quelle file di puntini che usano come linguaggio scritto, ma che conosceva soltanto poche centinaia di frasi del linguaggio parlato.
Ragazzi, come mi misi a studiarle!
Anche per Penny la cosa non fu facile: dovette assoggettarsi a una fatica pari, se non superiore, alla mia. Sia lei che Dak parlavano abbastanza bene il marziano, ma fu lei a farmi da maestra per la maggior parte del tempo, perché Dak era continuamente richiesto in sala comando: con la morte di Jacques Dubois era rimasto senza il suo braccio destro. Quando mancarono pochi milioni di chilometri all’arrivo, passammo di nuovo da 2 g a una, e per tutto quel periodo Dak non scese mai a farci visita. Quanto a me, trascorsi l’ultima parte del viaggio a imparare i particolari della cerimonia dell’adozione, sempre con l’aiuto di Penny.
Stavo imparando il discorso nel quale dichiaravo di accettare di diventar membro del nido di Kkkah: un discorso non molto diverso, nello spirito, da quello con cui un giovane ebreo ortodosso accetta le responsabilità della vita d’adulto, e altrettanto fisso e invariabile quanto il soliloquio d’Amleto. Lo avevo pronunciato ad alta voce, completo di tutte le inflessioni e di tutti i tic di Bonforte. Giunto alla fine, domandai a Penny: — Cosa gliene pare?
— Piuttosto bene, direi — mi rispose, serissima.
— Grazie, Ricciolina — risposi, usando un’espressione che avevo spesso sentito pronunciare da Bonforte, ascoltando i nastri magnetici su cui erano registrati i suoi colloqui con Penny. Era così infatti che la chiamava quand’era in vena di familiarità, e del resto si trattava di un appellativo che calzava a pennello sia a lei che al personaggio di Bonforte.
— Non osi più chiamarmi così!
Le sbarrai in faccia due occhi sinceramente stupefatti, e risposi, sempre immedesimato nel personaggio: — Ma come, Penny, bambina mia…
— E non osi più chiamarmi neanche così! Lei… imitazione! Ciarlatano!… Attore! - balzò in piedi e corse via più lontano che poteva (vale a dire fino alla porta). Rimase lì accanto, voltata dall’altra parte, col viso nascosto tra le mani e le spalle scosse dai singhiozzi.
Io feci uno sforzo tremendo per districarmi dalla parte che stavo recitando, trassi un profondo respiro, lasciai riaffiorare la mia vera faccia ed esclamai con la mia voce naturale: — Signorina Russell!
Lei smise di piangere, si volse a guardarmi, spalancò la bocca. — Torni qui al suo posto e si sieda — aggiunsi ancora, sempre con la mia voce.
Pensavo che si sarebbe rifiutata di farlo, ma parve ripensarci e ritornò lentamente a sedersi, con le braccia conserte ma con sul viso un’espressione da bambina che tiene il broncio.
Lasciai trascorrere un istante di silenzio, poi ripresi a parlare. — Certo, signorina Russell, sono un attore. Le pare che sia un buon motivo per insultarmi?
Lei si limitò a guardarmi di traverso.
— Essendo un attore, io sono qui per svolgere un lavoro attinente alla mia professione, e il motivo lo sa benissimo anche lei. E lei sa anche che me l’hanno fatto accettare con un inganno: se fossi stato al corrente della verità non l’avrei accettato a occhi chiusi. E neanche a occhi aperti, neppure nei momenti più grigi della mia carriera. Questo lavoro mi garba meno di quanto garbi a lei, perché, nonostante l’ottimismo del capitano Broadbent, non sono affatto sicuro che riuscirò a uscirne con la pelle intatta, e ci tengo molto alla mia pelle, sa? È l’unica che ho. E credo anche di sapere il motivo per cui lei prova difficoltà ad accettare la mia presenza… Mi dica: le pare che sia un motivo sufficiente per rendere il mio lavoro più difficile di quanto già non lo sia?
Lei borbottò qualcosa. — Parli chiaro! — gridai spazientito.
— Non è onesto! È indecente!
— Sono d’accordo — sospirai — e aggiungerò che è anche impossibile, specie se mi manca l’appoggio incondizionato degli altri personaggi del dramma. Perciò mi chiami il capitano Broadbent, gli dica di venire qui. Gli riferirò che non se ne fa niente.
— Oh, no, no! — si affrettò a rispondere Penny. — Non possiamo farlo!
— Perché no? Meglio smettere ora che andare in scena e far fiasco. Non posso assolutamente recitare nella presente situazione, come spero vorrà convenire anche lei.
— Ma… ma… dobbiamo!… È necessario…
— Perché è necessario, signorina Russell? Per motivi politici? Personalmente non ho mai provato il minimo interesse per la politica, e non credo neppure che la politica abbia grande interesse per lei. E allora perché mai dovremmo farlo?
— Perché… perché… lui… — balbettò, senza riuscire a dire altro e rimettendosi a piangere.
Mi alzai, mi avvicinai a lei e le misi una mano sulla spalla. — Lo so. Perché se noi non lo facciamo, una cosa per cui lui ha lottato per anni andrà a catafascio. Perché lui non può farlo e gli amici stanno cercando di tenere tutto sotto silenzio e di farlo al posto suo. Perché gli amici gli sono devoti. Perché lei gli è devota… Benissimo, per tutti questi bei motivi qualcun altro deve recitare la sua parte. Lei lo sa, si rende conto che non c’è altra soluzione possibile; pure le ripugna di vedere un altro al posto che gli spetta di diritto. E inoltre, lei è fuori di sé per il dolore e la preoccupazione. Non è così?
— Sì — mormorò lei, con un filo di voce.
Io le strinsi il mento obbligandola a sollevare il viso. — So perché le dà tanto fastidio veder qui me, al posto suo. Lei lo ama. Però si ficchi bene in mente che io sto lavorando per lui meglio che posso. Accidenti! Perché mi vuole rendere dieci volte più difficile il lavoro trattandomi come un verme?
Mi guardò interdetta e per un attimo pensai che mi avrebbe preso a schiaffi. Invece, quando parlò, disse con voce rotta: — Mi scusi per prima. Mi dispiace molto. Non succederà più.
Le lasciai il mento e dissi con vivacità: — Bene, allora torniamo al lavoro.
Lei però non si mosse. — Mi perdona? — domandò.
— Eh? Non c’è niente da perdonare, Penny. Lei ha detto quello che ha detto perché lo ama e perché è preoccupata per lui. Ma adesso sbrighiamoci. Voglio raggiungere la perfezione, e mancano poche ore all’arrivo. — Rientrai immediatamente nella parte di Bonforte.
Lei inserì una nuova bobina nel proiettore. Osservai con attenzione le immagini dal principio alla fine, poi ripetei il discorso della cerimonia con l’audio spento e con solo il video in funzione, cercando di far coincidere la mia voce (cioè, voglio dire, la sua voce) con i gesti e con le espressioni delle immagini stereo. Penny continuava a guardare da me alle immagini, con espressione stupita. Quando il nastro fu terminato e io stesso ebbi spento il proiettore, domandai: — Cosa gliene pare?
— Perfetto!
Sorrisi come lui. — Grazie, Ricciolina.
— Non c’è di che… "onorevole Bonforte".
Due ore dopo giungevamo all’appuntamento con la Passa al primo turno!
Dak accompagnò Roger Clifton e Bill Corpsman nella mia cabina, appena furono saliti a bordo, dopo il trasbordo dalla loro astronave. Li conoscevo per averli visti in fotografia, e alzandomi li salutai con un: — Salve, Rogi Felice di vedere anche lei, Bill! — cordiale ma non enfatico; quella gente operava su scala diversa dalle persone normali, e per loro un viaggio di corsa fino alla Terra e ritorno era un’assenza di pochi giorni, niente di più. Feci qualche passo avanti, zoppicando leggermente, e porsi loro la mano da stringere. In quel momento la nave era sotto una leggera accelerazione per spostarsi su un’orbita più vicina al pianeta di quella descritta dalla Passa al primo turno!
Clifton mi lanciò una breve occhiata, poi decise di stare al gioco. Si tolse il sigaro di bocca, mi strinse la mano, e disse tranquillamente: — Felice di riaverla qui, Capo. — Era un ometto calvo, di mezz’età, con un che di curialesco nei modi e con l’aspetto di un buon bluffatore al tavolo di poker.
— Successo niente di speciale mentre ero via?
— No. Tutta normale amministrazione. Ho passato gli incartamenti a Penny.
— Ottimo. — Mi volsi a tendere la mano a Bill Corpsman che, invece di ricambiare la stretta, si mise i pugni sui fianchi, mi diede una lunga occhiata, fece un fischio ammirato ed esclamò: — Stupefacente! Incomincio a credere che potremo farcela. — Mi squadrò da capo a piedi, poi disse ancora: — Si volti, Smythe. Cammini. Voglio vedere la sua andatura.
Scoprii che mi sentivo davvero seccato, come lo sarebbe stato lo stesso Bonforte se qualcuno si fosse permesso di trattarlo con tale impertinenza e, naturalmente, mi si lesse in faccia quello che provavo. Dak si affrettò a dare di gomito a Corpsman e a dire: — Bill, dagli un taglio. Ricorda com’eravamo d’accordo.
— Oh, quante storie! — rispose Corpsman. — Questa cabina è a prova di suono, e voglio solo assicurarmi che sia capace di farcela. Smythe, come va col marziano? Saprebbe snocciolarci qualche frase?
Io risposi con un singolo squittio polisillabico in alto marziano, una frase che significava pressappoco: — Le regole della buona creanza esigono che uno di noi due se ne vada immediatamente! — ma che in realtà ha un valore molto più profondo, perché tra i marziani è una sfida. Di solito, qualche tempo dopo che quella frase viene pronunciata, il nido di uno dei due viene notificato del decesso improvviso di un suo appartenente.
Non credo che Corpsman l’avesse capita, perché fece un sorrisino e disse: — Bravo, Smythe. Debbo proprio dirlo, ottimo lavoro.
Dak però aveva capito la frase. Prese Corpsman per il braccio e gli disse: — Bill, dagli un taglio, te lo ripeto per la seconda volta. Non rompere. Siamo sulla mia astronave, consideralo un ordine. Adesso, da questo momento in poi si fa finta di niente, senza altre concessioni alla curiosità.
Clifton, dal canto suo, aggiunse: — Dagli ascolto, Bill. Sai benissimo che eravamo d’accordo di farlo, no? Se cominciamo così, va a finire che qualcuno si sbaglia e si lascia sfuggire tutto in mezzo alla gente.
Corpsman lo guardò per un istante, poi scrollò le spalle. — Va bene, va bene. Volevo fare solo un piccolo controllo… dopotutto l’idea è mia. — Mi sorrise a denti stretti e disse: — Come va, onorevole Bonforte? Felice di rivederla.
C’era un briciolino d’enfasi nel modo con cui aveva detto "onorevole", ma feci finta di non accorgermene. Risposi: — Sono contento d’essere ritornato, Bill. Ha qualcosa di speciale da comunicarmi prima che scendiamo?
— Non mi pare. Una conferenza stampa a Goddard City dopo la cerimonia. — Notai che mi guardava per spiare la mia reazione.
Mi limitai a un cenno d’assenso col capo. — Molto bene.
Dak, invece, rimase scosso dalla notizia e si affrettò a voltarsi verso Clifton per dirgli: — Ma come, Rog, cosa succede? È proprio necessario? Sei stato tu a dare l’autorizzazione?
Clifton non riuscì a rispondere, perché Corpsman lo prevenne voltandosi verso di lui e dicendo: — Stavo per dire, prima che al nostro capitano saltasse la mosca al naso, che posso andare io alla conferenza stampa e dire ai giornalisti che il Capo si è stancato troppo alla cerimonia e gli è venuto il mal di gola. Oppure possiamo limitare la conferenza a domande scritte presentate con qualche ora d’anticipo: provvederò io a scrivere le risposte mentre la cerimonia si sta svolgendo, e poi gliele passerò perché le legga alla stampa. Visto che la somiglianza è così perfetta anche da vicino, penso che si possa rischiare. Che ne dice lei… "onorevole Bonforte"? Pensa di poterlo fare?
— Non vedo nessuna difficoltà nella cosa, Bill. — Pensavo che se fossi riuscito a ingannare i marziani per tutta la durata della cerimonia, sarei riuscito a incantare facilmente anche un branco di giornalisti umani, per tutto il tempo richiesto. Ormai m’ero perfettamente impadronito del tono e del frasario di Bonforte, e inoltre conoscevo le sue idee politiche quel tanto che bastava per azzardare qualche dichiarazione vaga.
Clifton però era preoccupato. Prima che potesse parlare si udì la campanella della nave, e una voce chiamò dall’altoparlante: — Il capitano è richiesto in sala comando. Quattro minuti.
In fretta, Dak disse: — Mettetevi d’accordo fra voi. Io devo andare a mettere questa nave sul giusto binario… e su in cabina c’è solo quel pivello di Epstein. — E scappò via come il fulmine.
— Ehi, capitano! — chiamò Corpsman. — Volevo dirle che…
Gli corse dietro e uscì dalla porta senza neppure voltarsi a salutare.
Roger Clifton andò a chiudere la porta che Corpsman aveva lasciato aperta, poi mi tornò accanto e mi chiese con calma: — Davvero vuol correre il rischio di partecipare alla conferenza stampa?
— Sta a lei decidere. Io, comunque, non ho nulla in contrario.
— Uhm… Va bene, rischiamo, allora. Però esigiamo domande scritte. Bill preparerà le risposte e le controllerò io stesso prima che lei le legga alla stampa.
— Benissimo — replicai. — Se lei riesce a trovare un modo per farmele avere con una decina di minuti d’anticipo, non ci sarà nessuna difficoltà. Sono rapidissimo a imparare le cose a memoria.
Mi squadrò. — Sono disposto a crederci… Capo. Va bene, dirò a Penny di passarle le risposte subito dopo la cerimonia. Con la scusa di andare alla toletta un momento, lei potrà avere tutto il tempo necessario per studiarle.
— Mi pare che così possa andare bene.
— Sì, anch’io… Confesso che dopo averla vista, mi sento molto, molto meglio. Posso fare qualcosa per lei?
— No, grazie, Rog… cioè, sì. Si sa mica niente di… di lui?
— Come? Ah… be’, sì e no. È sempre a Goddard City, di questo ne siamo sicuri. Non l’hanno portato via da Marte, e neppure l’hanno trasferito in qualche altra zona del pianeta. Almeno questo siamo riusciti a impedirlo, sempre che ne avessero l’intenzione.
— Ma come!? Goddard City non è molto grande. Meno di centomila abitanti, se non sbaglio. Come mai non l’avete trovato? C’è qualche difficoltà?
— La difficoltà è una sola: non osiamo ammettere che lei, cioè lui, sia sparito. Appena messa a posto questa faccenda dell’adozione, lei si nasconderà e noi annunceremo che il Capo è scomparso, che l’hanno rapito… come se il rapimento fosse avvenuto solo allora. Faremo setacciare la città palmo a palmo. Le supreme cariche cittadine sono ora tenute da funzionari del Partito dell’umanità, ma ci aiuteranno… dopo la cerimonia. Sarà la cooperazione più volenterosa che si sia mai vista, perché avranno una fretta infernale di ritrovare Bonforte prima che tutto il Nido di Kkkahgral cali su di loro e gli distrugga l’intera città sotto gli occhi.
— Oh, ogni volta imparo qualcosa di nuovo sulla psicologia e sull’etica dei marziani.
— A chi lo dice!
— Rog. Uhm… Mi dica un po’, cosa le fa credere che lui sia ancora vivo? Non farebbero più in fretta… e non correrebbero meno rischi… ammazzandolo, semplicemente? — Mi veniva in mente un certo ricordo spiacevole: la facilità con cui ci si poteva sbarazzare di un cadavere ingombrante, ammesso di non avere scrupoli.
— Sì, credo di capire la sua obiezione. Ma anche questo va collegato al concetto marziano di "correttezza". — Usò la parola marziana. — La morte è l’unica giustificazione accettabile per non avere rispettato un obbligo. Se lo ammazzassero, semplicemente, i marziani lo adotterebbero dopo la morte, e poi l’intero nido, e magari tutti gli altri nidi di Marte, si solleverebbero per vendicarlo. Ai marziani non importa nulla se tutta la razza umana muore, o se viene uccisa, ma uccidere un uomo apposta per impedirgli di partecipare alla cerimonia dell’adozione è un altro paio di maniche. Si tratta sempre di obblighi e di correttezza: per taluni aspetti, la reazione di un marziano a una data situazione è una cosa automatica, fa pensare a una reazione istintiva. Non lo è, naturalmente, perché i marziani sono maledettamente intelligenti. Però ogni tanto fanno le cose più impensate. — Corrugò la fronte e disse: — A volte vorrei non avere mai lasciato il Sussex.
La campanella dell’astronave pose fine alla conversazione, costringendoci a sdraiarci di corsa sulle cuccette. Dak era arrivato al punto voluto; il traghetto per Goddard City era già in orbita ad aspettarci quando entrammo in caduta libera. Ci trasferimmo su di esso tutt’e cinque, occupando ogni cuccetta disponibile: anche questo era stato previsto, perché il Commissario Residente avrebbe desiderato venire su per salutarmi, ma ne era stato dissuaso da una comunicazione di Dak che lo avvertiva che, appunto, non c’era posto.
Cercai di guardare la superficie marziana mentre scendevamo sul pianeta, perché l’avevo vista solo di sfuggita dalla cabina di controllo della Tom Paine: si presumeva che io fossi già stato su Marte diverse volte, e perciò non potevo mostrare la normale curiosità di qualsiasi turista. Non riuscii però a vedere molto: il pilota del traghetto non voltò il razzo, per farci vedere il panorama, fino al momento dell’atterraggio, e nella parte finale del volo io fui troppo occupato a infilarmi la maschera dell’aria per guardare.
Quella fastidiosa maschera marziana per poco non ci diede il colpo di grazia. Io non avevo mai avuto occasione d’impararne l’uso: Dak non ci aveva pensato e io non avevo ritenuto che fosse difficile da usare. In altre occasioni avevo già portato respiratori spaziali e respiratori subacquei, e pensavo che anche questa sarebbe stata come tutte le altre. Invece era una cosa totalmente diversa. Il modello favorito di Bonforte era del tipo che lasciava libera la bocca, una "Vento dolce" della Mitsubushi, pressurizzata direttamente sul naso. Comprendeva un morsetto e due tamponi per chiudere il naso, e due tubicini, uno per ciascuna narice, che poi passavano dietro gli orecchi e si collegavano a un piccolo compressore che aderiva alla nuca. Sono d’accordo che sia un dispositivo molto ingegnoso, una volta che uno lo sappia usare nel modo corretto; esso infatti consente di parlare, di mangiare, di bere eccetera, senza necessità di sfilarselo. Ma a me diede un fastidio irragionevole, come andare dal dentista.
La difficoltà consiste in questo: occorre esercitare un controllo volontario sui muscoli che chiudono il fondo della bocca, altrimenti si lascia scappare l’aria e si fischia come una vaporiera: quella maledetta maschera pompa nei polmoni aria sotto pressione. Per fortuna il pilota, appena ci fummo tutti infilati le maschere, portò la cabina alla pressione marziana, e io potei dedicarmi per una ventina di minuti ad apprenderne l’uso. Ma per qualche tempo temetti che tutta la nostra messinscena sarebbe fallita miseramente, scivolando su un piccolo, stupido particolare meccanico. Mi sforzai di convincermi che avevo già indossato la maschera centinaia di volte, che per me era una cosa altrettanto familiare e normale come lo spazzolino da denti, e finii col crederci anch’io.
Dak era riuscito a evitarmi le chiacchiere col Commissario per l’ora di volo dall’astronave al pianeta, ma non poté impedire che venisse ad accogliermi allo spazioporto. Il poco tempo disponibile m’impedì d’incontrare altre persone, perché dovevo affrettarmi a partire per la città marziana. Era logico, anche se sembrava strano: sarei stato più al sicuro tra i marziani che tra i terrestri come me. Ancor più strano, era il fatto di trovarmi su Marte.