8

Poiché la Luna è un astro privo d’atmosfera, una nave torcia può scendere sulla sua superficie. Ma la Tom Paine, essendo una nave torcia, era progettata per rimanere sempre nello spazio, attraccando solo alle stazioni spaziali orbitanti. Per scendere sulla Luna dovette entrare in un’armatura. Avrei voluto essere sveglio per vedere la manovra, perché dicono che sia come infilare un ago… ma quando il filo è grosso e l’ago minuscolo. Dak era uno di quei cinque o sei piloti che riuscivano a farlo.

Ma non potei nemmeno vedere la Tommie nella sua armatura; tutto ciò che vidi fu l’interno del tubo pressurizzato per passeggeri collegato al portello stagno, oltre all’espresso viaggiatori per New Batavia. Quegli espressi vanno così veloci che, sotto la gravità ridotta della Luna, ci si trova di nuovo in caduta libera a metà del viaggio.

Per prima cosa ci recammo negli appartamenti assegnati al capo dell’opposizione di Sua Maestà l’imperatore, residenza ufficiale di Bonforte fino a quando (e se) fosse tornato al potere dopo le prossime elezioni. La residenza era talmente sontuosa che mi chiesi come potesse essere l’altra, ovvero quella del Primo Ministro. Suppongo che New Batavia sia la più imponente capitale mai esistita; è un vero peccato che non la si possa vedere dall’esterno; anche se questo piccolo inconveniente è largamente compensato dal fatto che è l’unica città del Sistema Solare inattaccabile dalle bombe all’idrogeno. O piuttosto dovrei dire "virtualmente inattaccabile", perché ci sono alcune piccole costruzioni che si affacciano sulla superficie del satellite e che quindi potrebbero venir distrutte. La residenza di Bonforte comprendeva un salone a picco su una parete rocciosa, con una balconata panoramica (naturalmente protetta da una cupola) dalla quale l’occhio poteva spaziare sulle stelle e sulla madreterra. Le camere da letto e gli uffici erano scavati nella roccia viva, trecento metri più in basso, e vi si arrivava mediante un ascensore interno.

Non ebbi il tempo di visitare i miei appartamenti perché mi abbigliarono subito per l’udienza. Bonforte non aveva camerieri personali neppure su terrasporca, ma Rog insistette per "darmi una mano" (in realtà fu un impiccio e nient’altro) mentre mi forniva i particolari dell’ultimissimo minuto. Il costume di quella recita era il solito vecchio abito di Corte, quello che è in uso da secoli. Consisteva in un paio d’informi pantaloni a tubo neri, d’una strana giubbetta a coda di rondine, nera anch’essa, e di una camicia fatta di tre pezzi: un davanti rigido, bianco, un colletto a punte che sembravano ali, e una cravatta bianca a farfalla. La camicia di Bonforte era in un pezzo solo perché (credo) egli non si voleva servire di un costumista. In realtà dovrebbe venir montata pezzo a pezzo, e la cravatta dovrebbe avere un nodo abbastanza brutto da far capire che è stata annodata a mano… ma sarebbe troppo pretendere che un uomo s’intenda tanto di politica quanto di storia del costume.

Era un vestito brutto e tetro, ma faceva ottimamente da sfondo alla sciarpa di stoffa a colori vivaci dell’Ordine di Guglielmina, che portavo a tracolla. Mi guardai in uno specchio da parete e rimasi piuttosto soddisfatto della mia immagine; quella singola macchia di colore che spiccava sul bianco e sul nero faceva un bell’effetto. L’abito tradizionale da cerimonia sarà brutto, ma possiede davvero un aspetto dignitoso, qualcosa come la fredda nobiltà d’un maître d’hôtel. Mi sembrava di essere perfettamente in grado d’impersonare la parte di chi si affida al grazioso volere del sovrano.

Rog Clifton mi dette il rotolo di pergamena sul quale, come richiesto dal cerimoniale, era vergato l’elenco dei membri del gabinetto che avrei dovuto formare, e mi nascose nella tasca interna della giubbetta una copia della vera lista, quella dattilografata. L’originale era stato recapitato a mano da Jimmie Washington al Segretario di Stato dell’imperatore, appena sbarcati sulla Luna. In teoria, lo scopo dell’udienza era duplice: l’imperatore avrebbe dovuto comunicarmi il suo grazioso desiderio che formassi il governo, mentre io gli avrei dovuto sottoporre umilmente i miei consigli. In teoria, poi, l’elenco dei ministri da me proposti avrebbe dovuto rimanere segreto fin quando il sovrano non avesse dato la sua gentile approvazione.

In realtà la scelta era già stata fatta e vagliata. Rog e Bill avevano trascorso quasi tutto il tempo, durante il viaggio, a decidere i membri del gabinetto dei ministri e ad assicurarsi che i prescelti avrebbero accettato, usando il codice "servizio di Stato" per i messaggi trasmessi via radio. Io mi ero già studiato i Farley dei ministri di futura nomina e delle persone che avrebbero potuto eventualmente sostituirli. La lista era segreta nel senso che i servizi stampa l’avrebbero ricevuta solo dopo la mia visita all’imperatore.

M’infilai la pergamena sotto il braccio e presi con me la verga marziana. Rog assunse un’espressione stupefatta. — Santo Cielo! Non vorrà mica portare quella roba alla presenza dell’imperatore!

— E perché no?

— Ma… è un’arma.

— È un’arma cerimoniale. Rog, tutti quei duchi e quei baronetti pieni di spocchia porteranno lo spadino da cerimonia. Io porterò la verga marziana.

— È diverso — tentò di spiegare Rog, scuotendo la testa. — Loro hanno l’obbligo di farlo. Non conosce l’antica legge medievale su cui si basa il particolare? Gli spadini da cerimonia sono il simbolo del loro dovere d’onore verso il signore feudale: accorrere a lui per difenderlo con le armi, di persona. Ma lei non è né un duca né un baronetto; lei è un borghese qualunque. Tradizionalmente i borghesi si recano davanti al re disarmati.

— No, Rog. Oh… farò come lei mi dice, però perderemo una bellissima occasione per tirare acqua al nostro mulino. Sarebbe teatralmente perfetto. Sarebbe giusto.

— Temo proprio di non seguirla.

— Be’, mi stia a sentire. Crede che su Marte si verrà a sapere che oggi, andando dall’imperatore, portavo la verga? Voglio dire, all’interno dei nidi?

— Eh? Credo di sì. Sì.

— Naturalmente. Penso che ogni nido abbia un ricevitore stereovisivo. Ricordo di averne notati molti nel Nido di Kkkah. I marziani seguono le notizie dell’Impero con la stessa attenzione con cui le seguiamo noi. Non crede?

— Sì. Almeno gli anziani.

— Se porterò la verga, dunque, lo sapranno; e lo sapranno anche se non la porterò. Ai marziani importa moltissimo questo particolare; è una cosa strettamente legata al loro concetto di "correttezza". Nessun marziano adulto dimentica mai di portare la verga quando esce dal nido, e la porta anche nel nido, in occasione delle cerimonie. L’imperatore ha già avuto occasione di ricevere dei marziani nel passato, e tutti avevano sempre la loro verga, no? Sono pronto a scommetterci la testa.

— Sì, ma lei…

— Lei dimentica che io sono un marziano.

Rog mi guardò sbigottito.

— Io non sono soltanto "John Joseph Bonforte" — continuai. — Io sono anche Kkkahjjjerrr del Nido di Kkkah. Se non porterò con me la verga commetterò una gravissima scorrettezza… e sinceramente non so cosa potrà succedere quando lo si verrà a sapere su Marte; non conosco abbastanza gli usi e i costumi marziani per poter dire quale sarà la loro reazione, tuttavia sarà certo spiacevole. Provi ora a guardare le cose dall’altro punto di vista. Quando io entrerò nella sala del trono portando la mia verga, io sarò un cittadino marziano che si reca da Sua Maestà per essere nominato Primo Ministro. Quale potrà essere l’effetto di tutto ciò sui nidi?

— Ammetto di non averci pensato fino in fondo — disse lentamente Rog.

— E nemmeno io, se non mi fosse toccato decidere se portare o no la verga. Ma lei non crede che Bonforte ci avesse già pensato, ancor prima di mettere in moto tutto il meccanismo culminato poi con l’adozione? Rog, abbiamo afferrato la tigre per la coda; adesso l’unica cosa da fare è salirle in groppa e cavalcarla. Non possiamo mollare la presa.

A questo punto arrivò Dak, il quale si dichiarò subito del mio parere, e parve anzi sorpreso che Rog non fosse stato d’accordo.

— Certo — esclamò, tutto soddisfatto. — Creeremo un nuovo precedente, ma del resto abbiamo intenzione di crearne molti altri, prima che la cosa vada in porto. — Ma quando vide il modo disinvolto con cui maneggiavo la verga, lanciò un urlo. — Perdio! Ma cosa fa? Vuole uccidere qualcuno? O solo scavare un buco nella parete?

— Sto facendo attenzione a non premere il grilletto.

— Alla faccia, che incosciente! Non ha nemmeno inserito la sicura. — Mi tolse con circospezione l’arma di mano e m’insegnò: — Bisogna girare questo anello… e spingere il grilletto dentro questa piccola rientranza. Ecco… adesso è una comune canna da passeggio. Uff!

— Oh! Mi spiace.

Mi accompagnarono fino alla sala d’aspetto del Palazzo Imperiale, dove venne a rilevarmi lo scudiero di corte di re Guglielmo, il colonnello Pateel, un indù dall’espressione tranquilla e dai modi compitissimi, vestito con la rutilante divisa delle Forze Spaziali dell’Impero. L’inchino che mi fece doveva essere stato calcolato al millesimo: sembrava indicare che, anche se stavo per essere nominato Primo Ministro, tuttavia non lo ero ancora e che, anche se ero più anziano di lui, ero pur sempre un borghese… da tutto questo occorreva poi sottrarre almeno cinque o sei punti perché lui portava sulla spalla destra l’aquila imperiale.

Guardò la mia arma e disse in tono blando: — Ah, una verga marziana, vero? Interessante. Immagino che vorrà lasciarla qui, signore. Sarà perfettamente al sicuro.

— No — dissi. — La porto con me.

— Signore? — Le sue sopracciglia s’inarcarono di scatto, ed egli rimase in attesa che correggessi quell’errore lampante.

Feci allora ricorso alle frasi fatte che Bonforte preferiva, e ne scelsi una che lui usava per rimproverare le persone troppo invadenti.

— Figliolo — dissi — lei badi a fare la sua calzetta, che io bado a fare la mia.

Dal suo volto scomparve ogni traccia d’espressione. — Benissimo, signore. Vuole seguirmi da questa parte?


Ci fermammo sulla soglia della sala del trono. Lontano, in fondo a quell’enorme ambiente, il trono, eretto su un palco, era ancora vuoto. Su ambo i lati, lungo le pareti dell’immensa caverna, erano schierati in attesa i membri della nobiltà e i dignitari di Corte. Suppongo che Pateel avesse fatto un cenno speciale, perché si levarono subito le note dell’Inno Imperiale e tutti c’irrigidimmo. Pateel sembrava un robot; io assunsi un atteggiamento un po’ stanco, da uomo anziano e oberato di lavoro che si presta al gioco solo perché non può fare altrimenti; quanto ai nobili e ai dignitari, parevano manichini in vetrina. Spero che non rinunceremo mai del tutto allo sfarzo di una Corte; tutti quei figuranti per parti nobili e quelle comparse con spada fanno un gran bel vedere.

Gli ultimi accordi si perdevano nell’aria quand’Egli entrò dal fondo della sala e salì sul trono… Egli, cioè Guglielmo, Principe di Orange, Duca di Nassau, Granduca del Lussemburgo, Cavaliere Supremo del Sacro Romano Impero, Ammiraglio Generale delle Forze Imperiali, Consigliere dei Nidi Marziani, Protettore dei Poveri e, per Grazia di Dio, Re dei Paesi Bassi e Imperatore dei Pianeti e degli Spazi Intermedi.

Non riuscivo a vederlo in viso, ma tutti quei simboli che si accentravano sulla sua persona produssero in me un senso di riverenza, di soggezione e anche di ammirazione. La mia ostilità per la monarchia sembrava svanita.

L’ultima nota dell’inno si spense mentre re Guglielmo si metteva a sedere. Egli rispose con un grazioso cenno di saluto, e un’onda di leggero rilassamento increspò le file di figurini dei cortigiani immoti. Pateel si ritirò e io, con la mia brava verga sotto il braccio, iniziai la lunga marcia fino al trono, zoppicando leggermente nonostante la forza di gravità ridotta. Mi sentivo stranamente ansioso ed eccitato, come quando avevo fatto il mio ingresso nel Nido di Kkkah, solo che adesso non avevo paura. Ero solo un po’ eccitato e ansioso. Tutto il pot-pourri musicale dell’Impero mi accompagnò nel cammino: l’orchestra passava da "Kong Christian" alla "Marsigliese", a "Sempiterne stelle e strisce" e a tutto il resto. Giunto alla prima linea segnata sul pavimento, a una decina di passi dal trono, mi fermai per inchinarmi; ancora due passi, poi un secondo inchino; altri due passi, e un terzo inchino, più profondo, proprio prima dei gradini. Non m’inginocchiai; i nobili hanno l’obbligo d’inginocchiarsi, ma la gente comune partecipa alla sovranità con il sovrano. Spesso questo particolare viene messo in scena nel modo sbagliato, sia in teatro che in stereo, e Rog si era assicurato che conoscessi bene il modo giusto di comportarmi.

Ave imperatori - Se fossi stato olandese avrei detto anche Ave rex, ma ero americano. Ci scambiammo meccanicamente qualche frase in latino scolastico, lui per chiedermi cosa volevo, io per ricordargli che era stato lui a convocarmi eccetera. Dopo di che, prese a parlare in angloamericano; lo pronunciava con un leggero accento.

— Lei servì onorevolmente nostro padre. Oggi abbiamo pensato che potrebbe servire anche noi… cosa ha da dire?

— Il desiderio del mio sovrano è legge per me, Maestà.

— Si avvicini.

Forse esagerai un tantino in verismo, ma i gradini del trono erano alti, e la gamba mi stava effettivamente facendo male (era un fenomeno psicosomatico, ma in fin dei conti i dolori psicosomatici sono dolori come tutti gli altri). Stavo per inciampare, ma Guglielmo balzò giù dal trono come un lampo per sorreggermi il braccio. Sentii un mormorio soffocato uscire dalle bocche dei presenti. Il re mi sorrise e mi sussurrò: — Non si affanni, caro amico. Vedremo di sbrigarci presto.

Mi accompagnò fino allo sgabello posto davanti al trono e mi fece sedere, goffamente, un attimo prima che egli stesso fosse ritornato a sedersi. Poi tese la mano per farsi dare il rotolo di pergamena, e io glielo diedi. Egli lo aprì e fece finta di studiare attentamente quella pagina bianca.

Ora l’orchestra suonava musica da camera, e tutte le personalità della Corte fingevano esageratamente di divertirsi. Le dame mandavano risatine, i gentiluomini mormoravano frasi galanti, i ventagli s’agitavano senza interruzione. Nessuno si allontanava dal proprio posto, ma ciascuno era in continuo movimento. Paggetti simili a cherubini michelangioleschi giravano offrendo vassoi di dolci. Uno venne a inginocchiarsi davanti a Guglielmo, ed egli si servì senza staccare gli occhi da quella lista inesistente di ministri. Il paggetto poi presentò il vassoio anche a me, e io vi presi qualcosa senza sapere se il mio gesto fosse corretto o no. Era uno di quei meravigliosi, impareggiabili cioccolatini che si fanno solo in Olanda.

Guardandomi intorno senza darlo a vedere, riconobbi molti personaggi che avevo visto in fotografia o in stereo. C’erano quasi tutti i membri delle famiglie reali spodestate d’Europa, che si celavano sotto i loro titoli secondari di conti o di duchi. Taluni dicevano che re Guglielmo li manteneva per dar lustro alla Corte; altri dicevano che voleva tenerli d’occhio, casomai qualcuno di loro avesse in mente d’immischiarsi nella politica o in qualche altro imbroglio. Forse erano un po’ tutt’e due le cose. Inoltre erano presenti i nobili, non di sangue reale, di una decina di nazioni. Molti di loro lavoravano, per vivere.

Mi ritrovai a cercare, su quei volti, il labbro degli Asburgo e il naso dei Windsor.

Finalmente Guglielmo si decise a deporre la pergamena. Istantaneamente musica e conversazione cessarono; nel silenzio di tomba che seguì, il re disse: — Ci ha proposto un elenco di persone veramente meritevoli. Tendiamo a dare il nostro beneplacito alla formazione di questo Gabinetto.

— Ringrazio la Sua Graziosa Maestà.

— Dopo un più attento studio ed esame le daremo la conferma decisiva. — Si chinò verso di me e mi sussurrò: — Non cerchi di scendere quei maledetti gradini camminando all’indietro. Si limiti ad alzarsi. Me ne vado subito.

— Oh, grazie, Sire — risposi in un sussurro.

Si alzò, e mentre anch’io mi affrettavo a mettermi in piedi, scomparve tra un ondeggiar di mantelli. Voltandomi vidi molti visi stupefatti, ma la musica riattaccò subito, e io potei andarmene mentre i figuranti per parti nobili e reali riprendevano le loro educate conversazioni.

Appena sulla soglia, ricomparve come per incanto il colonnello Pateel. — Da questa parte, signore, per favore — disse, mettendosi alle mie costole.

La parte spettacolare era finita; ora veniva la vera udienza.

Pateel mi fece varcare una porticina che immetteva in un lungo corridoio vuoto alla fine del quale, da un’altra porticina, entrammo in un ufficio del tutto normale. L’unica cosa regale contenuta in esso era una grossa targa scolpita: lo stemma della Casa d’Orange con il suo motto immortale: "Io mantengo!". C’era uno scrittoio, ampio e massiccio, sul quale erano sparsi numerosi incartamenti. In mezzo a essi, tenuto fermo da un paio di scarpine da bambino placcate, c’era l’originale della lista di cui conservavo una copia in tasca. Dentro una cornice di rame c’era una foto di famiglia con la defunta imperatrice e i bambini. Contro una parete c’era un vecchio divano un po’ logoro, e, vicino, un piccolo mobile bar. Oltre a una sedia girevole dietro la scrivania, c’erano due poltrone, lutto l’arredamento avrebbe potuto andar bene per l’ufficio di un medico generico molto occupato e non troppo esigente.

Pateel mi lasciò solo, e si ritirò chiudendosi la porta alle spalle. Non ebbi modo di decidere se potevo o no sedermi, perché il re arrivò subito dalla porta opposta. — Salve, Joseph! — esclamò. — Sono subito da lei. — Attraversò a grandi passi la stanza, seguito da due servitori che lo stavano spogliando mentre camminava, e uscì da una terza porta. Ma rientrò quasi subito, allacciandosi la lampo di un giubbotto. — Lei è arrivato prima perché ha preso la scorciatoia. Io ho dovuto seguire la strada più lunga. Voglio farmi un po’ sentire da quell’architetto di Corte: desidero che mi scavi un altro corridoio da qui alla saletta dietro il trono, e accidenti, bisogna che mi decida. Devo sempre farmi tutt’e tre i lati del quadrato: o così, o sfilare in pompa magna per corridoi pieni di gente, bardato come un cavallo da circo. — Aggiunse, meditabondo: — Con quel costume ridicolo metto solo la biancheria intima!

— Sono sempre abiti più comodi della giacca da scimmia che tocca indossare a me, Sire — gli dissi.

Scosse le spalle. — Oh, be’, dobbiamo rassegnarci tutt’e due agli inconvenienti del mestiere. Si è già servito un bicchierino? — Prese la lista dei ministri. — Lo faccia pure, e ne versi anche uno per me — disse, leggendo.

— Che cosa beve, Sire?

— Eh? — ribatté lui, lanciandomi un’occhiata penetrante. — Il solito, naturalmente. Whisky e ghiaccio.

Non feci parola e versai il liquore, aggiungendo un po’ d’acqua tonica al mio. Avevo provato un attimo di paura. Se Bonforte sapeva che l’imperatore era solito bere whisky con ghiaccio, la notizia avrebbe dovuto comparire sul Farley. Invece non c’era scritto niente sui gusti imperiali in fatto di bevande.

Guglielmo, comunque, prese il bicchiere senza dir niente. — Accensione! - mormorò, e riprese l’esame della lista. — Che ne dice di questi giovanotti, Joseph? — disse poi, alzando gli occhi.

— Sire? È un gabinetto provvisorio, naturalmente. — Avevamo cumulato gli incarichi ogni volta che fosse possibile, e così Bonforte, oltre che essere Primo Ministro, teneva anche i ministeri della Difesa e del Tesoro. In tre casi, le nomine provvisorie, erano andate a precedenti sotto-segretari: Ricerche, Amministrazione della Popolazione, ed Esterni. Gli uomini che avrebbero poi dovuto occupare quegli incarichi nel governo permanente ci erano necessari per la campagna elettorale.

— Sì, sì, capisco, è la vostra squadra di riserve. Uhm… questo Braun, che tipo è?

Rimasi sorpreso oltre ogni aspettativa. Secondo quanto mi avevano detto, Guglielmo avrebbe dovuto approvare l’elenco senza far commenti, e probabilmente avremmo fatto quattro chiacchiere su altre cose. Le quattro chiacchiere non mi spaventavano: c’è gente che s’è fatta la fama di conversatore brillante semplicemente lasciando che gli altri parlino sempre loro.

Lothar Braun era quel che si dice un "giovane e promettente uomo politico". Quel che sapevo di lui l’avevo appreso dalle labbra di Rog e di Bill e dal suo Farley. Era entrato nella competizione politica dopo che era caduto il precedente governo Bonforte, quindi non aveva mai preso parte a un Gabinetto, ma si era fatto un’ottima esperienza in seno al Partito, come moderatore nelle riunioni ristrette e come probiviro ufficiale. Bill mi aveva assicurato varie volte che Bonforte si preparava a lanciarlo nella politica di governo, e che un governo provvisorio era il modo migliore perché si facesse le ossa; Bill l’aveva proposto per le Comunicazioni Esterne.

Rog Clifton non mi era parso molto convinto. Prima aveva fatto il nome di Angel Jesus de la Torre y Perez, il precedente sottosegretario, ma poi Bill aveva fatto notare che se Braun era destinato a far fiasco, il governo provvisorio era una buona occasione per scoprirlo senza pericolo e Clifton si era arreso.

— Braun? — risposi. — È un giovane promettente. Persona molto brillante.

Senza fare commenti, Guglielmo continuò a leggere. Intanto io cercavo di ricordare esattamente quello che Bonforte aveva scritto su Braun, nello schedario, come parere personale. "Brillante… lavoratore… mente analitica." Aveva scritto qualcosa di negativo? No… cioè, forse: "Un po’ troppo affabile". Ma non si può condannare un uomo solo per questo. C’era però da tener conto che Bonforte non aveva fatto cenno a virtù positive come la fedeltà e l’onestà. Cosa che però non significava nulla, perché il Farley non è una raccolta di studi di carattere, ma un archivio di notizie.

— Joseph — mi domandò poi l’imperatore, deponendo la lista. — Lei ha intenzione di far entrare subito i nidi marziani nell’Impero?

— Eh? Oh, non certo prima delle elezioni, Sire.

— Su, via, lo sa benissimo che intendo riferirmi a dopo le elezioni. E poi, ha dimenticato come si dice "Guglielmo"? La parola "Sire", sulle labbra di un uomo che ha sei anni più di me, e per di più in un colloquio a quattr’occhi, mi sembra una sciocchezza.

— Sì, Guglielmo.

— Come sappiamo benissimo tutt’e due, si presume che la politica svolta dal nuovo governo non mi riguardi. Ma come sappiamo anche benissimo tutt’e due, questa presunzione è una sciocchezza. Joseph, in questi anni in cui non era al governo, lei ha lavorato per un solo scopo: creare una situazione tale che i marziani desiderino spontaneamente d’entrare a far parte dell’Impero, a parità di diritti. — Additò la verga. — A questo punto, mi pare che lei ci sia riuscito. Quindi, se vincerà le elezioni, potrà avere dalla Grande Assemblea anche un voto di maggioranza su questa legge, e io la proclamerò. No?

Ci pensai sopra. — Guglielmo — risposi lentamente — lei sa meglio di me che questa è sempre stata la nostra intenzione. Però, visto che me lo chiede, è evidente che vuol comunicarmi la sua opinione a proposito.

Facendo girare il bicchiere fra le dita, mi guardò fisso. Sembrava un aristocratico del New England in procinto di fare una ramanzina a un villeggiante. — Mi sta chiedendo un consiglio? La Costituzione esige che sia lei a consigliare me, non viceversa.

— I suoi consigli sono sempre i benvenuti, Guglielmo. Però non posso promettere che li seguirò.

— Accidenti — rise lui. — Lei non vuole mai compromettersi! Bene… Dunque, supponiamo che lei vinca le elezioni e ritorni al Governo, ma con una maggioranza così ristretta da aver difficoltà nel far passare la legge che concede piena cittadinanza ai nidi. In tal caso non le consiglierei di farne una questione di vita e di morte, legandola al voto di fiducia, ma di proporla invece come una legge qualunque: se la legge non passa, pazienza, accetti la sconfitta e buonanotte; ma resti in carica fino al termine del mandato.

— Perché, Guglielmo?

— Perché tanto io che lei siamo persone molto pazienti. Lo vede? — indicò lo stemma dove spiccava il motto del suo casato. — "Io mantengo!" Non è un motto vacuo, perché il compito dei re è di non essere vacui; il compito del re è conservare, resistere, mantenere. Ora, costituzionalmente parlando, non dovrebbe importarmi se lei resterà o no al Governo, ma m’importa che l’Impero stia insieme. Credo che anche se lei sarà sconfitto sulla legge marziana, immediatamente dopo le elezioni, potrà permettersi l’attesa… perché gli altri programmi del suo partito si dimostreranno molto popolari. Lei raccoglierà voti nelle elezioni suppletive, e può darsi che alla fine potrà venire qui ad avvertirmi che posso aggiungere all’elenco dei miei titoli anche quello di "Imperatore di Marte". Perciò, non abbia fretta!

— Ci penserò — risposi senza compromettermi.

— Sì, ci pensi bene. Ora, un’altra cosa: che ne dice del vigente sistema di deportazione?

— Ho intenzione d’abolirlo immediatamente dopo le elezioni, e di sospenderlo subito, appena entrato in carica il governo provvisorio. — Su questo potevo rispondere senza esitazioni; Bonforte lo odiava.

— Ma se ne serviranno per attaccarvi.

— Meglio. Facciano pure: raccoglieremo più voti.

— Sono felice di sentire che lei ha sempre la forza di sostenere le sue convinzioni, Joseph. Non mi è mai piaciuto che la bandiera d’Orange sventolasse su una nave di deportati. E il commercio, libero?

— Sì, dopo le elezioni.

— E per compensare le perdite dei dazi?

— Siamo del parere che il commercio e la produzione avranno una tale espansione, lasciati liberi, che le altre imposte dirette compenseranno la perdita dei dazi.

— E se invece non fosse così?

Non ero preparato a fornire controrisposte a questo tipo di domande, tanto più che l’economia è sempre stata un mistero per me. Feci un sorriso: — Guglielmo, su questa domanda devo chiedere ulteriori informazioni ai miei collaboratori. Tutto il programma del Partito espansionista si basa sul concetto che il libero scambio, i liberi traffici, le libere comunicazioni, la cittadinanza collettiva, la moneta comune, e il minimo possibile di leggi e di restrizioni imperiali, siano utili non solo ai cittadini dell’Impero, ma anche all’Impero stesso. Se ci occorreranno fondi li troveremo, ma senza bisogno di spezzettare l’Impero in piccole giurisdizioni amministrative. — Eccetto la prima frase, era tutto Bonforte puro, con qualche leggero adattamento.

— Mi risparmi questi bei discorsi elettorali — borbottò. — Era solo una domanda. — Riprese la lista. — È proprio sicuro che questo elenco di nominativi sia quello che lei desidera in cuor suo?

Tesi la mano, ed egli mi passò il foglio con i nomi. Accidenti, era chiaro come il sole che l’imperatore mi diceva, con tutta l’intensità permessagli dalla Costituzione, che secondo lui il nome di Braun non andava bene. Ma, per tutti i diavoli, non era affar mio cambiare la lista elaborata da Bill e Rog.

D’altra parte, in fin dei conti, non era la lista di Bonforte. Era soltanto il modo in cui Bill e Rog pensavano d’interpretare la volontà di Bonforte se fosse stato compos mentis.

In quel momento desiderai di poter prendere tempo per chiedere a Penny cosa ne pensasse di Braun.

Ma poi mi decisi. Presi dallo scrittoio di Guglielmo una penna e, tirata una riga sul nome "Braun", scrissi "de la Torre"… in stampatello perché non mi fidavo ancora di riuscire a imitare la calligrafia di Bonforte. L’imperatore si limitò a osservare: — Mi pare un ottimo governo. Buona fortuna, Joseph. Lei ne avrà bisogno.

Con ciò terminava l’udienza. Ero ansioso d’andarmene, ma non ci si può congedare da un sovrano: sono i sovrani che congedano i visitatori; è una delle poche prerogative che conservano ancora. Desiderava mostrarmi il suo laboratorio e i suoi nuovi modellini ferroviari. Credo sia stato lui più d’ogni altro a far rivivere quell’antico passatempo, anche se, personalmente, non riesco a vederlo come un’occupazione adatta a un adulto. Feci però dei suoni educati quando mi mostrò la sua nuova locomotiva giocattolo, una riproduzione in miniatura del "Royal Scotsman".

— Se ne avessi avuto la possibilità — mi confidò il re, mettendosi carponi a guardare l’interno del motore — sarei diventato un bravo capofficina, credo. Oppure un primo macchinista. Ma un certo incidente occorsomi alla nascita mi ha portato un grave handicap al riguardo.

— Guglielmo, pensa davvero che l’avrebbe preferito?

— Non lo so. Questa mia professione non è poi male. Il lavoro è facile, la paga è buona. Inoltre, fornisce un’invidiabile sicurezza per il futuro… se si esclude il rischio di qualche rivoluzione. Vengo da una famiglia che ha sempre avuto fortuna in queste cose. Però la maggior parte del lavoro è noiosa, e la potrebbe fare altrettanto bene un qualsiasi attore d’avanspettacolo.

Mi rivolse un’occhiata. — Tolgo alle cariche come la sua un mucchio di fastidi: pose delle prime pietre, sfilate eccetera. Lei lo sa.

— Certo, e l’apprezzo molto.

— Una volta ogni tanto, ma proprio una volta ogni tanto, mi si offre la possibilità di dare una piccola spinta nella direzione giusta… o in quella che a me sembra tale. Quella del re è una professione molto strana, Joseph. Cerchi di non farla mai.

— Credo che sarebbe un po’ tardi, anche se lo volessi.

Apportò qualche piccola regolazione al motore del giocattolo. — In effetti, la mia vera funzione è quella di evitare che le persone come lei diventino pazze.

— Come? — feci, sbalordito.

— Certo. Le malattie professionali dei capi di Stato sono le psicosi collegate alla loro carica. Coloro che mi hanno preceduto nel mestiere di re, quelli che governavano sul serio, intendo dire, erano quasi tutti un po’ tocchi nel cervello. E guardi anche i suoi presidenti americani; spesso il lavoro finiva col portarli a una morte prematura. Ma io non ho di queste preoccupazioni: non devo governare. Ho un professionista come lei che lo fa al posto mio. E anche lei non deve subire quella pressione che porta all’infarto: può sempre rassegnare le dimissioni quando le cose diventano troppo difficili, e il vecchio imperatore (si tratta quasi sempre di un "vecchio" imperatore, perché noi saliamo al trono nell’età in cui gli altri vanno in pensione) è sempre lì, a mantenere la continuità, a conservare il simbolo dello Stato, mentre voi professionisti pensate alle nuove frontiere. — Mi fece una solenne strizzata d’occhio. — Il mio lavoro non sarà dei più interessanti, ma è utile.

Dopo un po’ non insistette più con quei suoi trenini infantili e ritornammo nel suo ufficio. Pareva che stesse per congedarmi. E infatti mi disse: — Penso che sia ora che la lasci tornare alle sue occupazioni. Il viaggio è stato faticoso?

— No, non troppo. L’ho passato lavorando.

— Già, certo. A proposito, chi è lei?

C’è la mano del poliziotto che vi tocca sulla spalla; c’è lo shock che provate quando, al buio, credete di salire o di scendere lo scalino che non c’è; c’è la caduta dal letto, in pieno sonno; e c’è il marito della vostra amante che torna a casa inaspettatamente. Ebbene, avrei preferito tutte queste cose messe insieme invece di quella semplice domanda. In quel momento credo d’essere invecchiato, internamente, tanto da pareggiare l’età mostrata dal mio trucco; forse anche più.

— Sire?

— Andiamo — esclamò con impazienza. — La mia professione comporta qualche privilegio, stia tranquillo. Mi dica la verità. Sarà almeno un’ora che mi sono accorto che lei non è Joseph Bonforte… anche se, a dire il vero, lei riuscirebbe a ingannare sua madre. Ha perfino tutte le sue affettazioni. Insomma, chi è lei?

— Mi chiamo Lawrence Smith, Sua Maestà — dissi con un fil di voce.

— Coraggio, amico. Se avessi voluto, avrei fatto chiamare le guardie già da un pezzo. L’hanno mandata qui per assassinarmi?

— No, Sire!… Sono un fedele servitore di Sua Maestà.

— Che strano modo di dimostrarlo! Be’, si versi un altro cicchetto, si sieda, e mi racconti.

Gli raccontai, senza omettere niente. In realtà mi ci volle più d’un cicchetto, ma alla fine mi sentivo meglio. Quando gli parlai del rapimento s’infuriò, e quando poi gli dissi quel che avevano fatto alla mente di Bonforte il suo volto s’incupì in una rabbia omerica.

Alla fine mi disse, con calma. — Dunque, tutto sommato, è solo questione di giorni perché guarisca, vero?

— Così mi assicura il professor Capek.

— Non gli lasci riprendere il lavoro finché non si sia ristabilito completamente. È un uomo di grande valore… lo sa anche lei, vero? Vale sei volte me e lei messi insieme. Quindi continui a fargli da controfigura e lasci che guarisca. L’Impero ha bisogno di lui.

— Sì, Sire.

— E la pianti con quel "Sire"! Dato che fa finta di essere lui, mi chiami "Guglielmo", come fa Bonforte. Lo sa come ho fatto a mangiare la foglia?

— No, Sì… No, Guglielmo.

— Sono vent’anni che mi chiama Guglielmo. Mi sembrava decisamente strano che d’improvviso smettesse di farlo in privato solo perché mi faceva visita per affari di Stato. Ma non avevo ancora sospetti. Tuttavia, per quanto la sua recitazione fosse perfetta, la cosa mi ha portato a pensare. Quando poi siamo andati a vedere i trenini, ho capito.

— Mi scusi, ma come?

— Lei era troppo educato, santo Iddio! Ho costretto molte volte Bonforte a vedere i treni, in passato, e lui mi ha sempre reso la pariglia, invariabilmente, dicendomi con la massima sgarbatezza possibile che erano giocattoli da bambini, che avrei dovuto vergognarmi di sciupare il mio tempo così. Era una piccola scenetta che ripetevamo sempre, e ce la godevamo un mondo tutt’e due.

— Oh, non lo sapevo.

— E come poteva saperlo?

Io invece pensavo che avrei dovuto saperlo. Quel maledetto Farley avrebbe dovuto illuminarmi… Solo più tardi mi resi conto che lo schedario non ne aveva colpa, proprio per il concetto su cui si basava; il suo scopo era permettere a un uomo famoso di ricordare particolari che riguardavano le persone meno famose. E l’imperatore non lo era affatto… meno famoso, voglio dire.

Era ovvio che Bonforte non avesse bisogno di appunti per ricordare i particolari personali di Guglielmo! Né avrebbe giudicato corretto scrivere appunti sulla vita privata del sovrano in uno schedario che andava in mano ai suoi impiegati.

Mi ero lasciato sfuggire una cosa ovvia… e non so proprio come avrei potuto evitarlo, anche se avessi pensato che lo schedario poteva essere incompleto.

Intanto l’imperatore continuava a parlare. — Lei ha fatto un magnifico lavoro… E dopo aver messo a repentaglio la vita in un nido marziano, non mi stupisce affatto che se la sia sentita di venire qui a imbrogliare anche me. Mi dica un po’, l’ho mai vista in stereo, o da qualche altra parte?

Gli avevo dato il mio nome vero, naturalmente, quando me l’aveva chiesto prima; ora, timidamente, gli dissi il mio nome d’arte. Lui mi guardò, allargò le braccia, e si mise a ridere. La cosa mi ferì un poco. — Ehm, ha già sentito parlare di me?

— Se ho già sentito parlare di lei? Sono uno dei suoi ammiratori più accesi. — Si avvicinò e mi osservò in volto con attenzione. — Eppure lei assomiglia sempre a Joseph Bonforte. Non riesco a credere che lei sia "Il Grande Lorenzo".

— Eppure lo sono.

— Oh, ci credo, ci credo. Si ricorda di quella scena in cui lei fa il vagabondo? Prima tenta inutilmente di mungere una vacca, poi finisce a mangiare nel piatto del micio. Ma anche il gatto la scaccia.

Feci un cenno del capo.

— Ho quasi consumato il nastro a furia di guardarlo. Rido e piango contemporaneamente.

— Lo scopo è quello. — Esitai un attimo, ma poi ammisi di avere copiato il mio personaggio campagnolo "Willie lo Stanco" da un grandissimo artista di un secolo precedente. — Ma preferisco le parti drammatiche — aggiunsi.

— Come questa?

— Be’… non esattamente. Per una parte come questa, una volta è sufficiente. Non mi piacerebbe doverla tenere in cartellone per troppo tempo.

— Ne sono convinto anch’io. Be’, dica a Roger Clifton… No, non dica niente a Clifton. Lorenzo, non mi sembra che ci sia nulla da guadagnare riferendo a chicchessia quanto ci siamo detti nell’ultima parte del colloquio. Se lei lo dicesse a Clifton, anche aggiungendo che io stesso ho detto di non preoccuparsi, lui si mangerebbe il fegato comunque. E ha il suo lavoro da fare. Quindi, d’accordo: acqua in bocca, eh?

— Come il mio imperatore desidera.

— Lasci perdere, per favore. Staremo zitti perché è meglio star zitti. Mi spiace di non poter andare a trovare il mio caro amico Joseph al capezzale. Non che servirebbe a nulla, anche se una volta si attribuivano poteri miracolosi al Tocco Regale. Quindi, zitti, e fingiamo che io abbia abboccato.

— Sì… Guglielmo.

— Adesso sarà meglio che lei se ne vada. L’ho trattenuta fin troppo.

— Come lei vuole.

— Faccio venire Pateel perché l’accompagni… o crede di riuscire a trovare la strada da solo? Ma, aspetti un attimo… — Si mise a frugare tra le carte dello scrittoio, borbottando tra sé: — Quella ragazza ha di nuovo spostato tutto per mettere ordine. Perché mi rubano sempre le cose…? No, eccolo. — Mi porse un libriccino. — Siccome è molto improbabile che ci rivediamo ancora… le spiacerebbe darmi il suo autografo, prima d’andarsene?

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