A sera appena iniziata, dunque, svolto il lavoro del giorno e assolte le responsabilità ippocratiche, per Shadrach Mordecai è Karakorum: il campo giochi di questa stanca classe dirigente mondiale. Nikki Crowfoot sarà sua compagna di gioco.
La passa a prendere tre ore dopo l’operazione al laboratorio del Progetto Avatar, al settimo livello della Gran Torre del Khan. Non è niente di meno che uno zoo questo, tra le pareti verdi ci sono gabbie con animali da ogni parte, animali folli, falchi che fanno chicchirichì e gorilla che si arrampicano per gli alberi, e quantità colossali di apparecchiatura per esperimenti là dove le gabbie lasciano dello spazio. L’aria quaggiù ha un cattivo odore da laboratorio, una puzza che Mordecai ricorda bene dai suoi giorni alla Harvard Med, un misto di Lysol e formaldeide e alcol etilico e merda di topo e fumi di bruciatori Bunsen e isolante bruciacchiato e quant’altro. La maggior parte del personale del Progetto Avatar se n’è andata al termine della giornata lavorativa, ma Crowfoot, in camice grigio da laboratorio e sandali consumati, è occupata a una pila alta cinque metri di computer e testine di lettura e schermi televisivi nel momento in cui lui entra. Lei è in piedi con le spalle alla porta, intenta a osservare esplosioni pirotecniche di verde, blu e rosso scatenarsi e contorcersi selvaggiamente sul volto di un oscilloscopio gigantesco. Shadrach le scivola vicino e da dietro, infilate le mani sotto le braccia di lei, le dispone a coppa sui seni coperti dal camice. Il dorso le si irrigidisce al primo tocco delle dita di lui, poi lei si rilassa immediatamente e non si volta.
— Idiota — dice, ma c’è solo affetto nella sua voce. — Non distraimi. Ho programmato una simulazione triplice. Quello laggiù è un nastro del Gengis Mao autentico, in verde, e quello blu subito sopra è il nostro costrutto-personalità del sette aprile, e…
— Dimentica tutto. Gengis Mao è morto sotto i ferri quando gli abbiamo estratto il fegato. La rivoluzione è cominciata un’ora fa. La città…
Lei si agita nell’abbraccio di Mordecai, si volta di scatto, lo fissa con gli occhi spalancati, attonita.
— …è in fiamme, e se ascolti bene arriva fin qui il rumore delle statue che stanno facendo saltare…
Lei vede l’espressione sulla faccia di Shadrach, e comincia a ridere. — Idiota! Idiota!
— In realtà sta benissimo, anche se Warhaftig ha messo il nuovo fegato alla rovescia.
— Basta così, Shadrach.
— Va bene. È in ottima forma, seriamente. Gli sono bastati dieci minuti per rimettersi, e ora sta dirigendo una sessione di quadriglia alla mongola nel Vettore di Comitato Uno.
— Shadrach…
— Non posso farci niente. Sono nella mia fase maniacale postoperatoria.
— Be’, io no. È stata una giornata disastrosa qui. — In effetti la sua depressione è evidente, non appena lui si calma quel tanto da rendersene conto: gli occhi di Nikki sono tirati, il volto teso, le spalle insolitamente afflosciate.
— I vostri esperimenti sono falliti?
— Ce li siamo bruciati completamente. Uno degli apparecchi è entrato in feedback e si sono cancellati tre nastri importantissimi prima ancora che noi ci rendessimo conto di cosa stava succedendo. Sto cercando di salvare il salvabile. Ci siamo ritrovati indietro di un mese, un mese e mezzo.
— Povera Nikki. C’è qualcosa che posso fare per essere di aiuto?
— Portami fuori di qui e basta — risponde lei. — Fammi divertire. Fammi distrarre. Fa’ delle facce buffe. Com’è andata l’operazione, seriamente?
— Impeccabile. Warhaftig è un mago. Sarebbe capace di trapiantare un nucleo in un’ameba, e poi toglierlo usando solo i pollici.
— Il grand’uomo riposa tranquillo?
— È una bellezza — dice Mordecai. — Sfiora l’osceno, come un uomo di ottantasette anni esca saltellando da operazioni come questa ogni cinque-sei settimane.
— Ha ottantasette anni, allora?
Shadrach scrolla le spalle. — Quella è la cifra ufficiale. Secondo alcune storie che circolano è ancora più vecchio, forse molto più vecchio, novanta, novantacinque, anche oltre i cento, si dice. Stando a certe voci, avrebbe fatto la Seconda guerra mondiale. Ciò di cui stiamo parlando naturalmente sono il cervello, l’integumento epidermico, la struttura scheletrica. Il resto di lui è stato messo insieme in tempi relativamente recenti, usando pezzi di ricambio sani. Un polmone qui, un rene lì, arterie di dacron, articolazioni coxo-femorali in ceramica, un esofago di plastica, una spalla in cromo-molibdeno, un fegato nuovo ogni tot anni… come faccia tutto questo a stare insieme e funzionare non lo so. So che lui diventa sempre più giovane, sempre più forte, sempre più astuto. Dovresti sentire i suoi segnali vitali, il ticchettio qui dentro.
Sorridendo, Nikki Crowfoot appoggia le mani sulle cosce di Shadrach come per tastare i sensori. — Mmm… sì. È una meraviglia per la sua età. In questo momento sta fornicando con un’infermiera. Aspetta. Aspetta. Sta per venire! No, è uno starnuto. E ora ricevo il segnale audio. Gesundheit, ha detto lei. Com’è la vita sessuale di Gengis Mao, a proposito?
— Cerco di non fare domande.
— Non ti dice già tutto il tuo macchinario interno?
— Honi soit qui mal y pense — dice Mordecai. — Senza dubbio ha una vita sessuale splendida. Probabilmente più attiva della mia.
— Nessuno ti ha obbligato a dormire da solo stanotte.
— La mia vocazione me l’ha chiesto — Fa un gesto in direzione della porta. — Karakorum?
— Karakorum, sì. Ma prima mi devo lavare e cambiare.
Vanno all’appartamento di lei, quaranta piani più su nell’edificio. Tutti i membri importanti del personale di Gengis Mao hanno alloggiamenti nella torre; ma la direttrice di un gruppo di ricerca ha molto meno prestigio del medico personale del Presidente, e la suite di Crowfoot non è niente di paragonabile a quella di Mordecai: solo tre stanze, arredamento senza pretese, pavimento di legno qualunque, niente balcone, vista limitata. Shadrach si distende in una comoda poltrona di gomma-schiuma mentre Nikki si spoglia e si dirige verso la doccia. Il suo corpo nudo è stupendo, e alla vista dei grandi seni e dei capezzoli scuri, delle cosce vigorose, del ventre piatto e sodo, il desiderio si agita in lui. Lei è alta e magra, con spalle robuste, una vita stretta, i fianchi che si allargano improvvisamente, il sedere liscio e muscoloso; una densa cascata di capelli neri scende fino a metà della schiena. Svestita, si è liberata di quella sua aura da laboratorio, lo sguardo teso e affaticato della scienziata delusa, e diventa qualcosa di primitivo, barbarico, primordiale: Pocahontas, Sacajawea, Nokomis partorita dalla luna. Una volta che erano a letto insieme Shadrach aveva fatto simili frenetici paragoni e l’aveva imbarazzata, lei sulla difensiva si era presa gioco di lui chiamandolo Otello, Ras Tafari, Chaka Zulu; lui non ha più fatto commenti così apertamente romantici sulle origini selvagge di Nikki, perché non gli piace essere provocato a proposito delle proprie, ma resta la sensazione, ogni volta che lei gli mostra il corpo denudato, che lei sia la principessa di una nazione scomparsa, alta sacerdotessa delle grandi pianure, rossa amazzone della notte pagana.
Quando riemerge indossa un vestito che tocca il pavimento, merletto dorato traforato in modo apertamente provocante, l’antitesi del suo camice asessuato. Si intravedono i capezzoli color cioccolato, le ombre nere, quasi blu, del triangolo pubico, i fianchi, le cosce. Shadrach si infilerebbe volentieri in un letto con lei in questo stesso momento, ma sa che è stanca e ha fame, ancora preoccupata per gli insuccessi della giornata, tutt’altro che in vena di fare l’amore; non ancora; e in ogni caso a lei non piacciono gli accoppiamenti pomeridiani, preferisce lasciare che la tensione erotica si accumuli nel corso di una serata. Si accontenta di un bacio giocoso e leggero e di un sorriso ammirato, ed eccoli fuori, diretti alle profondità della torre, alla rampa di partenza del treno sotterraneo per Karakorum.
Karakorum si trova quattrocento chilometri a ovest di Ulan Bator. Cinque anni fa un mezzo sotterraneo a energia nucleare ha scavato un ampio tunnel che collega le due città passando sotto il Gobi Centrale; l’escavatore a sollecitazione termica si è fatto largo senza sforzo attraverso il resistente strato profondo di graniti e scisti del Paleozoico. Ora treni ad alta velocità, su silenziosi binari a inerzia-zero, fanno spola tra la vecchia e la nuova capitale coprendo la distanza in meno di un’ora. Shadrach Mordecai e Nikki Crowfoot si uniscono alla folla diretta verso il piacere, alla testa del binario; il prossimo treno partirà tra pochi minuti. Diverse persone li salutano, ma nessuno si avvicina. C’è qualcosa che impressiona e intimidisce in una coppia dall’aspetto davvero imponente, qualcosa che la racchiude dentro a una zona di inavvicinabilità raggelante, e Shadrach sa che lui e Nikki sono imponenti, un uomo nero alto e slanciato e una donna dalla pelle di rame alta e forte, belli di forme e volto, vestiti elegantemente: Otello e Pocahontas che escono la sera in giro per la città. Ma c’è in opera un altro fattore di isolamento, la prossimità professionale del dottor Mordecai rispetto al Khan: questa gente sa che lui, uno tra pochissimi, ha contatto personale con Gengis Mao, e parte dell’aura del Presidente gli si è trasferita addosso, un contagio di soggezione da incutere, Mordecai è trasformato in qualcuno che non è il caso di avvicinare con troppa informalità. Questo a lui non piace, ma non può fare molto al riguardo.
Il treno arriva in stazione. Shadrach e Nikki sono finalmente in partenza per Karakorum.
Karakorum. Fondata ottocento anni fa da Gengis Khan. Trasformata in una capitale maestosa dal figlio di Gengis, Ogodai. Abbandonata una generazione più tardi dal nipote di Gengis, Kublai, che preferì regnare da Cambaluc in Cina. Distrutta da Kublai Khan quando suo fratello minore cercò di farne la base di una rivolta. Ricostruita successivamente, abbandonata di nuovo, lasciata decadere, dimenticata completamente. Il sito riscoperto nel mezzo del ventesimo secolo da archeologi della Repubblica Popolare di Mongolia e dell’Unione Sovietica. E ora ben restaurata per decreto di Gengis II Mao IV Khan, erede autoincoronato di un impero antico e di uno moderno, che desidera ricordare al mondo la grandezza di Gengis I e fargli dimenticare i secoli di sonno profondo del popolo mongolo che hanno seguito il declino dei Khan.
Karakorum di notte emette una luce che non è di questa Terra, un impressionante bagliore lunare. Mordecai e Crowfoot, lasciando la stazione della sotterranea, osservano gli scavi e le rovine della Karakorum antica alla loro sinistra: una solitaria testuggine di pietra in un campo di erba ingiallita, i resti di alcuni muri di mattoni, una colonna crollata. Nelle vicinanze ci sono degli stupa di pietra grigia, monumenti ai lama più santi, eretti nel sedicesimo secolo; in distanza, sullo sfondo delle colline aride, ci sono gli edifici bianchi stuccati della Fattoria di Stato di Karakorum, progetto grandioso della defunta Repubblica Popolare di Mongolia, un’impresa agricola che occupava mezzo milione di ettari di pascolo. Tra gli edifici della fattoria e gli stupa c’è la Karakorum di Gengis Mao, una ricostruzione ardita e un po’ stravagante della città originaria: il grande palazzo fortificato di Ogodai Khan ricostruito, con tutte le sue colonne, dall’immaginazione di architetti moderni; lo splendido osservatorio con le sue torrette puntate come coltelli contro i cieli; le moschee e le chiese, le coloratissime tende in seta dei nobili, le case in mattoni dei mercanti stranieri, più cupe. Tutto è testimonianza della potenza e della magnificenza del Principe dei Principi, versione moderna: Gengis Mao, che, sostiene una leggenda semisoppressa, portava un tempo un più umile nome mongolo, Choijamtse o Ochirbal o Gombojab (il racconto varia a seconda di chi lo narra), ed era un funzionario di poca importanza, un apparatchik del tutto insignificante nella burocrazia della vecchia Repubblica Popolare nei tempi andati del marxismo-leninismo, prima che il mondo si disfacesse e che un nuovo impero mongolo sorgesse sulle sue rovine.
La risorta Karakorum non è però solo uno sterile monumento all’antichità: è, per decreto di Gengis Mao, un parco di divertimenti, un luogo di gozzoviglie e piaceri, una Xanadu del ventunesimo secolo, avvampante di energia frenetica. In queste tende nere e gialle e scarlatte si può mangiare, bere, giocare d’azzardo; le più recenti allucinazioni sono in vendita qui; qui sono in attesa partner sessuali di ogni tipo; coloro che si appassionano ai culti più popolari del momento — il sogno di morte, il transtemporalismo e la carpenteria sono quelli più di moda adesso — hanno la possibilità di celebrare i loro riti a Karakorum. Shadrach è un seguace del culto della carpenteria; Nikki Crowfoot preferisce il transtemporalismo, e anche lui ne ha avuto qualche esperienza, seppur non recentemente. Una volta venne a Karakorum con Katya Lindman, e quella donna fiera e intensa aveva insistito perché Shadrach provasse il sogno di morte con lei, ma lui le aveva opposto un rifiuto, subendone il disprezzo e l’accusa di vigliaccheria per giorni. Non era stato con le parole. Piccole occhiate castranti; improvvisi scatti severi degli occhi furiosi. Sarcastici tremori delle narici eleganti.
Passano davanti al padiglione del sogno di morte adesso, senza darvi più di un’occhiata casuale, mentre Mordecai cerca di cacciare l’immagine del corpo lucido di Katya Lindman dalla mente. Crowfoot dice: — Non è rischioso che tu ti allontani così tanto da Ulan Bator, solo poche ore dopo che lui ha avuto un’operazione così importante?
— Non particolarmente. A dire il vero, esco sempre la sera dopo un trapianto. Un piccolo premio che mi do da solo, dopo una dura giornata di lavoro. Se mai, è un momento migliore di qualunque altro per andare a Karakorum.
— Perché?
— È affidato a un sistema speciale di sostegno medico stanotte. Se c’è una qualunque complicazione, si mettono a suonare allarmi dappertutto e uno dei medici più giovani reagirà istantaneamente. Dopotutto il mio lavoro non mi richiede di tenere il capo per mano ventiquattr’ore su ventiquattro. Non ce n’è bisogno, e non lo vuole lui.
Nel cielo sopra di loro, dei fuochi artificiali esplodono senza preavviso. Ruote color oro e cremisi, lance che si inseguono attraverso la notte. Shadrach immagina di vedere il volto di Gengis Mao riempire il cielo, ma no, no, è semplicemente un disegno astratto. Semplicemente.
— Se si verifica un’emergenza ti chiameranno, non è così? — chiede Nikki.
— Non ne avranno bisogno — le risponde Mordecai. Dal padiglione del sogno di morte esce una strana musica dissonante, cornamuse distorte. Gli viene in mente Katya Lindman che aveva cantato in svedese una canzone appassionata, un’ora prima dell’alba in una notte nevosa, e un brivido lo attraversa. Si accarezza la coscia là dove si trova uno degli impianti chirurgici e dice: — Ricevo una trasmissione completa, ti ricordi?
— Perfino quaggiù?
Lui annuisce. — Il raggio della teletrasmissione è di circa mille chilometri. In questo stesso momento la ricevo molto chiaramente. Sta riposando comodamente, sonnecchiando, a occhio; temperatura circa un grado sopra il normale, il polso appena appena veloce, il nuovo fegato si sta integrando tranquillamente e apporta già cambiamenti positivi nello stato metabolico generale. Se qualcosa iniziasse a deteriorarsi lo saprei immediatamente, e se necessario posso sempre tornare da lui in novanta minuti circa. Nel frattempo sono coperto, e sono libero di divertirmi.
— Sempre al corrente del suo stato di salute.
— Sì. Sempre. Anche quando dormo, le informazioni sono là, che ticchettano dentro di me.
— I tuoi sensori mi affascinano dal punto di vista filosofico — dice lei. Si fermano a dissetarsi al chiosco di un venditore di dolciumi. Il venditore, un mongolo tozzo, il naso largo, offre loro dell’airag, l’antica bevanda mongola fatta di latte di giumenta fermentato, e scrollando le spalle Mordecai prende una borraccia per Nikki e una per sé. Lei fa una faccia strana, ma beve, e dice: — Voglio dire, considerando te e il Presidente in termini strettamente cibernetici, è difficile vedere dove finisca la tua individualità e dove inizi la sua. Tu e lui siete una singola unità di trattamento dell’informazione, praticamente un singolo sistema vitale.
— Io non la vedo precisamente così — dice Mordecai. — Ci sarà anche un flusso costante di informazioni metaboliche dal suo corpo al mio, e le informazioni che ricevo da lui hanno un certo impatto sul corso delle mie azioni e in ultima istanza, suppongo, sul corso delle sue; ma rimane un essere autonomo, il Presidente del CRP, nientemeno, con tutto il potere tremendo che questo comporta, e io sono solo…
— No. Considera la cosa con un approccio che consideri il sistema globale — lo invita impaziente Crowfoot. — Diciamo che tu sei Michelangelo, e stai cercando di trasformare un enorme blocco di marmo nel David. La figura è all’interno del marmo: tu la devi liberare con martello e scalpello, giusto? Colpisci il blocco; una scheggia di marmo salta via. Lo colpisci di nuovo. Un’altra scheggia. Ancora qualche scheggia e forse comincia a emergere il profilo di un braccio. L’angolo dello scalpello è diverso a ogni colpo che dai, no? E forse anche l’intensità della forza che usi per colpire lo scalpello con un martello è diversa. Modifichi e correggi costantemente i colpi secondo le informazioni che stai ricevendo dalla superficie intagliata del blocco di marmo: la forma che emerge, i punti di scissione della pietra e così via. Ti è chiaro il sistema totale? Il processo della creazione del David non è un processo in cui tu, Michelangelo, agisci semplicemente su un grosso sasso passivo. Il marmo è una forza attiva anch’esso, parte del circuito, in un certo senso parte di quel sistema mentale che è Michelangelo-in-quanto-scultore. Perché…
— Io non…
— Lasciami finire. Lascia che ti delinei tutto il circuito. Un cambiamento nel profilo del marmo viene percepito dal tuo occhio e valutato dal tuo cervello, che trasmette ai muscoli del tuo braccio istruzioni che riguardano la forza e l’angolazione del prossimo colpo, e questo causa un cambiamento nella tua risposta neuromuscolare nel momento in cui sferri il colpo successivo; si produce quindi nel marmo un ulteriore cambiamento, che causa un’ulteriore percezione di cambiamento nell’occhio e un’ulteriore alterazione del programma all’interno del cervello, che porta a un’altra correzione della risposta neuromuscolare per il prossimo colpo, e così via, avanti, avanti in questo circolo fino a che la statua è finita. Il processo di scolpire la statua è un processo di percezione e di reazione al cambiamento, alla differenza di colpo in colpo; e il blocco di marmo è una parte essenziale del sistema globale.
— Non ha chiesto di esserlo — dice Shadrach con dolcezza. — Non sa di essere parte di un sistema.
— Irrilevante. Raffigurati il sistema come un universo chiuso. Il marmo cambia, e i suoi cambiamenti producono cambiamenti all’interno di Michelangelo che portano a ulteriori cambiamenti nel marmo. All’interno dell’universo chiuso di scultore-attrezzi-marmo, è scorretto raffigurarsi Michelangelo come il “sé”, il soggetto, e il marmo come una “cosa”, l’oggetto. Scultore e attrezzi e marmo insieme costituiscono un’unica rete di percorsi causali, un’unica entità di pensiero-azione-cambiamento, un’unica persona, se vogliamo. Ora, tu e Gengis Mao…
— Siamo due persone diverse — insiste Mordecai. — Lo scambio di informazioni non è lo stesso. Se un suo rene cede, io reagisco nel senso che percepisco la disfunzione e la curo e organizzo una sostituzione del rene, ma non mi ammalo io. E se qualcosa non funziona nei miei reni, lui non se ne accorgerà neanche.
Crowfoot scrolla le spalle. — Vero ma irrilevante. Non capisci che il collegamento causale tra voi due è molto più intimo? Tutta la tua routine di ogni giorno è controllata dalle trasmissioni che ricevi da Gengis Mao: dormi da solo oppure dormi con me, a seconda della sua salute, vai a Karakorum oppure stai in attesa a fianco del suo letto, sperimenti ansia somatica se il segnale che proviene da lui indica uno stato critico, hai tutta una costellazione di scelte e di reazioni vitali che sono governate quasi interamente dal suo metabolismo. Sei un’estensione di Gengis Mao. Sarà pure Presidente del CRP, ma sarebbe semplicemente un altro uomo morto nel giro di una settimana se tu non ti accorgessi di qualche sintomo importante o non vi reagissi nel modo adeguato. Tu sei essenziale per la sua sopravvivenza, e lui controlla molti dei tuoi movimenti e delle tue azioni; un sistema, Shadrach, un circuito che vibra armonicamente senza sosta, tu e Gengis Mao, Gengis Mao e te!
Shadrach Mordecai scuote ancora la testa. — L’analogia è buona, ma non abbastanza perfetta da convincermi. Proprio no. Certo, sono equipaggiato con dei congegni diagnostici straordinari, ma non sono poi così speciali; i miei impianti chirurgici mi aiutano a reagire a un’emergenza più velocemente di quanto un medico potrebbe fare con un paziente qualunque, ma questo è tutto. È solo una differenza quantitativa. Puoi definire qualunque unità medico-paziente come un unico sistema autocorrettivo di trattamento dell’informazione, in qualche modo, ma non credo che il collegamento telematico tra me e Gengis Mao crei alcun tipo di differenza significativa in un sistema del genere. Se lui si ammalasse quando mi ammalo io, il ragionamento sarebbe valido, ma…
Nikki Crowfoot tira un sospiro. — Lasciamo perdere, Shadrach. Non vale la pena di fare tutto questo dibattito. Al laboratorio Avatar dobbiamo confrontarci tutto il tempo col principio che l’idea corrente di un “sé” è piuttosto priva di senso, che è necessario pensare in termini di sistemi più grandi di gestione dell’informazione, ma forse sto estendendo il principio a campi in cui non è necessario che si spinga. O forse semplicemente io e te non riusciamo a comunicare molto bene in questo momento. — Chiude gli occhi per qualche istante e stringe i denti come per dare sfogo a una corrente che le pulsa insistente attraverso il cervello. Un altro bombardamento di fuochi artificiali illumina il cielo di vivaci macchie viola e verdi. Una musica selvaggia e aspra, tutta sibili e stridori, attraversa l’aria. Dopo qualche momento Crowfoot si rilassa, sorride, indica la tenda dei transtemporalisti, illuminata di una luce tremolante, a pochi metri da loro. — Abbiamo parlato anche troppo — dice. — Ora un po’ di divertimento.