27 maggio 2012
Una notte piena di incubi. Ragnatele in bocca, radici che mi crescevano dalle dita. Premonizioni di morte. Si sta avvicinando la fine di Gengis Mao? Morboso, morboso. Svegliarsi e non esserci più. Il grande scontro col silenzio. Mi fa male. Svegliarsi e non esserci più. Essersene andati da qualche altra parte. O forse da nessuna parte, il grande buco nero. Più a lungo si vive, più strettamente ci si aggrappa alla vita: vivere diventa un vizio di cui è difficile liberarsi. Come sarebbe vuoto il mondo, se io dovessi lasciarlo. Puf, niente più Gengis Mao. Un vuoto! I venti soffierebbero qui dai quattro angoli della terra, per riempire lo spazio lasciato da me. Tornado. Uragano.
Oh, adoro pensare alla morte.
La morte può essere così istruttiva. La morte può dirti tante cose su come sei veramente. La morte può essere addirittura piacevole, immagino. La morte come esperienza di guarigione, sì, il vecchio corpo martoriato che cede volentieri lo spirito! Per qualcuno, immagino, è l’estasi più grande mai sperimentata.
Io ne sono terrorizzato.
Come morirò, come sarà la mia dipartita? Credo di aver paura degli assassini più di ogni altra cosa. Lasciare il mondo è una cosa, naturale e inevitabile. Esserne cacciati è completamente diverso, un affronto al sé, un insulto all’io. Non sarò capace di tollerare il momento di una simile specie di licenziamento. O la sensazione di transizione, gli attimi che precedono la fine, ritrovarsi faccia a faccia con l’assassino, contemplare l’addio alla vita mentre lui mi si avvicina col suo coltello, con la sua pistola o quel che sarà. Che sia anche una bomba, se dev’essere così. Che sia del veleno a effetto istantaneo versato nella mia zuppa. Ma non ci saranno assassini. Sono protetto troppo efficientemente. L’errore è stato non proteggere Mangu nello stesso modo. Comunque, Mangu non era Gengis Mao: la sua perdita non è stata per lui quello che la mia perdita sarà per me. L’idea di morire mi è completamente estranea. Sono troppo ricco di spirito, occupo uno spazio troppo grande nella coscienza dell’umanità; la mia sottrazione al mondo è più di quanto il mondo possa accettare. Sicuramente è più di quanto possa accettare io. Ma perché tutta questa morbosità? Strano, considerando come mi sento bene. Una tremenda carica di vitalità da quando ho fatto il trapianto dell’aorta. Le operazioni mi danno forza. Dovrei farmi fare qualche lavoretto agli organi tutte le settimane. Cambiare reni il primo di ogni mese, mettere una milza nuova il quindici. Sì. Nel frattempo, sano come sono, la morte non rinuncia a fare giochini con la mia anima mentre dormo. Credo che sia un divertimento, un passatempo delizioso, giocare con delle fantasie di morte. Abbiamo bisogno di una certa tensione nella vita, per trovare sollievo da quella insopportabile sensazione di direzione dell’esistenza. Quello scorrere degli eventi, ogni giorno segue il giorno precedente, alba, mezzogiorno, tramonto, buio, può essere una sensazione opprimente, paralizzante. E allora? La delizia di soffermarsi a immaginare la fine di ogni sensazione, vale a dire, la fine di tutte le cose. C’è gioia nel pensare a ciò che è lugubre. Specialmente, ma non solo, quando riguarda altri. C’è un termine tedesco, Schadenfreude, la gioia della tristezza, il piacere che si trae contemplando le sventure altrui. Questo secolo sfortunato è stato l’età dell’oro della Schadenfreude. Abbiamo conosciuto l’estasi della vita alla fine di un’era, tutti insieme siamo stati testimoni di tanti momenti beati di declino e rovina. Il bombardamento delle cattedrali nel 1914, le truppe inglesi sterminate nel fango, i massacri sovietici, il primo grande disastro economico, la guerra che l’ha seguito, Auschwitz, Hiroshima, il tempo degli assassinii, la caduta dei governi, la Guerra Virale, la decomposizione organica; così tante cose su cui versare lacrime, anche se naturalmente erano sempre gli altri a soffrire molto di più, e questo rende le lacrime più dolci. Nove oscuri decenni, e io ho sentito il sapore di ciascuno, e perché non dovrei guadagnare adesso un po’ di distanza interiore, rivoltare il principio, volgerlo all’interno: perché non piangere un po’ sulla morte di Gengis Mao? C’è più piacere nel lutto che nella morte. Gusterò e piangerò con la fantasia la mia dipartita. Quanto rimpiango la mia scomparsa! Il dolore più profondo per la mia morte è il mio. Adoro queste fantasticherie: mi sento così squisitamente triste per me stesso. Ma sto morendo davvero? Convoco Shadrach. Mi comunica i valori di questa mattina. Tutto normale, tutto sanissimo. Sono un fenomeno. Non me ne andrò dal mondo quest’oggi. Lunga vita al Khan! Diecimila anni al Khan!
Béla Horthy lo rintraccia nel corridoio di uno dei piani bassi della Gran Torre del Khan e dice, fingendo di non guardarlo: — Frank mi dice che intendi restare qui.
— Per il momento — dice Shadrach. — Ho bisogno di pensare.
— Pensare è utile. Sì. Ma perché pensare restandotene a Ulan Bator?
— È qui che vivo.
— Per il momento — dice Horthy. Fa un giro su se stesso e guarda dritto Shadrach, con fare deciso. La vivacità abituale dei suoi occhi da ipertiroideo è velata dalla preoccupazione. Dev’essere uno dei cospiratori anche lui, capisce Shadrach senza scoprirsene terribilmente sorpreso. Horthy gli dice in tono dolce: — Scappa, Shadrach.
— A cosa servirebbe? Mi prenderanno.
— Ne sei sicuro? Buckmaster non l’hanno ancora preso.
— Non hai paura a dire cose del genere? Potrebbero esserci…
— Rilevatori nei muri?
— Sì.
— Rilevano tutto. Registrano tutto. E allora? Chi è in grado di esaminare tutti i nastri? I Citpol annegano nei dati. Tutti i canali-spia sono inondati da fiumi di cospirazione, per la maggior parte folle e immaginaria. Non ci sono sistemi filtro che possano eliminare il rumore inutile. — Horthy strizza l’occhio. — Vattene. Come ha fatto Buckmaster.
— È inutile.
— Non credo. Ti consiglio la fuga. Ti consiglio caldamente la fuga. Sai, c’è chi riesce a pensare meglio mentre sta fuggendo.
Horthy sorride. Stringe la mano di Shadrach per un attimo.
Mentre Horthy se ne va, Shadrach gli grida dietro: — Ehi! Ci sei dentro anche tu?
— Dentro a che? — chiede Horthy, e ride.
28 maggio 2012
Altri sogni cupi. Sono andato in piazza Sukhe Bator e ho scoperto che mi avevano eretto una statua nel centro dello spiazzo, un colosso, alto almeno cento metri, fatto di bronzo, con una patina verde che si stava già sviluppando. Le mie braccia aperte in un gesto di benedizione. La mia faccia aveva un aspetto spaventoso: rugosa, cavernosa, orrenda, la faccia di un uomo vecchio cinquecento anni. E la statua non aveva le gambe. Finiva a mezza coscia, Gengis Mao su dei moncherini, ma la statua fluttuava a mezz’aria, come se le gambe ci fossero state una volta ma fossero state troncate via e la statua fosse rimasta all’altezza originaria. Un vecchio stava spazzando via dei fiori appassiti, e gli ho detto: “Gengis Mao è morto?”, e lui ha detto: “Morto e sparito, hanno rimandato i pezzi a Dalan-Dzadagad, e a mai più rivederci”. I pezzi. Hanno rimandato indietro i pezzi. Questo non mi piace. Ho la morte un po’ troppo in testa in questi giorni. Il gioco ha perso di sapore. Devo fare qualcosa.
Dopo colazione, ho deciso di fare un’ispezione ai laboratori dei progetti. Quando ti preoccupa la morte, fa’ un salto a trovare quelli che ti vogliono aiutare a vivere in eterno.
Idea saggia. Mi sono sentito meglio immediatamente. La prima visita di persona da mesi. Dovrei andare più spesso.
Ho visitato Fenice per primo, con a capo Sarafrazi, timida, occhi meravigliosi, un bel volto. Una paura folle di me. Mi ha mostrato le sue scimmie, le sue cisterne di sostanze chimiche, i suoi cervelli in salamoia nei recipienti di vetro. Mi ha fatto previsioni ottimistiche, con quella voce tesa, profonda. Mi farà tornare giovane, dice. Io non ne sono tanto sicuro, ma le ho detto di andare avanti così. Paralizzata dalla paura, era. Ho pensato che stesse per inginocchiarsi davanti a me quando ho fatto per andarmene.
Da lì sono andato a Talos. Sono arrivato senza avvertire, ma la tipa, Lindman, è rimasta lo stesso fredda come il ghiaccio. Secondo i rapporti, è la nuova amante di Shadrach. Non riesco a capire cosa ci trovi lui. C’è qualcosa che non mi piace nella bocca di quella donna, le rovina la faccia. Sembra la bocca di un roditore feroce. Nel suo laboratorio ha un Gengis Mao di plastica, molto grande, al di sotto della vita è tutto incompiuto, solo un’intelaiatura, niente gambe. Niente gambe. La Statua Commemorativa di Gengis Mao. “Finisca le gambe”, le ho detto. Mi ha rivolto uno sguardo strano. Mi ha detto che le gambe erano il tocco finale, e che ora era più importante portare a termine l’ingegneria interna. È decisa, non accetta commenti futili, neanche da me. Neanche dal Presidente del Comitato Rivoluzionario Permanente. Io, Gengis II Mao IV Khan, ordino… no. Il robot di Lindman sa strizzare l’occhio, sa sorridere, sa salutare con la mano. Con me c’era Gonchigdorge, che ha detto: “Due gocce d’acqua, signore, una somiglianza notevole”, ma io non sono d’accordo. Ingegnoso, ma meccanico. Non mi piacerebbe che fosse il mio successore. Non farò interrompere il Progetto Talos, non ora perlomeno, ma non credo che riuscirà a produrre ciò che mi serve. Poi sono passato al laboratorio di Nikki Crowfoot, Avatar. Ah! Sì! Una bella donna, anche se in questi giorni è tesa, depressa, chiusa in se stessa. Si sentirà in colpa per Shadrach, immagino. E fa bene. Ma rimane una leale servitrice del Khan. È un pregio questo? “Quando sarete pronti per il trasferimento?”, le ho chiesto. Ha detto: “È questione di mesi, ormai”. A questa notizia ho sentito una tale scarica di eccitazione che Shadrach mi ha telefonato da sopra per sentire se stavo bene. Gli ho detto di farsi gli affari suoi. Ma sono io gli affari suoi. In ogni caso, Avatar mi dà speranza. Presto indosserò della carne nuova, sana. Prima che sia caduta la prima neve quest’anno, parlerò al mondo con le labbra di Shadrach, respirerò con i polmoni di Shadrach.
Entrando senza avvertire nel laboratorio del Progetto Avatar, a metà pomeriggio, Shadrach si trova di fronte Manfred Eis, l’assistente capo di Nikki Crowfoot, che emerge da un intrico di macchine e gli marcia incontro deciso come Thor sui sentiero di guerra: si arresta con uno scatto, e pare trattenersi a stento dal battere i tacchi.
— Siamo molto occupati in questo momento — annuncia Eis, trasformando quell’informazione in una sfida.
— Ne sono lieto.
— Lei è venuto per…?
— Una normale visita d’ispezione — risponde Shadrach in tono amabile. — Per vedere come si procede. È da un po’ che non vengo.
Effettivamente sono passate settimane dall’ultima volta in cui è entrato nel laboratorio di Avatar, poco prima della morte di Mangu, e normalmente il suo ritmo di lavoro lo portava a visitare ciascuno dei progetti almeno una volta al mese. Ma ora Eis non si sforza di farlo sentire benvenuto. Nei momenti migliori è un uomo dalle maniere formali, privo di senso dell’umorismo, un teutone da caricatura, rigido, mascella squadrata e spalle squadrate, molto nordico; gli occhi azzurri ghiacciati, denti perlacei, capelli biondi lunghi, gli manca solo la cicatrice del duello. Shadrach è abituato alla freddezza ariana del dottor Eis; ma oggi nei suoi modi c’è qualcosa di nuovo, una sorta di ostilità gratuita, un fare quasi paternalistico, un vago disprezzo, e Shadrach ne è turbato perché sospetta che abbia a che fare col suo improvviso coinvolgimento personale nelle sorti del Progetto Avatar.
Eis è contento che sia stato scelto Shadrach. Eis è gratificato. Eis pensa che sia assolutamente appropriato che sia toccata a Shadrach. È così. Forse è stato proprio Eis a suggerire a Gengis Mao l’idea di scegliere Shadrach. No, no, un tirapiedi come Eis non avrebbe mai potuto arrivare a parlare al Presidente; comunque, Eis deve aver gioito, sembra che gioisca ancora adesso. Shadrach non ama quello sguardo soddisfatto. Si chiede se non sia possibile trovare qualche utilizzo sperimentale appropriato per il nobile corpo nordico di Eis.
Nonostante tutto, formalmente è Shadrach che comanda qui, ed Eis deve cedere. Per quanto indaffarato sia il personale del laboratorio, Shadrach potrà fare la sua ispezione. E qui sono davvero tutti indaffarati, frenetici: sono in corso esperimenti di ogni sorta con animali di ogni sorta, mentre dei tecnici spostano macchinari da una stanza all’altra sudando e imprecando, e uomini e donne in camici da laboratorio si aggirano con occhi stravolti, brandendo tabulati. Un vero circo, assolutamente comico e maniacale, degli scienziati pazzi al lavoro, disperatamente intenti a far quadrare il cerchio entro la scadenza prefissata.
Shadrach si sente a disagio quando riflette sul fatto che è lui il cerchio che devono far quadrare. È lui il pollo, il babbione, la vittima, è suo il corpo che alla fine tutto questo macchinario si inghiottirà, e il tono maniacale delle operazioni attuali di Avatar è esclusivamente il risultato della necessità di riconvertire tutto, velocemente, dai parametri-Mangu ai parametri-Shadrach. Probabilmente qui ci sono almeno una decina di persone che conoscono il suo corpo, i ritmi delle sue onde cerebrali, i suoi circuiti neurali e i suoi livelli di serotonina meglio di come li conosca lui stesso. Molto probabilmente, da giorni lo tengono segretamente sotto attento esame. (Ruberanno unghie tagliate? ciocche di capelli?). Shadrach si chiede quanti dei tecnici del laboratorio siano a conoscenza del cambiamento di ospite. Si immagina che lo sappiano tutti, che lo adocchino segretamente affascinati mentre gli passano vicino, correndo avanti e indietro; che lo squadrino, che confrontino lo Shadrach Mordecai concreto e autentico con i grovigli di pulsazioni astratte e sintetiche di simulazione-Mordecai con cui stanno lavorando. Ma forse no. A quanto pare la prima volta erano in pochi, al Progetto Avatar, a sapere che Mangu sarebbe stato il donatore del corpo, e con ogni probabilità l’identità del sostituto di Mangu è stata rivelata a un numero ancora più ridotto di persone.
Nikki, in ogni caso, non pare presa dalla frenesia generale. Chiamata da Eis, saluta Shadrach in modo assolutamente privo di emozioni. Il Progetto, gli dice, sta facendo progressi regolari. Lo sguardo è fermo, la voce centrata e composta. “Progressi”, in questo laboratorio, può solo significare il processo quotidiano del portare Shadrach più vicino alla sua distruzione, e lei è certamente consapevole del fatto che Shadrach attribuirà questo significato alle sue parole; ma pare che abbia deciso di smettere di sentirsi in colpa, o di essere evasiva. Hanno già avuto il loro incontro, i conti sono stati regolati: lei ha ammesso di essere stata disposta a tradire il proprio amante a vantaggio di Gengis Mao; ora la vita continua, duri quanto deve durare, e lei ha un compito da svolgere. Tutto questo passa tra di loro nello spazio di novanta secondi, e niente è comunicato ricorrendo alle parole, bastano il tono della voce e l’espressione degli occhi. Shadrach si sente sollevato. Non gli piace che la gente si senta in colpa a causa sua; lo fa sentire in colpa a sua volta, in qualche modo oscuro.
— Dovrei dare un’occhiata ai macchinali — dice.
— Vieni.
Nikki lo porta in un giro guidato. Gli mostra lo zoo degli animali reincarnati, gli ultimi trionfi della trasmigrazione elettronica: questo è un cane con l’anima di un procione, che intinge diligentemente la sua cena in una ciotola d’acqua; questa è un’aquila che nel cranio ospita un costrutto codificato di pavone, che la spinge a marciare orgogliosa, a lisciarsi continuamente le penne col becco, a spalancare le ali; qui hanno insinuato l’essenziale ovinità di una pecora in una giovane leonessa, che se ne sta placidamente sdraiata a masticare foraggio, a probabile danno del suo sistema digestivo. Tutte queste bestie rinate hanno uno sguardo intrappolato, confuso, come se un insaziabile parassita le stesse rodendo dal di dentro, e Shadrach chiede a Nikki se questa sarà anche una caratteristica degli avatar umani, se non c’è il rischio che l’anima sfrattata del donatore rimanga come un miasma a complicare la vita di chi l’ha soppiantata.
— Pensiamo di no — dice Nikki. — Non dimenticare che tutti gli animali che ti ho mostrato hanno sperimentato un trapianto effettuato attraverso linee di specie, anzi attraverso linee di genere. Un pavone non potrà mai trovarsi a suo agio nel corpo di un’aquila, e così una pecora nel corpo di un leone. Alla fine l’animale capisce come far funzionare il suo nuovo corpo, ma tenderà sempre a tornare ai vecchi schemi riflessi.
— E allora perché darvi da fare con dei passaggi transgenerici? Che senso ha, a parte mostrare quanto siete bravi?
— Ha senso perché le disparità tra l’entità impiantata e l’ospite sono così evidenti che possiamo avere all’istante la conferma del successo di un trapianto. Se mettiamo la mente di uno spaniel nel corpo di un altro spaniel, se mettiamo uno scimpanzé in uno scimpanzé, una capra in una capra, come facciamo a sapere se abbiamo ottenuto qualcosa? La capra non ce lo può dire. Lo spaniel non ce lo può dire.
Shadrach aggrotta la fronte. — Ma sicuramente gli schemi delle onde elettriche del cervello di uno spaniel sono diversi da quelli di un altro, e questo si verifica velocemente. Se gli schemi delle onde cerebrali non sono unici per ciascun individuo, qual è il senso di tutto il vostro progetto?
— Certo che gli schemi sono unici — dice Crowfoot. — Ma abbiamo bisogno di una conferma a livello di comportamento visibile. Abbiamo fatto delle codifiche e dei trapianti intraspecie, ne abbiamo fatti molti, ma le differenze comportamentali dopo l’impianto sono troppo sottili per dimostrare qualcosa di significativo: perché noi mettiamo uno scimpanzé dentro a un altro, per fare un esempio, e per quel che ne sappiamo i cambiamenti rilevabili nelle onde cerebrali potrebbero anche essere semplicemente il risultato del fatto che abbiamo trafficato qua e là un po’ troppo. Mentre se digitalizziamo una pecora e la sistemiamo in una leonessa, e la leonessa a quel punto si trasforma in un animale da pascolo, abbiamo una conferma molto spettacolare del fatto che abbiamo ottenuto qualcosa. Giusto?
— Ma naturalmente sarebbe molto più spettacolare se le menti che trasferite fossero delle menti umane. E sarebbe molto più facile confermare che il trasferimento è stato effettivamente realizzato.
— Naturalmente.
— Solo che non avete fatto niente del genere.
— Non ancora — dice Nikki. — La prossima settimana, credo, tenteremo il primo trapianto umano.
Shadrach si sente attraversare da un lieve brivido. Finora è riuscito a mantenere un’impersonalità ammirevole durante questo giro, ha partecipato alla conversazione come se il suo interesse in Avatar fosse puramente professionale; ma non è così facile sfuggire all’idea delle conseguenze ultime di tutte queste diligenti ricerche scientifiche, ora che lui e Crowfoot hanno cominciato a parlare di spostare menti umane da un corpo all’altro. Shadrach non riesce a ignorare lo scopo finale di Avatar, la trasmigrazione della tigre nella gazzella: Gengis Mao è la tigre, e lui la gazzella inerme. Che ne sarà della gazzella, dopo che la tigre avrà portato a termine l’invasione? Shadrach prende brevemente in esame una via d’uscita che non aveva considerato in precedenza: se possono spostare la mente-pecora nel corpo-leonessa e la mente-Gengis Mao nel corpo-Shadrach, potranno altrettanto agevolmente spostare la mente-Shadrach in qualche altro corpo, e lasciarlo vivere in quella nuova sistemazione. Ma la fantasticheria svanisce nell’istante stesso in cui viene alla luce. Shadrach non vuole vivere in un altro corpo. Vuole tenersi il suo. È così simile a un sogno tutto questo, pensa. Tranne che non mi basterà svegliarmi per uscirne.
— Quanto tempo durerà la fase di sperimentazione con trapianti umani — chiede Shadrach — prima che sia tutto pronto per… per…
— Il trapianto del Presidente?
— Sì.
Con un’alzata di spalle, Nikki dice: — È una domanda difficile. Dipende dai problemi che incontreremo nei primi trapianti umani. Se ci sono problemi di adattamento psicologico di difficoltà imprevista, se il trapianto porta a reazioni psicotiche o a crolli cerebrali o a conflitti con residui di identità o cose del genere, potrebbe diventare questione di mesi, magari di anni, prima che ci arrischiamo a trasferire Gengis Mao in un corpo nuovo. I nostri esperimenti sugli animali non suggeriscono che problemi simili debbano insorgere; ma la mente umana è più complessa della mente degli spaniel, e dobbiamo tenere conto della possibilità che menti complesse reagiscano in modo complicato a una cosa traumatica come un trasferimento tra corpi. Quindi procederemo con cautela. A meno che, naturalmente, la morte imminente del corpo di Gengis Mao non renda necessario un trapianto della mente d’emergenza, nel qual caso suppongo che dovremmo semplicemente buttarci e stare a vedere cosa succede. Non è una prospettiva allettante, naturalmente.
— Naturalmente — fa eco Shadrach, secco.
— Preferiremmo di gran lunga procedere con ordine in queste cose. Un periodo di sperimentazione con soggetti umani e poi, se tutto è andato liscio fino a quel punto, vorremmo fare due o tre trapianti preliminari di Gengis Mao prima di…
— Cosa?
— Sì. Inserire il costrutto-Gengis Mao in diversi corpi-ospite provvisori, semplicemente per scoprire come reagisce al trapianto il Presidente, che adattamenti potrebbero essere necessari per…
— E cosa farete di tutti questi Gengis Mao che vi avanzano? — chiede Shadrach. — È una ridondanza suggestiva, è vero, tenerne in giro una riserva. Ma se cominciano a dare ordini tutti insieme potremmo…
— Oh, no — dice Crowfoot. — Non intendiamo fare in modo che il materiale Gengis Mao rimanga all’interno dei soggetti sperimentali. Quel tipo di ridondanza non è assolutamente gradita. Elimineremmo tutti i soggetti dopo aver concluso gli esperimenti. Effettueremmo una cancellazione completa della mente dopo la conclusione dei test.
— Oh. Sì. Sempre che il soggetto ve lo permetta.
— Cosa intendi dire?
— Non dimenticartelo, una volta fatto il trapianto non ti troverai davanti a un lacché inerme. Ti troverai davanti a Gengis Mao con un nuovo corpo addosso. Ti troverai a scontrarti con lo spirito dominante di quest’epoca storica. Potresti avere dei problemi.
— Ne dubito — dice Nikki allegra. — Prenderemo le nostre precauzioni. Seguimi.
Nikki lo porta con sé, fino al pannello di un grande computer, una parete di metallo grigioverde costellato di apparecchiature indefinibili. Qui dentro, gli dice, abbiamo immagazzinato l’essenza codificata di Gengis Mao, tutto quel che è stato registrato finora, un costrutto-personalità che è in grado di rispondere a uno stimolo precisamente allo stesso modo del Gengis Mao vivente, con un’approssimazione al settimo o all’ottavo decimale. Nikki si offre di dimostrare l’identità tra il costrutto e il Gengis Mao originale con qualche rapida prova di simulazione, ma Shadrach, improvvisamente scoraggiato, sta perdendo interesse; lei lo porta a vedere qualcun’altra delle meraviglie di Avatar, senza suscitare in lui maggiori entusiasmi, e infine, come se si stesse finalmente accorgendo che Shadrach ha smesso di fingere di essere deliziato da simili miracoli tecnologici, lo invita ad accompagnarla nel suo studio privato e chiude la porta a chiave.
Sono in piedi l’uno davanti all’altra, a neanche un metro di distanza, e Shadrach prova improvvisamente una eccitazione che lo sorprende, fisica, intensa. L’intensità lo lascia sbigottito. Pensava che il desiderio di lei l’avesse abbandonato per sempre, una volta scoperto come lei l’aveva tradito. Invece no. Ancora lì, vivo come prima. Il richiamo di quel corpo bronzeo e levigato, il ricordo del suo profumo, la luce di quegli immensi occhi scuri, perforanti. La sua principessa indiana, Pocahontas, Sacajawea. Perfino adesso ne è attirato, perfino adesso. Non vede più l’ingegnosa donna di scienza, il cui ingegno l’ha portato alla distruzione completa; vede solo la donna, bella, appassionata, irresistibile. Sente l’attrazione del suo corpo, ed è sicuro che lei sente lo stesso per il corpo di lui.
Non dovrebbe sorprenderlo tanto. Eccoli qui, uomo e donna; sono stati amanti per tanti mesi; sono soli, la porta è chiusa. Perché non dovrebbe essere assalito dal desiderio, nonostante tutto? Eppure, questo improvviso cambio di marcia, questo passaggio alla sfera erotica lo sconcerta. In un certo senso il sesso, che si impone inatteso su questo sfondo di tradimento, depressione, imminente condanna, pare irrilevante e fuori luogo, bizzarro e sgradito.
Finge di non provare niente. Non si muove di un centimetro.
— Come te la cavi, Shadrach? — gli chiede lei in tono tenero dopo qualche momento. — Stai molto male?
— Tengo duro.
— Hai paura?
— Un po’. Più rabbia che paura, credo.
— Mi odii?
— Non odio nessuno. Non sono una persona che odia.
— Io ti amo ancora, lo sai.
— Falla finita, Nikki.
— È così. Mi sta distruggendo, da settimane.
La forza della preoccupazione di Crowfoot per lui è una presenza quasi tangibile all’interno del piccolo studio.
— Non voglio sentire queste cose — dice Shadrach.
— Tu mi odii.
— No. Ma non mi interessa il tuo rimorso.
— O il mio amore?
— Quello che è.
— Quello che è.
— Non so — dice lui. — Non voglio più casino in testa di quanto non ce ne sia già.
— Cosa farai, Shadrach?
— Cosa intendi dire, cosa farò?
— Non intenderai rimanere a Ulan Bator.
— Mi stanno dicendo tutti di scappare.
— Sì.
— Non servirebbe a niente.
— Potresti salvarti — gli dice Crowfoot.
Shadrach scuote la testa. — Non ci riuscirei mai. Ci sono microspie in tutto il pianeta, Nikki. Guarda il Vettore di Sorveglianza Uno per un quarto d’ora e te ne renderai conto. Ma lo sai già. Mi hai detto anche tu che la fuga è impossibile. Chiunque può essere rintracciato istantaneamente. E poi, se sparissi il tuo progetto si troverebbe di nuovo bloccato.
— Oh, Shadrach!
— Voglio dire, sono l’uomo chiave, giusto?
— Non dire idiozie.
— Dovresti di nuovo metterti a cercare un altro ospite per Gengis Mao. Poi dovresti ricalibrare, tutto da capo un’altra volta. Dovresti…
— Basta. Ti prego.
— Va bene. In ogni caso, è sciocco cercare di sfuggire al Khan.
— Non ci proverai neanche?
— Non ci proverò neanche.
Crowfoot lo guarda senza mostrare emozioni per un lungo momento di silenzio. Poi dice: — Suppongo che dovrei sentirmi sollevata.
— Perché?
— Se non ti assumi la responsabilità di metterti in salvo io non devo assumermi la responsabilità di… di…
— Di quello che mi succederà se rimango qui?
— Sì.
— È così. Non devi proprio sentirti in colpa. Ho ricevuto un preavviso a termini di legge, e nonostante ciò scelgo liberamente di rimanere e beccarmi lo spettacolo. Sei assolta, Nikki. Non hai mio sangue sulle tue mani. Lavato via.
— Stai facendo del sarcasmo, Shadrach?
— Non particolarmente.
— Non riesco mai a capire quando stai facendo del sarcasmo.
— Non questa volta — dice lui.
Ancora una volta, si fissano in modo strano. Shadrach avverte ancora quella misteriosa tensione sessuale, quella lussuria grottesca e fuori luogo. Ha il sospetto che se le si avvicinasse e la trascinasse sulla moquette che copre il pavimento, tra la scrivania e i cassetti di metallo, potrebbe averla qui, ora, nel suo stesso studio, un’ultima scopata folle e frenetica. Poi pensa a Eis e ai suoi colleghi che se ne trottano di qua e di là dall’altra parte della porta chiusa a chiave, presi dai loro computer e dai loro scimpanzé, tutti intenti a simulare trasferimenti della personalità di Gengis Mao nel guscio vuoto del corpo di Shadrach Mordecai, e il suo ardore si raffredda un po’. Ma solo un po’.
Nikki ride.
— C’è qualcosa di particolarmente divertente? — chiede Shadrach.
— Ti ricordi — dice lei — quella volta che abbiamo parlato del concetto di te e Gengis Mao come un solo sistema vitale, una sola unità autocorrettiva di trattamento delle informazioni? Era prima che tutto questo succedesse. Mangu era ancora vivo, credo. Io avevo parlato di come lo scalpello e il martello e la pietra siano degli aspetti dello scultore, o più precisamente di come lo scultore e i suoi attrezzi e materiali insieme formino una singola entità di pensiero e azione, una singola persona, e di come tu e Gengis Mao…
— Sì. Mi ricordo.
— E ora sarà ancor più vero, no? Nel senso più letterale. Mi sembra un’ironia spaventosa. Il tuo sistema nervoso e il suo, accoppiati, collegati, indistinguibili. Quando ne avevamo parlato quella volta, tu avevi detto che no, non era un’analogia corretta, che Gengis Mao poteva mandarti dati ma tu non potevi mandarne a lui, e che quindi c’era una limitazione nel flusso di informazioni, un limite ben distinto. Tutto questo cambierà, adesso. Tra voi due, sarà impossibile dire dove finisce uno e dove comincia l’altro. Ma già quella volta, cercavo di dirti che non afferravi davvero l’idea; che il marmo non è in grado di creare una scultura, ma rimane parte del sistema globale di produzione della scultura, e che tu non potevi immettere dati in Gengis Mao ma rimanevi parte del sistema globale Gengis Mao; c’è un’interazione, c’è una relazione di feedback che lega te a lui e lui a te, c’è… — Sta parlando molto rapida, un torrente di parole. Ora si ferma e in un tono di voce completamente diverso dice: — Oh, Shadrach, perché non vuoi nasconderti?
— Te l’ho già detto. È inutile. Continuo a dirlo a tutti, ma sembra che non mi vogliate credere.
Pensa a se stesso come parte del sistema globale Gengis Mao. Soppesa le analogie. Non c’è alcun dubbio, i suoi sensori e impianti chirurgici lo legano al Khan in maniera molto particolare. Ma lui non è più importante (né meno importante) per il sistema globale Gengis Mao di quanto il blocco di marmo di Michelangelo non fosse importante per il sistema globale di produzione di quella scultura. Se avesse pensato che un dato blocco di marmo non era più necessario ai fini del sistema globale, Michelangelo l’avrebbe scartato senza pensarci su troppo e ne avrebbe introdotto un altro nel sistema.
Nikki trema.
— Se non vuoi cercare di metterti in salvo — dice — nessun altro può fare niente per te.
Quando lui e Gengis Mao si troveranno a dividersi un unico corpo, saranno davvero un’unità integrata di trattamento delle informazioni. Naturalmente, un’unità del genere ha bisogno di un solo biocomputer, di un solo cervello, una sola mente, un solo sé. E quel sé non sarà quello di Shadrach Mordecai.
Dice: — Lo so. Ne abbiamo già parlato. Mi prendo tutta la responsabilità.
— Non ti importa?
— Forse no. Non più. Non lo so.
— Shadrach…
Fa per avvicinarglisi, una specie di gesto accennato, forse erotico, forse semplicemente un gesto riflesso, come di qualcuno che si protende ad afferrare un uomo che sta annegando. Shadrach si ritrae. C’è un muro tra di loro, una barriera impermeabile di parole e paure e dubbi ed esitazioni e sensi di colpa. A lui questo non pesa. Si rifugia dietro a quel muro. Ma c’è sempre quell’attrazione sessuale tra di loro, quella linea rovente di tensione erotica, e si protende attraverso la barriera, la trafora, la erode, la spezza. E la barriera è scomparsa. Lui ama Nikki, la odia, la vuole, la detesta. Accenna un gesto di avvicinamento a lei, poi si arresta. Sono come due adolescenti, assurdamente insicuri, stupidamente presi da una sequenza di finte, false partenze, ritirate nervose. Sorride teso. Lei lo imita. È evidente che lei è altrettanto consapevole di lui delle sottili variazioni d’equilibrio che stanno avendo luogo rapidamente dentro di loro e tra di loro. È come se fossero due viaggiatori a bordo di un transatlantico in lotta con delle acque turbolente e tempestose, e sono intrappolati insieme in una piccola cabina, con un portellone stagno che scorre avanti e indietro senza controllo, sventola attraverso il pavimento a ogni convulsione delle onde, si scontra con le pareti mentre loro due saltano via, minaccia di schiacciarli se non riescono a sfuggirgli quando è diretto verso di loro. C’è qualcosa di comico, innegabilmente, nella loro situazione, ma il pericolo è anche un pericolo reale, e tutt’altro che divertente. Per quanto tempo ancora potranno resistere? Il portellone è così pesante, il mare così agitato, la cabina così piccola, e loro stanno per esaurire le forze…
E improvvisamente si uniscono, si abbracciano, si stringono, la bocca cerca la bocca, le dita sprofondano con furia nella carne. Shadrach è terrificato dall’intensità della forza cieca, irrazionale che si è scatenata dentro di lui, che lui stesso ha lasciato scatenare dentro di sé. — No — mormora, e nello stesso momento afferra i vestiti di Nikki, sente la pienezza dei suoi seni sotto il camice asessuato. — No — articola lei, e sembra altrettanto atterrita. Ma nessuno dei due resiste. Incespicano ridicoli, ondeggiano, volano a terra. Sulla moquette, tra la scrivania e i cassetti di metallo.
Nessuno dei due si sveste. Giù la cerniera, su la gonna; non è un tenero atto d’amore questo, non è neanche un’esibizione di ginnastica erotica, è un accoppiamento selvaggio, puro e semplice, una sovrapposizione disperata e rozza della carne. Le mani di Shadrach scivolano giù lungo le colonne lisce e sode delle cosce di lei, le dita vi trovano la fessura segreta e la esplorano, è già calda e umida, e Nikki geme e si preme contro di lui, e rapidamente, ciecamente, lui si proietta dentro di lei. A terra c’è a malapena lo spazio per muoversi; lei con uno scatto protende le gambe in su, i piedi che puntano verso il soffitto, e lui tende le mani al di sotto, ad afferrarle le natiche, e come un ariete si scatena dentro di lei con un vigore folle. Quasi all’istante, o così gli sembra, Nikki viene, tremando e ridendo in un modo che a Shadrach non è familiare; momenti dopo tocca a lui, violenti spasmi galvanici gli strappano un grido teso e selvaggio. Poco elegantemente, si abbandona immediatamente sul petto di lei, esausto, e Nikki lo tiene stretto, con una pazienza amorevole e incrollabile, come se fosse disposta a tenerlo così per ore, per settimane; ma dopo due o tre minuti Shadrach si sottrae all’abbraccio, intontito, stordito, come incapace di credere che tutto questo sia successo davvero.
Si guardano. Shadrach sbatte gli occhi; Nikki fa lo stesso. Ci sono dei lievi sorrisi imbarazzati.
Lui si alza, con un movimento incerto. Nikki è lì, sdraiata, le gambe si sono abbassate ora ma sono ancora spalancate, la gonna stropicciata tirata su attorno ai fianchi, la faccia è madida di sudore, gli occhi iniettati di sangue, velati. Shadrach distoglie lo sguardo da quel corpo con uno strano senso di fastidio: non prova esattamente repulsione alla vista di quella nudità, ma in qualche modo sente che non vuole guardare. Forse ha paura del potere che quella cavità pelosa e umida esercita su di lui, il primordiale baratro femminile, irresistibile, avvolgente. A ogni modo, si aggiusta i vestiti, tossisce imbarazzato, si china per aiutare Nikki a rialzarsi. Lei ignora la mano protesa e si alza da sola, e ora sono in piedi l’uno di fronte all’altra. Shadrach non ha niente da dire. È un momento difficile, ma Nikki trae in salvo tutti e due prendendogli la mano, sorridendogli calda e amorevole, tirandolo a sé per un rapido, casto bacio: le labbra sfiorano le labbra, è un bacio che allo stesso tempo riconosce l’intensità di quel che è appena successo e vi cala sopra un sipario. È tempo che Shadrach vada.
— Mettiti in salvo — gli sussurra Nikki. — Nessun altro può farlo per te.
— Devo pensare ancora un po’ ad alcune cose.
— Va’, allora. Pensa. Ti amo, Shadrach.
Lui sa come dovrebbe rispondere a questo, ma sono parole impossibili. Invece di parlare, le stringe le dita. E se ne va, rapidamente.