Passa più di una settimana prima che Shadrach riveda Nikki Crowfoot. Nikki sostiene di essere molto occupata al laboratorio: problemi di ricalibrazione, aggiustamenti compensativi che si sono resi necessari nel sistema di trapianto della personalità dell’Avatar, ora che il donatore non è più Mangu. È troppo stanca quindi, alla fine della giornata, per aver voglia di compagnia. Ma Shadrach sospetta che lei lo stia evitando. Crowfoot è sempre stata tanto più orientata alla vita sociale quanto più il lavoro la soffocava: è il suo modo di evadere dalla pressione. Shadrach non riesce a immaginare che motivo potrebbe avere per volerlo evitare. Sicuramente non è per la notte che ha passato con Katya Lindman. Era già stato a letto con Lindman, e con altre donne; anche Crowfoot ha avuto altri partner; cose del genere non hanno mai avuto importanza tra loro. Shadrach è perplesso. Quando parlano al telefono Nikki è guardinga e distante. È fuor di ogni dubbio che qualcosa sia andato storto nel loro rapporto, ma Shadrach non ha ipotesi su cosa precisamente sia stato.
Una nuova crisi con Gengis Mao lo distrae brevemente da queste faccende. Negli ultimi giorni, il Khan si è alzato regolarmente dal letto per lavorare in studio, per visitare il Vettore di Sorveglianza Uno, per dirigere le attività del Comitato dalla stanza del quartier generale. La sua convalescenza procedeva così liscia che non pareva esservi motivo di limitare i suoi movimenti. Ma ora gli impianti di percezione del dottor Mordecai ricevono i primi segnali di qualche problema: pulsazioni epigastriche, un debole soffio sistolico, un affaticamento generale della circolazione. Troppa attività, e troppo presto? Shadrach si reca allo studio del Presidente per discutere la questione. Gengis Mao però, ancora preso dai suoi monumenti a Mangu e dalle sue retate di assassini, non ha voglia di conferire col suo medico, non vuole discutere di sintomi. Accantona le domande di Shadrach, dichiarando bruscamente che non si è mai sentito meglio. Poi torna alla sua scrivania. Gli arresti, confida gonfio d’orgoglio a Mordecai, sono ormai arrivati a duecentottantadue. Di queste persone, novantasette sono state dichiarate colpevoli e mandate al vivaio di organi.
— Presto — dice il Khan — i polmoni e i reni e gli intestini di questi criminali serviranno ad allungare la vita di membri leali del governo. Non c’è una giustizia poetica in questo? Tutte le cose sono centripete, Shadrach. Tutti gli estremi opposti vengono riconciliati.
— Duecentottantadue cospiratori? — domanda Shadrach. — Ce ne sono voluti così tanti per spingere un uomo giù da una finestra?
— E chi lo sa? Per il delitto vero e proprio forse non sono stati necessari più di due o tre sicari. Ma dev’essere stata necessaria una grande rete di compiici nella congiura. Hanno dovuto modificare dei congegni di sicurezza, distrarre delle guardie, mettere fuori uso delle videocamere. Riteniamo che potrebbe essere stata necessaria una dozzina di cospiratori semplicemente per far sparire i corpi degli assassini dalla piazza, dopo il salto.
— Per fare cosa?
Gengis Mao si produce in un sorriso condiscendente. — Riteniamo — dice — che gli assassini, dopo aver gettato Mangu dalla finestra, siano saltati deliberatamente dalla stessa finestra per evitare di essere catturati all’interno dell’edificio. Dei complici appostati nella piazza hanno raccolto immediatamente i loro corpi e sono fuggiti portandoseli via, mentre altri ancora provvedevano a cancellare dal terreno ogni segno di quelle morti.
Lo sguardo di Shadrach è fisso nel vuoto. — Signore, Horthy ha visto cadere un solo uomo.
— Horthy non è rimasto nella piazza a osservare gli sviluppi ulteriori.
— Ma in ogni caso…
— Se gli assassini di Mangu non l’hanno seguito per la stessa strada — dice il Khan, gli occhi lucenti della lucentezza della ragione trionfante — cosa ne è stato di loro? Dopo il delitto, nella Torre non si è trovata nessuna persona sospetta. — Shadrach non è in grado di trovare una replica adeguata a tutto questo. Qualunque commento facesse, sospetta, non riuscirebbe a essere costruttivo. Dopo una pausa si schiarisce la gola e riprende: — Signore, se potessimo parlare un attimo della sua salute…
— Gliel’ho detto. Sto benissimo.
— I sintomi che sto cominciando a percepire sono piuttosto preoccupanti, signore.
— Sintomi di cosa? — si informa Gengis Mao.
Shadrach sospetta che il Khan stia sviluppando un aneurisma dell’aorta addominale; un cedimento nella parete del grande condotto che diffonde sangue proveniente dal cuore. Chiede a Gengis Mao se ha avvertito qualche fastidio insolito, e il Presidente confessa, con riluttanza, recenti dolori acuti alla schiena e ai fianchi. Il dottor Mordecai evita di sottolineare come questo contraddica ciò che Gengis Mao diceva a proposito della propria buona salute; ma l’ammissione concede effettivamente una posizione di vantaggio a Shadrach, che ordina al Presidente di tornare a letto a riposare.
Spiando attraverso l’occhio di una sonda in fibra che si estende nell’aorta attraverso un catetere, Shadrach conferma la diagnosi. È stata la recente operazione al fegato, forse, a rilasciare degli emboli nella circolazione sanguigna del Presidente, e uno di questi è riuscito in qualche modo a risalire la corrente nell’arteria, installandosi nell’aorta addominale e causando infezione. O forse non è andata così, ma in ogni caso sta prendendo forma un tumore, e sarà necessaria un’altra operazione. Se si trattasse di chiunque altro, i rischi di un’operazione a così poca distanza dal trapianto di un organo importante potrebbero addirittura superare i rischi del permettere a un aneurisma di espandersi. Ma Shadrach è diventato sorprendentemente rilassato, quanto ad affidare il suo venerabile paziente alle cure del bisturi. Il corpo ben resistente di Gengis Mao è stato aperto così tante volte da accettare ormai le operazioni di chirurgia come il proprio stato naturale. E poi, l’aneurisma non è così distante dal fegato, quindi Warhaftig sarà in grado di farsi strada attraverso l’incisione recente, che sta cominciando a rimarginarsi solo ora.
La notizia infastidisce Gengis Mao. — Non ho tempo per un’operazione adesso — dice irritato. — Stiamo continuando a scoprire nuovi congiurati ogni giorno che passa. Devo concedere a questo problema tutta la mia attenzione. E settimana prossima ci sono i funerali di Stato di Mangu, funerali che intendo presiedere personalmente. Non…
— Il pericolo è critico, signore.
— Mi dice sempre così. Credo che le piaccia dirmelo. Lei è troppo insicuro, Shadrach. Anche se non riuscisse a scoprire una nuova crisi ogni ventina di giorni, la pagherei lo stesso. Lei mi piace, Shadrach.
— Non invento le crisi, signore.
— Lo stesso. Non si può aspettare un mese o due?
— In quel caso dovremmo fare un nuovo taglio nel tessuto rimarginato.
— E allora? Per un taglietto in più…
— A parte quello, i rischi…
— Già — dice Gengis Mao. — I rischi. Che rischi corro lasciando perdere questa storia per un po’?
— Lei sa cos’è un aneurisma, signore?
— Più o meno.
— È un tumore che contiene del sangue, o un grumo di sangue, in diretto contatto con la parete di un’arteria; causa delle modifiche degenerative nei tessuti che lo circondano. Se lo immagini come un palloncino che viene gonfiato gradualmente. Quando i palloncini diventano troppo grandi, esplodono.
— Ah.
— Questo aneurisma potrebbe finire per esplodere: negli intestini, nel peritoneo, nella pleura, o nei tessuti retroperitoneali. Oppure potrebbe causare un’embolia dell’arteria mesenterica superiore, e quindi un infarto intestinale. L’aorta stessa potrebbe esplodere spontaneamente. Ci sono diverse possibilità. Tutte fatali.
— Fatali?
— Invariabilmente. Un dolore lancinante, il decesso normalmente nel giro di minuti.
— Ah — dice Gengis Mao. — Ah. Capisco.
— Potrebbe succedere praticamente in qualunque momento.
— Ah.
— Senza preannunciarsi in alcun modo.
— Capisco.
— Non saremmo assolutamente in grado di far niente una volta che l’aneurisma scoppiasse. Non ci sarebbe modo di salvarla, signore.
— Ah. Capisco. Ah.
Capisce? Sì. Certamente davanti agli occhi da basilisco di Gengis Mao stanno nuotando visioni di aneurismi. Le guance magre e rugose si contraggono in una riflessione assorta; la fronte bronzea si aggrotta, cupa. Il Khan è turbato. Tra i suoi piani per questa mattina non era previsto il confronto con la possibilità della propria estinzione. Ora, ovviamente, sta contemplando la dipartita di Gengis II Mao IV da questo mondo, e l’idea non lo attrae più di quanto non lo attragga normalmente. La Rivoluzione Permanente che ha trasformato il mondo dilaniato richiede un Leader Permanente; sebbene Gengis Mao, riecheggiando parole simili di Mao I, abbia spesso detto che chi partecipa a una rivoluzione raggiunge l’immortalità rivoluzionaria, trascende la morte individuale vivendo indefinitamente nel fermento rivoluzionario permanente che ha aiutato a creare, è chiaro che Gengis Mao preferisce per sé l’altra varietà di immortalità, quella meno metaforica. Il viso torvo, emette un sospiro. Dà il suo assenso a quest’ultima interruzione chirurgica delle sue fatiche rivoluzionarie.
Warhaftig è convocato. Ci sono incontri, conciliaboli; si spostano appuntamenti e scadenze; si spiegano al Khan i dettagli dell’operazione chirurgica. I condotti sanguigni verranno bloccati al di sopra e al di sotto dell’aneurisma, per arrestare temporaneamente la circolazione fintantoché Warhaftig avrà rimosso l’aneurisma e installato una protesi di dacron o teflon.
— No — dice il Khan. — Non una protesi. Potete fare un innesto di tessuto, no? Non ci sono grandi problemi di rigetto con il tessuto arterioso. In fondo è solo un po’ di tubicino flessibile.
Warhaftig dice: — Ma il dacron e il teflon si sono dimostrati assolutamente…
— No. Ho già abbastanza plastica dentro al mio corpo. E le banche di organi straripano di nuovo materiale. Datemi dell’aorta autentica. — Gli occhi di Gengis Mao si illuminano. — Datemi dell’aorta presa da uno dei congiurati appena condannati.
Warhaftig guarda Shadrach Mordecai, che alza le spalle.
— Come desidera — dice il chirurgo.
Poco dopo, Shadrach incontra Katya Lindman per pranzo. Dopo mangiato, passeggiano in piazza Sukhe Bator. Dopo la notte in cui sono stati a Karakorum, Shadrach ha passato con lei più tempo del solito, anche se non hanno più dormito insieme. La trova più dolce ora, meno minacciosa, e non è sicuro se sia cambiato semplicemente il suo atteggiamento verso di lei, oppure lei stessa; essersi svegliato e averla trovata in preda ai singhiozzi potrebbe avere avuto qualcosa a che fare con tutto questo. Certamente lei è diventata calda e amichevole, al punto da fargli sospettare e temere che possa essersi innamorata di lui: ma nell’intimo di Katya rimane qualcosa di riservato, un freno ineluttabile; c’è una zona di silenzio dentro di lei che lo colpisce, gli pare opporsi all’amore. Non ci sono mai stati simili scomparti stagni in Nikki Crowfoot, quando il rapporto con lei andava bene.
Il sole di mezzogiorno splende alto, l’aria è dolce, la giornata calda; fiori dorati brillano nelle vasche di terracotta che adornano la piazza. Katya gli cammina vicino, ma i loro corpi non si sfiorano. Lei è già al corrente della nuova crisi. Le notizie, ogni tipo di notizie, viaggiano a velocità strabiliante su e giù per la Gran Torre del Khan, ma più velocemente di tutte corrono le notizie della salute di Gengis Mao. — Dimmi cos’è un aneurisma — gli chiede. Lui le fornisce una spiegazione elaborata, e descrive l’operazione che verrà eseguita. Sono vicini al punto in cui è caduto Mangu. Quando ha finito di parlare, Shadrach alza lo sguardo e cerca di immaginare due o tre assassini che se ne piovono giù nella scia di Mangu, mentre dei complici appostati da tempo balzano a spazzare via i corpi spiaccicati e fuggono infine portandoseli dietro. Follia, pensa Shadrach. E questa è la teoria accuratamente ponderata, propugnata in tutta serietà dall’uomo che governa il mondo. Follia. Follia.
Dice: — Ci sono stati quasi trecento arresti fino a questo momento. Novantasette persone sono state spedite al vivaio di organi. La settimana scorsa Roger Buckmaster era vivo, sano, padrone della propria sorte come ciascuno di noi. Domani potremmo ritrovarci a usare la sua aorta per rattoppare quella di Gengis Mao. E gli arresti proseguono.
— L’ho sentito dire. La gente di Avogadro ne porta di nuovi giorno e notte. Quando sarà soddisfatto il Khan?
— Quando deciderà che tutti i cospiratori sono stati presi, immagino.
— Cospiratori! — Katya dice sdegnata. Per un momento ritrova la vecchia, temibile intensità. — Che cospiratori? Che cospirazione? Tutta questa storia è folle. Mangu si è ucciso.
— Anche tu credi che sia stato un suicidio, allora?
— Credo? Lo so — dice a voce bassa, distogliendo lo sguardo dalla Gran Torre, come per sfuggire a videocamere che potrebbero leggerle le labbra.
— Stai parlando come se fossi stata lì quando si è buttato.
— Non dire sciocchezze.
— Come puoi sapere che è stato un suicidio, allora?
— Lo so. Lo so.
— Eri lì quando…
— Certo che no — dice Lindman.
— E allora perché sei così sicura di aver ragione?
— Ho buone ragioni. Ragioni sufficienti.
— Sai qualcosa che quelli della Sicurezza non sanno?
— Sì — risponde lei.
— E allora perché non parli, prima che Avogadro arresti tutto il pianeta?
Lei rimane in silenzio un momento. — No — dice infine. — Non posso. Sarei rovinata.
— Non capisco.
— Capiresti, se ti raccontassi tutta la storia. — Lo sguardo di lei tosta studiando. — Se te la raccontassi, te la terresti per te?
— Se è quello che vuoi, sì.
— Sento che devo dirlo a qualcuno. Vorrei dirlo a te. Io mi fido di te, Shadrach. Ma ho paura.
— Se preferisci non…
— No. No. Ti racconterò. Passeggiamo insieme nella piazza. Teniamoci la torre alle spalle.
— Ci sono videocamere dappertutto. Non ha importanza da che parte guardiamo. Ma non possono registrare tutto, immagino.
Si incamminano attraverso la piazza. Lindman solleva il braccio, lo tiene davanti alla faccia come per grattarsi il naso con il verso del polso, e dice, a bocca coperta, a voce smorzata: — Ho visto Mangu la notte prima che si buttasse. Abbiamo parlato del Progetto Avatar. Gli ho detto che sarebbe stato lui il donatore.
— Oh, Cristo. Non l’hai fatto davvero!
Lei annuisce cupa. — Non riuscivo più a tenermelo per me. Era lunedì notte, subito prima del trapianto di fegato di Gengis Mao, giusto? È così. Mangu aveva fatto un discorso quella notte, aveva parlato della distribuzione generalizzata dell’Antidoto. Dopo, siamo andati a bere qualcosa insieme. Aveva paura che Gengis Mao potesse morire durante l’operazione, temeva di trovarsi a prendere le cose in mano troppo presto… “Non sono pronto”, continuava a dire Mangu, “non sono pronto.” Poi abbiamo cominciato a parlare dei tre progetti, e lui ha cominciato a fare ipotesi su Avatar. Si chiedeva quale sarebbe stato il suo ruolo nel governo se avessero trapiantato la mente di Gengis Mao nel corpo di qualcun altro. Si chiedeva se Gengis Mao l’avrebbe sempre voluto come viceré dopo la transizione, cose del genere. Era una cosa così triste, Shadrach, uno schifo, era tremendo il modo in cui continuava a parlarne, cercando di immaginare cosa lo aspettasse, mettendo su ipotesi e scenari di ogni sorta. Alla fine non ce l’ho più fatta e gli ho detto di smetterla di preoccuparsi di questioni del genere, che stava sprecando il suo tempo, che dopo la transizione non sarebbe più stato in giro perché Gengis Mao avrebbe usato il suo corpo.
Shadrach è attonito, dopo questa confessione. Riesce appena a parlare; gli tremano le gambe, il mento è impietrito.
Dice: — Come hai potuto farlo?
— Le parole mi sono uscite dalla bocca. Voglio dire, c’era quest’uomo, quest’uomo segnato, pietoso, che cercava di indovinare il suo futuro, cercava di capire quale sarebbe stato il suo ruolo, e io sapevo che non aveva nessun futuro. Se il Progetto Avatar funzionava. Lo sapevamo tutti, tutti tranne lui. E non sono più riuscita a trattenermi.
— E lui come ha reagito?
— La sua faccia si è praticamente richiusa su se stessa. Gli occhi sono diventati vuoti… morti, completamente spenti. È rimasto fermo, seduto per molto tempo senza dire niente. Poi mi ha chiesto come facevo a saperlo. Gli ho detto che lo sapevamo in molti. Mi ha chiesto se tu lo sapessi e gli ho detto che credevo di sì. Voglio parlare con Nikki Crowfoot, ha detto. È a Karakorum con Shadrach, gli ho detto. Poi mi ha chiesto se pensavo che Avatar sarebbe davvero decollato e io gli ho detto che non lo sapevo, che avevo molta fiducia nel progetto che stavo curando io, e che con un po’ di fortuna Talos avrebbe battuto Avatar sul tempo. È solo questione di tempo, ho detto. Avatar è messo meglio di Talos in questo momento, e se a Gengis Mao succede qualcosa di grave nei prossimi mesi potrebbero trovarsi costretti ad attivare Avatar, perché i sistemi di automazione di Talos richiedono almeno un anno di ulteriore elaborazione e il Progetto Fenice non sta andando da nessuna parte. Lui ci ha pensato su. Ha detto che non gli importava se sarebbe stato il donatore o no alla fine, il fatto era che Gengis Mao gli aveva lasciato credere di essere l’erede designato, mentre invece aveva dato segretamente l’assenso al suo assassinio. Era questo che gli faceva male, ha detto, non l’idea di morire, non l’idea di cedere il suo corpo a Gengis Mao, ma l’essere stato preso in giro, trattato come un sempliciotto. Poi si è alzato, ha detto buonanotte, se ne è uscito. Molto lentamente. Dopo di questo, non so. Immagino che abbia passato tutta la notte a pensarci su. A pensare al modo in cui era stato fregato. L’agnello migliore, ingrassato per il macello. E al mattino si è buttato.
— E al mattino si è buttato — dice Shadrach. — Già. Già. Suona sensato. Ci sono delle verità che è impossibile affrontare.
— Insomma, non ci sono cospiratori. Il complotto esiste solo nella paranoia di Gengis Mao. Quelle trecento persone arrestate sono innocenti. Quanti sono stati mandati al deposto di organi finora? Novantasette? Innocenti. Tutti innocenti. Sono stata qui a vedere che tutto questo succedeva, ma non c’è niente che possa fare. Non posso parlare. Dicono che il Khan si rifiuti di prendere anche solo in considerazione l’ipotesi di un suicidio.
— Sì. Vuole che ci sia stato un complotto — dice Shadrach. — Punire i colpevoli gli piace.
— E se gli dicessi quel che ho appena detto a te, il Khan mi farebbe uccidere.
— Saresti al vivaio di organi prima di domani. Sì. Oppure prenderebbe te come nuova donatrice per Avatar.
— No — dice Katya. — Credo proprio di no.
— Si adatterebbe molto bene alla sua filosofia. Sarebbe molto centripeto, non trovi? La tua lingua troppo sciolta gli costa il corpo di Mangu, quindi tu diventi il sostituto per Mangu. Molto lineare. Molto pulito.
— Non essere sciocco, Shadrach. È inimmaginabile. Lui è un barbaro, giusto? Un mongolo. Crede di essere la reincarnazione di Gengis Khan. Non permetterebbe mai che lo trapiantassero nel corpo di una donna.
— Perché no? Gli antichi khan mongoli non erano sessisti, Katya. Se ricordo bene, i Mongoli si lasciavano guidare da reggenti donne di quando in quando, se la linea maschile dei governanti si interrompeva. Certo, ci sono i problemi di adattamento che si troverebbe ad affrontare, cambiare sesso, tutti i riflessi fisiologici, il milione di cose maschili che dovrebbe disimparare…
— Basta, Shadrach. Non è una possibilità concreta, il Khan che prende il mio corpo.
— Ma è divertente considerare…
— Io non mi diverto. — Si ferma e fa una giravolta per trovarsi a guardarlo in faccia. È pallida, tesa, nervosa. — Cosa possiamo fare? Come possiamo fermare questi arresti mostruosi?
— Non c’è alcun modo. Questa cosa deve andare fino in fondo ed esaurirsi da sola.
— Supponiamo che al Khan arrivi una dritta anonima, che gli dica soltanto che Mangu era venuto a sapere del suo destino, che una persona che rimane senza nome gli aveva rivelato che…
— No. Gengis Mao la ignorerebbe, oppure comincerebbe una serie sterminata e sanguinosa di interrogatori di tutti quelli che potevano sapere qualcosa del piano Avatar.
— Ma se gli arresti non cessano?
Shadrach dice: — Avogadro non ha quasi più indiziati. È praticamente finita.
— E i prigionieri in attesa di giudizio?
Shadrach Mordecai sospira. — Non possiamo aiutarli. Sono perduti. Non si può fare niente, Katya. In un modo o nell’altro, siamo tutti in attesa di giudizio.
Per tutto il pomeriggio lo perseguitano immagini di Mangu, quel povero illuso di Mangu, derubato di tutte le sue illusioni, costretto alla fine ad affrontare la dura realtà. Perché Lindman lo ha messo sull’avviso? Per compassione? Pensava davvero di aiutarlo così, perdio? Pensava che ricevere una notizia del genere avrebbe potuto aiutare Mangu in qualche modo? È possibile che non si sia resa conto di quant’era crudele, quant’era spietato il suo comportamento? No. Doveva sapere che un uomo come Mangu, un allegrone superficiale e poco portato a farsi troppe domande, un uomo che viveva il sogno impossibile della successione alla carica più importante del mondo, convinto di godere della stima, perfino dell’amore, di Gengis Mao, sarebbe crollato completamente se qualcuno avesse strappato via questa impalcatura di sogno.
Doveva saperlo.
Ma certo. Un’ora dopo essersi incontrato con Katya Lindman, Shadrach afferra finalmente lo schema delle cose. Lindman, da brava giocatrice di scacchi, aveva previsto tutte la conseguenze della sua mossa. Dire a Mangu la verità, esprimendo una falsa pietà e fingendo di essere mossa da un impulso irreprimibile alla franchezza. Mangu, per umiliazione, per dolore, paura, magari addirittura per vendetta, chissà, reagisce sottraendo il suo corpo alle mani di Gengis Mao. Niente Mangu, e il Progetto Avatar riceve un colpo impressionante. Nikki, la rivale di Katya, è sconfitta; Avatar, con un balzo all’indietro di alcuni mesi, perde il suo vantaggio sul Progetto Talos di Lindman; Shadrach, già misteriosamente distante da Nikki, si avvicina sempre di più a una Katya che è in ascesa. Ma certo. Certo. E tutto il resto, la pretesa preoccupazione di Katya per le vittime innocenti degli arresti di massa, il dolore espresso da Katya per il povero, patetico Mangu… fa tutto parte del gioco. Shadrach rabbrividisce. Anche nell’ambiente duro e perverso della Gran Torre del Khan, tutto questo gli sembra mostruoso, e Lindman gli appare come una figura funesta e lontana, malvagia a sufficienza da diventare una degna consorte dello stesso Gengis Mao. O, se non una compagna, l’ospite perfetta per la mente deviata e sinistra di quel vecchio orco. Sì! Per un momento Shadrach prende seriamente in considerazione l’opportunità di convincere il Khan a prendere il corpo di Lindman al posto di quello di Mangu: “Una scelta appropriata, signore. Molto centripeta, molto adatta”. Eppure c’è un punto ancora oscuro che lo lascia perplesso: perché Lindman gli ha rivelato tutto questo? Se è un mostro così freddo e calcolatore, non ha calcolato la possibilità che lui prima o ppi la possa vedere per quello che è? Che sia quello il suo scopo ultimo? E perché? Le mille ipotesi lo confondono.
Vorrebbe rivolgersi a Nikki, ma Nikki ha continuato a tenersi ben alla larga, e Shadrach non è neanche riuscito a parlare con lei al telefono negli ultimi due-tre giorni. Le telefona adesso, con il pretesto di un aggiornamento sul procedere del Progetto Avatar, ma sul monitor appare uno degli assistenti di Crowfoot: un certo dottor Eis, di Francoforte. Eis, un teutone classico, occhi celesti e una fluente chioma dorata, si produce in una espressione di… sorpresa? fastidio? disgusto…? alla vista di Shadrach, la fronte gli si aggrotta e un angolo della bocca gli si ritrae, ma si riprende alla svelta e concede a Shadrach un saluto fermo e formale.
Shadrach dice: — Potrei parlare con la dottoressa Crowfoot, per favore?
— Sono desolato. La dottoressa Crowfoot non c’è. Posso esserle ut…
— La trovo questo pomeriggio?
— La dottoressa Crowfoot è fuori tutto il giorno, dottor Mordecai.
— Ho bisogno di mettermi in contatto con lei.
— È nel suo appartamento, dottore. Non sta bene. Ha chiesto di non essere disturbata.
— Malata? Qual è il problema?
— Niente di grave. Febbre, mal di testa. Mi ha chiesto di dirle, se lei avesse chiamato, che stiamo ancora studiando il problema della ricalibrazione, ma che al momento non abbiamo niente da riferire, non…
— Danke, dottor Eis.
— Bitte, dottor Mordecai — replica rapido Eis, mentre Shadrach toglie il collegamento.
Sta per chiamare l’appartamento di Nikki. No. Ne ha avuto abbastanza di evasioni, scuse, procrastinazioni, fughe. È fin troppo facile per lei fare numeri del genere quando Shadrach chiama. Andrà semplicemente da lei e suonerà il campanello, senza aspettare di essere invitato.
Lei lo lascia in attesa davanti alla porta per un bel po’ prima di reagire, anche se sa certamente, grazie al visore, chi c’è fuori. Poi dice: — Cosa vuoi, Shadrach?
— Eis mi ha detto che non stavi bene.
— Non è niente. Un mal di pancia un po’ fastidioso.
— Posso entrare?
— Sto cercando di dormire un po’, Shadrach.
— Non mi tratterrò molto.
— Ma sono in uno stato spaventoso. Preferirei non avere visite.
Shadrach sta per allontanarsi dalla porta ma, pur sapendo che la sua insistenza maniacale non gli porterà niente di buono, non riesce ad accettare di andarsene senza averla vista. Non riesce a trattenersi, e sente la sua stessa voce dire: — Lascia almeno che veda se posso prescriverti qualcosa, Nikki. Io sono un dottore, dopotutto.
Un lungo silenzio. Disperato, prega che nessuno che lo conosce capiti da quelle parti a sorprenderlo: là fuori nel corridoio, come un Romeo in preda alle pene d’amore che supplica di lasciarlo entrare.
La porta, finalmente, si apre.
Lei è a letto, e ha effettivamente l’aspetto malato, la faccia rossa e febbricitante, gli occhi iniettati di sangue. L’aria nella stanza è quella degli ospedali, ferma e viziata. Shadrach si dirige subito ad aprire la finestra; Crowfoot rabbrividisce e gli chiede di non farlo, ma lui la ignora. Quando lei si alza a sedere, Shadrach vede che è nuda, sotto la coperta. — Ti prendo un pigiama, se hai freddo.
— No. Odio mettere il pigiama. Non so se ho freddo o caldo.
— Posso visitarti?
— Non sono tanto malata, Shadrach.
— In ogni caso, sarei più contento se ne fossimo sicuri.
— Pensi che mi si stiano per decomporre gli organi?
— Un controllo non può far male, Nikki. Ci vorrà un istante.
— È un peccato che tu non possa farmi una diagnosi come quelle che fai a Gengis Mao, semplicemente leggendo le macchinette che ti porti dentro. Così non mi infastidiresti proprio.
— No, non posso farlo. Ma faremo in fretta.
— Okay — gli dice lei. Durante questa conversazione, non l’ha guardato negli occhi una sola volta, e questo lo turba. — Va’ avanti. Gioca al dottore con me, se è proprio necessario.
Lui la scopre, e si accorge di sentirsi curiosamente riluttante a esporla in questa maniera, come se la loro recente separazione lo avesse privato dei privilegi tradizionali di un medico. Ma dopotutto lui ha avuto un solo paziente in tutta la sua carriera, essendo andato direttamente al servizio di Gengis Mao appena uscito dalla scuola di Medicina, non avendo fatto altro che ricerca gerontologica fino a quando non è stato chiamato a servire il Khan in qualità di medico personale; non ha mai sviluppato la tradizionale indifferenza dei medici praticanti nei confronti della carne: questa non è una paziente anonima, questa è Nikki Crowfoot, la persona che lui ama, e il suo corpo nudo è qualcosa di più di un oggetto per Shadrach. Dopo qualche istante, però, raggiunge questa impersonalità, trasforma i seni di lei in semplici globi di carne, le cosce in colonne asessuate di pelle e muscoli, e la visita senza turbarsi ulteriormente, le sente il polso, le ausculta il petto, le palpa l’addome, tutte le solite cose. L’autodiagnosi risulta accurata: nessun segno di decomposizione organica, solo un malessere passeggero, un po’ di febbre, niente di importante. Molta acqua, riposo, qualche pastiglia, e tornerà a posto in un giorno o poco più.
— Soddisfatto? — lo deride lei.
— Ti è così difficile accettare il fatto che mi preoccupo per te, Nikki?
— Ti avevo detto che non avevo niente di grave.
— Ero preoccupato lo stesso.
— Allora, visitare me in realtà è stata una terapia per te?
— Immagino di sì — ammette Shadrach.
— E se tu non fossi accorso a fornirmi i benefici delle tue capacità mediche altamente qualificate, a questo punto sarei riuscita a prendere sonno.
— Mi dispiace.
— Non importa, Shadrach.
Nikki si volta, raggomitolandosi infastidita sotto la coperta. Shadrach rimane in piedi davanti al letto, muto; vorrebbe fare mille domande che non possono essere fatte, vorrebbe sapere da dove viene quell’ombra che è caduta tra di loro, perché lei è diventata misteriosamente così distante, così fredda, perché non vuole nemmeno guardarlo negli occhi quando gli parla. Dopo qualche istante, invece, dice: — Come va il Progetto?
— Non hai parlato con Eis? Stiamo ricalibrando. Ci vorrà un po’ prima che siamo pronti per un nuovo donatore. Tutta questa storia è una rottura di palle colossale.
— Di quanto vi ha ritardato, precisamente?
Crowfoot scrolla le spalle. — Un mese, se siamo fortunati. O tre. O sei. Dipende.
— Da cosa?
— Da… da… oh, Cristo! Senti, Shadrach, non ho proprio voglia di parlare di lavoro in questo momento, non sto bene. Capisci cosa vuol dire? Mi fa male la testa. Mi fa male la pancia. Mi brucia la pelle. Voglio riposarmi un po’. Non voglio discutere i miei problemi scientifici del momento.
— Mi dispiace — dice lui ancora una volta.
— Mi lasceresti sola, adesso?
— Sì. Sì. Ti chiamerò domani mattina per sentire se stai meglio, va bene?
Nikki farfuglia qualcosa con la bocca contro il cuscino.
Shadrach fa per incamminarsi. Ma prima di andarsene, fa un ultimo tentativo di raggiungerla. Sulla soglia, dice in tono neutro: — Oh… hai sentito l’ultima voce che circola? Sulla morte di Mangu?
Lei geme, stoica. — Non ho sentito niente. Dimmi. Sentiamo. Cos’è?
Shadrach soppesa le parole, con cura, per non avere la sensazione di rivelare la confidenza che gli ha fatto Katya Lindman: — Si dice che Mangu si sia suicidato perché qualcuno collegato al Progetto Talos gli ha raccontato che sarebbe stato il donatore per Avatar.
Nikki scatta a sedere, gli occhi spalancati, il volto acceso, le guance rosse di concitazione.
— Cosa? Cosa? Non l’avevo sentita!
— È solo una storia che circola.
— Chi sarebbe stato a dirglielo?
— Non lo dicono.
— Proprio Lindman, è così? — chiede Nikki.
— È solo una voce, Nikki. Non fanno il nome di nessuno in particolare. In ogni caso, Katya non farebbe mai qualcosa di così poco professionale.
— No, eh?
— Non credo proprio. Se davvero è successo, è stato probabilmente un assistente ambizioso, un programmatore di terzo grado. Se davvero è successo. Potrebbe non esserci niente di vero.
— Però suona vero — dice lei. Il petto le si gonfia, la pelle è lucida di sudore. — C’erano forse modi migliori per Lindman di sabotare il mio lavoro? Oh, come ho fatto a non pensarci? Come ho fatto a non immaginare…
— Calmati, Nikki. Non stai bene.
— Quando la trovo…
— Per favore — dice Shadrach. — Sta’ giù. Vorrei non aver detto una parola. Lo sai come nascono le voci in questo palazzo, assolutamente dal niente. Decisamente, non credo che Katya possa aver…
— Vedremo — dice lei in tono carico di minaccia. Si calma un po’. — Potresti aver ragione. Comunque. Comunque. La sicurezza avrebbe dovuto essere molto più stretta. Non so quanta gente esattamente sapesse che Mangu doveva essere il donatore, cinque, sei, dieci persone, erano comunque troppe. Decisamente troppe. Con il prossimo donatore… — Crowfoot tossisce. Si volta di nuovo, nascondendosi nel cuscino. — Oh, Shadrach, mi sento così male! Va’ via! Per favore, va’ via! Ora grazie a te sono di nuovo agitata, per un motivo nuovo, e… oh, Shadrach…
— Mi dispiace — dice ancora una volta Shadrach. — Non volevo…
— Ciao, Shadrach.
— Ciao, Nikki.
Fugge dall’appartamento. Si precipita via lungo il corridoio, fermandosi infine contro la ringhiera vicino alle scale. L’afferra stretta, resta fermo per qualche istante. La visita a Nikki ha fatto ben poco per migliorare il suo stato. Il suo atteggiamento verso di lui, si rende conto Shadrach, va dall’indifferente all’infastidito; non una volta ha espresso il minimo piacere per la visita inattesa. Nel migliore dei casi, era tollerato.
E ora, lo sa bene, deve correre da Katya, senza perdere tempo.
Lei appare sorpresa di rivederlo così presto. Lo saluta con calore, aperta, come se stesse automaticamente dando per scontato che è venuto per fare l’amore. Ma Shadrach è lungi dall’avere in testa il sesso in questo momento. Si libera dall’abbraccio di Katya non appena può farlo senza offenderla, e in modo dolce ma fermo stabilisce una distanza psicologica tra di loro. Tratteggiandola rapidamente, senza perifrasi, le riferisce la propria conversazione con Nikki, sottolineando che la “voce” che ha inventato non incolpava in alcun modo Katya stessa della soffiata a Mangu.
— Ma naturalmente Crowfoot ha indovinato immediatamente che ero stata io, no?
— Temo di sì. Io le ho assicurato che era inconcepibile che tu avessi fatto una cosa del genere, ma lei…
— Lei ora sa che sono stata io, e ce l’avrà con me per sempre, e farà tutto quello che può per vendicarsi. Molte grazie.
Calmo, Shadrach dice: — Se è arrabbiata, devi anche capirla. Devi ammettere che c’era un elemento di sabotaggio di Avatar, nella tua confidenza a Mangu.
— Ho parlato a Mangu perché provavo pietà per lui — dice freddamente Lindman.
— L’hai fatto per pietà, nient’altro che per pietà? Non avevi assolutamente considerato che avrebbe potuto reagire in un modo che avrebbe sconvolto il programma Avatar, e che avrebbe creato problemi a Nikki Crowfoot?
Katya tace per qualche secondo.
Infine dice, in un tono più cedevole: — Immagino che anche quello mi sia passato per la mente. Ma era molto secondario. Molto, molto secondario. Il fatto principale è che non sopportavo più di guardare Mangu in faccia, di sentirlo parlare del suo futuro sapendo quel che sapevo. Dovevo metterlo in guardia, o accettare tutta la responsabilità di quel che stava per succedergli. Mi credi, Shadrach? Quanto mi ritieni malvagia? Pensi che la mia vita inizi e finisca con questi folli progetti di Gengis Mao? Credi che le sole motivazioni che operano in me siano motivazioni che hanno a che fare con Talos, come accelerare la mia carriera, come distruggere quella di Nikki Crowfoot? Credi questo?
— Non so. Immagino di no.
— Immagini di no?
— Non credo che tu sia fatta così, no.
— Benissimo. Fantastico. Grazie. E ora cosa succederà? Mi denuncerà a Gengis Mao?
— Non c’è nessuna prova che tu abbia mai detto qualcosa a Mangu — replica Shadrach Mordecai. — Lei lo sa. Sa anche che qualunque accusa dovesse fare contro di te potrà essere attribuita a invidia professionale. A dire il vero, penso che non farà proprio niente. Tranne quello che ha detto: che avrebbe mantenuto una segretezza maggiore attorno all’identità del prossimo donatore per Avatar, così che non ci sarebbe stato il rischio della stessa…
— È troppo tardi — dice Lindman.
— Il prossimo donatore è già stato scelto?
— Sì.
— E tu sai il nome?
— Sì.
— Suppongo che tu preferisca non dirmelo — dice Shadrach.
— Credo che non dovrei.
— Hai intenzione di dirlo a lui?
— Diresti sempre che è un sabotaggio, se lo facessi?
— Dipende dalle circostanze, immagino. Di chi si tratta?
Katya Lindman è scossa da brividi. Le tremano le labbra.
— Sei tu — dice.