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A Pechino, sistemato all’hotel Cento Porte, nel vecchio quartiere diplomatico adiacente al distretto della Città Proibita, là dove avevano un tempo sede la corte di Kublai Khan e quella di Ch’ien Lung, Shadrach ricomincia ad avvertire emanazioni da Gengis Mao. Si trova ancora a milledue, milletrecento chilometri da Ulan Bator, calcola; al di là del raggio di trasmissione ottimale, dunque gli impulsi giungono indistinti e deboli. E poi, dopo queste settimane di separazione non è più così in sintonia con le trasmissioni dal corpo di Gengis Mao. Quando sta seduto fermo, tuttavia, quando volge tutta la sua attenzione al compito, si scopre in grado di leggere i biodati del vecchio conquistatore con una chiarezza sempre maggiore.

Le funzioni generali sono le più chiare, naturalmente: battito cardiaco, pressione sanguigna, respirazione, temperatura corporea. I sistemi principali del Khan sembrano funzionare con l’impeto consueto, al livello abituale di vitalità irrefrenabile. La funzione renale e la funzione epatica registrano valori normali. Dispendio metabolico basale normale. Risposte neuromuscolari normali. Shadrach non smette mai di stupirsi constatando la salute e la forza del vecchio. Prova una sorta di orgoglio per interposta persona per il vigore e l’elasticità eroica di Gengis Mao.

Alcuni misteri inattesi cominciano a presentarsi però quando Shadrach si spinge oltre e comincia a ricevere ed esaminare i dati più precisi, più raffinati. Questi tendono a contraddire alcune delle indicazioni generali. Le risposte di attivazione dei muscoli non sembrano andare tanto bene; la scomposizione dei fosfati parrebbe debole, l’attività enzimatica ridotta. La viscosità del sangue è sotto i livelli normali, e il suo pH tende leggermente all’alcalino. L’assorbimento intestinale è calato di poco, l’accumulo del colesterolo è salito, la traspirazione un attimo al di sopra della norma.

Nessuna di queste cose è causa di allarme vero e proprio in un uomo dell’età del Presidente, recente reduce di tante operazioni chirurgiche importanti: non sarebbe ragionevole aspettarsi di trovarlo in salute perfetta; ma la combinazione di fattori è peculiare. Shadrach si chiede quanto di quel che sta leggendo sia semplicemente un risultato della distanza e dei disturbi sulla linea: per ricevere alcuni di questi segnali si sta sforzando molto, e può darsi che non li stia ricevendo in modo accurato. Eppure, le distorsioni, se di distorsioni si tratta, hanno una notevole coerenza interna. Shadrach ottiene lo stesso valore ogniqualvolta ritorna a uno dei sensori già esaminati.

E un’ipotesi sta prendendo forma.

La diagnosi, a più di mille chilometri di distanza, non è facile. Shadrach vorrebbe essere in grado di ricorrere alla sua biblioteca medica e ai suoi computer. Ha comunque un’idea di quale potrebbe essere il problema, e sa di quali dati ha bisogno per confermare la sua teoria. Quel che non sa è se il sistema di impianti chirurgici di Buckmaster sia abbastanza buono da trasmettere rappresentazioni di fenomeni di scala tanto ridotta superando una distanza del genere.

Se la viscosità del sangue è bassa e il pH è alcalino, i livelli delle proteine nel plasma sono probabilmente inferiori alla norma, e la pressione osmotica, che richiama i liquidi dai tessuti verso i capillari, sarà poco elevata. Se la pressione idrostatica del sangue è normale, come gli dice il modulatore delle funzioni generali, e la pressione osmotica del sangue è ridotta, i tessuti di Gengis Mao potrebbero star accumulando un eccesso di liquidi: niente di grave, niente di pericoloso, non ancora, ma una accumulazione di liquidi potrebbe portare allo sviluppo di edemi, di gonfiori acquosi; e gli edemi possono essere sintomatici di un’insufficienza renale imminente, di un collasso del fegato, magari di uno scompenso del sistema cardiaco. Concentrandosi intensamente, Shadrach perlustra il corpo di Gengis Mao in cerca di segni di liquidi in eccesso. I punti di verifica del sistema linfatico, però, non gli danno altro che livelli normali. I responsi dei sensori pericardico, pleurico e peritoneale sono positivi. La funzione renale e quella epatica continuano a non costituire un problema. Pare che tutto funzioni in modo soddisfacente. Shadrach sta per abbandonare la sua ipotesi. Forse il Khan non è in difficoltà. Quelle rare indicazioni negative erano probabilmente solo disturbi sulla linea, e quindi…

Ma poi, Shadrach si accorge che c’è qualcosa che non va tanto bene nel cranio di Gengis Mao. La pressione endocranica è stranamente elevata.

I rilevatori impiantati nella testa del Presidente non sono pervasivi come altrove. Gengis Mao non ha nel suo passato ictus né altri problemi cerebrovascolari, e i chirurghi non hanno mai avuto motivo di invadere il cranio imperiale. Dato che la maggior parte dei dispositivi telemetrici nel corpo di Gengis Mao è stata installata nel corso di interventi chirurgici correttivi di routine, Shadrach si deve arrangiare con una conoscenza relativamente frammentaria dello stato del cervello del Presidente. C’è però un sensore che gli comunica dati sulla pressione endocranica e, facendo un controllo a tappeto del corpo di Gengis Mao, l’aumento di quella pressione attira l’attenzione di Shadrach. È là che si sta verificando l’accumulo di liquidi?

Lottando, sforzandosi per ottenere dati, Shadrach richiama tutte le informazioni collaterali che riesce ad afferrare. Pressione osmotica dei capillari cranici? Bassa. Pressione idrostatica? Normale. Distensione meningea? Alta. Stato dei ventricoli cerebrali? Congesti. Qualcosa non va, qualcosa di molto marginale, nel sistema di drenaggio del fluido cerebrospinale dall’interno del cranio di Gengis Mao allo spazio subaracnoide, in prossimità della parete cranica, là dove normalmente il fluido passa nel sangue.

Ciò che questo significa, al momento, è che Gengis Mao ha probabilmente dei brutti mal di testa da alcuni giorni; che ne avrà di peggiori se Shadrach Mordecai non ritorna a Ulan Bator all’istante; e che potrebbe subire complicazioni cerebrali, forse fatali, se non si intraprende un’azione correttiva al più presto. Significa anche che la vacanza di Shadrach è arrivata alla conclusione. Non farà il giro turistico di Pechino. Non visiterà la Città Proibita, il museo storico, le tombe Ming, la Grande Muraglia, il tempio di Confucio, il Palazzo della Cultura dei Lavoratori. Queste cose non hanno importanza per lui in questo momento: questo è il momento che ha aspettato a lungo nei suoi vagabondaggi di continente in continente. Quel sistema instabile che è Gengis II Mao IV Khan ha iniziato, in assenza del medico devoto, a deteriorarsi. L’indispensabilità di Shadrach è stata resa manifesta. C’è bisogno di lui. Deve andare dal suo paziente senza indugio. Deve intraprendere le azioni del caso. Deve sottostare ai suoi doveri ippocratici.

E poi, deve pensare alla sua personale sopravvivenza.


Shadrach discende nella hall dell’hotel per farsi fissare un posto sul primo volo per Ulan Bator. Ce n’è uno la sera stessa, lo informano, in partenza tra due ore e mezzo. Shadrach lascia la stanza che aveva appena preso. L’impiegato dell’albergo, un giovane cinese dall’aspetto sparuto che è incapace di nascondere l’incanto che suscita in lui il colore della pelle di Shadrach, lo fissa con delle occhiate di sottecchi semiclandestine, mentre fa qualche commento sulla brevità del soggiorno pechinese del suo ospite.

— Un cambiamento di piani — dichiara Shadrach con decisione. — Impegni urgenti. Devo tornare immediatamente.

Shadrach lancia un’occhiata attraverso la hall; è un salone profumato, illuminato debolmente, non dissimile dal vestibolo di un enorme ristorante cinese, ingombro di paraventi di mogano, di urne di porcellana e di enormi vasi laccati posti su piedistalli di palissandro. E, laggiù, tra due facchini che gli stanno ai fianchi, torreggia la figura imponente e sgraziata di Avogadro. Gli occhi dei due uomini si incontrano e Avogadro sorride, fa un cenno di saluto con la testa, agita una mano. È arrivato all’hotel in questo momento, a quanto pare. Shadrach è tutt’altro che sorpreso di incontrare qui il capo della Sicurezza. Era inevitabile, riflette, che Avogadro si facesse vivo per condurre a termine l’arresto personalmente.

Nessuno dei due fa commenti sulla coincidenza della loro presenza in questa località esotica. Avogadro chiede in tono amabile: — Come sono andati i suoi viaggi, dottore?

— Ho visto tante cose, in giro per il mondo. Estremamente interessante.

— È la parola più adatta che le viene in mente? Interessante? Non impressionante, illuminante, trascendentale?

— Interessante — ripete Shadrach in tono sicuro. — Un viaggio molto interessante. E come se la cava Gengis Mao in mia assenza?

— Non c’è male.

— È circondato da gente in gamba. A lui piace pensare che io sia indispensabile, ma il personale sostitutivo è più che in grado di gestire la maggior parte delle situazioni che possono presentarsi.

— È probabile.

— Ha avuto qualche mal di testa però, vero?

Avogadro sembra leggermente stupito. — Lo dice perché lo sa già, è così?

— Qui mi trovo appena al limite del raggio di teletrasmissione.

— E riesce a rilevare i suoi mal di testa?

— Riesco a ricevere i segnali relativi a certi fattori causali — dice Shadrach — e a dedurre un mal di testa a partire da quelli.

— Quel sistema è geniale. Lei e il Khan siete praticamente una persona sola, non è così? Collegati come siete. Qualcosa gli duole, e lei lo sente.

— L’ha espresso bene — dice Shadrach. — A dire il vero, era stata Nikki la prima a farmi quel discorso. Io e Gengis Mao siamo una sola persona, già, una singola unità di trattamento delle informazioni. Paragonabili allo scultore, al marmo e allo scalpello.

L’analogia non sembra impressionare Avogadro. Continua a sorridere, quel sorriso fisso e risolutamente affabile che non gli è andato via dalle labbra dal primo momento in cui si sono incontrati nella hall.

— Ma non abbastanza unita — prosegue Shadrach. — Il sistema potrebbe essere connesso in maniera ancora più stretta. Ho intenzione di parlare con gli ingegneri perché mettano a punto certe modifiche, quando sarò a Ulan Bator.

— Che succederà quando?

— Stanotte — gli dice Shadrach. — Ho un posto sul primo volo in partenza.

Le sopracciglia di Avogadro si inarcano. — Veramente? Ottimo. Mi risparmia il fastidio di…

— Chiedermi di tornare?

— Sì.

— Avevo il sospetto che lei potesse avere in mente qualcosa del genere.

— Il fatto è che Gengis Mao sente la sua mancanza. Mi ha mandato qui a parlare con lei.

— Naturalmente.

— A chiederle di tornare.

— L’ha mandata a chiedermelo. Non a portarmi a Ulan Bator, ma a chiedermelo. A chiedermi se mi andava di tornare. Liberamente.

— Sì. A chiederglielo.

Shadrach pensa ai Citpol che lo tallonano in ogni angolo del pianeta, ai Citpol che si accalcano, confabulano, passano bollettini ai loro colleghi in città lontane. Sa, ed è sicuro che Avogadro sa che lui sa, che la situazione reale non è rilassata come Avogadro vorrebbe fargli credere. Comprando quel biglietto per il volo della sera, ha risparmiato ad Avogadro l’imbarazzo di doverlo arrestare e portare a Ulan Bator con le cattive. Si augura che Avogadro gliene sia debitamente grato.

Chiede: — Sono forti i mal di testa del Khan?

— Piuttosto forti, mi dicono.

— Lei non l’ha visto?

Avogadro scuote la testa. — Solo sentito al telefono. Aveva l’aria tesa. Stanca.

— Quanto tempo fa?

— Due notti fa. Ma è dall’inizio della settimana che nella torre si parla dei mal di testa del Presidente.

— Capisco — dice Shadrach. — Mi aspettavo qualcosa del genere. È per questo che ho deciso di tornare a casa in anticipo. — Posa gli occhi su quelli di Avogadro. — Di questo lei si rende conto, non è vero? Che ho comprato il mio biglietto di ritorno non appena mi sono accorto che il Khan non stava bene? Perché faceva parte della mia responsabilità di fronte al mio paziente. La mia responsabilità di fronte al mio paziente è sempre il fattore decisivo che dirige le mie azioni. Sempre. Sempre. Lei questo lo sa, vero?

— Naturalmente — dice Avogadro.


23 giugno 2012

E se morissi prima di aver portato a termine la mia opera? Tutt’altro che una domanda oziosa. Io sono importante per la storia. Sono uno dei grandi uomini che hanno tenuto insieme la società. Toglietemi dalla scena nel 1995, nel 1998, anche più avanti, nel 2001, e tutto diventa caos. Sono per questa società quel che Augusto è stato per il mondo romano, quel che Ch’in Shih Huang Ti è stato per la Cina. Che razza di mondo esisterebbe adesso se io fossi morto dieci anni fa? Mille principati in guerra tra loro, senza dubbio, ciascuno con il suo patetico esercito, i suoi legislatori, valuta, passaporti, guardie di frontiera, dazi doganali. Un’accozzaglia di meschine aristocrazie, un accalcarsi di gravose imposizioni feudali, cabale segrete di scontenti, piccole rivoluzioni senza sosta. … il caos, il caos, il caos. Nuovi scoppi di guerra virologica, con ogni probabilità. E alla fine di tutto, l’estinzione del genere umano. Tutto questo se si toglie di mezzo Gengis Mao nel momento storico critico. Sono il salvatore del mondo.

Suona oscenamente presuntuoso. Salvatore del mondo! Eroe della civiltà, figura-mito, io, Krishna, io, Quetzalcoatl, io, Artù, io, Gengis Mao. Eppure è vero, è più vero nel mio caso che in quello di tutti loro, perché senza di me oggi l’umanità intera potrebbe essere morta, e questo è un fatto nuovo nella storia dei miti messianici. Porre termine al conflitto, far smettere l’utilizzo del virus, sostenere il lavoro di Roncevic… certo, non c’è dubbio, questo potrebbe essere un pianeta morto se io fossi sparito in una tomba dieci anni fa. La storia lo riconoscerà. E però, però… che importanza ha? Non mi dimenticheranno quando morirò; non mi dimenticheranno mai. Ma morirò. Prima o poi i miei sotterfugi si esauriranno. Né Talos, né Fenice, né Avatar riusciranno a sostenermi in eterno. Qualcosa andrà storto, oppure la noia mi vincerà e sarò io stesso a fermare il funzionamento dei sistemi vitali, e morirò, e a quel punto che significato avrà aver salvato il mondo? In ultima analisi, quel che ho fatto è privo di senso per me. In ultima analisi, il potere che ho raggiunto è vuoto. Non è vuoto nell’immediato: me ne sto qui seduto, giusto? In mezzo allo splendore e alle comodità. Ma è vuoto in fine dei conti. Faccio finta che ci sia un senso nel potere imperiale, ma non ce n’è, nessun senso, da nessuna parte. Questa è una filosofia diffusa tra chi è molto giovane e, immagino, tra chi è molto vecchio. Io devo fingere che il potere abbia importanza per me. Devo fingere che la resa dei conti costituita dalla storia sia la consolazione che tutto consola. Ma sono troppo vecchio perché me ne importi davvero. Mi sono dimenticato il motivo per cui avesse importanza, a suo tempo, fare quello che ho fatto. Sto facendo le ultime mosse di un gioco stupido, non ho voglia di lasciare che arrivi a una conclusione ma non sono sicuro della natura della mossa vìncente. E così vado avanti, avanti, avanti. Io, Gengis II Mao IV Khan, salvatore del mondo, impegnato a nascondere agli occhi di chi mi circonda la vacuità profonda e paralizzante che sta dietro gli estremi recessi del mio spirito. Temo di aver perso il filo. Sono stanco. Sono annoiato. Mi fa male la testa.

Mi fa male la testa.


— Shadrach! — ruggisce Gengis Mao. — Questo dannato mal di testa! Rimettimi a posto, Shadrach!

Il vecchio bucaniere fa un sorriso sforzato. È seduto, tenuto su da tre cuscini, l’aria stanca e consunta. La mascella si è fissata in una smorfia rigida; gli occhi hanno un riflesso severo e si muovono frenetici, come se Gengis Mao stesse cercando di tenerli a fuoco. Così da vicino, Shadrach riesce senza difficoltà a percepire una decina di diversi sintomi della pressione che sta aumentando nei recessi del cervello del Presidente. Ci sono già tanti piccoli segni di deterioramento nelle funzioni cerebrali di Gengis Mao. A questo punto non c’è dubbio sulla diagnosi. Non c’è alcun dubbio.

— È stato via per troppo tempo — borbotta il Khan. — Si è divertito? Certo. Ma il mal di testa, Shadrach, questo brutto, spaventoso mal di testa… non avrei dovuto lasciarla andare via. Il suo posto è qui. Al mio fianco. A tenermi d’occhio. A curarmi. È stato come mandare la mia mano destra in viaggio per il mondo. Non se ne andrà di nuovo, vero, Shadrach? E mi rimetterà a posto la testa? Mi spaventa. Tutto quel pulsare. Come se ci fosse qualcosa che sta cercando di scappare, là dentro.

— Non c’è motivo di preoccuparsi, signore. La rimetteremo in sesto abbastanza velocemente.

Gengis Mao strabuzza gli occhi, sofferente. — E come? Mi farete un buco nel cranio? Farete fuggire il demone come se fosse una zaffata di gas venefico?

— Non siamo nel Neolitico — dice Shadrach. — Il trapano è obsoleto. Abbiamo dei metodi migliori. — Appoggia i polpastrelli alle guance del Khan, tastando gli zigomi prominenti. — Si rilassi, signore. Lasci andare i muscoli.

È notte tardi, e Shadrach è esausto; oggi ha volato da San Francisco a Pechino, da Pechino a Ulan Bator, si è precipitato al capezzale di Gengis Mao senza neanche fare una pausa per cambiarsi. La sua mente è un groviglio di fusi orari, e Shadrach non è sicuro se qui sia sabato, domenica o venerdì. Ma c’è una sfera di chiarezza assoluta, cristallina, nel profondo del suo spirito. — Si rilassi — intona. — Si rilassi. Lasci scorrere la tensione, lasci andare il collo, le spalle, la schiena. Tranquillo, ora, tranquillo…

Gengis Mao esplode. — Non riuscirà a risolvermi questo problema con dei massaggi e con delle parole tranquillizzanti.

— Ma possiamo alleviare i sintomi in questo modo. È un palliativo, signore.

— E poi?

— Se è necessario, ci sono dei rimedi chirurgici.

— Vede? Me lo aprirete, il cranio.

— Faremo un buon lavoro, glielo prometto. Un lavoro di precisione. — Shadrach si sposta alle spalle di Gengis Mao, per non lasciarsi distrarre dalla necessità di mantenere un contatto con gli occhi del fiero vecchio, e si concentra sulle rilevazioni diagnostiche. Squilibrio idrostatico, già; congestione meningea, sì; un certo accumulo di scarti metabolici in giro per il cervello, sì. La situazione è ben lontana dall’essere critica: si potrebbe rimandare l’intervento di settimane, forse di diversi mesi, senza troppo rischio; ma Shadrach intende affrontare subito il problema. E non solo nell’interesse di Gengis Mao.

Gengis Mao dice: — È bello riaverla qui.

— Grazie, signore.

— Avrebbe dovuto esserci per i funerali. Avrebbe avuto un posto in prima fila. È stato uno spettacolo impressionante, Shadrach. Ha seguito i funerali alla televisione?

— Certo — mente Shadrach. — A… mmm… a Gerusalemme. Ero a Gerusalemme quel giorno, mi pare. Sì. Impressionante. Sì.

— Impressionante — dice Gengis Mao, soffermandosi con amore sulla parola. — Non sarà mai dimenticato. Uno dei grandi spettacoli della storia. Ne sono stato orgoglioso. Gli Assiri non avrebbero potuto far di meglio per il vecchio Assurbanipal. — Il Khan ride. — Se non si può assistere al proprio funerale, Shadrach, si può almeno soddisfare l’impulso mettendo su uno splendido funerale per qualcun altro. Eh? Eh?

— Mi sarebbe piaciuto esserci, signore.

— Ma era a Gerusalemme. O era Istanbul?

— Gerusalemme, credo, signore. — Tocca le tempie di Gengis Mao, premendo in modo leggero ma deciso. Il Presidente fa una smorfia di dolore. Quando Shadrach comprime il collo di Gengis Mao sui lati, subito al di sotto e dietro alle orecchie, il Presidente grugnisce.

— Pianino lì — dice Gengis Mao.

— Sì.

— Quanto è grave, in realtà?

— Non va bene. Non c’è pericolo immediato, ma c’è sicuramente un problema reale.

— Me lo esponga.

Shadrach si sposta dove Gengis Mao lo possa vedere. — Il cervello e il midollo spinale — dice — sono immersi, letteralmente, in un liquido che chiamiamo fluido cerebrospinale, prodotto in certe celle vuote all’interno del cervello, dette ventricoli. Questo liquido protegge e nutre il cervello e, quando passa nello spazio che sta attorno al cervello, porta via gli scarti metabolici che sono il risultato dell’attività cerebrale. In determinate circostanze, i passaggi dai ventricoli a questi spazi meningei si ostruiscono, e il liquido cerebrospinale si accumula nei ventricoli.

— E nella mia testa sta succedendo questo?

— Si direbbe di sì.

— Perché?

Scrollando le spalle, Shadrach replica. — Normalmente è a causa di un’infezione, o di un tumore alla base del cervello. Occasionalmente si verifica in modo spontaneo, senza che ci sia una lesione osservabile. Una funzione dell’invecchiamento, forse.

— E quali sono gli effetti?

— Nei bambini, il cranio si ingrandisce col gonfiarsi dei ventricoli. È la condizione che chiamiamo idrocefalia, acqua nel cervello. Il cranio di un adulto non è in grado di espandersi, ovviamente, così che il cervello deve sottostare a tutta la pressione. Dei forti mal di testa sono il primo sintomo, naturalmente. Seguiti da disfunzioni della coordinazione fisica, vertigini, paralisi facciale, perdita graduale della vista, periodi di coma, un’inefficienza generale delle funzioni cerebrali, attacchi di epilessia…

— E la morte?

— La morte, sì. Alla fine.

— E quanto tempo passa dall’inizio alla fine?

— Dipende dall’entità dell’ostruzione, dal vigore del paziente, da molti altri fattori. Ci sono persone che vivono per anni con uno stato di idrocefalia debole o incipiente e non se ne accorgono neanche. Ci sono anche casi seri che si trascinano per anni, con lunghi periodi di remissione. D’altro canto, è possibile passare da una prima congestione alla mortalità nel giro di alcuni mesi, e talvolta ancora più velocemente, se si sviluppa qualcosa come un edema bulbare, un gonfiore endocranico che manda in crisi i sistemi autonomi.

Queste lezioni di sintomatologia e prognosi hanno sempre affascinato Gengis Mao, e in questo momento è evidente nei suoi occhi un intenso interesse. Ma c’è anche qualcos’altro, uno sguardo stregato, uno sguardo che lampeggia di sgomento, quasi terrore. Shadrach non l’ha mai osservato prima.

Il Presidente chiede: — E nel mio caso?

— Dovremo fare tutta una serie di esami, naturalmente. Ma sulla base di quel che mi dicono gli impianti chirurgici, propenderei per un rapido intervento chirurgico correttivo.

— Non ho mai subito interventi al cervello.

— Lo so, signore.

— È l’idea che non mi piace. Un polmone o un rene sono roba banale. Non voglio avere i laser di Warhaftig che mi frugano in testa. Non voglio che mi si taglino via dei pezzi di mente.

— Quello è fuori questione.

— E cosa farete, allora?

— È una terapia di decompressione, nient’altro. Installeremo dei tubi con delle valvole, per deviare il liquido in eccesso direttamente nel sistema giugulare. È un’operazione relativamente semplice, e molto meno pericolosa di un trapianto di organi.

Gengis Mao fa un sorriso di ghiaccio. — Io però ai trapianti d’organi ci sono abituato. Credo che mi piacciano i trapianti d’organi. La chirurgia del cervello è qualcosa di nuovo per me.

Shadrach prepara un sedativo per il Presidente e dice in tono allegro: — Forse finirà per piacerle anche la chirurgia del cervello, signore.


Il mattino dopo, Shadrach rintraccia Frank Ficifolia al nodo principale delle comunicazioni, nel profondo del nocciolo dei servizi della torre. — Avevo sentito dire che eri tornato — dice Ficifolia. — L’avevo sentito dire, ma non ci credevo. Cristo santo, perché sei tornato?

Shadrach osserva diffidente le file di schermi e monitor. — Parlare qui è sicuro?

— Gesù. Pensi che metterei delle microspie nel mio stesso ufficio?

— Potrebbe averlo fatto qualcun altro, senza venirtelo a dire.

— Parla — dice Ficifolia. — Non c’è rischio, qui.

— Se lo dici tu.

— Lo dico io. Perché non te ne sei stato dov’eri?

— I Citpol sapevano dov’ero, minuto per minuto. Avogadro in persona mi si è presentato davanti a Pechino.

— Cosa ti aspettavi? Se prendi mezzi di trasporto commerciali in giro per il mondo… Ci sono dei modi di nascondersi, ma… è stato Avogadro a farti ritornare qui, allora?

— Avevo già preso il biglietto.

— Ma Cristo, perché?

— Sono tornato perché ho trovato un modo di salvare la pelle.

— Il modo di salvarti la pelle è sparire.

— No — dice Shadrach con forza. — Il modo di salvarmi la pelle è tornare e continuare a svolgere le mie funzioni di medico del Presidente. Sai che il Presidente è malato?

— Delle brutte emicranie, mi dicono.

— Emicranie pericolose. Dovremo operare.

— Chirurgia del cervello?

— Sì.

Ficifolia stringe le labbra e studia il volto di Shadrach come se stesse esaminando una cartina dell’Eldorado. — Una volta ti ho detto che non eri abbastanza pazzo per sopravvivere in questa città. Forse mi sbagliavo. Forse sei pazzo, fin troppo. Devi essere pazzo, se credi di poter pasticciare intenzionalmente con un’operazione a Gengis Mao e cavartela. Credi che Warhaftig non noterà quello che stai facendo, che non ti fermerà? O che non ti denuncerà, se riesci effettivamente a combinare un guaio? A cosa serve uccidere il Khan, se poi finisci ai vivai? Come…

— I medici non uccidono i loro pazienti, Frank.

— Ma…

— Stai balzando a delle conclusioni. Stai proiettando le tue stesse fantasie, forse. Io farò l’operazione e basta. Curerò il mal di testa del Presidente. E starò attento che resti in buona salute. — Shadrach sorride. — Non fare domande. Aiutami e basta.

— Aiutarti come?

— Vorrei che mi trovassi Buckmaster. C’è un dispositivo speciale di cui avrò bisogno, e lui è la persona adatta per costruirlo. Poi vorrei che tu mi aiutassi a preparare i circuiti telemetrici che mi serviranno per farlo funzionare.

— Buckmaster? Perché proprio Buckmaster? Qui è pieno di gente bravissima, esperti di microingegneria che fanno parte del personale.

— Per questo lavoro voglio Buckmaster. È il migliore nel suo campo, e coincidenza vuole che sia anche quello che ha costruito il mio sistema di impianti. Spetta a lui costruire qualunque aggiunta a quel sistema. — Lo sguardo di Shadrach non suggerisce intenzioni di compromesso. — Mi troverai Buckmaster?

Ficifolia, dopo qualche istante, sbatte gli occhi e annuisce deciso. — Ti porterò da lui — dice. — Quando vuoi che andiamo?

— Ora.

— Proprio ora? Proprio in questo minuto, letterale?

— Ora — dice Shadrach. — È molto lontano?

— No, non molto.

— Dov’è?

— A Karakorum — risponde Ficifolia. — Lo abbiamo nascosto tra i transtemporalisti.


2 gennaio 2009

Ho insistito, e mi hanno lasciato provare l’esperienza del transtemporalismo. Parlavano tutti molto di rischi, di effetti collaterali, delle mie responsabilità di fronte al bene comune. Mi sono imposto. Non mi capita spesso di dover insistere. Succede raramente che io possa parlare di quel che mi lasciano fare. Ma questa è stata una lotta. Che naturalmente ho vinto, ma ce n’è voluta. Sono andato a Karakorum di notte, sotto una neve leggera. La tenda era stata sgombrata. C’erano guardie in postazione. Teixeira mi aveva fatto già una visita di controllo completa. Per via delle droghe che usano. Salute perfetta: posso smaltire senza problemi le pozioni più potenti. Nella tenda, dunque. Posto buio, fetore. Mi ricordo quell’odore dalla mia infanzia: feci di vacca che bruciano, pelli di capra che nessuno ha conciato. Si fa avanti un piccolo lama dalla schiena china. Tutt’altro che impressionato dalla mia presenza, nessuna traccia di soggezione; perché provare soggezione per Gengis Mao, d’altronde, quando puoi mandare giù un sorso di droga e andare a trovare Cesare, il Budda, Gengis Khan? Il lama mescola le sue sostanze, le prepara per me. Olii, polveri. Mi porge la tazza, e io bevo. Dolce, gommoso, non è un gusto piacevole. Mi prende la mano, mi sussurra delle cose, e io mi sento girare la testa, la tenda diventa una nuvola e se ne va. Mi ritrovo in un’altra tenda, ampia e bassa, bandiere bianche e addobbi di broccato, ed eccolo lì davanti a me, il corpo tozzo, basso, un uomo di mezl’età o appena oltre, lunghi baffi scuri, occhi piccoli, bocca forte, puzza di sudore come se non facesse il bagno da anni: e per la prima volta in vita mia provo l’impulso di gettarmi in ginocchio di fronte a un altro essere umano, perché questo è sicuramente Temucin, questo è il Gran Khan, è lui, il fondatore, il conquistatore. Non mi inginocchio, se non dentro di me. Dentro di me cado ai suoi piedi. Gli offro la mano. Chino la testa.

— Padre Gengis — dico. — Attraverso novecento anni sono venuto a renderti omaggio.

Mi guarda senza troppo interesse. Dopo qualche istante mi porge una tazza. — Bevi dell’airag, vecchio.

Beviamo dalla stessa tazza, prima io, poi il Gran Khan. È vestito in modo semplice, senza mantelli scarlatti, stole di ermellino, corone, soltanto il cuoio di un costume da guerriero. La sommità della sua testa è stata rasata e, dietro, i capelli gli raggiungono le spalle. Potrebbe uccidermi con un colpo della mano sinistra.

— Cosa vuoi? — domanda.

— Vederti.

— Vedermi. E che altro?

— Dirti che vivrai in eterno.

— Io morirò come muoiono tutti, vecchio.

— Il tuo corpo morirà, padre Gengis. Il tuo nome vivrà nei millenni.

Lui ci pensa su. — E il mio impero? Che ne sarà del mio impero? I miei figli regneranno dopo di me?

— I tuoi figli regneranno su mezzo mondo.

— Mezzo mondo — dice con calma Gengis Khan. — Solo mezzo? È la verità questa, vecchio?

— Il Catai sarà loro…

— Il Catai è già mio.

— Sì, ma loro l’avranno tutto, giù fino alle giungle torride. E regneranno sulle alte montagne, sulla terra russa, e sul Turkestan, l’Afganistan, la Persia, tutto quel che si stende fino alle porte dell’Europa. Mezzo mondo, padre Gengis!

Il Khan dei Khan grugnisce.

— E ti dico anche questo. A novecento anni da oggi, un khan chiamato Gengis regnerà su tutto quel che vi è da mare a mare, da riva a riva, e tutte le anime di questo mondo lo chiameranno signore.

— Un khan del mio sangue?

— Un vero tataro — lo rassicuro.

Gengis Khan rimane in silenzio per un lungo momento. È impossibile leggergli negli occhi. È più basso di quanto mi aspettassi, e il suo odore è cattivo, ma è un uomo di tale forza e decisione che io mi sento umiliato, perché credevo di essere della sua razza, e in un certo modo lo sono, ma lui è più di quel che io avrei mai potuto essere. Non è un uomo che calcola: è assolutamente monolitico, privo di esitazioni, un uomo che vive momento per momento, un uomo che non si deve mai essere fermato a ripensare a qualcosa una seconda volta, e che quando ha pensato a qualcosa la prima volta non si deve mai essere sbagliato. Non è che un principe barbaro, un semplice cavaliere selvaggio del Gobi, per il quale ogni aspetto della mia vita di tutti i giorni sembrerebbe magia della più incomprensibile: ma portatelo a Ulan Bator, e riuscirebbe a capire il funzionamento del Vettore di Sorveglianza Uno in tre ore. È un barbaro, sì, ma non un semplice barbaro, non è niente di semplice; e sebbene io gli sia superiore per certi versi, sebbene la mia vita e il mio potere siano al di là della sua comprensione, io gli sono secondo in tutte le cose che importano davvero. Mi ispira soggezione. Come mi aspettavo che facesse. E, vedendolo, mi avvicino a un desiderio di rinunciare a tutto il potere che ho sugli uomini, perché, di fronte a lui, non ne sono degno. Non ne sono degno.

Novecento anni — dice finalmente, e l’ombra di un sorriso gli solca la faccia. — Bene. Bene. — Batte le mani per chiamare un servitore. — Dell’altro airag — ordina. Beviamo insieme ancora una volta. Poi dice che per lui è tempo di andare; è tempo di lasciare Karakorum, per andare all’accampamento di suo figlio Chagadai, dove la famiglia reale farà un torneo quest’oggi. Non mi invita ad accompagnarlo. Non prova interesse per me, sebbene io me ne venga dal regno dei tempi più lontani, sebbene gli rechi racconti gloriosi di imperi mongoli che verranno. Non ho importanza per lui. Gli ho detto tutto quel che gli importava sapere: ora sono stato dimenticato. Solo il torneo ha importanza, adesso. Balza sulla sua giumenta; cavalca via, seguito dai guerrieri della sua corte, e qui rimaniamo solo io e il suo servitore.

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