In mattinata non ci sono voli, scopre Shadrach, che lo possano portare a Gerusalemme, Istanbul, Roma, o a qualche località dove possa trasbordare per raggiungere quelle destinazioni. C’è tra non molto un volo per Pechino, ma Pechino è troppo vicina a Ulan Bator, e i cinesi assomigliano troppo ai mongoli; in questo momento ha bisogno di cambiare aria completamente. C’è un volo per San Francisco un po’ più tardi, ma San Francisco non si trova in una posizione molto sensata rispetto al resto del suo itinerario. E c’è un volo che parte quasi immediatamente per Nairobi. Per qualche motivo, Shadrach non aveva proprio preso in considerazione la possibilità di andare a Nairobi, o in qualche altra città dell’Africa nera, nonostante i legami ancestrali che avverte vagamente. Ma la spontaneità, riflette, fa bene all’animo. In questo preciso momento l’idea di andare a Nairobi gli appare curiosamente attraente. D’impulso, senza esitazioni, sale sull’aereo.
Sono passati due anni e mezzo dall’ultima volta che è stato via dalla Mongolia. Gengis Mao aveva deciso inaspettatamente di presiedere in persona un immenso e inutile congresso del Comitato, nel quartier generale delle Nazioni Unite a New York, vecchio e cadente. Al tempo Shadrach non era ancora il medico personale del Khan, e quel posto era appannaggio di un internista portoghese astuto e diplomatico di nome Teixeira; ma Teixeira stava placidamente morendo di leucemia, e Shadrach lo stava sostituendo gradualmente. Ufficialmente, Shadrach era andato a New York in qualità di semplice assistente, un portaborse all’interno dello smisurato seguito del Khan: ma quando Gengis Mao aveva avuto un attacco di ipertensione, dopo aver parlato per sei ore filate dal podio dell’ex Assemblea Generale, era stato Shadrach a occuparsi del problema mentre Teixeira era a letto nella sua suite d’albergo, imbottito di farmaci. Dopo di allora Gengis Mao, che aveva inventato Mangu per sbrigare corvée cerimoniali come i congressi di Comitato, non aveva più lasciato Ulan Bator. Lo stesso valeva per Shadrach. Ma ora si trova a guardare fuori dal finestrino di un aereo da trasporto supersonico, mentre i colori spenti della steppa mongola svaniscono rapidamente sotto di lui. Tra poche ore sarà in Africa.
Africa! I segnali telemetrici di Gengis Mao si stanno già facendo più deboli, spariscono, all’avvicinarsi del limite dei mille chilometri di distanza. Shadrach riceve ancora dei dati, dei deboli ticchettii, gemiti, scatti del sistema di impianti chirurgici; ma, col procedere dell’aereo sulla sua rotta a sudovest, diventa sempre più difficile tradurre questi segnali in indicazioni intelligibili sui processi fisiologici del Presidente: Gengis Mao, i suoi reni e il fegato e il pancreas, il cuore e i polmoni, le arterie e l’intestino, sono diventati remoti, stanno diventando irreali. E dopo breve tempo i segnali cessano completamente; scesi al di sotto della soglia della percezione, lasciano Shadrach improvvisamente, incredibilmente solo nel suo corpo. Quell’esplosione di silenzio! Quell’assenza di messaggi subliminali! Si era dimenticato di come fosse, non avere questo continuo flusso ribollente di informazioni che gli scorre per la testa, e nei primi momenti dopo l’uscita dal raggio della teletrasmissione si sente quasi orfano, spogliato, come se avesse perso uno dei suoi cinque sensi. Poi il silenzio interiore gli comincia ad apparire normale, e Shadrach si rilassa.
L’aereo è comodo: una poltroncina morbida e avvolgente, spazio in abbondanza per stendere le gambe. Ha probabilmente più di vent’anni; è sicuramente di prima della Guerra Virale. Molte industrie sono scomparse dopo la guerra, e quella aeronautica è una di quelle. La popolazione ampiamente sfoltita del dopoguerra può cavarsela senza difficoltà, affidandosi ad adeguati programmi di manutenzione, con gli aerei ereditati dal mondo affollato e frenetico degli Ottanta; in quegli anni la vecchia economia industriale stava attraversando il suo ultimo grande periodo di convulsa espansione, nel mezzo, paradossalmente, di scarsità e disorganizzazione spaventose. Non che la Guerra e la decomposizione organica abbiano posto fine al progresso tecnologico: negli anni in cui è cresciuto Shadrach, la fusione nucleare ha soccorso il mondo dalla crisi energetica, delle escavatrici sotterranee hanno creato dal nulla un sistema di tunnel per il trasporto di massa che copre la maggior parte delle aree urbane, i sistemi di comunicazione hanno raggiunto un livello di sofisticazione estremo, l’informatizzazione della civiltà è quasi completa, e così via. Il progresso continua. Le cose sono diverse ora, ma non completamente diverse. Perfino le grandi imprese e gli istituti di borsa sono sopravvissuti. Non c’è stato uno stacco totale rispetto ai vecchi tempi, soltanto perché i due terzi della popolazione precedente sono morti e una struttura politica semidittatoriale completamente nuova ha imposto il proprio ordine ai sopravvissuti. È comunque una società in fase di contrazione, intaccata giorno per giorno dagli attacchi della decomposizione organica e oppressa da un certo senso di stagnazione e di futilità che il regime di Gengis Mao non pare capace di cancellare; e una società del genere non ha bisogno di aerei nuovi quando i vecchi sono ancora in grado di volare.
1 giugno, segue
Se il padrone del mondo è schizoide, non ci sono delle conseguenze per i suoi sudditi? Credo di no. Ho studiato la storia con attenzione. Nel corso della storia intera il popolo ha avuto i regnanti che si meritava, i regnanti adeguati. Un sovrano riflette lo spirito dei suoi tempi ed esprime i tratti più profondi della sua gente. Hitler, Napoleone, Attila, Augusto, Ch’in Shih Huang Ti, Gengis Khan, Robespierre: nessuno è stato un incidente o un’anomalia, ciascuno è stato il prodotto organico dei bisogni del suo tempo. Perfino quando un regnante impone la sua volontà attraverso la conquista, e questo non è stato il mio caso, è all’opera l’imperativo storico: questa gente voleva subire la conquista, aveva bisogno di subirla, altrimenti non avrebbero ceduto. È lo stesso ora. Tempi schizoidi esigono un governo schizoide. La popolazione di questo pianeta muore agonizzando per decomposizione degli organi; esiste un antidoto, ma non lo mettiamo in distribuzione; la popolazione di questo pianeta accetta la situazione. Io questa la chiamo follia. Un governo folle, dunque, per una cittadinanza folle, un governo che offre promesse di antidoti ma non le mantiene mai. Naturalmente non c’è abbastanza antidoto per tutti. Ma ce n’è un po’ che si potrebbe distribuire. Espandere l’offerta non è tra le nostre priorità. Offriamo speranza, ma non iniezioni, e in un modo o nell’altro questo sorregge i nostri sudditi. Follia. Un mondo che distrugge se stesso con antigeni trasportati dal vento è folle; un mondo che sì affida a un’oligarchia di stranieri è folle; è appropriato allora che gli oligarchi stessi siano folli.
Ma lo siamo poi? lo lo sono? Ho fatto qualche altra ricerca sui sintomi della schizofrenia stamattina, ho consultato i testi della biblioteca medica di Shadrach, in sua assenza. Ho qui un testo che dice che due dei sintomi più comuni sono le illusioni e le allucinazioni. “Una illusione”, mi dice, “è una convinzione ferma che va contro alla realtà percepita dai più, e non si lascia confutare da un’argomentazione logica. Le illusioni, nella schizofrenia, hanno spesso tema grandioso oppure persecutorio: l’individuo può esprimere la convinzione di essere Gesù Cristo, o che una organizzazione internazionale supersegreta gli stia dando la caccia”. Non ho mai sostenuto di essere Gesù Cristo. Peraltro mi capita spesso, effettivamente, di ritenere con grande convinzione di essere Gengis II Mao IV Khan. Questa convinzione è illusoria? Sono convinto che questa convinzione si accordi con la realtà percepita dai più. Sono convinto che la mia convinzione della fondatezza di questa convinzione abbia una base nella realtà. Sono convinto di essere davvero Gengis II Mao IV Khan, o almeno di essere davvero diventato Gengis II Mao IV Khan, e che quindi questa convinzione non sia schizofrenica, non sia illusoria. D’altra parte, sono anche convinto di trovarmi in pericolo imminente di assassinio, che ci sia una congiura internazionale contro di me. Una classica illusione schizoide? Mangu però è morto davvero. Hanno buttato Mangu fuori da una finestra a settantacinque piani d’altezza. Mi sto solo immaginando la morte di Mangu? Mangu è morto veramente. La sto rappresentando in modo sbagliato? So che c’è chi è convinto che si sia suicidato. Questa è un’illusione. Mangu è stato assassinato. Potrebbero arrivare qui per fare lo stesso con me in qualunque momento. Nonostante tutte le mie precauzioni. Sono vittima di un’illusione? Se è così, accetto le mie illusioni. Com’è appropriato per la mia posizione nella storia. E se il pericolo è reale, quanta saggezza da parte mia nel barricarmi dietro alle interfacce!
Andiamo avanti. Allucinazioni. “Un’allucinazione è una percezione visiva, uditiva, olfattiva o tattile che non ha corrispondenza nella realtà. Nella schizofrenia, le allucinazioni hanno nella maggior parte dei casi la forma di voci”. Aha! “Un paziente può essere tormentato da voci che gli ordinano di saltare giù da una finestra, o che lo accusano di crimini orrendi”. Cos’è questa storia della finestra? Può essere che anche Mangu fosse schizoide? No. No. Non è così. Mangu non era abbastanza intelligente per essere schizoide. Sono io quello che sente le voci, e le mie voci non mi danno consigli folli. “In certi casi le allucinazioni consistono semplicemente in rumori o parole isolate, o ancora al paziente può sembrare di ’udire i propri pensieri’. Altre allucinazioni comprendono visioni terrificanti, odori strani, e sensazioni fisiche fuori dall’ordinario”.
Credo che si tratti di questo. Se è così, lo accetto senza difficoltà. Ma c’è dell’altro. “Illusioni e allucinazioni non sono limitate alla schizofrenia”, dice. “Possono verificarsi a seguito di una vasta gamma di condizioni organiche (per esempio infezioni della materia cerebrale, o riduzioni dell’afflusso di sangue al cervello causate dall’arteriosclerosi).” È quella la spiegazione? Quando padre Gengis mi sussurra i suoi consigli, è solo perché qualcosa non va nel mio cervelletto? Quando Mao mi bisbiglia nelle orecchie, non è altro che un coagulo nell’arteria? Devo parlare a Shadrach di queste cose, quando torna. È lui che si preoccupa delle mie arterie. Potrebbe voler fare un altro trapianto. Dopotutto, ho ancora qualcuno delle mie vene originarie, e stanno invecchiando. Ho… quanti anni ho? Ottantasette anni? Ottantanove, novantatré? Sì, forse novantatré. È così difficile tenere il conto. Sono vecchio comunque, molto vecchio.
Grande padre Gengis, come sono vecchio!
L’aria è pulita a Nairobi; secca, fresca, tutt’altro che tropicale, nonostante la città sia a un grado pressappoco dall’equatore; a ben pensarci, più o meno la stessa latitudine del feroce Cotopaxi e della povera Quito. Quito, in alto in un paese montagnoso, era fresca anche lei, ma quello era solo un sogno, un’illusione transtemporale. Mentre ora Shadrach si trova realmente, nella misura in cui le cose sono reali, a Nairobi. — Siamo molto al di sopra del livello del mare — spiega il tassista. — Non fa mai troppo caldo qui. — L’uomo del taxi è socievole, aperto, chiacchiera volentieri: è un kikuyu, dice, intendendo la tribù a cui appartiene. Indossa degli enormi occhiali scuri, e una divisa blu che parrebbe avere cinquant’anni. Sembra sano, nonostante Shadrach si aspettasse quasi di trovare tutti, fuori da Ulan Bator, afflitti dalla decomposizione. — Parlo sei lingue — annuncia il tassista. — Kikuyu, masai, swahili, tedesco, francese, inglese. Lei è inglese, Inghilterra?
— Americano — dice Shadrach, anche se alle sue orecchie quell’etichetta ha un suono strano. Cos’altro dovrebbe rispondere, d’altronde? Mongolo?
— Americano? Ah! New York? Los Angeles? Una volta avevamo tanti americani qui. Prima della grande morte, no? Venivano con quell’aereo, era grande, troppo grande, sempre pieno, tutti quegli americani! Venivano per vedere gli animali, sa? Là fuori, fuori dalla città. Con le macchine fotografiche. Ora basta. Molto tempo, niente americani qui. Nessuno qui. — Ride. — Tempi diversi, ora. Brutti, questi tempi. Tranne che per gli animali. Tempi buoni, per gli animali. Vede, lì, di fianco alla strada? Iena. Proprio di fianco alla strada!
Sì, Shadrach la vede: una bestia dall’aspetto goffo, come un piccolo orso particolarmente sgraziato, accucciato sul bordo della strada. Il tassista gli dice che ora ci sono animali selvatici da tutte le parti, struzzi che passeggiano tranquilli per i viali principali di Nairobi, leoni e ghepardi che assalgono i contadini nei sobborghi, gazzelle che si spostano per il campus dell’Università in grossi branchi irrequieti. — Perché non c’è abbastanza gente in giro ormai — dice. — E la maggior parte sono comunque troppo malati. Non si caccia più molto. Settimana scorsa, grande elefante, ha sradicato l’acacia davanti al New Stanley Hotel. Acacia molto vecchia, molto famosa. Elefante molto grande. — Naturalmente. Con la popolazione mondiale ritornata a livelli da primo Ottocento, è normale che gli animali comincino a riprendersi il loro territorio. La Guerra Virale non li aveva sfiorati, neanche i primati più simili all’uomo: solo gli sventurati cromosomi umani potevano essere colpiti dalla decomposizione.
Procedendo verso la città scorge altri animali, due zebre bellissime, dei facoceri, un gruppo di antilopi dal dorso pesante e le zampe affusolate; degli gnu, lo informa il tassista. Shadrach è compiaciuto da questo risorgere della natura, ma il piacere è segnato dalla tristezza: se gli gnu pascolano ai margini delle grandi strade e l’erba cresce nelle vie della città, è perché l’età dell’uomo sta giungendo al termine, e per questo Shadrach non si sente pronto.
A dire il vero, per le strade di Nairobi non cresce molta erba, perlomeno non nel viale grande ed elegante che il taxi percorre per entrare in città. Da tutti gli angoli, cespugli fioriti si producono in eruzioni di bellezza. Dopo Ulan Bator, monocroma, Nairobi è una delizia visiva. Cascate di bougainvillee, rosse e porpora e arancioni, coprono i muri; una pianta grassa rampicante, cosparsa di fiori color lavanda, si stende come un tappeto sui salvagente in mezzo alla via; grossi alberi tentacolari di aloe sono appostati agli angoli delle strade come sentinelle; Shadrach riconosce ibischi e jacaranda, ma la maggior parte dei cespugli e degli alberi che riempiono le strade di queste allegre masse di colore gli sono sconosciuti. L’effetto è gaio e vivace, e sorprendentemente commovente: chi potrebbe sentirsi disperato, si chiede, in un mondo che offre una bellezza tanto intensa? Ma nel momento di gioia trascendente creata dagli splendidi fiori di questa città ben curata, arriva la negazione immediata; perché Shadrach si chiede anche come, lasciati liberi in questo mondo magnifico, ci siamo sforzati di farne un tale sfacelo. Ma nonostante tutto, questa città meravigliosa gli ispira più piacere che malinconia.
Shadrach Mordecai gira per Nairobi baciata dal sole e dai fiori, in un taxi vecchio e lento che lo porta al suo hotel, l’Hilton, un posto cavernoso e cadente dove è probabilmente l’unico ospite. Il personale dell’albergo lo tratta con straordinaria deferenza, come se fosse un principe in visita. E in un certo senso lo è, per questa gente. Sanno che vive nella capitale, e che viaggia con un passaporto del CRP; saranno portati a concludere che siede alla destra di Gengis Mao, che è poi la verità, nonostante Shadrach non faccia in alcun modo parte del governo. Ma perfino quelli che non hanno visto il suo passaporto dimostrano un senso di soggezione nei suoi confronti, qui. Interrompono il lavoro nei corridoi, e si voltano a guardarlo. Si scambiano bisbigli. Gesticolano, indicano. Shadrach è costretto a ricordarsi quel che tende spesso a dimenticare: che è un uomo di grande dignità e presenza, capace e sicuro di sé, dall’aspetto fisico imponente; un uomo che irradia un’aura che spinge gli altri a un atteggiamento deferente. È difficile, per chi lavora nell’ombra di Gengis Mao, ricordarsi di essere una persona a sé stante, non solo, una persona degna di nota, e non semplicemente un’estensione del Presidente. A Nairobi ricomincia a impararlo.
A passeggio per la città, mezz’ora dopo essersi registrato all’hotel, fa un’altra scoperta dell’ovvio: qui tutti sono neri. Quasi tutti, almeno. Nota qualche negoziante cinese, una coppia di indiani, alcuni bianchi di una certa età, ma si tratta di eccezioni, e danno nell’occhio proprio come dà nell’occhio lui a Ulan Bator. Perché il nero qui dovrebbe sorprenderlo? Questa è l’Africa; questo è il posto dove la gente è nera. Ed era la stessa cosa, a dire il vero, quand’era piccolo a Filadelfia: i bianchi si avventuravano raramente nella sua zona, e almeno durante la prima infanzia era stato facile per lui dare per scontato che il ghetto era il mondo, che il nero era la norma, che quelle creature avvistate di quando in quando, la faccia rosa e gli occhi azzurri e i capelli lisci, erano delle rarità bizzarre, come le giraffe nel suo libro illustrato. Ma questo non è un ghetto. È una nazione, un universo, dove i poliziotti e gli insegnanti e i delegati del Comitato e i pompieri sono neri, gli ingegneri alla centrale a fusione sono neri, i chirurghi del cervello e gli optometristi sono neri, neri da capo a piedi. Fratelli e sorelle per ogni dove, eppure è distante da loro, non sente affinità ma sorpresa di fronte all’universalità del nero. Forse vive in Mongolia da troppo tempo. Vivendo in quell’amalgama poliglotta e multirazziale che circonda Gengis Mao, ha cominciato a perdere in qualche misura la sua stessa identità razziale; e, vivendo tra milioni di mongoli, ha sviluppato una rappresentazione di sé ben definita in cui è necessariamente un estraneo, una stranezza, e questo lo fa sentire alienato perfino all’interno della sua stessa gente. Ammesso che queste persone, che parlano swahili, vivono in intimità con struzzi e ghepardi, hanno nelle vene sangue che non è mai stato diluito da geni di schiavisti, possano essere considerate la sua gente.
Scopre ancora un’altra ovvietà: che Nairobi non è solo viali bellissimi e aria pulita e ritemprante, non è solo cascate di bouganvillea e ibisco. Questo posto, per quanto adorabile a vedersi, rimane a pieno titolo parte del Reparto Traumatologia, e Shadrach non deve allontanarsi di molto dal giardino dell’hotel per incontrare le masse di sofferenti. Percorrono le strade allo sbando, a decine, e tutte le fasi della malattia sono rappresentate: alcuni sono semplicemente pallidi, privi di forze, hanno ancora sul volto i primi segni di sorpresa di fronte al decadimento del loro corpo; altri si trascinano piegati in due, smagriti, completamente confusi, in certi casi già colpiti da frequenti emorragie, intontiti dal dolore e cosparsi del sudore lucido della morte imminente. Quelli che si trovano nelle fasi più avanzate del male viaggiano in orbite solitarie, incespicando ciascuno per conto suo per le strade, sa dio perché, lottando con una determinazione incomprensibile per raggiungere una destinazione che sfugge sempre, prima che il crollo finale li vinca. Spesso le vittime della decomposizione si fermano e fissano Shadrach, come se sapessero che è immune e volessero da lui qualche sorta di dono di forza, un’infusione carismatica che li investa della stessa immunità, che guarisca le loro ferite e ricomponga il loro corpo. Ma nel loro sguardo non c’è rimprovero, né invidia: è lo sguardo calmo, fisso, equanime che ci si vede indirizzare talvolta dalle bestie al pascolo, impenetrabile ma non minaccioso, privo di qualunque allusione a un mattatoio di cui ci considerino responsabili.
A tutta prima, Shadrach è incapace di sostenere quegli sguardi fissi privi di espressione. Tanto tempo fa gli è stato insegnato che un medico dev’essere in grado di guardare un paziente senza sentirsi in colpa per la propria salute, ma questo è un caso diverso. Questi non sono suoi pazienti, e lui è in buona salute soltanto perché i suoi contatti politici gli garantiscono l’accesso a una protezione che loro non possono avere. Prova curiosità di fronte alla decomposizione organica: è il grande fenomeno medico dell’epoca, la Morte Nera del suo tempo, la piaga più terribile della storia, e Shadrach ne studia gli effetti dovunque li incontri; eppure né la sua curiosità, né il suo distacco di medico, sono sufficienti a permettergli di guardare questa gente negli occhi. Si limita a lanciare loro rapide occhiate di sottecchi, finché non si rende conto che il suo senso di colpa è irrilevante. A questi relitti umani non importa se lui li guarda. Non importa loro più di niente. Stanno morendo, qui, pubblicamente; la pancia in fiamme, la mente annebbiata; che può importare se uno sconosciuto li fissa? Lo guardano; lui guarda loro. Delle barriere invisibili lo proteggono da loro.
Poi, nelle barriere si apre una breccia. Shadrach distoglie gli occhi per un momento dalla processione dei dannati per ispezionare la vetrina di un negozio di curiosità; mentre osserva le grottesche incisioni in legno, i tamburi di pelle di zebra, i portacenere ricavati da zampe d’elefante, le lance e gli scudi masai, ogni sorta di artefatti indigeni prodotti in serie per turisti che non vengono più, qualcuno gli colpisce bruscamente il gomito. Fa un volteggio, istantaneamente in guardia. L’unica persona vicino a lui è un ometto appassito, terreo, coperto di stracci, i capelli bianchi, tutto ossa; si muove avanti e indietro davanti a Shadrach in un semicerchio erratico, facendo degli strani versi secchi nella profondità della gola.
Un caso terminale. Coperto di pustole attorno agli occhi spenti, ha la pancia gonfia. La malattia smangia lentamente il tessuto epiteliale, ulcerando indiscriminatamente tutta la carne che incontra; i fortunati sono quelli i cui organi si perforano rapidamente, ma pochi hanno questa fortuna. Sono passati diciotto anni da quando la Guerra Virale scatenò contro l’umanità la decomposizione organica; Shadrach ha letto che molti di coloro che vennero infettati quando tutto cominciò stanno ancora aspettando che arrivi la fine. L’uomo davanti a Shadrach ha l’aspetto di uno di quei casi quasi ventennali, ma non gli può mancare più molto. Tutti i meccanismi interni devono essere avvizziti e corrosi; non dev’essere altro che un ammasso di buchi tenuti insieme da sottili filamenti di tessuto vivente, e la prossima erosione, dovunque si verifichi, sarà certamente fatale.
Pare cercare l’attenzione di Shadrach, ma è incapace di fermarsi nel posto giusto. Come un robot dalle giunture arrugginite, continua a muoversi a scatti, si agita davanti a Shadrach con movimenti rapidi e convulsi, fermandosi, facendo cigolare i meccanismi dentro di sé, girando su se stesso e facendo sventolare le braccia senza controllo, allontanandosi e ritornando per un nuovo tentativo. Alla fine, con un ultimo sforzo disperato, riesce ad aggrapparsi all’avambraccio di Shadrach e trova una stabilità in questo modo, in piedi vicino a lui, appoggiato a lui, dondolandosi lentamente sul posto.
Shadrach non cerca di sfuggirgli. Se per questa creatura ferita non può far altro che fornire un sostegno, farà almeno questo.
Con voce terribilmente gracchiante, apocalittica, una specie di grido sussurrato, il vecchio gli dice qualcosa che parrebbe essere altamente importante.
— Mi dispiace — mormora Shadrach — non riesco a sentirla.
Il vecchio si fa più vicino ancora, sforzandosi di accostare la faccia a quella di Shadrach, in alto, e ripete le sue parole in tono ancora più concitato.
— Ma io non parlo swahili — dice Shadrach in tono addolorato. — È swahili questo? Non capisco.
Il vecchio cerca una parola, le labbra avvizzite si muovono, la gola pulsa, il volto è teso per la concentrazione. L’uomo emette un odore dolce, secco, l’odore dei gigli appassiti. Una lesione a una guancia pare attraversare completamente la carne, da dentro a fuori; potrebbe probabilmente infilarci la punta della lingua.
— Morto — dice infine il vecchio, in inglese, pronunciando la parola come se fosse un peso mostruoso che lascia cadere ai piedi di Shadrach.
— Morto?
— Morto. Tu… fare… me… morto…
Le parole cadono una dopo l’altra dalla gola devastata senza espressione, senza inflessione, senza un tono particolare. Tu. Fare. Me. Morto. Mi sta accusando di avergli dato la malattia, si chiede Shadrach, o sta chiedendo l’eutanasia?
— Morto! Tu! Fare! Me! Morto! — Poi ancora swahili. Poi dei colpi di tosse, sofferti, catarrosi. E poi lacrime, incredibilmente copiose, che scendono a fiumi rigando le guance polverose. La mano che trattiene l’avambraccio di Shadrach si serra con una forza improvvisa, sfregando osso contro osso e strappando al medico un grido di dolore. Poi la pressione inattesa svanisce: il vecchio se ne sta da parte per un momento, barcollando; gli sfugge un suono aspro, un inconfondibile rumore di morte, e la vita lo abbandona in modo così istantaneo e completo che Shadrach ha una visione semiallucinatoria, un teschio e le ossa dentro agli abiti lacerati dell’uomo. Mentre il corpo sta cadendo, Shadrach lo prende e lo poggia dolcemente al suolo. Non pesa più di quaranta chili, si direbbe.
E ora? Deve avvertire le autorità? Quali autorità? Shadrach si guarda attorno in cerca di un Citpol, ma la strada, affollata fino a due minuti prima, è misteriosamente vuota. Shadrach si sente responsabile del corpo. Non può semplicemente abbandonarlo lì dov’è crollato. Entra nel negozio di curiosità in cerca di un telefono.
Il proprietario è un indiano dall’aspetto sano, mellifluo, sulla sessantina, con grandi occhi liquidi e folti capelli scuri spolverati d’argento. Indossa un abito da businessman di taglio antiquato e ha l’aria vivace e prosperosa. Ha assistito evidentemente al piccolo dramma di un attimo fa, perché ora si sporge in avanti, con le palme delle mani premute l’una contro l’altra e le labbra serrate in una espressione affettata del tipo “santo cielo”.
— È disdicevole! — dichiara. — Importunarla a questo modo! Non hanno pudore, non hanno nessun senso di…
— Non mi ha importunato — dice Shadrach tranquillo. — Quell’uomo stava morendo. Non aveva tempo di stare a pensare al pudore.
— Ma in ogni caso… Infastidire uno sconosciuto, un visitatore della nostra…
Shadrach scuote la testa. — Lasciamo perdere. Qualunque cosa volesse da me, non potevo dargliela, e ora è morto. Mi sarebbe piaciuto essere in grado di aiutarlo. Sono un medico — rivela, sperando che la confidenza sortirà l’effetto giusto.
E così avviene. — Ah! — esclama il negoziante. — Lei allora queste cose le capisce. — La sensibilità di un medico non è come quella di un essere ordinario. Il proprietario del negozio non si sente più imbarazzato che uno dei suoi trasandati compatrioti abbia avuto il cattivo gusto di infliggere la propria morte a un turista.
— Cosa dovremmo fare con il cadavere? — chiede Shadrach.
— Verranno i Citpol. Le voci girano.
— Stavo pensando che potremmo telefonare a qualcuno.
Una scrollata di spalle. — Verranno i Citpol. Non è importante. La malattia non è contagiosa, mi dicono. Cioè, siamo tutti contagiati dai tempi della Guerra, ma non abbiamo niente da temere da parte di quelli che mostrano effettivamente dei sintomi. O dai loro corpi. Non è vero?
— È vero, sì — dice Shadrach. A disagio, lancia un’occhiata all’esile corpo senza vita che se ne sta sul marciapiede fuori dal negozio, come una coperta abbandonata. — Forse però sarebbe bene chiamare qualcuno.
— I Citpol verranno tra poco — ripete il negoziante, come per chiudere l’argomento. — Le va di prendere il tè con me? Ho raramente l’opportunità di ospitare un turista. Mi chiamo Bhishma Das. Lei è americano?
— Sono nato lì, sì. Ora vivo all’estero.
— Ah.
Das si dà da fare dietro al bancone, dove ci sono un fornelletto e alcuni barattoli di tè in foglie. La sua indifferenza per il cadavere in strada continua a turbare Shadrach; ma Das non pare un uomo ottuso, o insensibile. Forse è d’uso, qui fuori nel Reparto Traumatologia, ignorare per quanto possibile questi richiami alla mortalità universale.
In ogni caso, Das aveva ragione: i Citpol arrivano effettivamente poco dopo, tre uomini dalla pelle nera con la familiare uniforme, a bordo di un veicolo allungato dall’aria fosca che non è troppo dissimile da un carro funebre. In due caricano il cadavere sulla vettura; il terzo punta gli occhi sulla vetrina del negozio, fissando a lungo Shadrach con aria attenta e annuendo tra sé in modo indecifrabile e stranamente inquietante. Infine, i Citpol se ne vanno.
Das dice: — Moriremo tutti per la decomposizione, prima o poi, non è vero? Noi, e anche i nostri bambini. Siamo tutti contagiati, dicono. Non è vero?
— È vero, sì — replica Shadrach. Perfino lui porta nei geni il DNA assassino. Perfino Gengis Mao. — Naturalmente, c’è l’Antidoto…
— L’antidoto. Ah. Lei crede che ci sia davvero un antidoto?
Shadrach si mostra sorpreso. — Lei ne dubita?
— Non so niente di certo su queste cose. Il Presidente dice che c’è un antidoto, e che presto lo distribuiranno al popolo. Ma il popolo continua a morire. Ah, il tè è pronto! Allora c’è un antidoto? Io non ne ho idea. Non sono sicuro di cosa dovrei credere.
— Un antidoto c’è — dice Shadrach, accettando una fragile tazza di porcellana dal mercante. — Sì, c’è davvero. E un giorno verrà dato al popolo.
— Lei lo sa per certo?
— Sì, lo so per certo.
— Lei è medico. Un medico queste cose le sa.
— Sì.
— Ah — dice Bhishma Das, sorbendo il suo tè. Dopo una lunga pausa aggiunge: — Naturalmente, molti di noi morranno per la decomposizione prima che l’antidoto sia stato distribuito. Non solo quelli che c’erano ai tempi della Guerra, ma anche i nostri bambini. Com’è possibile questo? Non sono mai riuscito a capirlo. La mia salute è eccellente, i miei figli sono forti; eppure ci portiamo dentro questo male, anche noi? Dorme al nostro interno, aspettando il suo momento? Dorme all’interno di tutti?
— Tutti — dice Shadrach. Come può spiegare? Se parla delle affinità strutturali tra il virus della decomposizione organica e il materiale genetico umano normale, se descrive come il virus scatenato durante quella guerra tanto tempo fa sia riuscito a integrarsi nell’acido nucleico, nel plasma germinale stesso, intrecciandosi tanto intimamente con la macchina genetica umana da passare di generazione in generazione con i geni cellulari normali, una sequenza di DNA che può divenire letale in qualsiasi momento, quanto di tutto questo può capire Bhishma Das? Shadrach può parlare dell’inestricabilità del materiale genetico letale, del modo inesorabile in cui questo viene incorporato nel corredo genetico di ciascun bambino concepito dopo la Guerra Virale, e farsi capire? Quest’intruso, il gene della decomposizione organica, è diventato parte tanto intima dell’eredità umana quanto il gene che fa crescere le chiome sul cuoio capelluto o quello che mette calcio nelle ossa: i nostri tessuti sono ormai programmati fin dalla nascita per deteriorarsi e sbriciolarsi quando scatta un certo segnale interno, che noi non conosciamo. Ma questo per Bhishma Das potrebbe essere incomprensibile come i sogni di Brahma. Alla fine Shadrach dice, dopo una pausa di qualche istante: — Tutti coloro che erano su questa terra quando è stato scatenato il virus lo hanno assorbito nel loro corpo, nella parte del loro corpo che determina quel che trasmetteranno ai loro bambini. Non può venire sradicato, una volta che è entrato in quella parte. Dunque tramandiamo il virus ai nostri figli e alle nostre figlie, così come facciamo con il colore della pelle, il colore degli occhi, il tipo di capelli…
— Un’eredità spaventosa. Molto triste. E l’antidoto, dottore? L’antidoto ci libererebbe da quest’eredità?
— L’antidoto che hanno ora — dice Shadrach — impedisce al virus di danneggiare il corpo. Lo neutralizza, lo stabilizza, lo mantiene latente. Mi segue?
— Sì, sì, capisco. Congelato!
— Per così dire. Quelli che ricevono l’antidoto devono prendere una nuova dose ogni sei mesi, al momento. Per tenere il virus sotto controllo, per evitare che dentro di loro scatti la decomposizione organica.
— Ancora un po’ di tè, dottore?
— Grazie.
— E lei ha ricevuto quest’antidoto?
A disagio, Shadrach ci pensa qualche momento, poi risponde: — Sì. L’ho ricevuto.
— Ah. Perché è un medico. Perché dobbiamo tenere in vita coloro che possono guarire gli altri. Capisco. Mi sembrava che lei dovesse avere l’antidoto. Ha un’aria speciale, lei: è come se fosse un uomo a parte, diverso da noi. Lei non si sveglia ogni mattina chiedendosi se questo sarà il giorno in cui comincia la decomposizione. Ah. E un giorno avremo l’antidoto anche noi.
— Sì. Un giorno. Il governo si sta dando da fare per aumentare la produzione. — La menzogna gli lascia un sapore amaro in bocca. — Vorrei che lei potesse ricevere oggi la sua prima dose.
— Non è importante per me — dice calmo Das. — Io sono vecchio e ho sempre goduto di buona salute, e la mia è stata una vita felice anche nei tempi più tormentati. Se dentro di me la decomposizione comincia domani, sono pronto. Ma i miei figli, e i figli dei miei figli, vorrei che fossero risparmiati. Che significato hanno per loro le vecchie guerre? Perché dovrebbero morire di una morte orribile a causa di nazioni che erano state già dimenticate prima del giorno in cui loro sono nati? Io voglio che vivano. La mia famiglia vive in Kenya da centocinquant’anni, da quando ci siamo trasferiti qui da Bombay, e siamo stati felici qui: perché dovremmo perire ora? E triste, dottore, è triste. Questa maledizione che si è attirata l’umanità. Ci monderemo mai di quel che ci siamo fatti da soli?
Shadrach scuote le spalle. Non c’è modo di estrarre il nuovo gene assassino dal corredo genetico; ma in teoria un antidoto permanente è possibile, un DNA ibrido che venga integrato dai geni contaminati per assorbire o neutralizzare il materiale genetico letale. Da qualche parte nell’organizzazione del CRP si sta lavorando su un antidoto del genere, ha sentito dire Shadrach. Naturalmente, la voce potrebbe essere falsa. Il gruppo di ricerca potrebbe essere solo un mito. L’antidoto permanente stesso potrebbe essere solo un mito.
Shadrach dice: — Credo che questi ultimi vent’anni siano stati una purga a cui l’umanità si doveva sottoporre necessariamente. Una punizione per le idiozie e la stupidità che avevamo accumulato, forse. Tutta la storia del ventesimo secolo è come una freccia che punta dritta nella direzione della Guerra Virale e delle sue conseguenze. Ma sono convinto che sopravviveremo alla prova.
— E le cose torneranno com’erano una volta?
Shadrach sorride. — Spero di no. Se torniamo al punto in cui eravamo, un giorno arriveremo di nuovo alla stessa situazione di adesso. E potremmo non sopravvivere alla prossima versione della Guerra Virale. No, credo che dalle rovine costruiremo un mondo migliore, un mondo più tranquillo, meno avido. Ci vorrà del tempo. Non so con certezza come ci riusciremo. Succederanno tante cose brutte prima di allora. Milioni di persone moriranno di una morte orribile, inutile. Ma alla fine… alla fine le sofferenze avranno termine, i decessi avranno fine, e quelli che rimarranno ricominceranno a vivere nella felicità.
— È ritemprante ascoltare parole tanto ottimistiche.
— Sono un ottimista? Non mi sarei mai definito così. Realista, forse. Ma non ottimista. È strano scoprirmi improvvisamente apostolo della fiducia e del buon umore!
— Gli occhi le luccicavano quando diceva quello che ha detto. Mentre parlava, stava già vivendo in quel mondo migliore. Ora vuole ritirare la sua profezia? No, la prego di no. Lei è convinto che quel mondo più felice arriverà.
— Io spero che arrivi.
— Lei lo sa.
— Non ne sono certo. Forse le mie parole suonavano sicure un momento fa, ma… — Scuote la testa. Fa uno sforzo cosciente per ricuperare quella vena inattesa di pensiero positivo che, sorprendendo lui per primo, l’aveva colto un momento fa. — Sì — dice. — Le cose andranno meglio. — C’è già qualcosa di forzato nella sua voce, ma Shadrach prosegue. — Niente continua a declinare per sempre. La decomposizione organica può essere vinta. La popolazione più ridotta dei nostri tempi sarà in grado di vivere agevolmente in un mondo che non poteva reggere la quantità di persone di prima della Guerra. Sì. Una purga, una prova del fuoco, un correttivo reso necessario dagli abusi del passato; un passo verso un futuro migliore. L’alba dopo la lunga oscurità.
— Ah. Lei è un ottimista!
— Forse lo sono. A volte.
— Mi piacerebbe vedere un uomo come lei a guida di quel nuovo mondo — esclama Bhishma Das con trasporto.
Shadrach si ritrae. — No, non io. Vorrei vivere in quel mondo, sì. Ma non chiedetemi di governarlo.
— Cambierà idea quando il momento verrà. Le offriranno il potere, dottore, perché lei è buono e saggio, e lei accetterà. Perché è buono e saggio. — Das versa dell’altro tè. La sua ingenua fiducia è commovente. Shadrach sorseggia dalla sua tazza, poi lo coglie un’improvvisa visione morbosa di Bhishma Das, tra un anno o due, che grida di sorpresa e di gioia nel momento in cui il nuovo Presidente del Comitato Rivoluzionario Permanente compare per la prima volta sullo schermo della sua televisione, e il volto del nuovo Presidente è il volto bruno e ben scolpito di quel medico americano saggio e buono che un tempo aveva visitato il suo negozio. A Shadrach va di traverso il tè; per poco non ne spande fuori dalla tazza. La faccia sarà la faccia del dottor Mordecai, sì, ma la mente dietro a quei caldi occhi penetranti sarà la mente fredda, oscura di Gengis Mao. Shadrach è quasi riuscito a dimenticare il Progetto Avatar, con questa giornata a Nairobi. Quasi.
— Dovrei proprio andare, ora — dice Shadrach. — È tardi. Lei vorrà chiudere il negozio.
— Resti ancora un po’. Non c’è fretta. — E poi: — La invito a cena a casa mia stasera.
— Purtroppo non mi è possibile…
— Un altro impegno? Oh, che peccato. Ci sarebbe un ottimo piatto al curry in suo onore. Stapperemmo una bottiglia di vino buono. Certi miei buoni amici… i membri più interessanti della comunità induista, professionisti, insegnanti, filosofi: una conversazione colta e stimolante… ah, sì, sì, una serata deliziosa, se lei volesse onorare la mia casa della sua presenza!
Una tentazione. Shadrach cenerà da solo, altrimenti, nel suo hotel, straniero in questa strana città, si ritroverà solo ed esposto al pericolo. Però… no: impossibile. Uno di questi interessanti professionisti indù gli chiederà sicuramente dove vive, che attività medica svolge, e a quel punto potrebbe solo mentire, cosa che gli ripugna, oppure confessare tutto: membro dell’élite privilegiata della dittatura, medico personale del terribile Gengis Mao, eccetera, e tanti auguri alla sua nuova reputazione di benefattore e filantropo. La verità su di lui disgusterà gli amici di Bhishma Das, e umilierà Das stesso. Shadrach mormora delle scuse, e qualche formula di rammarico che riesce a suonare convincente. Mentre si sta avvicinando alla porta, Das lo segue, dicendo: — Accetti almeno un dono da me, un ricordo dell’ora incantevole che abbiamo trascorso insieme. — Il mercante lancia rapidamente un’occhiata tra i suoi scaffali, cercando in mezzo alle lance, le collane di perline, le statuette di legno: tutto evidentemente troppo rozzo, troppo frivolo, troppo insignificante o troppo ingombrante per costituire un omaggio adatto a un ospite tanto distinto, e per un istante sembra che Shadrach sia destinato a lasciare il negozio a mani vuote; all’ultimo momento, però, Das raccoglie un piccolo corno di antilope, con un foro nell’estremità appuntita e della cera a tappare la base. Un corno che funge da coppetta chirurgica, a quanto spiega Das, usato da una tribù che vive vicino alla frontiera meridionale per estrarre il dolore e gli spiriti maligni dal corpo dei malati: si applica la coppetta alla pelle, si succhia, si crea il vuoto e si sigilla con il tappo di cera. Lo offre a Shadrach, dicendo che è un dono adatto per una persona che ha la missione di guarire i suoi simili, e Shadrach, dopo qualche complimento, lo accetta volentieri. Nella sua collezione non ha nessuno strumento medico che provenga dall’Africa Orientale. — Li usano ancora — lo informa Das. — Li usano molto proprio ora, per tirare fuori lo spirito della decomposizione organica. — Saluta Shadrach con un inchino, ripetendogli più volte come la sua visita sia stata un onore, che piacere gli abbia donato sentire le parole di speranza del medico.
Lungo il percorso che attraverso sette isolati lo riporta all’hotel, Shadrach conta quattro cadaveri abbandonati per la strada, e un corpo che non è ancora morto del tutto, ma lo sarà presto.