Robert Silverberg Shadrach nella fornace

1

Mancano nove minuti all’alba nella grande città di Ulan Bator, capitale del mondo ricostruito. Già da un po’ di tempo il dottor Shadrach Mordecai se ne sta sveglio sulla sua amaca, irrequieto, teso. Fissa torvo un circoletto luminoso verde, il volto rilucente del suo schermo informatico. Dallo schermo, lettere rosse annunciano il nuovo giorno:

LUNEDÌ
14 MAGGIO
2012

Come al solito, il dottor Mordecai è riuscito a mettere insieme solo qualche ora di sonno. L’insonnia lo ha perseguitato per tutto l’anno; l’irrequietezza dev’essere un messaggio dalla sua corteccia cerebrale, ma finora non è stato in grado di decifrarne il significato preciso. Oggi, se non altro, ha una scusa per alzarsi presto, perché lo aspettano grandi sfide e grandi tensioni. Il dottor Mordecai è il medico personale di Gengis II Mao IV Khan, Principe dei Principi e Presidente dei Presidenti — vale a dire, signore della Terra — e quest’oggi il vecchio Gengis Mao si sottoporrà a un trapianto del fegato, il terzo in sette anni.

Il leader mondiale dorme meno di venti metri più in là, in una suite accanto a quella di Mordecai. Dittatore e dottore occupano camere residenziali al settantacinquesimo piano della Gran Torre del Khan, un superbo edificio fusiforme dalle facciate d’onice che sorge arrogante dal tavoliere bruno e polveroso del paesaggio mongolo. In questo momento Gengis Mao dorme profondamente, gli occhi immobili sotto le palpebre spesse, la colonna vertebrale invidiabilmente rilassata, il respiro lento e regolare, il polso stabile, i livelli ormonali in ascesa, secondo la norma. Mordecai sa tutto questo perché porta con sé, inserite chirurgicamente nella carne delle sue braccia, delle sue cosce, dei suoi glutei, diverse decine di minuti noduli percettori che gli forniscono costanti informazioni telemetriche sullo stato dei segnali vitali di Gengis Mao. Ci è voluto un anno di addestramento a tempo pieno perché Mordecai imparasse a leggere quegl’input, le piccole contrazioni, i tremori, gli scatti, le sensazioni di prurito che sono gli equivalenti digitalizzati dei processi fisiologici fondamentali del Presidente; ma ora percepire e capire i dati è diventato una seconda natura per lui. Un prurito qui significa difficoltà digestive, una pulsazione là significa affaticamento della vescica, un pizzicore altrove tradisce uno squilibrio salino. Per Shadrach Mordecai è un po’ come vivere in due corpi allo stesso tempo, ma ci si è abituato. E così la preziosa vita del Presidente è protetta dal suo vigile medico. Gengis Mao ha un’età ufficiale di ottantasette anni e potrebbe essere ancora più vecchio, anche se il suo corpo, un collage di organi trapiantati e organi artificiali, è forte e vitale come quello di un cinquantenne. Desiderio del Presidente è posticipare la morte fino a quando la propria opera in terra non sarà completata: vale a dire, non morire mai.

Come riposa dolcemente ora! Mordecai ripercorre automaticamente i dati, più volte: respiratorio, digestivo, endocrino, circolatorio, tutti i sistemi autonomi procedono tranquillamente. Il Presidente, in un sonno privo di sogni (gli occhi immoti), sdraiato come suo solito sul fianco sinistro (una debole pressione sull’aorta), russa dolcemente (ripercussioni sulla cassa toracica); è chiaramente privo di apprensione per l’operazione che lo aspetta. Mordecai invidia la sua calma. Ma naturalmente, i trapianti di organi sono un’abitudine per Gengis Mao.

Nel preciso momento in cui sorge l’alba il dottore lascia l’amaca, si stira, percorre nudo il fresco pavimento di pietra della camera da letto fino al balcone, esce all’aperto. L’aria, intessuta verso oriente del blu del mattino, è nitida, fredda, ritemprante, con un vento tagliente che soffia attraverso le pianure, un forte vento meridionale che corre per la Mongolia dalla Grande Muraglia verso il lago Baikal. Gonfia le bandiere nere di Gengis Mao in Sukhe Bator, la grandiosa piazza principale della capitale, e agita i rami fioriti di rosa dei tamarischi. Shadrach Mordecai trae un respiro profondo e studia l’orizzonte lontanò, come se si aspettasse di scorgere segnali di fumo carichi di significato in arrivo dalla Cina. Non giunge nessun segnale: solo i piccoli scatti e le pulsazioni dei dischi dell’innesto chirurgico, che cantano festosi la canzone della perfetta salute di Gengis Mao.

In basso, tutto è tranquillo. La città intera dorme, a parte quelli che devono essere svegli a quell’ora per lavorare; i mongoli non soffrono d’insonnia. Mordecai sì; ma d’altronde, Mordecai non è un mongolo. È un nero, la pelle scura come quella degli africani, pur non essendo nemmeno africano; slanciato, le gambe lunghe, alto — si avvicina ai due metri — con i capelli densi e increspati, occhi grandi, labbra piene, un naso largo ma non schiacciato. In questa terra di gente robusta, dalla pelle dorata, il naso affilato e la capigliatura liscia, lucida, il dottor Mordecai è una figura che dà nell’occhio: forse più di quanto lui stesso non preferirebbe.

Si accuccia, scatta in piedi, si accuccia, scatta, piegando le braccia e tendendole, dentro e fuori, dentro e fuori. Si lancia ogni mattino in un rituale di esercizio fisico sul balcone, nudo nell’aria gelata: ha trentasei anni, e sebbene il suo ruolo nel governo gli garantisca l’accesso all’Antidoto di Roncevic, sebbene gli sia così risparmiata la paura della decomposizione organica che ossessiona la maggior parte dei due miliardi di persone che abitano il pianeta, trentasei anni è comunque un’età in cui è opportuno prendere misure coscienziose per proteggere il corpo dai normali malanni che il tempo porta. Mens sana in corpore sano: sì, continua a fare le tue flessioni e le tue torsioni, Shadrach; fa’ scorrere i liquidi vitali; aiuta il vecchio yin a mantenersi in equilibrio con lo yang. Shadrach è in perfetta salute, e i suoi organi vitali sono gli stessi che il suo corpo ospitava il giorno che spuntò dal ventre materno una fredda giornata del 1976. Su, giù, su, giù, senza risparmio. Gli sembra strano, a volte, che i suoi vigorosi esercizi mattutini non sveglino mai Gengis Mao, ma naturalmente il flusso dei dati telemetrici scorre in una sola direzione, e mentre Mordecai si sottopone con decisione alla sua ginnastica sul balcone, il Presidente continua a russare placidamente, indisturbato.

Fino a quando, ansimando, sudando, rabbrividendo, sentendosi vivo e aperto e ricettivo, imperturbato dall’imminente operazione chirurgica, Mordecai decide che ha fatto ginnastica a sufficienza. Si lava, si veste, preme un tasto per far preparare la solita colazione leggera, si dispone a svolgere la sua routine di compiti mattutini.

Il dottore ora è pronto ad affrontare Interfaccia Tre, attraverso cui ogni giorno entra nella suite residenziale del suo signore, il Khan. È un’imponente soglia romboidale, alta due metri e mezzo. Dalla sua superficie bronzea, liscia come seta, emergono come verruche una quindicina di proboscidi cilindriche, alte tra i tre e i nove centimetri. Alcune sono rilevatori e sensori, altre sono terminali audio, altre ancora sono armi letali e implacabili; e Shadrach non ha idea di quali siano l’una o l’altra cosa. Con ogni probabilità, quel che è oggi un rilevatore sarà domani un cannone laser; è con simili casuali rotazioni di funzione che Gengis Mao riesce a confondere gli assassini senza volto che teme tanto.

— Shadrach Mordecai, per servire il Khan — dice Mordecai con voce ferma e chiara in quello che spera sia il microfono di oggi.

Interfaccia Tre, che ora emette un debole ronzio, sottopone l’annuncio di Mordecai all’analisi delle impronte vocali. Contemporaneamente, una macchina controlla il corpo di Mordecai, ne esamina l’equilibrio termico, la massa, la tensione posturale, il tessuto olfattivo e molte altre cose. Se un qualunque valore dovesse cadere al di fuori dei parametri relativi al Mordecai conosciuto, il medico si troverebbe avvolto da getti rapidissimi di schiuma immobilizzante, in attesa dell’arrivo delle guardie chiamate ad accertare la situazione; opporre resistenza in quel frangente potrebbe portare alla sua ditruzione immediata. Cinque di queste interfacce proteggono i cinque ingressi delle stanze del Presidente Gengis Mao, e sono le porte più ingegnose mai progettate. Lo stesso Dedalo non avrebbe mai potuto fabbricare barriere più astute a protezione del Minotauro.

In un microsecondo Mordecai viene riconosciuto: è lui e non un convincente simulacro in missione regicida. Col sibilo dolce di giunture perfettamente manovrate, e il rumore discreto di cuscinetti a sfera che scorrono, lo scudo esterno dell’interfaccia si apre scivolando di lato. Il dottore può entrare ora in una camera interna dalle pareti di pietra, dove lo spazio per lui è a malapena sufficiente. Non è un vestibolo accogliente per chi soffre di claustrofobia, questo. Qui deve attendere un altro microsecondo mentre l’intera procedura si ripete, e solo dopo aver passato questa seconda ispezione può entrare nella residenza imperiale vera e propria. “La ridondanza”, ha dichiarato il presidente Gengis Mao, “è la nostra via maestra per la sopravvivenza”. Mordecai si trova d’accordo. Il complesso esercizio di attraversare queste interfacce è roba da niente per lui, parte dell’ordine normale dell’universo, non più fastidioso della necessità di girare una chiave per aprire una serratura.

La stanza che si trova precisamente al lato opposto rispetto a Interfaccia Tre è una sfera cava conosciuta col nome di Vettore di Sorveglianza Uno. È, in un senso molto letterale, la finestra di Gengis Mao sul mondo. Qui uno schieramento abbagliante di schermi, ampi cinque metri quadrati ciascuno, si erge in file imponenti che vanno dal pavimento al soffitto, offrendo un panorama in costante cambiamento, immagini televisive trasmesse da migliaia di occhi-spia nascosti in ogni angolo del pianeta. Non vi è grande edificio pubblico che non abbia i suoi occhi segreti; dei rilevatori scandagliano tutte le strade più importanti; un corpo di tecnici è costantemente impiegato dal governo per spostare le videocamere da un punto all’altro, e per installarne di nuove in posti che ancora sfuggono alla sorveglianza. E gli occhi non sono certo tutti in posizioni fisse. Sono così tanti i satelliti-spia che solcano le pieghe più prossime dello spazio attorno al pianeta che, se le loro orbite si trasformassero in fili di seta, la Terra si troverebbe avvolta in un denso bozzolo. Al centro del Vettore di Sorveglianza Uno c’è un grande pannello di controllo per mezzo del quale il Khan, seduto per ore di fila in un’elegante poltrona simile a un trono, è in grado di controllare il flusso di dati provenienti da tutti questi occhi, richiamando i segnali con rapidi tocchi dei polpastrelli, osservando a suo piacimento quel che avviene a Tokyo e a Bangkok, a New York e a Mosca, a Buenos Aires e al Cairo. La risoluzione della miriade di lenti a disposizione del Khan è tale che esse possono mostrare a Gengis Mao il colore degli occhi di un uomo alla distanza di cinque chilometri.

Quando il Presidente non fa uso del Vettore di Sorveglianza Uno, le centinaia di schermi continuano a funzionare senza interruzione, mentre il meccanismo di coordinamento succhia dati dagli innumerevoli punti di rilevamento secondo uno schema casuale. Le immagini vanno e vengono, indugiando talvolta sulla stessa inquadratura per fornire sequenze consecutive di svariati minuti. Shadrach Mordecai, che ogni mattina deve attraversare questa stanza per. raggiungere il suo signore, ha preso l’abitudine di sostare alcuni minuti a farsi stordire dalla vivace corrente di immagini. In privato, chiama questo interludio quotidiano “un’occhiata al Reparto Traumatologia”; Reparto Traumatologia è il nome segreto che Mordecai ha affibbiato al mondo in generale, quella valle di tristezza e di corruzione dei corpi.

Ora si erge nel mezzo della stanza, osservando le sofferenze del mondo.

Il flusso è più nervoso del solito quest’oggi; ci dev’essere qualche computer gigantesco che mantiene in moto questo sistema, e al momento pare di umore irrequieto. I comandi si muovono senza posa da un occhio all’altro, le immagini compaiono e scompaiono in preda a frenesia. Ma ci sono dei lampi isolati di significato. Un cane dall’aria particolarmente infelice si trascina zoppicando lungo una strada polverosa. Una bambina di razza negroide, gli occhi grandi, la pancia gonfia, se ne sta in piedi in una conca, in mezzo al terriccio che vola dappertutto, si mastica il pollice e piange. Una vecchia che sulle spalle curve porta un carico avvolto con cura, calpestando i ciottoli della piazza di una tranquilla città europea, emette un grido soffocato, si porta le braccia al petto, lascia rotolare via i pacchetti mentre cade a terra. Un uomo dalla pelle rovinata dal sole, lineamenti da orientale e barba bianca disordinata, un piccolo berretto verde in testa, spunta da un negozio, tossisce, sputa sangue. Una folla — messicani? giapponesi? — si accalca attorno a due ragazzi che duellano brandendo coltelli da macellaio; sulle braccia e sul petto dei due spicca il rosso vivo di numerosi tagli. Tre bambini si stringono l’uno all’altro sul tetto di una casa distrutta, alla rapida deriva nel grembo grigio e bianco di un fiume straripato. Un mendicante col volto da rapace protende con fare accusatorio la mano simile a un artiglio. Su un marciapiede una giovane dai capelli scuri cade in ginocchio, piegata su se stessa per il dolore, tocca il suolo con la testa sotto gli occhi di due ragazzini. Un’automobile lanciata a grande velocità sbanda, e proiettata fuori dall’autostrada svanisce fra i cespugli di un dirupo. Il Vettore di Sorveglianza Uno è come un maestoso arazzo composto da centinaia di sezioni, ciascuna con una storia da raccontare, una storia frammentaria che con piccoli indizi provoca lo spettatore e sfida la comprensione. Là fuori nel mondo, in quel grande Reparto Traumatologia che è il mondo, i due miliardi di sudditi di Gengis II Mao IV Khan muoiono ora dopo ora, nonostante gli sforzi del Comitato Rivoluzionario Permanente. Niente di nuovo in questo, tutte le persone che nel corso dei millenni sono state al mondo non hanno fatto altro che morire ora dopo ora; ma le maniere di morire sono diverse in questi anni, dopo la Guerra Virale. La morte è ammantata di un senso di immediatezza che non ha mai avuto prima, ora che così tante persone stanno marcendo dentro, in modo così vistoso, tutte nello stesso momento, e la decadenza generale è causa di una tristezza tanto più lancinante poiché ci sono questi innumerevoli occhi a osservarla nella sua totalità. I rilevatori del Khan captano tutto, senza esprimere commenti, senza offrire giudizi, limitandosi a riempire quelle pareti con un ritratto impressionante e sconcertante della versione riveduta della condizione umana, dopoguerra del primo ventunesimo secolo. La stanza è un tornasole del carattere, sollecita reazioni rivelatrici in ciascuno spettatore. Per Mordecai la corrente turbinosa di scene che si susseguono è affascinante e repellente, un mosaico folle di decomposizione e di sconfitta, di coraggio e sopportazione; ama e compatisce i sofferenti che per degli attimi appaiono sugli schermi, e se potesse li abbraccerebbe tutti: rimetterebbe in piedi quella vecchia, metterebbe delle monete nella mano ricurva del mendicante, carezzerebbe la pancia gonfia di quella bambina. Ma Mordecai è una persona portata a curare le altre, per inclinazione e per professione. Ad altri, quel brutale teatro che è il Vettore di Sorveglianza Uno ha la sola funzione di ricordare la loro personale buona sorte: com’è stato saggio da parte loro sforzarsi di raggiungere un alto rango governativo e ottenere dosi regolari di Antidoto di Roncevic, godere del favore del Presidente Gengis Mao e vivere liberi dal dolore e dalla fame e dalla decomposizione organica, isolati dall’incubo della vita reale! Per altri gli schermi sono una visione insopportabile, non eccitano un senso di superiorità ma piuttosto un sentimento di colpa intollerabile, loro qui al sicuro mentre quella gente è là fuori. E per altri ancora gli schermi sono semplicemente noiosi: mostrano opere drammatiche prive di trama, interazioni prive di uno scopo comprensibile, tragedie prive di significato morale, semplici brandelli randagi del tessuto strappato della vita. Quali siano le reazioni di Gengis Mao al Vettore di Sorveglianza Uno è impossibile determinarlo, perché il Khan è, in questa come in tante altre cose, assolutamente imperscrutabile all’occhio di chi lo osservi manipolare i comandi. Quel che è certo è che là dentro passa ore intere. In un certo senso, la stanza gli dà nutrimento.

Shadrach Mordecai si muove con calma questa mattina, concede alla stanza immensa cinque, otto, dieci minuti. Dopotutto, Gengis Mao sta ancora dormendo. Sono le sonde incorporate a dirlo a Mordecai. In questo mondo nessuno sfugge alla sorveglianza; mentre i molti occhi di Gengis Mao scandagliano il globo, il Khan addormentato è a sua volta sotto il controllo costante del proprio medico. Mordecai, in piedi completamente immobile di fianco al trono ben imbottito del Presidente, riceve un flusso di dati da dentro e da fuori, i valori metabolici di Gengis Mao fanno scattare e tendere i noduli telemetrici nel corpo del dottore, il bagliore tremolante degli schermi gli assale gli occhi. Sta per incamminarsi, ma proprio in quel momento uno schermo in alto in alto, sulla sinistra, gli mostra un’immagine di quella che è certamente Filadelfia, inequivocabilmente Filadelfia, e lui si arresta, inchiodato dov’è. La sua città natale: è stato un figlio del Bicentenario, entrato nel mondo nella città di Ben Franklin, apparso all’Hahnemann Hospital mentre gli Stati Uniti d’America si avviavano a celebrare il loro duecentesimo compleanno, di lì a quattro mesi. Ed ecco Filadelfia adesso, che volteggia nel percorso circolare di un attentissimo satellite-spia: i familiari totem di un’infanzia, il Municipio, l’Independence Hall, il Centro Penn, la Chiesa di Cristo. Sono passati anni dall’ultima volta in cui è stato lì. È ormai da un decennio che Shadrach Mordecai vive in Mongolia. Un tempo gli era stato difficile credere che esistesse davvero un posto chiamato Mongolia, la terra del Prete Gianni e di Gengis Khan, oggetto di tanti racconti, ma ormai è Filadelfia che comincia a sembrargli un luogo di favola. E gli Stati Uniti d’America? Queste tre parole hanno ancora un qualche significato? Chi avrebbe potuto immaginare che la Costituzione di Jefferson e Madison sarebbe stata dimenticata, e che l’America avrebbe giurato lealtà a un imperatore mongolo? Ma questa è un’esagerazione: gli Stati Uniti, come Mordecai sa bene, sono governati come tutte le altre nazioni da una sezione locale del Comitato Rivoluzionario Permanente, quell’alleanza di gruppi radicali e gruppi reazionari che opera attraverso una serie di istituzioni parademocratiche residuali; e quell’anziano recluso, Gengis Mao, non è che il Presidente del Comitato, una figura remota e semimitica che esercita il potere in maniera indiretta e non ha nessuna influenza immediata sulla vita quotidiana degli ex-compatrioti del dottor Mordecai.

Probabilmente nessuno in America considera Gengis Mao come l’incarnazione dell’autorità del Comitato Rivoluzionario Permanente, e quindi la vera guida della nazione: non più di quanto nessuno consideri il presidente del consiglio d’amministrazione dell’azienda elettrica locale come la fonte e il padrone dell’energia che lo scatto dell’interruttore fa scorrere. Eppure egli è questo. Non che molti americani siano disposti a farsi turbare dall’idea di dovere lealtà a un mongolo. Il mondo intero ha abdicato: il gioco della politica è terminato; Gengis Mao regna in mancanza di altri contendenti, regna perché a nessuno importa niente, perché in un mondo esausto e distrutto che sta morendo per decomposizione organica è un sollievo generale scoprire che qualcuno, chiunque sia, ha voglia di recitare la parte del dittatore globale.

Filadelfia svanisce dallo schermo e la rimpiazza un’idilliaca scena tropicale, una mezzaluna di spiaggia color bianco rosato, foglie leggere di palma, il giallo e lo scarlatto dell’ibisco in fiore, nessun essere umano in vista. Mordecai scrolla le spalle e va avanti.

Le camere imperiali hanno disposizione circolare, occupano l’intero ultimo piano della Grande Torre del Khan con l’eccezione dei cinque appartamenti a forma di cuneo, come quello in cui vive Mordecai, che si incastrano equidistanti lungo il perimetro della suite. Attraversato il Vettore di Sorveglianza Uno, il dottore giunge a tre soglie imponenti, disposte a circa otto metri l’una dall’altra lungo il lato della stanza che è più lontano dall’interfaccia che l’ha fatto entrare. L’ingresso di sinistra porta alla camera da letto di Gengis Mao, ma Mordecai non lo imbocca: meglio che il Presidente si goda tutto il sonno di cui ha bisogno, quest’oggi. E neppure sceglie l’ingresso centrale, che conduce allo studio privato del Presidente. Si avvicina invece all’ingresso di destra, quello che dà sulla stanza conosciuta come Vettore di Comitato Uno, attraverso la quale Shadrach deve passare per raggiungere il suo studio personale.

Pazienta brevemente mentre la porta lo esamina e lo accetta. Tutte le stanze interne della suite imperiale sono divise tra loro da barriere impenetrabili simili a questa, più piccole in dimensione delle porte principali che si trovano alle cinque interfacce, ma analogamente sospettose: a nessuno qui è concesso vagare liberamente di stanza in stanza. Dopo un momento, la porta gli concede l’accesso al Vettore di Comitato Uno. Si tratta di una stanza ampia e bene illuminata, di forma sferica come tutte le stanze più importanti nella suite di Gengis Mao. Occupa il centro fisico dell’appartamento, il polo attorno al quale gira tutto il resto, e in un senso meno letterale è il centro nervoso della struttura governativa planetaria, il Comitato Rivoluzionario Permanente. Qui arrivano, giorno e notte, dispacci urgenti dai quadri del Comitato di ogni città del mondo; e qui, giorno e notte, notabili del Comitato siedono davanti a intricate consolle costellate di terminali, elaborando nuove strategie e comunicandole a quei satrapi meno potenti che governano le province esterne. Tutte le domande di immunizzazione con Antidoto di Roncevic passano da questa stanza; tutte le richieste di trapianto d’organi, terapia rigenerativa o altri servizi medici d’importanza vitale vengono prese in esame nel Vettore di Comitato Uno; tutte le dispute all’interno di strutture regionali del Comitato vengono risolte qui secondo i principi della depolarizzazione centripeta, il più grande dono filosofico che Gengis Mao abbia fatto all’umanità. Shadrach Mordecai non è un politico, e si cura poco degli eventi che hanno luogo nel Vettore di Comitato Uno; ma, poiché la disposizione di quel piano dell’edificio gli impone di attraversare quella stanza diverse volte al giorno, gli capita di sostare di tanto in tanto a osservare le fatiche dei burocrati: allo stesso modo in cui potrebbe capitargli di fermarsi a esaminare il comportamento di una colonia di insetti bizzarri in un ciocco di legno marcescente.

Pare che non stia succedendo granché al momento. Nei momenti di crisi più grave, tutti e dodici i posti alle consolle sono occupati, e Gengis Mao in persona, seduto ai comandi della sua elaborata apparecchiatura personale, al centro di tutto, manovra fiero la sua formidabile batteria di sofisticati congegni di comunicazione e dirige il corso delle strategie. Ma questi sono giorni tranquilli. L’unica crisi al mondo che desti attenzione è quella nel fegato del Presidente, e presto vi si porrà rimedio. Sono ormai settimane che Gengis Mao non si è dato cura di sedersi al suo posto nel Vettore di Comitato Uno, preferendo occuparsi delle sue responsabilità di sovrano dal suo studio privato, un locale meno vasto che si trova di fianco alla sua camera da letto. E solo tre delle consolle sono in uso questa mattina, manovrate da tre vicepresidenti, un uomo e due donne; tutti e tre hanno l’aria stanca, ricevono messaggi e formulano le risposte appropriate sbadigliando, stravaccati sulle poltrone. Mordecai, il passo rapido, è arrivato a metà della stanza quando qualcuno lo chiama per nome. Si volta e vede che Mangu, il successore designato di Gengis Mao, gli si sta avvicinando dalla direzione dello studio privato del Presidente.

— Il Khan verrà operato oggi? — si informa Mangu con fare preoccupato.

Mordecai replica, annuendo: — Tra tre ore circa.

Mangu aggrotta la fronte. È un giovane mongolo dall’aspetto curato e attraente, insolitamente alto per la sua razza: alto quasi quanto lo stesso Mordecai. Il suo volto è tondo, i lineamenti simmetrici ed eleganti; gli occhi attenti e vivaci. In questo momento sembra teso, agitato, apprensivo.

— Andrà tutto bene, Shadrach? Ci sono rischi?

— Non preoccuparti. Non diventerai Khan quest’oggi. È solo un trapianto del fegato, dopotutto.

Solo!

— Gengis Mao ne ha già fatti in abbondanza.

— Ma quante operazioni chirurgiche può reggere ancora? Gengis Mao è un uomo anziano.

— Meglio che lui non ti senta dire cose del genere!

— Probabilmente ci sta ascoltando proprio in questo momento — dice Mangu, noncurante. Parte della tensione sembra lasciarlo. Fa una smorfia. — Il Khan non prende mai sul serio quel che dico io, in ogni caso. Sono convinto che a volte mi consideri un po’ uno sciocco.

Mordecai sorride, leggermente a disagio. Anche lui a volte pensa che Mangu sia un po’ uno sciocco, e forse più che un po’ soltanto. Si ricorda di quando la dottoressa Crowfoot del Progetto Avatar, Nikki Crowfoot, la sua Nikki, con cui avrebbe volentieri passato la notte non fosse stato per l’operazione di Gengis Mao, gli raccontò mesi fa della sorte agghiacciante che attende Mangu. Mordecai sa qualcosa che Mangu quasi certamente ignora: Gengis Mao progetta di succedere a se stesso, usando come strumento il forte, sano, giovane corpo di Mangu. Se il Progetto Avatar raggiungerà una conclusione positiva, e tutto pare indicare che sarà così, l’elegante e robusta figura di Mangu si troverà davvero un giorno a sedere sul trono di Gengis Mao, ma Mangu stesso non sarà lì a godersi l’occasione. Agli occhi di Mordecai, chiunque marci allegramente verso la propria distruzione come sta facendo Mangu, senza accorgersi di niente, senza sospettare niente, senza temere niente, è uno sciocco e peggio che uno sciocco.

— Dove sarai durante l’operazione? — chiede Mordecai.

Mangu fa un ampio gesto nella direzione del piano di comando principale del Vettore di Comitato Uno. — Lassù, a fingere di dirigere lo spettacolo.

— Fingere?

— Sai bene che ci sono molte cose che devo ancora imparare, Shadrach. Ci vorranno ancora anni prima che io sia pronto a prendere il comando. È per questo che sarei più contento se lui non si sottoponesse a tutti questi trapianti.

— Non lo fa per ginnastica — dice Mordecai. — Il fegato con cui vive adesso è in difficoltà da settimane. Dobbiamo toglierlo. Ma te l’ho detto: non c’è bisogno che ti preoccupi.

Mangu sorride e afferra l’avambraccio di Mordecai in una breve, affettuosa stretta, sorprendentemente dolorosa. — Non mi preoccuperò. Mi fido di te, Shadrach. E di tutta la squadra che tiene in vita il Khan. Fammi sapere quando sarà finita, d’accordo?

Si allontana a grandi passi, verso il posto di comando principale, dove giocherà un po’ a fare il monarca mondiale.

Mordecai scuote la testa. Mangu è un personaggio attraente, socievole e affascinante; perfino carismatico. In un momento storico oscuro, illuminato solo da terribili lampi spezzati di luce da incubo, Mangu è una specie di eroe popolare. Nell’ultima decina di mesi è diventato il surrogato pubblico del Khan, presente al posto di Gengis Mao in ogni sorta di funzioni formali, inaugurazioni di dighe, congressi del Comitato e roba del genere, e il fascinoso, galante principe ereditario, così disarmante, così semplice nei modi, così aperto con il popolo, è adorato in una maniera che Gengis Mao non ha mai conosciuto, nemmeno per un istante. Chi ha osservato Mangu da vicino sa bene che egli è essenzialmente un uomo vuoto, tutto immagine e niente sostanza, un’anima frivola e superficiale, un amabile atleta che sta vivendo una messinscena poco plausibile; ma se non è degno di ammirazione, Mangu non è neanche degno di disprezzo, tutt’altro, e Mordecai prova una sincera compassione per lui. Povero Mangu, tutto preoccupato per la possibilità di ritrovarsi a succedere al Khan oggi stesso, il suo apprendistato non ancora giunto a termine! Non viene il dubbio a Mangu che mai — non tra un anno, non tra dieci anni, non tra mille — potrebbe essere un valido successore di Gengis Mao, lui, così fondamentalmente incapace di gestire il terribile potere che in apparenza lo stanno preparando a ereditare?

A quanto pare, no. Se così fosse Mangu, conoscendo i propri limiti, avrebbe cominciato a domandarsi quali siano i reali piani che Gengis Mao ha per lui, e perché il Presidente abbia scelto come successore niente di più che un ragazzo attraente, tutto il suo opposto in ogni aspetto importante. Per addestrarlo a essere sovrano supremo? No. No. Per addestrarlo a essere niente più che un pupazzo; a danzare davanti al popolo e a guadagnarsene l’amore. E poi, un giorno, a lasciarsi raccogliere e gettar via l’identità, così che il suo corpo possa diventare la nuova abitazione per la mente astuta e per l’anima oscura di Gengis Mao, quando lo scafo antico e rattoppato del Presidente non potrà più essere riparato. Povero Mangu. Mordecai ha un brivido.

Si affretta verso il proprio studio, si tira dietro la porta e dà un giro di chiave.

C’è uno scatto improvviso ed acuto nella sua coscia sinistra, vicino al fianco, il luogo dove Mordecai riceve il segnale cerebrale di Gengis Mao. Quattro stanze più in là, il Khan si sta svegliando.

Загрузка...