Non persi mai conoscenza. Non provavo nulla, sembrava che il mio corpo fosse diventato completamente insensibile, come se fosse stato racchiuso in un bozzolo trasparente che mi teneva immobile e mi proteggeva perfettamente da qualsiasi cosa esterna. Né caldo ne freddo, né dolore né piacere, né gioia né paura… nulla penetrava nel rivestimento che mi copriva.
Però, vedevo. La notte tempestosa e il paesaggio dell’Era Glaciale tremolarono e lentamente si dissolsero, come un castello di sabbia spazzato via dalla marea. Accanto a me c’era Ahriman, tuttora rinchiuso nel luccichio azzurrognolo di energia del fulmine, immobile come me. I suoi occhi rossi mi fissavano truci, e in quegli occhi si leggeva la paura, oltre all’odio e alla rabbia, al desiderio di lottare.
Gradualmente, l’oscurità si infittì sempre più, finché la vista diventò un senso inutile. Non vedevo più nulla. Ero solo in un abisso di oscurità, sospeso nel tempo e nello spazio, senza sapere dove mi trovassi né dove fossi diretto.
Stranamente, non avevo paura… non provavo neppure un po’ di apprensione. Anche se non potevo vederlo, sapevo che Ahriman era accanto a me. Sapevo che Adena e il suo drappello di soldati superstiti sarebbero sopravvissuti al freddo dell’Era Glaciale e avrebbero parlato ai loro figli del semidio che gli aveva insegnato ad accendere il fuoco. Ora mi rendevo conto che il clan di cacciatori di Dal e tutti gli altri esseri umani di ogni epoca erano i discendenti di quei pochi soldati, persi e abbandonati dopo l’ultima battaglia della Guerra.
E sapevo che Ormazd era vicino. E con lui ci sarebbe stata la dea che amavo quando si degnava di assumere forma umana.
L’oscurità cominciò a diradarsi. Deboli scintille luminose, simili a stelle nel cielo notturno, cominciarono ad apparire. Poi, come in un’alba lenta e riluttante, il nero attorno a me si attenuò, divenne un grigio perla, una tinta rosata più tenue.
Lentamente, la luce e il calore fluirono su di me, sciogliendo il bozzolo che mi imprigionava. Potevo piegare le dita, muovere le braccia. Gradualmente tutti gli altri blocchi fisici svanirono. Adesso potevo muovermi e percepire di nuovo.
Ma Ahriman rimase intrappolato in una ragnatela invisibile di energia, paralizzato, fissandomi minaccioso. Avrei dovuto essere contento; invece provai qualcosa di molto simile alla pietà.
— Non posso farci nulla — dissi, anche se sapevo che non poteva sentirmi. Mi strinsi nelle spalle in modo eloquente, perché capisse che mi trovavo in una situazione di impotenza. Il suo sguardo maligno restò fisso su di me.
Mi girai per esaminare il luogo in cui ci trovavamo. Era una distesa smisurata di nuvole. Non una collina, non un albero, non uno stelo d’erba… non c’era nemmeno un orizzonte, nel senso abituale della parola; solo nubi bianche panciute che scorrevano lente, ininterrotte.
I miei piedi sembravano posati su qualcosa di solido; eppure quando guardai in giù non vidi altro che impalpabili riccioli candidi. In alto, il cielo era limpido, e allo zenit l’azzurro era abbastanza scuro da rivelare alcune stelle.
Ricordavo di avere attraversato in aereo paesaggi celesti come quello, dove non si vedeva alcuna traccia della superficie terrestre, dove sotto di sé si scorgeva solo la sommità di uno spesso tappeto di nubi di un candore abbacinante.
Sorrisi tra me. — Dunque questo è il paradiso, eh? — Portando le mani unite alla bocca, gridai a squarciagola: — Non ci credo, Ormazd! Dovrai escogitare qualcosa di più convincente!
Tornai a guardare Ahriman. Era sempre immobile come una statua di odio implacabile, unico punto di riferimento concreto in quel mondo fantastico.
Qualcosa attirò il mio sguardo verso lo zenit, dove occhieggiavano quelle stelle sparse. Una sembrava brillare più intensamente delle altre… sfolgorava, luccicava, e si ingrandiva sempre più. Divenne una bolla di luce in espansione, e a un certo punto dovetti coprirmi gli occhi con un braccio per non rimanere accecato.
Lo sfolgorio diminuì, e quando alzai di nuovo lo sguardo vidi la forma umana di Ormazd, splendente nella sua uniforme d’oro, il viso sorridente incorniciato dalla sua folta chioma dorata.
— Bravo, Orion — mi disse raggiante. — Ci sei riuscito, finalmente.
A quelle parole provai un senso di incredibile soddisfazione, il tipo di emozione che deve provare un cucciolo quando il padrone gli accarezza la testa. Eppure, nel mio intimo, si annidava anche del risentimento.
— Il mio compito era quello di uccidere Ahriman — dissi.
Ormazd mi tranquillizzò con un cenno sicuro della mano. — Non importa. È come se fosse morto. Non può più nuocerci, adesso.
— Allora… il mio incarico è terminato?
— Sì. Terminato.
— Che ne sarà di me, adesso? E di lui!
Il sorriso splendente e compiaciuto di Ormazd svanì. — Lui rimarrà qui, in questa stasi, fuori dal flusso del continuum. Non può più danneggiarci, ora. Il continuum è salvo, finalmente.
— E io?
Ormazd parve leggermente perplesso. — Il tuo compito è terminato, Orion. Che devo farne, di te?
Avevo la gola bloccata. Non riuscivo a parlare.
— Cosa vuoi? — mi chiese Ormazd. — Che ricompensa posso darti per il tuo fedele servizio?
Stava giocando con me, lo capivo benissimo. E non trovavo il coraggio per dirgli che volevo Aretha, Agla, Ava, Adena… la dea dagli occhi grigi. D’un tratto mi chiesi se anche lei avesse fatto parte del piano di Ormazd, come stimolo capace di farmi sopportare la sofferenza della morte nella mia caccia ad Ahriman, come premio irraggiungibile per attirarmi attraverso lo spazio-tempo verso l’obiettivo di Ormazd.
— Be’, Orion? — disse Ormazd, sorridendo. — Cos’è che desideri?
— Lei è… esiste davvero?
— Chi? — Il sorriso di Ormazd divenne un sogghigno felino. — Chi, esiste davvero?
— La donna… quella che si chiamava Adena quando guidava una squadra dei tuoi soldati nella Guerra.
— Adena esiste, certo. È reale quanto te. E umana.
— Ava… Agla…
— Esistono tutte. Nel loro tempo. Sono tutte esseri umani, che vivono la loro vita in epoche diverse.
— Allora lei non è…
L’aria accanto a Ormazd cominciò a ondeggiare, come se un potente raggio termico fosse stato acceso. Tremolava e scintillava. Ormazd arretrò d’un passo, e l’aria si solidificò, assunse riflessi argentei che si mutarono poi in una splendida donna, alta, slanciata, vestita di metallo lucente.
— Smettila di giocare con lui, Ormazd — disse severa la donna. Poi mi guardò, e i nostri occhi si incontrarono. — Esisto, Orion. Sono reale.
Il respiro mi si bloccò nei polmoni. Ammutolii.
Ma Ormazd non era affatto muto. — È questa che intendi? Ti sei innamorato di una dea, Orion? — E rise.
— Trovi ridicolo che la tua creatura debba amarmi? — disse lei, seccamente. — Allora chissà come sarà divertente sapere che io l’amo.
Ormazd scosse il capo. — Impossibile.
— Davvero?
Finalmente ritrovai la voce. — Il tuo nome… qual è il tuo vero nome?
Il suo tono si addolcì. — Io sono tutte quelle donne che hai conosciuto nelle varie epoche. Qui, mi chiamo Anya.
— Anya.
— Sì — disse. — E nonostante lo scherno del tuo creatore, ti amo davvero.
— Anch’io, Anya.
— Impossibile — eruppe Ormazd. — Un essere umano può amare un verme? Tu sei una dea, Anya. Non sei una di queste creature di carne.
— Sono diventata una creatura di carne. Ho imparato a essere umana — ribatté lei.
— Però non sei umana — insisté Ormazd. — Come non lo sono io. — La figura di Ormazd vibrò, si offuscò leggermente. — Mostragli le tue vere sembianze.
Anya scosse il capo.
— Ti rifiuti? Allora osserva me, Orion, e guarda com’è veramente il tuo creatore!
Il corpo di Ormazd si dissolse in una luce dorata così intensa che dovetti evitare di guardarla direttamente. Però non irradiava calore; anzi, sembrava che l’aria attorno a me si fosse raffreddata. Lo sfolgorio, comunque, era doloroso. Dovetti abbassare gli occhi, piegare la testa, proteggermi con le braccia, per sottrarmi a quel bagliore insostenibile.
— Sono Ormazd, il Dio della Luce, il creatore dell’umanità — tuonò la sua voce.
Attraverso le palpebre ridotte a due fessure, vidi un grande globo di luce, radioso come il sole, che si librava nello spazio occupato fino a un istante prima dall’uomo dai capelli d’oro.
— In ginocchio, creatura! Adora il tuo creatore!
La forza della sua radiosità premeva su di me come qualcosa di concreto, come le radiazioni devastanti della camera di fusione distante secoli e secoli.
Anya mi strinse il braccio, mi sorresse, fissando la forma ardente di Ormazd.
— Ti ha servito bene, Ormazd — disse. — Non devi trattarlo così.
Il globo perse lucentezza, si restrinse, e riacquistò forma umana.
— Volevo che capisse — disse Ormazd, il tono calmo e distaccato di una tranquilla discussione domenicale in canonica. — Che capisse con chi ha a che fare.
Anya sorrise scaltra. — E tu, Dio della Luce, dovresti capire con chi hai a che fare. Ho visto il coraggio di Orion. Non puoi intimidirlo.
— Gliel’ho dato io quel coraggio — ribatté lui.
— Allora smettila di cercare di scoraggiarlo!
— Aspettate! — intervenni. — Aspettate. Ci sono troppe cose che non capisco.
— E come potresti? — mi schernì Ormazd.
Guardai Ahriman, che ci fissava con occhi pieni di sofferenza.
— Mi hai creato perché dessi la caccia ad Ahriman e lo uccidessi.
— Sì. Ma toglierlo dal flusso temporale del continuum è stata un’azione altrettanto valida. Rimarrà qui, bloccato in questa stasi, per sempre.
— In tutte le ere in cui sono stato inviato, ho trovato una donna… la stessa donna… Eri tu, Anya, ogni volta.
— È vero — rispose lei.
— Ma Ormazd mi ha detto che ognuna di quelle donne era umana come me, e viveva la propria vita in quella particolare epoca…
— Non capisce la differenza tra flusso temporale e stasi — disse Ormazd.
— Allora dovremmo spiegargliela.
— Perché?
— Perché lo voglio io — rispose Anya.
Ormazd fece una smorfia di disgusto. — Perché scomodarsi a dare spiegazioni a una creatura che ha ormai esaurito la sua utilità, la sua ragione di esistere?
Esaurito la mia utilità, la mia ragione di esistere… Già, se mi aveva creato, se mi aveva sballottato in ere diverse perché distruggessi Ahriman, se mi aveva resuscitato più volte, certamente Ormazd era anche in grado di porre fine alla mia esistenza, definitivamente, per sempre.
Lo fissai. — È questa la ricompensa che vuoi darmi? La morte una volta per tutte?
— Orion, cerca di capire — disse Ormazd, quasi conciliante. — Quello che desideri è impossibile. Anya non è un essere umano, come io non lo sono. Assumiamo forma umana solo per apparirti con un aspetto familiare, comprensibile.
— Ma Adena… Agla…
— Loro sono umane — disse Anya. — Adena è stata creata in un futuro lontanissimo rispetto a tutte le ere che hai conosciuto…
— Cinquantamila anni dopo il ventesimo secolo — dissi, ricordando quanto mi aveva detto Ormazd la prima volta che lo avevo incontrato.
— Esattamente — annuì Anya. — È stata creata nello stesso periodo in cui sei stato creato tu.
— Allora…
— E le altre, Aretha, Ava, Agla… sono nate da madri umane, come sono sempre nati tutti gli esseri umani, da quando la squadra di soldati di Adena ha lottato per sopravvivere nell’Era Glaciale.
— Ma quelle donne erano te.
— Sì. Ho occupato i loro corpi per l’intera durata della loro vita. Sono diventata umana.
— Per me?
— All’inizio, no. All’inizio era solo… curiosità, un’esperienza nuova, l’occasione giusta per vedere com’era da vicino l’opera di Ormazd. Poi però ho cominciato a provare quello che provavano loro… il dolore, la paura… poi ho incontrato te, e ho cominciato a capire il significato dell’amore.
Mi rivolsi a Ormazd. — Vuoi impedirci di stare insieme?
Il suo sorriso beffardo era scomparso da un pezzo. Ora sembrava molto preoccupato. — Posso darti una vita ricca e piena, Orion. Molte vite, se desideri. Però non posso trasformarti in uno di noi. È impossibile.
— Perché ti rifiuti di renderlo possibile — replicai amaro.
Lui scosse la testa. — No. È impossibile perché neppure io posso riuscirci. Non posso trasformare un batterio in un uccello. Non posso trasformare un uomo in un dio.
— Sta dicendo la verità? — chiesi implorante ad Anya. — Non c’è nulla che si possa fare?
— Cerca di capire, Orion — rispose lei dolcemente.
— E come posso capire? — Sentivo la rabbia che mi ribolliva dentro. Diedi uno sguardo alla figura imprigionata di Ahriman, e conobbi un po’ dell’odio che bruciava nei suoi occhi. — Non mi avete permesso di capire. Mi avete creato perché facessi un lavoro per voi, e adesso che è finito, per voi anche io sono finito.
— No — disse Anya. — Non è…
Ma Ormazd l’interruppe. — Accetta l’immutabile. Ti sei comportato bene. L’umanità ti adorerà nel corso del tempo, in varie forme. Si dimenticheranno di me, ma si ricorderanno sempre di Prometeo.
— Perché? — chiesi. — Perché mi hai creato? Perché hai creato l’umanità? Perché combattere La Guerra contro la gente di Ahriman? Perché hai provocato tutta questa sofferenza, tanto spargimento di sangue?
Ormazd tacque. Il suo alone dorato gli si raccolse attorno come un mantello protettivo, mentre piegava il capo rifiutandosi di rispondere.
Ma gli occhi grigi di Anya mandavano guizzi argentei. Lo fissò, finché lui non alzò gli occhi e la guardò.
— Merita una risposta, Dio della Luce — disse Anya con un filo di voce.
Ormazd si limitò a scuotere la testa.
— Allora gli parlerò io — insisté Anya.
— A che scopo? — disse Ormazd. — Mi odia già. Vuoi che odii anche te?
— Voglio che capisca.
— Sei una sciocca.
— Può darsi. Però è giusto che lui sappia tutta la verità.
L’aura di Ormazd cominciò a pulsare e ad arrossarsi ai margini. La luce divenne sempre più vivida, quasi accecante. Il suo corpo umano si dissolse velocemente in una sfera radiosa, un sole in miniatura, che si alzò sulle nostre teste e si perse in lontananza riducendosi a un punticino di luce stellare nel cielo.
Tornai a osservare Anya.
— Sei pronto a vedere la verità, Orion? — mi chiese. I suoi occhi racchiudevano una tristezza infinita.
— Vorrà dire che devo perderti?
— Devi perdermi in ogni caso. Ormazd non ti ha mentito. Non puoi diventare uno di noi.
Ero tentato di chiederle di porre fine a tutto subito, di fare cessare la mia esistenza, il dolore. Invece dissi: — Se devo esistere senza di te, lascia che sappia almeno perché sono stato creato.
— Sei stato creato per dare la caccia ad Ahriman.
— Sì, ma perché! Non credo alla storia che mi ha raccontato Ormazd. Ahriman non avrebbe potuto distruggere l’universo. Sono tutte sciocchezze Ormazd mi ha mentito.
— No. È tutto vero.
— Allora mostrami la verità. Fammi capire!
Anya annuì, serissima. — Dovrai entrare di nuovo nel flusso temporale. Dovrò mandarti in un punto dello spazio-tempo che precede l’Era Glaciale, prima che gli esseri umani esistessero sulla Terra.
— Benissimo, mandami là. Sono pronto.
Anya sospirò, esitando. — Non sarò con te, però. In nessuna forma. Sarai completamente solo… a parte…
— A parte?
— Vedrai — rispose Anya. — Per ora ti basti sapere che non ci saranno altri esseri umani sulla Terra, altre creature come te.
— Ormazd non li avrà ancora creati — mi resi conto.
— Esatto.
— Ma ci sarà gualcun altro — azzardai. Poi un’intuizione mi illuminò la mente. — La gente di Ahriman! Ci saranno loro sulla Terra!
Anya non rispose, ma le lessi negli occhi che era vero. Spostai lo sguardo verso Ahriman, imprigionato nella sua rete di energia; nei suoi occhi ardeva un furore che avrebbe potuto distruggere mondi interi, se mai avesse trovato libero sfogo.
Anya mi disse di chiudere gli occhi e di riaprirli solo quando avessi sentito il vento sulla pelle. Per un attimo rimasi a contemplare il suo volto, bellissimo e grave.
Dopo quella volta non l’avrei più rivista, lo sapevo. Il mio sarebbe stato un viaggio senza ritorno.
Avrei voluto abbracciarla, baciarla, dirle per l’ultima volta che l’amavo disperatamente. Ma lei era una dea, non una donna. Potevo amarla come Agla la strega, o Ava la cacciatrice. Potevo amare Aretha, che conoscevo appena, o Adena, che guidava la sua squadra in battaglia. Ma quella dea vestita d’argento era fuori della mia portata, lo sapevo. Ormazd aveva ragione; un batterio non può diventare un uccello; una dea non può innamorarsi di una scimmia.
Chiusi gli occhi.
— Tienili chiusi finché non sentirai il vento su di te — mi disse la sua voce soave.
Annuii. Poi sentii un lieve contatto sulla guancia. Le sue dita, forse. O forse le sue labbra che mi sfioravano. Bruciavo per lei, ma mi ritrovai paralizzato. Non potevo aprire i pugni, non potevo muovermi. I miei occhi non si sarebbero aperti anche se avessi voluto aprirli.
— Addio, amore — mormorò Anya, senza che potessi risponderle.
Per un attimo rimasi bloccato nell’oscurità, privato di qualsiasi stimolo sensoriale. Non vedevo, non sentivo, non percepivo.
L’udito fu il primo a tornare. Mi giunse un suono sommesso, una specie di sospiro, il mormorio di qualcosa che non sentivo da tanto tempo, che avevo quasi dimenticato: una brezza mite che faceva frusciare gli alberi.
Sentii quella brezza sul viso, calda, dolce, carezzevole. Aprendo gli occhi, vidi che mi trovavo in una foresta di piante immense… sequoie, apparentemente. I tronchi giganteschi erano più grossi di una casa, e si innalzavano verso un cielo azzurro punteggiato di nuvole come pilastri di una cattedrale mastodontica.
A parte il mormorio del vento, la foresta mi sembrava silenziosa. Ma mentre me ne stavo estasiato all’ombra di quelle fronde maestose, cominciai a riconoscere in sottofondo i rumori della vita: richiami di uccelli, il gorgoglio di un torrente lontano, lo zampettio di qualche piccola creatura pelosa nel sottobosco rado.
Che mondo stupendo! A Dal, ad Ava e al loro clan sarebbe piaciuto moltissimo vivere in un posto simile. Anche Subotai e il Gran Khan, per quanto fossero rudi guerrieri, si sarebbero stabiliti volentieri lì. C’era tutto quello che un uomo poteva desiderare… tranne la presenza di altri esseri umani.
Vagai nella foresta per ore, raccogliendo bacche da un cespuglio, bevendo l’acqua di un ruscello chiassoso, godendomi la pace e la gioia di un mondo incontaminato dalla guerra e dalla violenza omicida.
“E se Anya mi ha mandato qui per liberarsi di me con la maggior delicatezza possibile?” cominciai a chiedermi. Era un ottimo mondo, un luogo dove si poteva vivere comodamente, a parte l’assenza di compagni. Era così che Anya aveva pensato di esiliarmi, di allontanarmi dalla sua presenza? Un limbo piacevole? Una Siberia calda e accogliente? Avrei trascorso lì il resto della mia solitaria esistenza, tranquillamente, e una volta morto non l’avrei più infastidita… Come mettere nella cuccia un cane quando non si ha più bisogno di lui e non lo si vuole più tra i piedi.
Scossi la testa. No, Anya non mi avrebbe mai mentito. Mi aveva mandato lì perché potessi capire lo schema globale della realtà, per una ragione precisa, non semplicemente per sbarazzarsi di me, continuai a ripetermi. Dovevo crederci. Non avevo nient’altro a cui aggrapparmi.
Il sole stava calando dietro una catena di colline che scorgevo a stento, lontanissime, tra le colonne massicce degli alberi. Le ombre si allungarono nell’oscurità del crepuscolo, ma l’aria era ancora calda e profumata di fiori. Indossavo una casacca senza maniche e dei calzoni al ginocchio, di pelle. Ai piedi avevo un paio di sandali di cuoio. Eppure, anche quando sopraggiunse la notte, non avevo freddo. Il terreno era morbido e muschioso; mi coricai e mi addormentai quasi subito.
Nei miei sogni vidi quella Terra primitiva come avrebbe potuto vederla un dio, come la vedevano indubbiamente Anya e Ormazd… Una splendida sfera azzurra incastonata nelle tenebre gelide dello spazio, ornata di festoni di nubi di un candore scintillante. Riconobbi i contorni abbozzati dell’Europa e dell’Africa, delle Americhe e dell’Asia, che contrastavano sulla distesa blu degli oceani. L’Atlantico sembrava più stretto, e l’Australia non era ancora un’isola, però quella era proprio la Terra.
L’Artico era libero dai ghiacciai, le sue acque erano Azzurre e invitanti come quelle dell’Equatore. L’Antartide invece era una macchia di un biancore accecante. Non c’erano città, strade, né le cupole grigie e i pennacchi fuligginosi degli insediamenti umani.
Era una Terra priva di esseri umani, priva di forme intelligenti… quasi.
Mi svegliai sentendomi ritemprato fisicamente, ma molto, molto perplesso. Dovevano esserci delle persone, lì; se non le creature umane di Ormazd, la gente di Ahriman almeno. Era per questo che Anya mi aveva mandato lì: perché li incontrassi e li vedessi per quello che erano veramente.
Mi alzai, mi lavai nel ruscello e per colazione mangiai bacche e uova. Non me la sentivo di uccidere uno degli animali che lanciavano i loro richiami nella foresta. Non avevo attrezzi, non avevo armi, e non avevo alcuna voglia di cominciare a fabbricarne.
Invece, mi misi a camminare lungo la riva del ruscello in leggera salita, tra quegli alberi grattacielo che proiettavano sul terreno un mosaico di luce e ombra. L’acqua gorgogliava tra i sassi. Sulla sponda opposta vidi una femmina di daino e i suoi due piccoli che mi osservavano, muovendo a scatti le orecchie, con occhi enormi.
— Buon giorno — li salutai. Non fuggirono. Continuarono a osservarmi finché, sicuri che non rappresentassi una minaccia, ripresero a brucare la vegetazione.
Mentre mi spingevo a monte, apparvero altri cervi, che si muovevano cauti sulle loro gambe sottili, che mi fissavano coi loro occhi innocenti. Dovevano esserci dei predatori lì attorno, pensai. Eppure durante la notte non avevo sentito alcun ruggito felino, né ululati.
Anche se il terreno era in lieve pendenza, procedevo senza difficoltà. Il sottobosco non era folto, e il fondo era coperto da uno strato di muschio elastico e di aghi degli alberi. Gruppi sempre più numerosi di cervi e di animali più piccoli si radunavano sul bordo dell’acqua dove i cespugli e gli arbusti crescevano più fitti. Sembrava quasi che quello fosse un parco, una riserva creata appositamente. “Da chi?” mi chiesi. “Per chi?”
Verso metà mattina, trovai le risposte che cercavo.
Gli uccelli cinguettavano tra i rami di quegli alberi. Guardai e ne vidi interi stormi, di ogni specie e colore: cardinali rossi, passeri marrone, merli, corvi, pettirossi, tordi, scriccioli. Centinaia, migliaia di volatili posati sui rami, che svolazzavano avanti e indietro, in un chiacchiericcio continuo. Tra loro non c’era un solo rapace… niente falchi, né poiane, ne aquile.
Mentre osservavo, tutti si fermarono, tacquero. Come se aspettassero qualcosa. Poi, a uno a uno, cominciarono a tuffarsi dai loro trespoli, spiegando le ali, lasciandosi quasi scivolare verso il basso, superandomi in volo.
Li seguii con lo sguardo e vidi, in lontananza, dove fossero diretti.
In una piccola radura c’erano alcuni uomini; portavano delle sacche a tracolla, e dalle sacche estraevano manciate di roba che spargevano sul terreno.
Esseri umani! Ero allibito. Anya aveva detto che lì non avrei trovato esseri umani, eppure ce n’erano tre… anzi, quattro, che davano del becchime a un nugolo di uccelli!
Mi avvicinai lentamente, tenendomi dietro gli alberi, in parte per sottrarmi alla nube di pennuti che continuavano a lanciarsi in volo verso il mangime, in parte perché l’istinto mi diceva di non spaventare quegli sconosciuti uscendo allo scoperto troppo presto.
A un certo punto, vidi chi fossero, e per un attimo il cuore mi si arrestò. La gente di Ahriman. Quelli che i soldati di Adena chiamavano bruti. Non sembravano certo molto brutali, intenti com’erano a spargere becchime, lasciando che gli uccelli gli si posassero sulle ampie spalle, ridendo divertiti mentre rimpinzavano quegli stormi multicolori.
Li studiai al riparo di un tronco gigantesco. Sì, erano i compagni di Ahriman, non appartenevano alla mia razza. Facce larghe, zigomi sporgenti, labbra sottilissime. Corpi muscolosi, arti massicci.
D’un tratto, mi sentii completamente vuoto all’interno. Avevo capito chi erano, cos’erano. Uomini di Neandertal. Mi inginocchiai e appoggiai la testa alla corteccia liscia del tronco. Uomini di Neandertal. L’altra razza di primati intelligenti vissuta sulla Terra durante l’Era Glaciale.
Chiudendo gli occhi per concentrarmi, mi sforzai di ricordare le mie scarse cognizioni di antropologia del ventesimo secolo. I neandertaliani erano considerati in pratica umani e intelligenti quanto gli individui della mia specie. Gli scienziati li avevano chiamati Homo sapiens neanderthalensis, per contrapporli all’Homo sapiens sapiens.
Gli uomini di Neandertal si erano evoluti in quattro milioni di anni dalle scimmie, sostituendo i precedenti ominidi quali l’Homo erectus. Poi, di colpo, erano apparsi gli Uomini Sapiens, i miei progenitori che Ormazd sosteneva di avere creato, e i Neandertal si erano estinti. Nessun antropologo sapeva spiegare la loro scomparsa; era stato un fenomeno improvviso nel lento affresco dell’evoluzione.
Prima dell’Era Glaciale gli uomini di Neandertal erano stati i primati superiori più diffusi sulla Terra. Quando i ghiacci si erano sciolti, erano scomparsi, e l’Homo Sapiens più alto e più snello era l’unica specie intelligente del pianeta.
Sapevo cos’era successo. Mentre ero inginocchiato in quella foresta primordiale, quel pensiero mi fece star male.
“Non può essere,” mi dissi “Ci dev’essere dell’altro.” Impossibile che Anya mi avesse spedito lì solo per mostrarmi gli orrori di un genocidio. Nemmeno Ormazd sarebbe stato capace di una simile crudeltà.
Sapevo che era tutto vero, e mi rifiutavo di crederci. Mi feci forza e mi drizzai. Deve esserci sotto qualcos’altro, qualcosa di cui ero ancora all’oscuro, che dovevo ancora scoprire.
Sono sempre stato in grado di controllare il mio corpo fino alla cellula nervosa più periferica. Il coraggio non mi è mai mancato… probabilmente, perché mi è sempre mancata l’immaginazione necessaria per vedere a cosa andavo incontro in termini di dolore e pericolo. Per me è sempre stato più facile agire che riflettere.
Eppure, l’azione più difficile che abbia mai dovuto compiere fu quella di uscire dal nascondiglio dell’albero e mostrarmi ai quattro giovani neandertaliani che stavano dando il becchine agli uccelli nella radura.
Respirai a fondo, calmai il battito del cuore, e m’incamminai verso di loro. Erano giovani, probabilmente adolescenti; avevano folti capelli neri e facce lisce. Stavano ridendo e fischiando, mentre spargevano il mangime sul terreno. Uno di loro aveva teso le mani, e una decina di pennuti gli si erano posati sulle dita, beccando i semi sui suoi palmi.
Gli uccelli mi notarono prima dei neandertaliani, e in un mulinio caleidoscopico di colori volarono in tutte le direzioni senza emettere un solo pigolio… solo un battere d’ali spaventate.
I quattro neandertaliani, improvvisamente soli tra qualche piuma che galleggiava nell’aria, si girarono e mi fissarono a bocca aperta. Alzai le mani, avanzando.
— Sono Orion — dissi. — Vengo in pace.
Si scambiarono delle occhiate, più perplessi che intimoriti. Non tentarono di impedirmi di avvicinarmi, né sembravano minimamente intenzionati a fuggire. Fischiarono tra loro… basse note musicali simili ai richiami degli uccelli, o al linguaggio dei delfini.
Mi fermai, abbassando le mani sui fianchi. — Vivete qui vicino? Volete portarmi al vostro villaggio? — Sapevo che non potevano capire le mie parole, come io non potevo interpretare i loro fischi. Però dovevo instaurare almeno un inizio di comunicazione.
Mi squadrarono per bene, poi mi girarono attorno come se fossi merce d’esposizione. Nel massimo silenzio. Eppure avevo la sensazione che stessero conversando tra loro, senza bisogno di articolare suoni.
Erano parecchi centimetri più bassi di me, ma molto più massicci e muscolosi. Mi sentivo un mingherlino lì in mezzo. Il più alto, che mi arrivava quasi al mento, mi sorrise. Non c’era traccia di paura o diffidenza nei suoi occhi marroni. Solo curiosità.
Mi fissò in silenzio per diversi secondi, e mi parve di sentire le domande nella sua mente: “Chi sei? Da dove vieni? Cosa fai qui?”
Come un turista inglese, parlai lentamente ad alta voce, sforzandomi di farmi capire. — Il mio nome è Orion… — Mi indicai il petto e ripetei: — Orion.
— Ou-rio-n — disse il giovane, nel medesimo mormorio rauco che avevo sentito così, spesso da Ahriman.
— Dov’è il vostro villaggio? — chiesi. — Dove vivete?
Nessuna risposta.
Cambiai tattica. — Conoscete Ahriman? Dov’è Ahriman?
Gli occhi del giovane guizzarono verso i compagni, e questa volta percepii davvero una forma di comunicazione mentale vibrare tra loro. Ahriman, mi echeggiò nella mente. Ahriman.
Un attimo dopo, l’adolescente mi fissò negli occhi e corrugò la fronte concentrandosi. Mi concentrai anch’io, cercando di captare il messaggio mentale che stava trasmettendomi. Niente, a parte la vaghissima impressione della foresta attorno a noi, grandi alberi e poco altro.
Con una scrollata di spalle molto umana, il giovane fischiò alcune note ai compagni, poi mi fece cenno di andare con lui. In cinque, imboccammo un sentiero battuto che partiva dalla radura e si addentrava nella foresta.
Il villaggio dei neandertaliani, scoprii ben presto, era negli alberi. Non tra gli alberi, proprio dentro i tronchi giganti di quelle sequoie. Avevano scavato comodi alloggi, alti da terra, con lunghe scale di viticci appese all’interno dei tronchi che portavano su alle loro stanze. I rami ampi e robusti che si allargavano a raggiera a una quindicina di metri di altezza erano i portici e le verande delle loro abitazioni asciutte e ventilate.
All’inizio pensai che la loro tecnologia fosse povera e limitata. Le cose più perfezionate che vedevo erano asce e scalpelli di pietra, e utensili più piccoli di selce o di quarzo. Però avevano il fuoco; erano intelligenti quanto un Einstein o un Budda, e possedevano una forma di telepatia che permetteva loro di vivere in armonia con gli animali e le piante che li circondavano.
Mentre noi Sapiens inventiamo macchine per lavori troppo pesanti per la forza delle nostre braccia, per compiere lo stesso lavoro i neandertaliani addomesticavano, addestravano un certo animale o facevano crescere una certa pianta. Le scale di viticci che usavano erano un ottimo esempio. Erano viticci vivi, con radici nel terreno e grandi foglie verdi aperte al sole lungo i rami degli alberi giganti.
Non andavano a caccia, non coltivavano. Non ne avevano bisogno. Erano autentici raccoglitori. Controllavano mentalmente i branchi di animali, e spingevano i più vecchi e i più deboli verso la loro morte rituale mediante una forma di stimolo persuasivo telepatico. Tenevano animali domestici, come i cani, e anche in questo caso il legame tra cane e neandertaliano era di tipo mentale.
Non avevano una lingua parlata; le loro gole non erano fatte per parlare. Comunicavano mediante un miscuglio elaborato di telepatia, fischi e gesti. Mi impegnai al massimo, e dopo aver vissuto con loro parecchie settimane cominciai ad apprendere in modo approssimativo una forma di contatto mentale. Era una capacità insita nel mio cervello, come nel loro; un dono dell’evoluzione. Ma sarebbe stato necessario un periodo di addestramento prima che riuscissi a comunicare con la facilità dei loro bambini.
I neandertaliani non temevano gli estranei. La guerra e i conflitti erano cose sconosciute nel loro mondo. Dapprima pensai che dipendesse forse dalle loro capacità telepatiche, nel senso che sarebbe stato impossibile attaccarli senza che loro percepissero in anticipo le intenzioni ostili e fossero già pronti a reagire. Mi sbagliavo, anche se ero sulla strada giusta.
Erano pacifici perché grazie alle doti telepatiche si capivano vicendevolmente in modo molto più approfondito di quanto non avrebbero consentito le parole. Non che si leggessero nella mente di continuo, scoprii gradualmente. No, erano abituati dalla nascita a comunicare i sentimenti, le emozioni, oltre ai pensieri e alle idee razionali. Quando un neandertaliano era arrabbiato o turbato o spaventato, tutti quelli attorno a lui lo sapevano subito, e facevano del loro meglio per arrivare alla radice del problema e risolverlo. Nello stesso modo, quando un neandertaliano era felice, tutti lo sapevano ed erano partecipi della sua gioia.
Come eravamo soli noi Sapiens! Chiusi nei nostri crani con le nostre personalità individuali, impegnati in goffi tentativi di comunicare attraverso il linguaggio parlato, mentre i neandertaliani esternavano i loro pensieri con la stessa naturalezza con cui il calore irradia da un fuoco. Non c’erano psicoterapisti tra loro… o meglio, loro erano tutti psicologi.
Erano gente mite, nonostante la corporatura possente e muscolosa. I loro occhi marroni innocenti mi ricordavano quelli del daino femmina e dei suoi piccoli che avevo visto il primo giorno in cui ero giunto in quell’era. Non fingevano, probabilmente non erano capaci. Perfino il metodo che usavano per uccidere i capi più deboli delle loro mandrie non aveva nulla di cruento: tramite il controllo mentale sull’animale facevano cessare il battito del suo cuore. L’animale cadeva e moriva all’istante senza soffrire.
I giorni divennero settimane, mentre vivevo tra loro, ospite della famiglia dell’adolescente più alto del gruppetto che avevo incontrato nella radura. La loro casa, come le altre, era a una quindicina di metri dal suolo, in una solida sequoia. La famiglia era formata dai genitori, Tohon e la moglie Huyana, dal figlio Tunu, e dalla figlia, Yoki, che aveva cinque o sei anni. Mi avevano accettato come ospite, dopo che l’intero villaggio, un centinaio di persone, si era riunito in una radura ai piedi dei loro alberi per decidere come regolarsi con me.
Fu un’esperienza sconvolgente… trovarsi in mezzo a tutti quei neandertaliani, sapendo che stavano parlando di me, ma senza poter sentire una parola. A parte alcuni fischi e qualche cenno di mano o di capo, la discussione si svolse nel più assoluto silenzio.
Visto che non potevo ascoltarli, studiai le loro facce. Non erano affatto i selvaggi dall’andatura ingobbita e dalle sopracciglia cespugliose e sporgenti dipinti dai Sapiens del ventesimo secolo. Avevano la faccia più larga della mia, le arcate sopraccigliari più marcate, il mento sfuggente, ma complessivamente i toro lineamenti non erano poi così diversi dai miei. Non erano più pelosi di me. Le facce degli uomini erano senza barba, e dopo parecchi dolorosi tentativi di rasatura con un coltello di selce scoprii che loro si radevano con un unguento ricavato dalle foglie di un arbusto.
Evidentemente, decisero che avrei vissuto tra loro, e il padre di Tunu accettò l’impegno… anche se, per quanto ne sapevo allora, poteva darsi che lo considerassero invece un onore.
Quel primo giorno, vidi come riuscissero a scavare i loro alloggi nei tronchi. Tulu mi presentò alla sua famiglia, a costo di grandi sforzi, indicando ognuno e pronunciando i nomi più volte col solito mormorio stentato; poi suo padre mi accompagnò nella casa.
Seguii Tohon lungo la scala di viticci fino alla loro stanza centrale, un’ampia cavità nel legno vivo, con una finestra rotonda da una parte, e una porta aperta che dava su un ramo abbastanza largo da permettere a tutti e cinque di stare sulla sua superficie appiattita contemporaneamente. I mobili erano un insieme di sgabelli e di oggetti a forma di tavolo, questi ultimi sembravano fuori posto eppure avevano un che di familiare. Poi mi resi conto che erano in realtà dei grossi funghi modellati secondo le esigenze dei neandertaliani. Fu allora che compresi che alteravano il mondo circostante, sia vegetale che animale, per soddisfare i propri bisogni.
Tohon mi condusse fuori sull’ampia veranda verde e mi mostrò come facessero ad allargare l’alloggio quando arrivava un ospite. Mandò Tunu lungo il ramo, verso un ramo più piccolo dove crescevano fitti grappoli di aghi. Il ragazzo tornò con una ciotola di legno piena di un liquido denso che doveva essere linfa o qualcosa del genere.
Seguii Tohon all’interno e lo osservai mentre iniziava a stendere la linfa sulla parete della loro stanza principale. Il liquido sapeva di resina di pino, ma aveva un odore più penetrante. In un cantuccio, intanto, Huyana e Yoki studiavano in silenzio una serie di ciuffi d’erba e di foglie che avevano sparso sul pavimento: una lezione di botanica, o più probabilmente di scienze alimentari.
Il tutto si svolgeva nel massimo silenzio. Non mi ero mai accorto fino a che punto noi Sapiens dessimo per scontato il nostro costante vociare. Il rumore ci accompagna dai vagiti della nascita alle ultime parole dette in punto di morte. I neandertaliani vivevano in un mondo di quiete, interrotta solo dai suoni naturali del vento, delle foglie, dei canti degli uccelli, dei richiami degli animali. Abituandomi progressivamente a quel sistema di vita così silenzioso, cominciai a chiedermi se la mancanza di violenza nei neandertaliani fosse legata in qualche modo alla loro mancanza di strumenti e apparecchi rumorosi.
Osservando l’opera di Tohon, quel primo giorno, spalancai gli occhi di sorpresa mentre il liquido che stendeva sulla parete curva cominciava a corrodere il legno. Dapprima intaccava lentamente la superficie, producendo un lieve sfrigolio e un odore un po’ acre. Poi sembrava che il legno si dissolvesse, si sciogliesse.
Tunu mi sorrise, arricciando le labbra sottili e mettendo in mostra una dentatura scintillante. Probabilmente dovevo essere rimasto imbambolato.
Tohon rivolse un gesto frettoloso al figlio, e i due presero a stendere energicamente il liquido sui lati e sul fondo della nicchia che si era appena creata. Quella sostanza scioglieva il legno, eppure non aveva alcun effetto dannoso sulle loro mani… un bel mistero.
Pochi minuti dopo, Tohon sembrò soddisfatto del lavoro. Tunu uscì lungo il ramo con la ciotola quasi vuota, mentre suo padre si accovacciava sul pavimento e mi indicava di sedermi accanto a lui.
Huyana servì un pasto a base di verdura bollita e frutta fresca. La cucina era sotto quella stanza. Quando terminammo di mangiare, la linfa acida aveva completato il suo lavoro, e c’era una comoda stanzetta per me scavata nel legno vivo, collegata alla camera centrale da un breve corridoio curvo. Non c’era bisogno di porte; l’intimità era protetta dalla disposizione geometrica.
Tohon esaminò la nuova stanza, e per un attimo sembrò piuttosto agitato. Senza muoversi, senza emettere un suono, si concentrò corrugando la fronte. Tunu tornò con la ciotola e dipinse una finestrella rotonda per me. Tohon annuì, finalmente soddisfatto.
Pensai che si fossero dimenticati del fatto che avevo chiesto di Ahriman, quel primo giorno. Col trascorrere delle settimane, abituandomi al silenzio e alla tranquillità dell’ambiente, anch’io per poco non mi dimenticai di Ahriman. Passavo buona parte del tempo cercando di imparare a comunicare con loro mentalmente, e un po’ alla volta cominciai a capire l’arte del parlare senza emettere suoni. Le mie capacità erano a dir poco misere, comunque mi accorsi che certi neandertaliani comunicavano meglio di altri. Tunu, l’adolescente sorridente, era quello con cui conversavo con maggior facilità. Anche con molti giovani non c’erano problemi. Era più difficile conversare con gli adulti, invece, forse perché erano più chiusi e circospetti. E le donne neandertaliane poi, perfino la piccola Yoki, erano un muro insuperabile, in quanto a comunicazione telepatica. Era una cosa voluta, ne ero sicuro; d’accordo che gli uomini conversassero con lo straniero allampanato, le donne invece dovevano avere deciso di mantenere le distanze, sia fisicamente che mentalmente.
Non che Huyana o le altre non fossero gentili e cortesi con me… tutt’altro. Semplicemente, le donne restavano al di fuori della mia portata per qualsiasi tipo di comunicazione.
Di notte, steso su un materasso di muschio senza riuscire a dormire, mi chiedevo cosa stesse facendo Anya, perché mi avesse mandato lì e per quanto tempo mi avrebbe tenuto tra i neandertaliani. Nella mente cominciai anche a covare paure paranoiche: Ormazd aveva deciso di tenermi lì per sempre, anche se Anya voleva riportarmi da lei. O peggio ancora, tutti e due si erano accordati perché restassi in quell’esilio silvestre; stavano ridendo di me, solo e impotente tra persone con cui non potevo nemmeno parlare.
Pensai ad Ahriman, e alla decisione di Ormazd che intendeva tenerlo prigioniero in quella rete di energia, in quella stasi fuori dal tempo… vivo, ma intrappolato, soffocato. Ormazd stava facendo lo stesso con me, lo sapevo. E non potevo reagire in alcun modo. Ogni notte frugavo in ogni molecola della mia mente, in cerca di un sistema che mi permettesse di fuggire da quella prigione idilliaca, e immancabilmente allo spuntare dell’alba dovevo dichiararmi sconfitto. Non c’era possibilità di fuga per me. Nessuna, a meno che, o finché, Anya o Ormazd non avessero deciso di consentirmi di tornare.
Cominciai a perdere il conto dei giorni. Più o meno erano tutti uguali. Un paradiso di pace e di abbondanza, senza rabbia, senza assassinio, senza guerra. Eppure non potevo accettarlo; non potevo accontentarmi.
Poi, una mattina, non appena fui sceso dalla scaletta della casa di Tohon, Tunu mi venne incontro di corsa, trafelato, eccitato.
— Ahriman! — esclamò ad alta voce.
Sbattei le palpebre sorpreso. — Ahriman? Sta venendo qui?
Tunu annuì vigorosamente. — Sì, sta arrivando dal sentiero. — Ero così eccitato che non mi resi conto che stava parlando telepaticamente e che lo capivo.
Mi fece segno di seguirlo. Vidi che l’intero villaggio stava uscendo in massa dalle case e si radunava nella radura; la gente si urtava, si udiva uno scambio di fischi, tutti fissavano il sentiero. Raccolsi abbastanza vibrazioni telepatiche da capire che erano tutti eccitati. Ahriman era uno dei loro più grandi capi, un uomo di intelligenza elevata, dai numerosi pregi, un poeta e un filosofo la cui fama si estendeva a tutte le regioni abitate dai neandertaliani.
“Non può essere lo stesso Ahriman che ho conosciuto,” mi dissi. L’immagine mentale che ricevevo dalla folla era molto diversa da quella del personaggio cupo, tormentato, rabbioso e vendicativo che avevo incontrato.
Ma quando lo vidi avanzare lungo il sentiero, sorridendo alla gente radunatasi per accoglierlo, mi accorsi che si trattava proprio della stessa persona.
Ahriman. Un Ahriman più giovane di quello con cui avevo lottato, ma inconfondibile. Era più alto degli altri neandertaliani, più massiccio, i suoi occhi esprimevano la solita intelligenza a me fin troppo nota. Però non erano ancora gli occhi rossi e colmi di odio dell’Ahriman che cercava di distruggere il continuum. Quello era il volto di un uomo nel fiore degli anni, un uomo che viveva felice, soddisfatto del proprio ambiente e del proprio ruolo. Non aveva ancora scoperto l’odio. Non aveva bisogno di vendicarsi… non ancora.
Sorrise e annuì. La folla si sedette subito sul terreno, smaniosa. Io restai in piedi.
Gli occhi di Ahriman incontrarono i miei. Il suo sorriso non mutò. Nessuna reazione che tradisse un minimo di rabbia o di ostilità. Non sembrava neppure sorpreso. Evidentemente, gli altri gli avevano già parlato della presenza di uno straniero. Dovevano avergli detto anche il mio nome. Ma era altrettanto evidente che il mio nome, il mio aspetto, la mia presenza, non significavano nulla per lui. Non aveva paura di me. Non era in collera. Da lui captavo solo una lieve curiosità.
Lentamente, mi sedetti anch’io, tra Tunu e un altro adolescente. Chiusi gli occhi e mi concentrai al massimo per cogliere quello che Ahriman avrebbe detto telepaticamente.
Non c’era bisogno che mi sforzassi tanto. Ahriman era la voce telepatica più potente che avessi mai incontrato. Lo capivo quasi alla perfezione.
Ahriman cantò.
A differenza di noi Sapiens, non usava parole né suoni musicali. Cantava coi pensieri, i suoi erano concetti mentali che suscitavano colori, forme, ricordi, impressioni nella mia mente. Spalancai gli occhi, la testa piena di una bellezza e di un’armonia ineguagliabili. I neandertaliani attorno a me avevano lo sguardo fisso nel vuoto, estasiati dall’inizio del canto di Ahriman.
Richiusi gli occhi, questa volta per escludere la vista dispersiva del mondo, e immergermi nella visione che Ahriman mi proiettava nella mente.
Era un canto, un poema, una dissertazione, una storia, un resoconto… tutte queste cose insieme. Vidi i vari luoghi che Ahriman aveva attraversato dall’ultima volta in cui era stato in quel villaggio. Mi resi conto che era un vagabondo, un nomade che collegava gli insediamenti sparsi dei neandertaliani, come noi Sapiens un giorno avremmo imparato a collegare le nostre comunità mediante dei circuiti elettronici.
Vidi gli altri loro villaggi, tra dirupi ghiacciati su a nord, lungo tiepidi litorali marini, capanne di fango e paglia in vaste steppe brulle. Sentii lo spirito di unità di tutti quei villaggi, il legame tra i loro uomini e le loro donne, i vincoli di sangue e di affetto che li univano. E Ahriman ci mostrò altre cose: cominciò a rivelarci i suoi pensieri, le idee e gli interrogativi che gli riempivano la mente quando guardava il cielo notturno stellato. Ci mostrò l’armonia delle stelle, i ritmi dei pianeti che si muovevano, la gloria del sole nato dal freddo e dalla polvere che aveva acquistato la propria forza unendo tutte le miriadi ai granelli in un unico, fulgido abbraccio.
Ahriman ci portò tra le stelle e ci aiutò a vagare in regni di bellezza indicibile. Poi, lentamente, con grande rispetto e dolcezza, ci riportò sulla Terra, in quella radura, al presente.
Aprendo gli occhi, notai che i neandertaliani non conoscevano il pianto. Io però avevo il volto rigato di lacrime ora che il canto di Ahriman era terminato e il cuore pieno di commozione.
I neandertaliani non applaudirono. Certe manifestazioni rumorose non appartenevano alla loro cultura. Però, con le mie deboli facoltà telepatiche, avvertii l’enorme ondata di approvazione e di ringraziamento che attraversò la folla, accompagnata da qualche fischio e da qualche borbottio. Ahriman annui più volte, accettando l’ovazione silenziosa. Poi l’assembramento si sciolse, e tutti tornarono alle proprie faccende. Mi alzai, dopo essermi asciugato le lacrime che mi appannavano gli occhi.
— Tu sei Orion — disse Ahriman in silenzio.
Eravamo soli nella radura, adesso. Mi guardò rivelando solo una certa curiosità. Non mi aveva mai visto prima di allora. Ero io ad avere dei ricordi, non lui. Ricordai cosa avessi provato la prima volta che lo avevo incontrato, in quella camera sotterranea nel ventesimo secolo. Com’ero confuso allora; lui sapeva tutto, io nulla. Ora sapevo di tutti i nostri scontri, della Guerra e degli sviluppi successivi, mentre lui era innocente come un neonato. Eppure mi sentivo ugualmente confuso, incerto.
— Mi è piaciuto il tuo canto — dissi ad alta voce, sapendo che capiva il significato dei miei suoni.
— Grazie.
Mi chiesi cosa dovessi dire a questo punto. Mi chiesi fino a che punto potesse sondare la mia mente. Gli altri neandertaliani non erano capaci di leggere i miei pensieri. Per me era già abbastanza difficile trasmettere loro semplici brani di conversazione. Ma i poteri telepatici di Ahriman erano di gran lunga superiori.
— Da dove vieni? — mi chiese, lasciandomi sconcertato. O non poteva sondarmi la mente o era troppo educato per farlo.
— Da lontano — risposi. Poi aggiunsi: — Da un luogo più lontano nel tempo che nello spazio. Vengo dal futuro, da un futuro lontano migliaia di anni.
Ahriman corrugò la fronte perplesso. — Dal futuro?
— Come vedi, non appartengo alla tua razza.
— È vero.
— La mia esistenza è iniziata più di centomila anni dopo questa epoca, e sono stato mandato qui.
Colsi un vago pensiero che esprimeva dubbi sulla mia sanità mentale, ma durò un attimo.
— È vero — dissi. — Non so come si faccia, ma sono stato mandato in questo tempo e in questo posto.
— Da chi? A che scopo?
Ignorando la domanda, proseguii: — Un giorno tu imparerai a viaggiare nel tempo e nello spazio. Ci incontreremo molte volte, in ere diverse…
— Io viaggerò nel futuro? — Ahriman sembrava affascinato dalla prospettiva.
— Sì.
— Con te?
Scossi la testa. — Non viaggeremo insieme, non saremo compagni di viaggio. Però ci incontreremo nel futuro, molte volte.
Un sorriso illuminò quel viso dai lineamenti forti. — Viaggiare nel futuro! È possibile piegare e intrecciare il tempo come un uomo annoda un pezzo di liana?
— Ahriman! — Dovevo dirglielo. — In futuro… in quelle epoche a venire… noi saremo nemici.
Il sorriso svanì. — Cosa? Com’è possibile…
— Ogni volta che ci incontreremo nel futuro, io cercherò di ucciderti. E tu cercherai di uccidermi.
— È impossibile. — E percepivo la sua sincerità. L’idea della violenza lo disgustava tanto che colsi i fremiti di ripugnanza che inconsciamente trasmise.
— Vorrei che fosse impossibile — dissi. — Ma è già successo. Molte volte. Ci siamo incontrati. Abbiamo combattuto. Tu mi hai ucciso, più di una volta.
Mi fissò negli occhi. Avvertii nella mente un contatto interrogativo. Annuii, mi rilassai e gli permisi di vedere le esperienze vissute: La Guerra, l’alluvione nel Neolitico, lo splendore barbarico di Karakorum, la maestosità tecnologica del reattore a fusione.
— No — mormorò Ahriman, con quella voce strozzata, stentata che conoscevo così bene. — No…
Tremava. Quel neandertaliano dalla corporatura possente tremava da capo a piedi, tanto era nauseato dalle scene viste nella mia mente. E i suoi pensieri mi giungevano chiari e forti, come urla amplificate da un megafono.
— Impossibile… non posso essere proprio io, quello… non io… Quello è pazzo, la sua mente è malata e perversa… nessuno potrebbe mai… le stragi, gli orrori sadici… non sono io. No!
Ahriman si girò e si allontanò quasi di corsa dalla radura.
Chiusi gli occhi e cercai di controllare i miei pensieri. Quando li riaprii, Ahriman era scomparso, ma parecchi neandertaliani, uomini e ragazzi, se ne stavano ai bordi dello spiazzo, fissandomi preoccupati. Avevano colto i miei pensieri, o la reazione di Ahriman? Cosa mi avrebbero fatto se avessero saputo che ero stato creato per uccidere l’uomo migliore della loro razza?
Lentamente, tornai alla casa di Tohon. Tunu era ai piedi dell’albero, conversando con degli amici. Mi rivolse lo stesso sorriso di sempre, e con pochi gesti mi spiegò che suo padre era giù al torrente, dove crescevano gli alberi da frutta, a raccogliere cibo per la festa in onore di Ahriman che si sarebbe svolta quella sera.
Annuii, poi mi arrampicai sulla scaletta vegetale. Huyana stava canticchiando mentre preparava una bevanda dall’aroma speziato sul fuoco della cucina. Il recipiente era una enorme zucca vuota, il focolare era una cavità nel pavimento della cucina, rivestita di pietre piatte, e il fumo usciva attraverso un piccolo condotto di ventilazione in alto.
Esausto e disgustato, rivolsi a Huyana un cenno di saluto, poi mi trascinai lungo il corridoio curvo che portava alla mia stanza e mi lasciai cadere sul mio morbido letto di muschio.
Mi svegliai. Tunu mi stava scuotendo. Emise un fischio e indicò la finestra. C’era quasi buio.
— La festa — mi annunciò senza parlare.
Chissà se Ahriman avrebbe partecipato alla cerimonia in suo onore? Forse le visioni terrificanti che gli avevo mostrato lo avevano spinto a fuggire…
Era presente, seduto a gambe incrociate tra gli anziani del villaggio, quando arrivai. Il grande falò al centro della radura inondava tutto di bagliori rossastri tremolanti. I tronchi colossali delle sequoie ci circondavano come i pilastri dei templi che sarebbero stati innalzati in futuro, proiettando le loro ombre verso la foresta, così che la radura era un cerchio di luce in mezzo all’oscurità.
Inconsciamente mi ero aspettato rulli di tamburo, musica, figure danzanti che si agitavano nel chiarore del fuoco. I neandertaliani invece erano quieti, quasi silenziosi, tranne un mormorio di sottofondo e qualche fischio.
Nelle loro menti, però, ridevano e chiacchieravano, raccontandosi storie, cantando felici. Captavo brani slegati delle loro comunicazioni telepatiche, come un uomo che stesse girando la manopola della sintonia di una radio ricevesse frammenti di trasmissioni di cento stazioni diverse.
Ma quando mi sintonizzai su Ahriman, non captai che un silenzio cupo. Studiai la sua faccia. Era impassibile come una statua di granito. Gli anziani ai suoi lati però non sembravano preoccupati. Rispettavano il suo bisogno di silenzio e intimità, senza dubbio; e si aspettavano che più tardi ci concedesse un altro canto.
Il falò era puramente simbolico. Tutto il cibo era stato preparato dalle donne nelle loro cucine. Non c’erano arrosti di cervo, succulenti maiali allo spiedo, racconti in cui si esaltassero il coraggio e l’astuzia nella caccia. I neandertaliani mangiavano perlopiù verdura e uova, bacche e frutta, e bevevano succo di frutta o acqua che arrivava fresca portata di corsa dai giovani più veloci. La poca carne che avevano, quella degli animali selezionati in base alla debolezza e alla vecchiaia, era considerata un piatto prelibato, una leccornia raffinata in onore di ospiti come Ahriman.
Ahriman mi guardò, dal suo posto tra gli anziani. Io sedevo con Tohon a una decina di metri di distanza lungo il semicerchio di gente attorno al falò.
Il calore delle fiamme mi arrivava in faccia, e cominciai a sudare… ma non era solo per la vicinanza del fuoco.
Durante il pasto continuai a cogliere frammenti di conversazione. Da Ahriman, niente, invece. Eppure, ogni volta che lo guardavo, i suoi occhi erano fissi su di me. L’espressione del suo volto era più che tetra: rifletteva il velo della morte. Aveva deciso, era evidente. Sapeva che non ero pazzo, che gli avevo detto la verità. L’interrogativo adesso era: cosa intendeva fare?
Quando ebbero finito il pasto, tutti si voltarono verso Ahriman, e il mormorio si intensificò. Nella mente, sentii che gli chiedevano un altro canto, che lo supplicavano. Ahriman rimase a lungo col capo chino, come se stesse cercando di evitare le loro richieste. Ma loro chiesero con maggior insistenza, anche se tutto avveniva nel massimo silenzio. Il coro mentale diventò sempre più forte; gli abitanti del villaggio non volevano che se ne andasse senza un’altra esibizione.
Finalmente, Ahriman alzò la testa, e le loro tacite insistenze cessarono di colpo. Ahriman mi guardò, l’aria desolata, poi lentamente, si drizzò in piedi.
I neandertaliani trattennero il respiro ansiosi. Molti di loro non avrebbero più respirato.
Il sottilissimo raggio rosso di un fucile laser guizzò nell’oscurità tra gli alberi oltre il capo di Ahriman. Ahriman si coprì la faccia con le mani e balzò di lato. Altri colpi di laser partirono dagli alberi, e sentii le urla selvagge dei soldati che attaccavano… Sapiens… vidi le loro corazze bianche che si precipitavano verso la radura.
Sparavano senza mirare, sparavano nel mucchio, squarciando i corpi di uomini, donne e bambini con la stessa facilità di un rasoio affilato che facesse a pezzi una bambola di pezza.
Scoprii che i neandertaliani sapevano urlare. Lanciavano i nostri stessi gemiti animali sotto l’effetto del dolore e del terrore.
I soldati erano solo una dozzina, però erano armati di fucili laser. I neandertaliani si alzarono annaspando e fuggirono in tutte le direzioni, mentre quei raggi roventi li tagliuzzavano. Tohon si tese per prendere la figlia, mentre un soldato girava verso di noi la testa nascosta dal casco e dalla visiera. Il soldato ebbe un attimo di esitazione, senza dubbio per la sorpresa di trovare un suo simile tra i bruti che era venuto a massacrare. Io ero a mani vuote, e soprattutto anche la mia mente era vuota. Non sapevo cosa fare.
Tohon comincio a correre con Yoki tra le braccia. Il soldato fece fuoco. I loro corpi stramazzarono al suolo, schizzando sangue.
— No! — urlai. — Basta! — Agitai le braccia e corsi verso il soldato sbraitando come un ossesso. L’uomo cercò di scansarsi per prendere di mira Huyana, immobile paralizzata accanto ai cadaveri del marito e della figlia. Afferrai il fucile e mentre lui cercava di strapparmelo di mano Tunu gli balzò addosso e lo atterrò.
Recuperai il fucile mentre Tunu, gli occhi sbarrati e accesi di un odio senza precedenti, prese un sasso e lo calò sul casco del soldato. La plastica si scheggiò si spaccò sotto i colpi ripetuti di Tunu. Dalla visiera sfondata colò del sangue, e il soldato si irrigidì.
Mi girai e vidi la strage fatta dai soldati. Neandertaliani stesi a terra dappertutto in pose grottesche; i superstiti cercavano di mettersi in salvo nell’oscurità della foresta. Il falò ardeva traendo riflessi dalle corazze bianche dei soldati. Impugnai il fucile, piegando il dito attorno al grilletto.
Ma non riuscii a sparare. Non potevo sparare a quei soldati. Dietro quelle visiere opache avrebbero potuto esserci Marek o Lissa o perfino Adena. Non potevo ucciderli, nemmeno per salvare i neandertaliani indifesi.
Ma erano davvero indifesi? Un soldato era a terra, e un paio di cani inferociti lo stavano dilaniando a morsi. Ahriman aveva abbrancato un altro soldato da dietro, bloccandogli le braccia, mentre un neandertaliano toglieva il casco all’aggressore e lo strangolava. Poi Ahriman raccolse l’arma della vittima e cominciò a sparare.
I Sapiens si sparsero nell’oscurità tra gli alberi e scomparvero con la stessa rapidità con cui erano arrivati. Per alcuni interminabili minuti, restammo immobili, ansimando di paura e di rabbia. Contai trentotto morti; il sangue inzuppava il terreno. Gettando il fucile, mi chinai e sfilai il casco al soldato che giaceva esanime ai miei piedi. Una donna… lunghi capelli biondi macchiati di sangue.
Tunu si inginocchiò accanto al cadavere, e la sua mente lanciò un gemito agghiacciante di dolore. Non riuscivo a vedere Huyana; poi d’un tratto riconobbi il suo corpo, tagliato di netto da un laser, ai bordi della radura.
Ahriman attraversò la distesa di cadaveri, il fucile in mano, e si fermò di fronte a me. I suoi occhi erano rossi di sofferenza.
— La tua gente, Orion — mi disse. — Perché?
Non c’era nulla che potessi dire, nulla che potessi fare. Mi voltai, distolsi lo sguardo da quel carnaio, e cominciai ad addentrarmi nell’oscurità della foresta.
La notte mi inghiottì. A ogni passo avevo sempre più freddo, dentro di me rabbrividivo di raccapriccio. Il silenzio era assoluto… non un grido di civetta, non un grillo che frinisse.
Non so per quanto tempo camminai, solo, senza meta. Non potevo tornare al villaggio, sentirmi addosso gli sguardi accusatori dei neandertaliani. Non sopportavo l’idea di vedere Ahriman, di assistere alla nascita del suo odio, di osservarlo mentre imparava a uccidere, a fare della vendetta la sua unica ragione di vita.
Pensai che fosse l’alba, quando vidi un chiarore dinanzi a me. Ma mentre avanzavo, roso dal rimorso, vidi che gli alberi stavano svanendo, stavano letteralmente scomparendo, e che quella luce era un riflesso dorato che rischiarava una distesa piatta, indefinita, che si perdeva in tutte le direzioni. In lontananza, scorsi una figura solitaria, eretta, che mi aspettava, vestita d’argento. Era Anya, capii. Continuai a incamminarmi senza affrettare il passo, volevo rimandare il più possibile quell’ultimo atto decisivo.
E mentre proseguivo, vidi un’altra figura, cupa, accigliata: Ahriman, tuttora bloccato nella sua prigione di energia, gli occhi che mi lanciavano lampi di furia. Sembrava molto più vecchio dell’Ahriman che avevo appena conosciuto.
L’odio e il dolore l’avevano segnato più profondamente del tempo stesso.
Poi scrutai il volto di Anya. Vidi la tristezza di tutta l’eternità nei suoi occhi luminosissimi.
— Adesso sai — mi disse.
Annuii. — So tutto, tranne la cosa più importante… Perché?
— Questo devi chiederlo solo a Ormazd.
— Dov’è?
Anya si strinse nelle spalle, e abbozzò un sorriso spento. — È qui… Ci vede e ci sente.
— Ma si vergogna troppo per farsi vedere, vero?
Anya parve stupita. — Vergognarsi? Lui?
Alzai il capo verso l’informe volta dorata che ci sovrastava. — Fatti vedere, Ormazd! È il momento della resa dei conti. Mostra la tua faccia, assassino!
Il vuoto sembrò solidificarsi, contrarsi in una bolla dorata, in una sfera radiosa che scese verso di noi.
— Sono qui — disse una voce dall’interno della sfera.
— In forma umana — pretesi. — Voglio vedere una faccia. Voglio guardare la tua espressione!
— Ti prendi troppe libertà, Orion — ribatté la sfera.
— Ti ho servito bene. Merito un po’ di considerazione.
La sfera tremolò e svanì, e di fronte a noi apparve l’alta figura scintillante di Ormazd. Sorrideva, in parte divertito, in parte per mostrare la propria tolleranza verso l’insolenza di una creatura inferiore.
— Contento, Orion? — chiese.
Guardai Anya. La sua espressione esprimeva solo paura.
— Perché? — chiesi a Ormazd. — Perché massacrare i neandertaliani? Erano innocui…
— Appunto. Innocui. Inoffensivi. Splendidamente adattati al loro ambiente. — Ormazd allargò le mani in un gesto eloquente di rassegnazione, e tacque.
— Allora perché distruggerli? Perché iniziare La Guerra?
— Perché dal punto di vista dell’evoluzione erano un vicolo cieco. Non sarebbero mai progrediti oltre lo stadio in cui li hai trovati.
— Come fai a saperlo?
Rise. — Orion, misera creatura. Lo so! Ho esaminato tutte le vie possibili del continuum. I neandertaliani avrebbero vissuto la loro esistenza idilliaca per un dato periodo, dopo di che sarebbero stati spazzati via come i dinosauri.
La faccia di Ahriman era una maschera di sofferenza atroce. Sentiva quello che dicevamo, ma non poteva nemmeno alzare un dito contro di noi.
— Credimi — proseguì Ormazd — ho esaminato tutte le possibilità. Ho addirittura trapiantato alcuni neandertaliani su un altro pianeta, per vedere se si sarebbero evoluti a un livello più efficiente. Ebbene, le differenze erano trascurabili.
— Ma questo non giustifica… il loro sterminio!
— No? Sarebbero morti tutti comunque. Prima o poi, le forze cieche della natura li avrebbero spazzati via. Io mi sono limitato ad applicare una forza controllata. Ho affrettato il loro decesso. Li ho aiutati ad abbandonare le miserie della vita, con un intervento più efficace della natura.
— La loro non era una vita misera.
Ormazd mi rivolse un sorriso timido. — Orion, non negarmi l’uso della metafora, per favore!
— Chi ti ha dato il diritto di ricorrere al genocidio? — chiesi. — Chi ti ha nominato dispensatore di vita e di morte?
Ormazd alzò una mano, e la radiosità attorno a noi si oscurò e scintillò di guizzi e di lampi.
— Ho il potere — tuonò Ormazd. — Ecco da dove viene il mio diritto.
Anya sollevò le mani. La distesa dorata tornò a formarsi.
Ormazd piegò leggermente il capo verso di lei. — Certo, anche altri hanno qualche potere. Non quanto me, ma abbastanza da riuscire in qualche gioco elementare.
Anya mi guardò. — Chiedigli perché ha deciso di eliminare i neandertaliani, Orion. Non lasciarti fuorviare. Chiedigli perché l’ha fatto.
— Sì — annuii. — Voglio sapere il perché.
— Perché ho voluto farlo.
— Non è una risposta.
— I vostri scienziati hanno discusso dell’evoluzione per oltre un secolo — disse Ormazd. — Ebbene, io sono l’evoluzione. Sono io quello che stabilisce gli eventi sul vostro piccolo mondo.
Guardai Anya, che mi rivolse un cenno di incoraggiamento.
Ormazd non aveva ancora finito. — Prendiamo un piccolo pianeta promettente chiamato Terra. È abitato da una razza di bipedi intelligenti che sono in grado di controllare gli animali e le piante, che si sono adattati perfettamente all’ambiente… Scialbo, Orion. Scialbo, insignificante e inutile. Non progrediranno mai.
— Perché dovrebbero…
Mi ignorò. — Allora io faccio tabula rasa. Può sembrare crudele ma è necessario. Creo una razza di guerrieri, soldati che si occupino dell’eliminazione cruenta degli indigeni. Tu appartieni a quella razza, Orion. Tu, e tutti i Sapiens, siete stati progettati per uccidere. Vi piace uccidere; quando non trovate una ragione per uccidervi a vicenda, andate ad ammazzare le bestie indifese attorno a voi. Tutti grandi cacciatori, Orion, tutti quanti.
Ricordai con quanta facilità, con quanta indifferenza, avessi ucciso parecchi della mia razza. E le cacce, in cui avevamo sguazzato nel sangue di animali indifesi. Tremai di vergogna e di rabbia, di fronte al dio che ci aveva fatti così.
— Così vi metto al lavoro perché eliminiate i neandertaliani. Da altri vostri simili, faccio costruire grandi macchinari su un mondo che voi chiamate Titano, una luna di Saturno, macchinari capaci di alterare l’emissione del Sole fino a provocare sulla Terra un’Era Glaciale. I ghiacci completeranno l’opera, liberando il pianeta da tutti gli indigeni… e dalle creature feroci che ho creato.
— Ma non è andata in questo modo.
— No, Orion. — Ormazd sembrava divertito. — Tu li hai aiutati a sopravvivere. Hai insegnato a quell’ultima squadra di guerrieri sanguinari a vivere sulla Terra. Invece di un esercito di assassini che si autodistrugge, mi sono ritrovato con una razza di Homo sapiens che si autoriproducono. Grazie a te.
— Avremmo dovuto morire nell’Era Glaciale. — Mi sentii completamente vuoto interiormente, ebbi la sensazione di sprofondare dal paradiso all’inferno.
— Sì. Naturalmente. Intendevo creare una razza veramente superiore! Non puoi immaginare le creature che avrei generato! Gli angeli che popolano i sogni dei tuoi simili non sono nulla in confronto a quello che avrei creato!
Anya lo interruppe con voce fredda e dura come l’argento. — Ma i Sapiens non sono morti, e si sono impadroniti della Terra. E grazie a te erano guerrieri così forti che non sei riuscito a scacciarli.
— Sì — ammise Orrnazd, fissandomi in malo modo. — E nel medesimo tempo mi sono reso conto che questo — e indicò coll’austero capo la figura imprigionata di Ahriman — era scampato e in qualche modo aveva acquisito dei poteri uguali ai miei.
— Così hai creato me — intervenni.
— Ti ho creato per dare la caccia ad Ahriman prima che riuscisse a distruggere tutto quello che avevo costruito. Sì, ti ho creato… troppo bene.
La testa mi girava. — Ma se sapevi tutte queste cose, se potevi esaminare tutte le vie del continuum e prevedere cosa sarebbe successo…
— Pensiero lineare, Orion — disse Anya. — Gli eventi accadono in parallelo, non in sequenza. Il fenomeno che tu chiami tempo, che percepisci come progressione dal passato attraverso il presente verso il futuro, in realtà è qualcosa che succede simultaneamente. La causa e l’effetto sono intercambiabili. Domani e ieri coesistono.
— Continuo a non capire…
— Non è necessario che tu capisca — disse Ormazd. — A modo tuo, per goffi tentativi, hai fatto quello che volevo che facessi. Ahriman è intrappolato qui, per sempre. Il continuum è salvo.
— Tu sei salvo — gli disse Anya.
— E anche tu — ribatté lui.
Anya si rivolse ancora a me. — Non hai ancora scoperto come mai abbia fatto tutto questo, Orion. Continua a sottrarsi con l’astuzia alla domanda finale.
Mi sentivo in balia di una situazione troppo complessa per me.
— Devo dirglielo? — chiese Anya a Ormazd.
Lui incrociò le braccia sul petto. — Tanto lo farai anche senza il mio permesso.
Il sorriso di Anya era amaro, afflitto. — Orion, lui ti ha creato, ha creato la razza umana e se n’è servito per eliminare i neandertaliani, perché senza gli umani noi dei non saremmo mai esistiti.
Avevo sentito le sue parole, ma il loro significato era talmente oscuro che in pratica era come se non avesse detto nulla.
— Ormazd ha visto che alla fine i neandertaliani sarebbero scomparsi senza lasciare dietro di sé nulla. Così ha creato l’Homo sapiens per cancellarli dalla faccia della Terra e preparare l’avvento di una nuova razza…
— Migliore degli angeli — farfugliai.
— Invece — proseguì Anya — voi umani avete imparato a influenzare la vostra evoluzione, a strutturare i geni delle vostre cellule. Avete assunto il controllo del vostro destino, e alla fine, dopo molti millenni, vi siete trasformati in… noi.
— Siamo diventati dei?
— Vi siete evoluti in creature come noi — disse Anya. — Creature di pura energia, capaci di controllare e influenzare tale energia per assumere qualsiasi forma. Creature che capiscono i meccanismi più profondi del continuum, capaci di viaggiare nel tempo e nello spazio con la stessa facilità con cui tu attraversi una foresta.
Mi voltai verso Ormazd. — Siamo diventati voi.
Ormazd ci fissò accigliato.
— Noi vi abbiamo creati! — urlai.
— Ora capisci la decisione di Ormazd di distruggere i neandertaliani. Se fossero vissuti, se voi umani non foste stati creati, noi stessi non saremmo mai esistiti.
— Però esistete!
— Sì, e siamo soggetti alle stesse leggi inesorabili che regolano il continuum. Ormazd non poteva fare diversamente, altrimenti questo continuum, questo universo, sarebbe crollato, sarebbe finito.
Vedevano tutti e due la confusione che mi sconvolgeva la mente. Passato e futuro, vita e morte… tutto un unico grande vortice folle, l’universo che ruotava impazzito, galassie che si formavano come mulinelli in un torrente, generando stelle e pianeti e creature che lottavano e morivano…
— È la verità, Orion — risuonò la voce calma di Anya.
— Avrai capito che era necessario — disse Ormazd.
— I neandertaliani dovevano morire perché noi potessimo vivere, ed evolverci, diventare voi.
Ormazd annuì cupo. — Non è andata secondo i miei piani originari, ma tutto si è risolto in modo soddisfacente.
Non potevo guardare Ahriman… non ora. Chiesi invece a Ormazd: — E che ne sarà di me?
La sua espressione si illuminò. Per poco non mi sorrise, come un creatore benigno e generoso. — Ti concederò il dono della vita. Un periodo di vita umana ricco e pieno in un’era di tua scelta.
— E poi la morte.
Ormazd inarcò le sopracciglia. — Se scegli l’era giusta, constaterai che la vita umana può essere davvero lunga. Secoli interi.
— E tu? — chiesi ad Anya.
Prima che lei potesse rispondere, Ormazd disse: — Ci siamo evoluti dal genere umano. Ma non siamo umani, come tu non sei una scimmia ominide.
— Dunque dovrei vivere sulla Terra senza di te — le dissi.
— Posso darti più di una vita — intervenne ancora Ormazd. — Potrai vivere per migliaia d’anni, se lo desideri.
Il mio cuore stava sprofondando come un sasso in una fossa oceanica. — Una vita o molte… senza di te, Anya, che senso avrebbe?
Lei fece un passo verso di me, tese la mano.
Ma io mi voltai a guardare ancora Ahriman, furente nella sua prigione eterna. — E dire che ho contribuito allo sterminio della sua razza, che l’ho attirato in questo inferno… Per cosa?
— Hai salvato la tua razza — disse Ormazd con soddisfazione.
— Ho salvato te, e la tua razza. — Rivolgendomi ad Anya chiesi: — Liberalo! Usa i tuoi poteri e liberalo.
Lei mi fissò allibita.
— Cosa stai dicendo? — strillò Ormazd.
— Libera Ahriman — ripetei. — Uccidimi se non ti servo più, ma restituiscigli la vita, la sua gente.
— Mai! — esclamò Ormazd.
Ma io stavo supplicando Anya. — Anche se questo significherà la fine di tutto, fallo! Liberalo! Lascia che lui e la sua gente vivano la loro vita sulla Terra.
— Sarebbe la distruzione totale per noi! — ringhiò Ormazd. — Non lo permetterò!
— Se non possiamo vivere insieme — dissi ad Anya — allora moriamo insieme.
I suoi occhi grigi mi penetrarono nell’anima. Guardò Ormazd, poi Ahriman.
— No! Non farlo! — gridò Ormazd. — La telepatia… Adesso lui sa tutto quello che sappiamo noi. Ha letto nelle nostre menti, ha assorbito la nostra conoscenza del continuum!
— Sì. È vero — annuì Anya.
— La userà per spaccare il continuum! — La voce di Ormazd era stridula, isterica. La sua immagine tremolava, ondeggiava.
— Orion ha ragione — replicò Anya, calma, imperturbabile, quasi stesse discutendo di astratte questioni filosofiche. — La gente di Ahriman ha il diritto di vivere la propria vita sulla Terra. Noi siamo esistiti abbastanza.
— Non te lo permetterò! — mugghiò Ormazd. Divenne nuovamente un globo scintillante di luce dorata, ma Anya conservò la sua forma umana e tese le mani verso Ahriman.
Un lampo accecante esplose. Sentii il ruggito della voce di Ormazd, mentre chiudevo gli occhi e la carne mi si scioglieva per il tremendo flusso di energia liberata. Il calore mi bruciò le palpebre, mi fece evaporare gli occhi, mi penetrò così profondamente nel cervello che percepii solo quella luce fiammeggiante… poi gli atomi del mio corpo esplosero in tante piogge infinitesimali di energia.
Senza occhi, senza corpo, mi accorsi che il continuum stava sgretolandosi, che tutta la materia e l’energia dell’intero universo si riversava in un oscuro, titanico vortice spazio-temporale, un buco nero multidimensionale che risucchiava pianeti, stelle, galassie, che smembrava ogni cosa in un immane olocausto primordiale.
Poi tutto esplose nell’immenso spasmo silenzioso di una nuova creazione.