Aprii gli occhi e vidi un cielo azzurro con nubi panciute. Il ricordo di Karakorum, di Ogotai e dei mongoli, svanì dalla mia mente come gli echi lontani di una canzone. Pensavo solo ad Agla, al suono della sua voce, al tocco vibrante della sua pelle calda, al suo bel viso.
“Ormazd, sai cosa sia la sofferenza?” pensai. “Ti rendi conto della tua crudeltà?”
Eppure, mentre dicevo quelle parole nel mio intimo, avevo la sensazione che l’avrei incontrata di nuovo. Aretha, Agla, quale che fosse il suo vero nome, lei era legata a me, e io a lei, attraverso il tempo. Per quanti secoli potessero separarci, ci saremmo ritrovati. La mia era una certezza interiore.
Mi accorsi di essere supino. Drizzandomi a sedere, osservai il mio nuovo campo d’azione. Era un’ampia distesa d’erba fresca che scendeva dolcemente verso un fiume lontano. Lungo il corso d’acqua crescevano degli alberi, i primi che vedevo dopo chissà quanto. L’erba stessa era alta, aggrovigliata; non era mai stata tagliata, stando alle apparenze. Fiori selvatici punteggiavano il terreno di colori. Qui e là, affioravano spuntoni di rocce e macigni. Gli alberi in riva al fiume ondeggiavano scossi da un vento tiepido; spuntavano da un intrico di vegetazione che nascondeva la sponda. Non c’erano segni di civiltà; lì non c’era mai stato nessun essere umano.
La testa di un coniglio sbucò dall’erba. Mi fissò, contraendo le narici, poi mi si avvicinò. Non aveva paura. Mi esaminò per qualche secondo, e scomparve saltellando nell’erba altissima.
Mi guardai. I miei indumenti erano un semplice gonnellino di pelle e un giubbetto senza maniche. Nella cintura intrecciata che portavo in vita era infilato un coltello. Lo presi e vidi che era formato da un manico di pietra levigata e da una lama di selce scheggiata fissata in modo approssimativo con delle specie di viticci secchi.
Chiudendo gli occhi, cercai di capire dove potessi essere, e in che epoca. Evidentemente ero stato mandato ancora indietro nel tempo. Ahriman mi aveva detto che stavo tornando verso La Guera… Dal ventesimo secolo al tredicesimo, dal tredicesimo al…
Osservai nuovamente il rozzo coltello. A quanto pareva, mi trovavo nell’Età della pietra. Questa volta Ormazd non si era limitato a sbalzarmi indietro di qualche secolo; ero risalito nel tempo di almeno diecimila anni.
Dall’inferno di una reazione nucleare allo splendore barbarico della capitale dei mongoli, e adesso. … In un prato tranquillo, in una dolce mattina soleggiata. Un Eden dove gli esseri umani erano così rari che gli animali non li temevano. La civiltà non era ancora iniziata. I primi villaggi dovevano ancora sorgere. Le piramidi d’Egitto erano ancora lontane secoli e secoli. I ghiacci coprivano ancora gran parte dell’Europa, ritirandosi lentamente via via che l’Era Glaciale cedeva il posto a un clima più caldo.
Lì era primavera. I fiori sbocciavano ovunque. Gli insetti ronzavano e zampettavano tra l’erba.
Gli uccelli sfrecciavano e cantavano nel cielo. Dovevo essere molto più a sud dei ghiacciai, riflettei, o in una regione dove i ghiacciai non si erano mai spinti.
Mi alzai. Era una zona bellissima, serena, incontaminata dall’uomo. Eppure ero consapevole che se Ormazd mi aveva mandato lì, era perché c’erano degli esseri umani in quel luogo e in quell’epoca. E c’era anche Ahriman. Quel posto rappresentava una connessione fondamentale nel continuum, un punto chiave dove Ahriman intendeva alterare il corso degli eventi. E io dovevo bloccarlo, a tutti i costi, e ucciderlo se possibile.
A tutti i costi. Contrassi la faccia in una smorfia di rabbia e frustrazione. Cosa significava la morte per uno come Ahriman? O per me? Dolore, il trauma della separazione, della perdita. Ma era tutto temporaneo. Un attimo, un battito di ciglia, e secoli e millenni si dissolvevano, e noi eravamo ancora vivi, esistevamo ancora, solo per ricominciare il ciclo: cacciatore e vittima, preda e predatore… uccidere o essere uccisi. Sarebbe continuato per sempre? Non c’era pace in tutto lo spazio-tempo? Non c’era un posto dove riposarmi e vivere da uomo normale?
Tu sei Orion, mi disse una voce interiore. Il Cacciatore. Devi trovare Ahriman, e ucciderlo. Attraverso tutti gli eoni del tempo, se necessario. Devi stanare il Tenebroso e distruggerlo prima che riesca a distruggere il genere umano. Questo è lo scopo per cui sei stato creato. Non chiedere altro.
Sapevo che era un ordine dell’onnipotente Ormazd, e non mi restava che obbedire.
Sapevo che era inutile chiedere il riposo, l’amore o semplicemente l’oblio della fine dell’esistenza; Ormazd non mi avrebbe concesso nulla. Dovevo eseguire gli ordini. Però non era detto che dovessero piacermi per forza. Ormazd non sarebbe mai riuscito a far sì che lo servissi volentieri, con gioia. Agivo per costrizione, e per senso del dovere verso i miei simili. Non perché amassi o rispettassi il Dio della Luce.
M’incamminai diretto al fiume. Era bello, all’inizio, passeggiare tranquillamente sotto il sole. Ero scalzo, e sorrisi pensando che adesso non avevo nemmeno i sandali portati nel periodo dei mongoli, i sandali che avevano attirato l’attenzione di Ogotai. Ma il mio sorriso si spense al ricordo del sovrano, delle sue sofferenze, del modo in cui avevo assassinato l’uomo che aveva concesso la sua amicizia a uno straniero giunto dal futuro.
Lungo la riva del fiume, il cammino diventò disagevole; la vegetazione era un intrico di cespugli. Dei rovi mi graffiarono le braccia e le gambe nude mentre mi aprivo un varco. Finalmente raggiunsi il bordo dell’acqua, sotto gli alberi che stormivano cullati da una brezza piacevole.
Il fiume era calmo, pigro; serpeggiava lento attraverso la prateria. Mi inginocchiai e bevvi l’acqua limpida. Sulla destra vidi una fila di pietre che increspavano la superficie; erano state disposte in modo tale da formare un sentiero sull’acqua. Il primo segno della presenza di esseri umani: un guado.
Attraversai il fiume e cominciai a salire lungo il lieve pendio che portava a una catena di collinette. Giunto sulla sommità, vidi che il terreno diventava più accidentato, seghettato da una serie di colline sempre più alte. E in lontananza, sospesa come un fantasma in una foschia azzurrognola, si ergeva una strana montagna che culminava in due picchi. Uno dei coni era coperto di neve sulla sommità, ma la neve era interrotta da striature grigie, e una striscia sottile di fumo saliva tremula e si perdeva nel cielo.
Un vulcano attivo, assopito. Il profilo di quella montagna mi ricordava qualcosa, qualcosa che però mi sfuggiva.
Scossi la testa e mi girai per scendere dall’altura. La prateria in riva al fiume mi sembrava migliore di quella zona frastagliata.
Fu allora che li vidi. Stavano salendo il pendio sulla mia destra, a una cinquantina di metri. Stagliate contro il vivido cielo primaverile, una trentina di persone procedevano in fila nella direzione in cui mi trovavo.
Sbattei le palpebre. Per un attimo pensai che fossero mongoli, di non aver viaggiato nel tempo. Ma erano a piedi, non a cavallo. Ed erano snelli, di carnagione chiara, con lunghe chiome incolte rossastre. Erano vestiti di pelli, come me. Erano incrostati di sporcizia, e la brezza portava fino a me il loro odore. Alcuni cani scheletriti e rognosi li accompagnavano. Mostrarono i denti, ringhiando, ma rimasero accanto ai loro padroni.
L’uomo con la barba rossa che guidava il gruppo reggeva un palo con il cranio di un animale cornuto sulla sommità. Lo alzò e si fermò così all’improvviso che i bambini in fondo alla fila andarono a sbattere contro gli adulti che li precedevano, facendo oscillare tutta la fila. Stavo per ridere… ma notai che tutti gli uomini, e gran parte delle donne più giovani, stringevano lunghe aste con la punta annerita e indurita dal fuoco. Anche il palo del totem del gruppo era in realtà una lancia.
Per parecchi secondi mi fissarono a bocca aperta, con espressioni che erano un misto di stupore, curiosità e paura. Portarono le mani ai coltelli di pietra. Molti di loro spostarono le aste nodose in posizione di lancio. Vidi che tutte le donne erano armate, almeno di coltello; e anche i bambini più grandi avevano dei bastoni o delle clave. I cani continuavano a ringhiare.
Un clan di cacciatori dell’Età della pietra, agli albori della storia umana. Sporchi, arruffati, scarni e afflitti da una fame costante, e tremendamente diffidenti verso gli estranei. Eppure erano umani. Come me. Forse, più di me.
Continuando a tenere alto il braccio, il capo mi studiò attentamente. Una giovane donna gli si affiancò. Il cuore mi balzò in gola. Era rossa di capelli, come tutti gli altri, rossa e sporca. Ma anche da quella distanza non avevo dubbi: era Agla/Aretha.
Non sembrò riconoscermi, però. Vidi che parlava al capo, ma troppo sottovoce perché sentissi le parole.
Il capo zittì i cani con un gesto, poi si girò e rivolse un gesto a due giovani della fila. I due si guardarono in faccia nel classico atteggiamento tipo: Perché proprio io? Ma, sebbene controvoglia, si avviarono lungo il pendio, verso di me, brandendo le loro aste. Il resto del clan si raccolse attorno al capo formando un semicerchio… pronti ad attaccarmi o a scappare ridiscendendo il crinale, a seconda degli sviluppi della situazione.
I due che stavano avvicinandosi erano adolescenti, l’equivalente preistorico della carne da cannone. Erano imberbi, ma i loro capelli ramati scendevano fin sulle spalle, e avevo quasi l’impressione di vedere le colonie di parassiti che si aggiravano in quelle masse spettinate. I loro muscoli e i tendini erano tesi allo spasimo. Le nocche che stringevano le lance erano bianche per lo sforzo. Erano troppo magri e scavati in viso per avere un’aria veramente feroce, comunque la grinta non gli mancava.
Alzai le mani, sperando che lo interpretassero come un gesto di pace. Almeno avrebbero visto che ero disarmato. Si fermarono a una decina di metri da me… abbastanza vicini da infilzarmi, se non fossi stato abbastanza svelto da impedirlo.
— Chi sei? — chiese quello a sinistra, con una voce fessa e tentennante.
Capivo la loro lingua. Niente di sorprendente. Senza dubbio, Ormazd mi aveva programmato in modo che la capissi, durante la breve transizione da un’era all’altra. Se potevo conversare coi mongoli o con gli americani del ventesimo secolo, perché non avrei dovuto essere capace di comunicare con quei primitivi in una lingua morta da millenni?
— Sono un viaggiatore, giunto da lontano — risposi.
— Cosa fai qui? — chiese l’altro. La sua voce era un po’ più profonda, ma tremava come quella del compagno. Mentre parlava, alzò l’asta, pronto a scagliarla.
Tenni le mani staccate dal corpo. Sapevo che avrei potuto spezzare sia le aste che le loro ossa, volendo. Però dubitavo di riuscire a tener testa a tutto il gruppo se avessero deciso di attaccarmi.
— Vengo da molto lontano — dissi, alzando la voce perché anche il capo mi sentisse. — Ho viaggiato molto, per molto tempo. — Ed era vero, no? — Sono uno straniero nella vostra terra e cerco il vostro aiuto e la vostra protezione.
— Viaggiato? — chiese il secondo. — Da solo? Hai viaggiato da solo?
— Sì.
Il giovane scosse la testa. — Menti! Nessuno può viaggiare da solo. Le bestie o gli spiriti dei morti lo ucciderebbero. Nessuno cammina da solo, senza un clan.
— Dico la verità — replicai. — Ho viaggiato a lungo, da solo.
— Appartieni a un altro clan. Sono nascosti qui vicino, per farci cadere in un’imboscata.
Dunque, anche lì esisteva la guerra. Anche lì si ammazzava. Fui colto da una tristezza intensa. Perfino in quell’Eden gli uomini si uccidevano a vicenda. Spostai lo sguardo oltre i due ragazzi sospettosi, sulla giovane accanto al capo. I suoi occhi incontrarono i miei. Erano grigi e profondi come quegli occhi che conoscevo così bene. Ma non mi riconobbero, non esprimevano la minima traccia di comprensione… Era una donna del suo tempo, una cacciatrice dell’Età della pietra, selvaggia e incivile come tutti gli altri.
— Sono solo — ribadii. — Non ho clan. È per questo che voglio unirmi a voi. Sono stanco di star solo. Cerco la vostra amicizia.
I due giovani si voltarono un attimo verso il capo, poi tornarono a studiarmi.
— Non puoi essere del Clan della Capra — disse quello con la voce più virile. — Chi è tua madre? Chi è tuo padre? Non sono del Clan della Capra. Tu non sei del Clan della Capra.
Era un discorso semplicissimo per loro. O si nasceva nel clan, o si era uno straniero, una minaccia, un pericolo. Forse si poteva entrare nel clan sposandosi, ma era più probabile che fossero i maschi a portare la moglie nel loro clan. Le donne potevano essere oggetto di scambio continuo, ero pronto a scommettere. E il teschio cornuto sul palo del capo era quello di una capra. Sorrisi tra me. La capra è un animale resistente, disposto a mangiare in pratica qualsiasi cosa, e duro come la selce che quella gente usava per costruire attrezzi e armi.
— È vero, non sono del vostro clan. Non ho clan. Mi piacerebbe stare con voi. Non è bene per un uomo star solo.
I due esitarono, guardando di nuovo il capo. Il capo stava grattandosi la barba rossa, meditabondo. Era la prima volta che si trovava ad affrontare un problema del genere.
— Posso aiutarvi — insistei. — Sono un buon cacciatore. Il mio nome è Orion. Significa Cacciatore.
Rimasero a bocca aperta. Dal primo all’ultimo. Anche i cani adesso sembravano più circospetti.
— Sì — dissi. — Orion significa Cacciatore. Quali sono i vostri nomi? Cosa significano?
I due giovani cominciarono a urlare e ad agitare le aste. Avevano le pupille dilatate per la rabbia e la paura; stavano sudando abbondantemente, e le vene del collo gli pulsavano in modo furioso.
Dietro di loro, il clan fu scosso da un ruggito generale. Senza alcun segnale da parte del capo, tutti alzarono le armi e si precipitarono verso di me, cani compresi. I due ragazzi continuavano a fare oscillare le lance avanti e indietro, cercando di trovare il coraggio di attaccare sul serio.
Presi una decisione estremamente rapida e umana. Mi girai e scappai. Non volevo spaventarli ancor di più, o rischiare di essere travolto e ridotto a brandelli dalle loro armi primitive. Così corsi via, il più velocemente possibile.
Mi lanciarono le loro aste, ma le schivai senza difficoltà. La loro carica non seguiva uno schema ordinato; con la coda dell’occhio, vedevo le aste che solcavano il cielo traballanti a intervalli irregolari, così lente che avrei potuto afferrarle al volo. Ma preferii scansarle.
Mi inseguirono, però come velocità e resistenza mi erano nettamente inferiori. Nemmeno i cani riuscivano a starmi dietro. E poi, stavano solo cercando di cacciarmi via; si corre sempre meglio quando invece si deve salvare la pelle. In meno di un minuto ero già fuori tiro. Il loro capo mi fece seguire da una squadra di quattro uomini, ma staccai subito anche quelli. Scesi verso il fiume, arrancai attraverso la massa di cespugli della riva, e mi tuffai in acqua dando una panciata tremenda.
Raggiungi a nuoto l’altra sponda e mi trascinai tra la vegetazione. I miei inseguitori si fermarono sulla riva opposta, indicando nella mia direzione, gridando rabbiosi, ma non accennarono neppure a entrare in acqua. Idem i cani.
Dopo un po’, fecero dietrofront e raggiunsero il resto del gruppo. Al che uscii allo scoperto e mi stesi sull’erba per lasciarmi asciugare dal sole pomeridiano.
Quella sera avevo capito cosa li avesse sconvolti tanto. I nomi. Le tribù primitive nutrono una diffidenza naturale verso gli sconosciuti, e in un luogo scarsamente popolato come quello gli stranieri dovevano essere molto rari. I primitivi sono anche molto superstiziosi riguardo i nomi. Perfino nel periodo dei mongoli nessuno osava pronunciare il nome di Temucin, Gengis Khan.
Per quei cacciatori dell’Età della pietra, il nome di una persona ne racchiudeva l’anima e la forza. Dire il proprio nome a uno sconosciuto significava esporsi inutilmente, scoprirsi, attirare su di sé sortilegi e pericoli… come dare volontariamente ritagli di unghie o ciocche di capelli a una maga voodoo.
Ripensando all’incontro del pomeriggio, mi rendevo conto di averli scioccati rivelando non solo il mio nome, ma anche il suo significato. E quando avevo chiesto i loro nomi, mi avevano attaccato. Evidentemente credevano che fossi un demone o uno stregone. Prima li avevo spaventati, poi li avevo terrorizzati.
Mentre il sole calava dietro le colline rocciose di là dal fiume, e il cielo si incendiava di rosso e porpora, scelsi un punto coperto di muschio accanto a un albero per coricarmi e dormire. Di solito mi bastavano un paio d’ore di riposo, ma mi sentivo stanco fisicamente e mentalmente esausto.
Poi il ruggito lontano di un leone a caccia echeggiò nell’oscurità. A malincuore, mi alzai dal morbido giaciglio e mi arrampicai sull’albero. Un paio di scoiattoli mi accolsero con squittii rabbiosi, quindi tornarono a infilarsi nella loro tana. Trovai un incavo sufficientemente robusto e mi sistemai. La corteccia era scabra e dura, ma mi addormentai quasi subito, pensando ad Agla.
Ma fu Ormazd ad apparirmi in sogno.
Non era un sogno; era un contatto voluto. Lo vidi brillare nell’oscurità della notte, i capelli sfolgoranti, il volto sorridente, eppure non aveva un’espressione felice né soddisfatta.
— Hai trovato la tribù. — Non era una domanda, né un’ammissione di successo… solo una constatazione. Ormazd era vestito d’oro, splendeva. Era seduto, ma non riuscivo a vedere su cosa.
— Sì, li ho trovati. Ma li ho spaventati, e mi hanno respinto.
— Ti guadagnerai la loro fiducia. Devi.
— Sì — dissi. — Ma, perché? Cos’ha di tanto importante un branco di primitivi?
Ormazd era imponente e radioso come un dio greco. Ma studiando più attentamente il suo volto, notai che era un dio turbato, stanco della lotta e delle domande inutili dei comuni mortali.
— Il Tenebroso vuole distruggere questo… branco di primitivi, come li definisci tu. Devi impedirglielo.
Volevo rispondergli di no, dirgli che non avrei obbedito se non mi avesse restituito la donna che amavo, sana e salva, libera dalle angosciose separazioni di quella caccia interminabile attraverso il tempo. Avevo quel pensiero nella mente, la richiesta sulle labbra.
Invece mi ritrovai a domandargli sottomesso: — A cosa può servire ad Ahriman l’eliminazione di un clan di cacciatori dell’Età della pietra? Che ripercussione può avere una azione del genere sulla storia dell’umanità?
Ormazd mi fissò sprezzante. — E a te che importa? Tu devi pensare solo a uccidere Ahriman. Hai già fallito due volte, anche se sei riuscito a ostacolare i suoi piani. Ora sta braccando questo clan di primitivi; per cui tu userai il clan come esca per colpirlo. Semplicissimo, no?
— Ma perché proprio io? — protestai. — Perché sono stato strappato dalla mia epoca per dare la caccia ad Ahriman? Non sono abbastanza forte per ucciderlo… questo dovresti saperlo! Perché non lo affronti tu? Perché devo morire, quando non capisco nemmeno…
— Già, non capisci, tu! — La voce di Ormazd d’un tratto esplose come un tuono, e lo splendore che irradiava divenne accecante. — Sei lo strumento prescelto per la salvezza della razza umana. Non fare domande inutili, e fai invece il tuo dovere!
Dovetti schermarmi gli occhi con le mani, ma non mi arresi. — Ho il diritto di sapere chi sono, e perché sono costretto a questo ruolo.
Gli occhi di Ormazd erano più brucianti del fuoco nucleare che mi aveva ucciso diecimila anni nel futuro.
— Dubiti di me? — tuonò. Più che una domanda era una minaccia.
— Ti accetto. Però continuo a non capire. Un tempo avevo una mia vita privata, vero? Se devo morire, almeno…
— Morirai e rinascerai tutte le volte che sarà necessario.
— No!
— Sì. Devi morire per poter rinascere. Non esiste altro sistema per muoversi nel tempo, non per te e i tuoi simili. Gli esseri mortali possono spostarsi nel tempo solo attraverso la morte.
— Ma la mia splendida donna, Agla… Aretha… e lei, allora?
Ormazd serrò le labbra per parecchi istanti, prima di rispondere abbassando la voce: — È in pericolo. Ahriman la minaccia. Vuole distruggere lei, e me, e tutto il continuum. Se vuoi salvarla, devi uccidere Ahriman.
— È vero che tu, la tua razza… Ebbi un attimo di esitazione.
— …È vero che avete sterminato la razza di Ahriman, tutti, tranne lui?
— È stato lui a dirtelo?
— Sì.
— È il Re della Menzogna.
Non era una risposta, mi resi conto. Ma da Ormazd non avrei cavato altro.
— Quando si è svolta La Guerra? — chiesi. — Cos’è successo?
— Questo dovrai scoprirlo per conto tuo — rispose Ormazd, cominciando a dissolversi. — E per me — soggiunse.
Restai di sasso. — Aspetta! Vuoi dire che nemmeno tu sai cosa sia successo? Non sai come si sia svolta La Guerra? Non sai cos’abbia fatto la tua razza alla sua?
Ma ormai Ormazd era solo un puntino di luce risucchiato dall’oscurità. Sentii la sua voce che mi giungeva da molto lontano:
— Perché pensi che la mia razza e la tua non siano la stessa, Orion? Non siamo padre e figlio?
Sussultando, mi accorsi di fissare il cielo stellato. Le stelle ammiccavano dalle profondità dello spazio; mi aggrappai alla scorza rugosa dell’albero, allora, e cercai lassù un’ombra di significato. Cercai la costellazione di Orion, ma non la trovai.
Per giorni interi seguii il Clan della Capra nella sua marcia attraverso il paesaggio del Neolitico. Dovevo farmi accettare, ma quelli erano xenofobi convinti; o si nasceva nella tribù o si diventava membri sposando uno del clan, altrimenti si era considerati stranieri, da evitare e da temere.
Ma gli ordini di Ormazd erano chiari. Dovevo salvare quel clan dalle trame di Ahriman, qualunque esse fossero. Dovevo usare il clan per intrappolare il Tenebroso.
E la donna, quella dagli occhi grigi la cui bellezza spiccava nonostante gli strati di sporcizia e di ignoranza, era la stessa che avevo conosciuto come Agla, e Aretha. Però non dava segno di avermi riconosciuto. Rinasceva ogni volta con me, ma senza ricordare le vite precedenti? Perché Ormazd voleva che fosse così?
Credevo di sapere la risposta. Lei era il mio punto di riferimento locale, indigena del posto e dell’epoca come gli altri membri del clan. Se fossi riuscito a farmi accettare da lei, anche i suoi compagni mi avrebbero accettato.
E io volevo che mi accettasse. Certo! Volevo che mi amasse, come mi aveva amato a diecimila anni di distanza, come io l’amavo sempre.
Purtroppo erano un branco di selvaggi paurosi e superstiziosi, e il loro istinto primario era quello di stare alla larga dall’ignoto… e uccidere gli estranei.
Li osservai da lontano. Per gran parte del tempo cacciavano; le donne più giovani battevano i cespugli in cerca di conigli, scoiattoli e qualsiasi altro animale fosse possibile stanare, mentre gli uomini si spingevano più lontano a caccia di prede più grosse quasi sempre con risultati nulli. Le donne anziane restavano accanto al fuoco del loro campo, curando i bambini e raccogliendo piante e bacche commestibili.
Al tramonto si raccoglievano tutti attorno al fuoco. Le donne preparavano miseri pasti, gli uomini fabbricavano nuovi attrezzi servendosi delle scorte di selce che portavano in sacche di pelle o indurivano sulla fiamma la punta delle loro lance. Era un gruppo chiuso e autosufficiente, che viveva dei frutti della terra, che riusciva a non morire di fame a patto di non produrre troppa prole. Gli ecologi del ventesimo secolo guardavano preoccupati la cosiddetta cultura usa-e-getta dell’uomo moderno, e indicavano come esempio le tribù primitive che, secondo loro, vivevano in armonia con la natura. Bene, io invece stavo proprio assistendo alle origini della cultura dell’usa-e-getta. Questi cacciatori del Neolitico arrivavano in un posto dove accamparsi, tagliavano cespugli e rami per accendere il fuoco, uccidevano tutta la selvaggina che gli capitava a tiro, e quando avevano finito di mangiare gettavano in giro le ossa. E lasciavano dietro di sé una scia di frammenti di selce, armi e attrezzi inservibili.
Il fumo dei loro fuochi non nuoceva alla purezza dell’aria del Neolitico. I loro mucchi di rifiuti non inquinavano il terreno e la falda freatica. Le loro battute di caccia non mettevano in pericolo la sopravvivenza di nessuna specie animale. Ma l’atteggiamento di quei cacciatori nomadi si sarebbe trasmesso a tutte le generazioni future. Finché si era trattato di poche bande sparse di cacciatori primitivi, nessun problema: i gravi problemi per l’ambiente erano iniziati quando i discendenti di quei cacciatori erano diventati qualche miliardo di persone. Comunque, nonostante tutto, non potevo fare a meno di sorridere osservandoli, e pensavo alle ipotesi assurde che i moralisti ecologisti del ventesimo secolo facevano riguardo ai popoli primitivi.
Ma sorridendo non avrei portato a compimento la mia missione. Dopo parecchi giorni di osservazione, perlopiù rimanendo nascosto, ma ogni tanto mettendomi bene in vista perché mi vedessero e capissero che li stavo seguendo, escogitai un sistema per farmi accettare dal clan.
Mi ero vantato di essere un abile cacciatore. Falsa pubblicità; l’unica volta che ero andato a caccia era stato al fianco di Ogotai, nella grande battuta organizzata dai mongoli. Però sapevo che i miei sensi e i miei riflessi erano migliori dei loro, che in quanto a resistenza fisica e abilità godevo di un notevole vantaggio. Dopo averli osservati inseguire la selvaggina e costruire le loro trappole rudimentali, e restare quasi sempre a mani vuote, mi resi conto di poterli battere su quel terreno.
Così cominciai a catturare della selvaggina e a lasciarla accanto al fuoco quando dormivano. Erano creature innocenti, e di notte non mettevano nessuno di guardia al campo. Il fuoco li proteggeva dagli animali pericolosi, e le altre tribù dovevano essere troppo lontane per rappresentare una minaccia. Per me era facile lasciare al campo un paio di volatili o di conigli che avevo stanato dai cespugli e ucciso a sassate.
Dopo parecchi tentativi, riuscii a costruirmi un arco e imparai a fabbricare frecce che avessero una traiettoria appena decente. Abbattei un daino con la mia nuova arma, anche se poi dovetti finirlo col coltello. Depositai la preda vicino al loro fuoco prima dell’alba.
Ogni mattina li osservavo, stando nascosto. Dapprima si mostrarono allibiti, chiedendosi come fosse apparsa in mezzo a loro la selvaggina morta. Ne discussero per ore e ore, e alcuni membri del clan sembravano propensi a credere che l’impresa fosse opera di qualche compagno. Ma nessuno ammise di averlo fatto, e dopo avere trovato per diverse mattine quei doni inattesi, tutti cominciarono a rendersi conto che quella era opera di un estraneo.
Questa constatazione li rese apprensivi, anche se mangiavano tranquillamente la cacciagione. Però di notte cominciarono a piazzare delle sentinelle. All’inizio si trattava di giovani assonnati, il che mi permetteva di scivolare nel campo abbastanza facilmente. Poi fu la volta di uomini adulti, che comunque solo di rado erano abbastanza attenti da impedirmi di portare i miei doni accanto al fuoco.
Gradualmente, cominciai a lasciare che mi vedessero, sempre da lontano. Stringevo nella mano alzata qualche volatile o portavo un daino sulle spalle. I primitivi si ammassavano e mi fissavano intimoriti. Di notte mi avvicinavo al campo e ascoltavo i loro discorsi, e prima dell’alba me ne andavo lasciando il trofeo con cui mi avevano visto il giorno precedente.
Ben presto divenni una leggenda. Orion era alto più di tre metri. I suoi occhi sprizzavano fiamme. Attraversava i fiumi con un balzo e fermava le lance a mezz’aria col suo sguardo di fuoco. Era un cacciatore eccezionale, capace di abbattere un mastodonte da solo.
I discorsi sui mastodonti mi interessavano. Apparentemente, i clan si riunivano durante l’estate e cacciavano gli animali più grossi. Gli anziani, uomini dai trentacinque ai quarant’anni, raccontavano storie di grandi battute in cui spingevano interi branchi di mostri irti di zanne oltre il bordo di un dirupo e poi banchettavano con la carne delle prede fino a scoppiare.
Ascoltai anche i nomi che usavano tra di loro, e scoprii che il capo barbuto era Dal e l’adolescente dalla voce fessa era Kralo. La donna che avevo amato in altre epoche lì veniva chiamata Ava… ed era la donna di Dal, constatai presto. Fu un duro colpo. Vagai per giorni e giorni lontano dal clan, sentendomi solo e tradito da una donna che non possedeva nessuno dei miei ricordi, che mi aveva visto per la prima volta il giorno in cui avevo incontrato e spaventato il clan. “Cosa ti aspettavi?” riflettei rabbioso. “A questi selvaggi mancano il tempo e i mezzi per permettere alle donne un’esistenza che non sia di coppia. Credevi che lei ti avrebbe aspettato? Non sapeva nemmeno che c’eri, fino a qualche settimana fa. E anche adesso pensa che tu sia un demone o un dio, non un uomo che l’ama e la vuole per sé.”
Eppure continuai a tormentarmi, pieno di autocommiserazione e di una rabbia a stento repressa verso Ormazd, che mi aveva sbattuto in una simile situazione senza tenere conto dei miei sentimenti.
Dopo tre giorni trascorsi a curare il mio cuore ferito, mi accorsi che un atteggiamento del genere non serviva né a me né al clan. Decisi di tornare a dedicarmi al compito che mi era stato assegnato. Tanto, non potevo fare nient’altro. Ero una semplice pedina nel gioco di Ormazd, e i sentimenti di una pedina non hanno alcuna importanza per chi muove i pezzi sulla scacchiera.
Quella notte mi avvicinai furtivo al campo e sentii che si chiedevano come mai il potente Orion li avesse abbandonati. Cosa avevano fatto per offenderlo? Per poco non scoppiai a ridere. Gli eventi miracolosi facevano presto a diventare comuni! I doni che prima li avevano spaventati adesso rientravano nella norma. Era l’assenza dei doni a preoccuparli.
Decisi di offrire al clan un vero dono. Pensai alle marce che compivano ogni giorno, alla distanza tra un campo e quello successivo. Evidentemente si spostavano con un obiettivo preciso in mente. Calcolai dove si sarebbero accampati tra due giorni e mi diressi in quella zona. Notai. con piacere che il posto in cui arrivai era già stato usato precedentemente come campo: accanto a un ruscello gorgogliante c’erano un tratto annerito da chissà quanti fuochi e un mucchio di ossa.
Quella notte e il giorno seguente li passai cacciando sul serio. Col mio arco traballante e una fionda che mi ero costruito, misi insieme una quantità enorme di selvaggina per il clan: conigli, uccelli, cervi, perfino un cinghialetto succulento. Lasciai il cibo nel futuro accampamento, e iniziai una lunga sorveglianza per difenderlo dai cani selvatici e da altri mangiacarogne.
I cani rappresentavano il problema maggiore. Non avevano niente in comune con quelli semiaddomesticati del clan; erano specie di lupi, feroci e intelligenti. Cacciavano in branchi, e mi avrebbero travolto e ucciso se non fossi stato più svelto e più furbo di loro. Anche se mi dispiaceva farlo, dovetti ucciderne parecchi prima che si decidessero ad andarsene.
Sorvegliai la selvaggina per tutta la notte e gran parte del giorno seguente. Finalmente, verso il tramonto, scorsi all’orizzonte l’avanguardia del clan, due adolescenti che Dal spesso mandava in avanscoperta. Attraversai il ruscello e mi nascosi tra la vegetazione sull’altra sponda.
I ragazzi videro il mucchio di selvaggina e cominciarono a saltare e a urlare come ossessi. Gli altri membri del clan si affrettarono a raggiungerli, restarono a bocca aperta, quindi corsero verso il campo. Erano fuori di sé dalla contentezza. Era la prima volta che vedevano tanta selvaggina. Si raccolsero attorno alla cacciagione, sferzando l’aria per allontanare le mosche, e fissarono allibiti quella montagna di carne.
Dal mio nascondiglio sentii che Dal, il capo diceva con tono grave: — Solo Orion può averlo fatto.
— Sarà tutta per noi questa roba? — chiese Ava.
— Siamo la sua gente — rispose Dal. — Questo è il campo del nostro clan da tanto tempo che nemmeno il vecchio Makar può ricordarlo. È un dono di Orion, per noi. È tornato. Non è più arrabbiato con noi.
Lasciai che accendessero il fuoco e dessero inizio al festino, mentre la sera stendeva il suo velo viola sul cielo senza nubi. Avanzai lungo la riva e in un punto dove il ruscello formava un piccolo stagno vidi un bel cervo solitario che si abbeverava.
Prendendo l’arco, mi mossi lentamente verso la bestia. Mi vide, ma era così poco abituato alla presenza di esseri umani che mi lasciò avvicinare, consentendomi di portarmi a tiro. Lo abbattei trapassandogli il collo, poi lo sgozzai rapido col coltello di pietra. Mi rimordeva un po’ la coscienza pensando a un’era successiva in cui gli uomini cacciavano quegli splendidi animali per sport non per esigenze alimentari. Scuotendomi, mi caricai in spalla la preda e tornai verso il campo. Non era un peso indifferente, e camminai lentamente, con cautela nell’oscurità del crepuscolo.
Mentre le prime stelle si accendevano in cielo, entrai nella luce tremolante del campo. Stavano ancora mangiando, ingozzandosi come gente abituata a lunghi periodi di fame, le dita e le facce unte e sporche.
Avanzai in mezzo a loro e scaricai il cervo ai piedi di Dal.
Nessuno pronunciò una sola sillaba. Si sentiva solo lo sfrigolio della carne sul fuoco.
— Sono io — dissi infine. — Orion. Vi porto un altro dono.
Erano vittime della loro stessa propaganda. Avevano gonfiato tanto le storie sul mio conto che adesso sembravano terrorizzati dalla mia presenza. Erano immobili. Le loro facce erano contratte per la paura e lo stupore. Probabilmente si aspettavano che li colpissi con un fulmine, o qualcosa di altrettanto drastico, immagino.
Ava fu la prima a riaversi. Alzandosi, tese le braccia verso di me.
— Ti ringraziamo, potente Orion. Cosa possiamo fare per dimostrarti la nostra gratitudine?
Era sudicia, macchiata di sangue e di carne bruciacchiata. Ma nel riflesso del fuoco vidi i calmi occhi grigi che avevo conosciuto e amato in altre epoche, e dovetti compiere uno sforzo di volontà per non stringerla tra le braccia.
Respirai a fondo, e cercai di parlare col tono cupo e solenne del semidio che vedevano in me.
— Sono stanco della solitudine — dissi. — Voglio stare con voi per un po’.
Dal clan si levò un mormorio. Dal si alzò, mettendosi alle spalle di Ava.
— Vi insegnerò a cacciare come caccio io. Vi insegnerò a prendere tutta la selvaggina che vorrete.
Rimasero immobili, Dal e Ava di fronte a me, gli altri seduti in semicerchio attorno al fuoco. Le loro facce sporche esprimevano sentimenti contrastanti. Io li spaventavo a morte. Però, riuscire ad ammazzare tanti animali! Era un’offerta allettante. Dovevano dar retta alla paura o alle loro pance?
Ava si avvicinò e studiò il mio viso nei riflessi guizzanti della fiamma. Probabilmente anch’io non ero un esempio di pulizia e ordine.
— Sei un uomo o uno spirito? — mi chiese baldanzosa.
Era bella come la ricordavo. Alta e snella, quasi della mia statura, più alta della maggior parte degli uomini del clan. Ma il suo corpo agile e robusto era innegabilmente femminile; le pelli che portava erano piuttosto rivelatrici. Le braccia e le gambe nude erano sporche e piene di graffi. Aveva la crosta di una ferita su un ginocchio. I suoi capelli arruffati erano rossi come quelli degli altri, invece della massa scura che ricordavo. Però era la stessa donna… splendida, intelligente, coraggiosa… La donna che amavo.
Sorrisi. — Sono un uomo — risposi. — Sono semplicemente un uomo.
Dal si fece avanti per esaminarmi più da vicino. Era disarmato, ma il suo era chiaramente un atteggiamento protettivo nei riguardi di Ava.
— Sembri un uomo — disse. — Eppure…
— Sono un uomo.
— Ma fai cose che nessun uomo può fare.
— Vi insegnerò come fare queste cose.
Ava domandò: — In che clan sei nato, se sei un uomo?
— Il mio clan vive lontano da qui. Ho viaggiato a lungo.
— Quelli del tuo clan sanno cacciare tutti come te?
— Alcuni, sì — risposi. — Alcuni cacciano meglio di me.
Per la prima volta, un sorriso le incurvò le labbra. — Devono essere molto grassi, allora.
Risi. — Alcuni, lo sono.
— Perché sei solo? — insisté Dal, ancora sospettoso. — Perché sei venuto da noi?
— Il mio clan è lontano. Sono in viaggio da molto tempo. Sono stato mandato qui ad aiutarvi, insegnarvi a cacciare, proteggervi dai vostri nemici. Sono solo da tanti giorni che nessuno di voi riuscirebbe a contarli, e sono stanco della solitudine. Voi siete il clan che cercavo. Siete la gente con cui voglio stare.
Mentre parlavo, mi resi conto della verità contenuta nelle mie parole. Ero solo da una vita, se si escludevano quei pochi mesi insieme ad Agla.
— Non è bene che un uomo sia solo — disse Ava, la voce sorprendentemente ricca di colore e comprensione. — Anche il cacciatore più forte ha bisogno di un clan e di una famiglia.
Da bravi esseri umani di fronte a una decisione difficile, optarono infine per un compromesso. Dal parlò fitto coi due anziani del clan, quindi tutti gli adulti, maschi e femmine. Potevo unirmi a loro, e insegnargli i miei segreti di caccia; però dovevo dormire da solo, lontano dal fuoco. Molti erano ancora convinti che fossi un essere soprannaturale e volevano rischiare il meno possibile.
Accettai la loro decisione. Dovevo. Nessuno sollevò la questione della mia posizione futura, cioè come regolarsi con me una volta apprese tutte le mie tecniche di caccia. Quella gente non pensava molto al futuro; vivevano nel presente, come tutti gli animali, e intuivano solo in modo vago che il domani avrebbe potuto essere diverso da ieri.
Comunque, per il momento, la loro decisione mi andava bene. Adesso potevo eseguire gli ordini di Ormazd. E stare accanto ad Ava.
Dal e Ava mi erano sempre accanto mentre il clan proseguiva la sua migrazione attraverso il territorio verdeggiante.
Dal era un buon capo, che prendeva seriamente il suo ruolo. Alto quasi quanto me, anche se molto più magro, era dotato di una discreta muscolatura e di occhi acuti, vigili. Mi osservava attentamente per tutta la giornata. Non temeva che potessi essere uno spirito, una minaccia soprannaturale per il clan. No, le sue erano preoccupazioni pratiche, terra terra. Temeva che potessi essere la spia di un altro clan, un infiltrato che voleva attirarli in un’imboscata.
Non me ne resi conto subito. Ma dopo qualche giorno di stretta e continua sorveglianza, cominciai a farmi un’idea della situazione. Di notte, quando gli anziani raccontavano le loro storie accanto al fuoco, sentii narrare tanti fatti di sangue e battaglie da capire che anche in quella specie di paradiso, dove i clan erano sparsi su un territorio immenso e i contatti tra loro erano rari, la guerra e l’omicidio erano una cosa abbastanza comune, e glorificata.
A quanto pareva, incontravano gli altri clan durante quelle migrazioni, e quasi sempre finivano con lo scontrarsi per il controllo dei territori di caccia. Anche se a me sembrava che lì la selvaggina abbondasse, per quei cacciatori nomadi i diritti territoriali erano di importanza vitale per la sopravvivenza. Occorrevano parecchi chilometri quadrati di terra per fornire selvaggina sufficiente al sostentamento di un piccolo clan, perché quella gente primitiva viveva quasi esclusivamente di caccia. E la caccia non era mai abbastanza buona da garantire loro un’alimentazione decente.
Stando a quel che sentii da Dal e dagli altri, parecchi clan imparentati da legami matrimoniali vivevano generalmente nella stessa zona durante l’estate. Adesso eravamo diretti al campo estivo, tra le colline in prossimità del vulcano sormontato dai due picchi che dominava il paesaggio. I clan avrebbero trascorso l’estate insieme, abbastanza vicini da permettere visite, corteggiamenti, matrimoni, e scambi di storie e informazioni. In autunno, ognuno sarebbe andato per la propria strada, marciando verso i territori dove svernare, a sud.
Anche Ava mi riservava un atteggiamento sospettoso. Ma i suoi timori erano di carattere soprannaturale. Era la sciamana del clan, un misto di guaritrice erborista, sacerdotessa, psicologa, e consigliere di Dal. Era divertente notare in che fase remota della storia umana i ruoli di sacerdote, dottore, e eminenza grigia si fossero fusi insieme.
Ava mi camminava a fianco quasi tutti i giorni, ma il suo interesse per me sembrava puramente professionale. Voleva assicurarsi che non fossi un demone, ed eventualmente essere pronta a intervenire prima che potessi fare del male al clan. Continuava a farmi delle domande sul mio luogo d’origine e il mio clan. Non mi dispiaceva; ero contento di stare con lei, anche se sapevo che ogni notte, quando dovevo allontanarmi dal fuoco, lei dormiva con Dal.
Avevo immaginato che la sciamana del clan dovesse essere una vecchia, una arpia rimasta vedova del compagno o mai stata capace di attrarne uno. Fui sorpreso, all’inizio, che una donna giovane come Ava svolgesse quella mansione, soprattutto dal momento che era la compagna di Dal. Poi mi resi conto che non c’erano vecchie nel clan. Non c’erano donne che avessero superato i trent’anni, a quanto potevo vedere. I due anziani del clan, del resto, non dovevano avere più di quarant’anni; le loro barbe incolte erano appena striate di grigio. Ma non c’erano donne coi capelli grigi nel Clan della Capra. E degli otto bambini, solo tre erano femmine; una era una neonata portata ancora sulle spalle dalla madre.
Chiesi ad Ava cosa succedesse alle donne con l’avanzare dell’età.
— Muoiono — rispose lei tranquillamente. — I loro spiriti abbandonano i corpi.
— Come muoiono?
Ava scrollò le spalle. — Molte volte muoiono nel mettere al mondo i bambini, o poco dopo. Alcune sono troppo malate o deboli per seguire la marcia del clan.
— E le abbandonate?
I suoi occhi grigi mi fulminarono. — Certo che no! Facciamo uscire il loro sangue, perché i loro spiriti possano rimanere con noi. Non permettiamo che lo spirito di uno del clan vada in giro per il mondo tutto solo.
— Capisco — dissi, e lasciai cadere il discorso. Inutile chiederle dell’infanticidio selettivo delle femmine. Si capiva che era una pratica in vigore, contando i bambini.
In quella vita ardua di cacce e di marce, le donne erano un peso morto. Erano necessarie per la procreazione, certo; però troppe donne significa troppi bambini, troppe bocche da sfamare. Così, le bambine venivano selezionate ed eliminate alla nascita. E quando una donna non era più in grado di partorire, la sua utilità in seno al clan terminava, e il clan si sbarazzava di lei. Non che gli uomini vivessero molto più a lungo: le malattie e gli incidenti facevano numerose vittime, e se non bastavano c’era sempre la guerra.
I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse provvedevano a risolvere i problemi di sovrappopolazione coi rigori del Neolitico, mantenendo un equilibrio costante.
Senza accorgermene, io stavo alterando quell’equilibrio. Mi occorsero parecchie settimane per rendermene conto. Ma insegnando al clan a costruire archi e frecce, a scavare trappole per animali, cominciai a capire che stavo modificando l’equilibrio ecologico di quell’era, anche se in modo lieve. Perché non era prestabilito che gli uomini dovessero vivere in piccoli gruppi sparsi, costantemente in lotta per non morire d’inedia. Solo la mancanza di conoscenze e di attrezzi adatti rendeva quei cacciatori così deboli e vulnerabili. Con le conoscenze giuste e attrezzi migliori, sarebbero diventati i padroni del mondo.
E infine avrebbero costruito bombe atomiche e metropoli soffocate dai rifiuti che producevano, lo sapevo. Eppure, svegliandomi ogni mattina in quell’alba della storia umana e osservando quei poveracci che si accingevano ad affrontare un altro giorno con mezzi praticamente inesistenti a parte le loro mani, capivo che la mia scelta era l’unica che potessi fare. Erano parte di me, umani come me. Rifiutando di aiutarli sarebbe stato come se mi fossi rifiutato di respirare. Indipendentemente dalle conseguenze, dovevo scegliere la vittoria della vita sulla morte, della conoscenza sull’ignoranza, dell’umanità su tutte le altre forme di vita esistenti al mondo.
E poi vedevo Ava che si muoveva aggraziata tra i suoi compagni, sorseggiando acqua da una zucca, calmando un bambino che piangeva, e mi rendevo conto che tutti i miei nobili pensieri erano solo scuse. Sì, aiutavo quel clan perché c’era lei, e non sopportavo l’idea che un giorno, quando lei non fosse stata più in grado di tenere i loro ritmi di marcia, i suoi compagni l’avrebbero svenata liberando il suo spirito dal corpo.
La mia conoscenza della tecnologia del Neolitico era a dir poco lacunosa, però ricordavo di aver visto delle illustrazioni di catapulte per lance, lunghe impugnature scanalate che fungevano da prolungamento efficace del braccio e consentivano di scagliare un’asta a distanza doppia. Feci degli esperimenti per parecchi giorni, e alla fine imparai a costruire una catapulta e a usarla.
La diffidenza di Dal scomparve quasi quando gli mostrai come fare a lanciare un’asta a distanze mai viste prima. Aveva guardato l’arco e le frecce con sospetto, soprattutto perché non ero ancora capace di impennare bene le frecce che di conseguenza risultavano imprecise. La catapulta però si adattava perfettamente alla sua esperienza e alle sue aspettative. Il primo giorno che la usò, Dal abbatté una gazzella che sfamò l’intero clan per due giorni. Subito, mi ritrovai tempestato di richieste. Feci altre tre catapulte, sotto gli sguardi attenti degli uomini e dei ragazzi. Poi cominciarono a fabbricarle loro, e in una settimana ottenevano già risultati migliori dei miei.
Ogni notte guardavo le stelle, cercando nei loro schemi eterni un segno che mi indicasse la posizione sulla Terra. Gran parte delle costellazioni mi apparivano familiari. Riconobbi Andromeda, Perseo, Boote e l’Orsa Minore. Chiaramente, mi trovavo nell’emisfero settentrionale. L’Orsa Maggiore aveva una forma strana, storta, le sue stelle erano disposte diversamente. Se avessi avuto ancora qualche dubbio, quella era la conferma che mi ero spostato di parecchi millenni.
Il vulcano che si ergeva all’orizzonte continuava a ricordarmi qualcosa, ma non riuscivo a inquadrarlo. Quando chiesi a Dal come si chiamasse, lui mi fissò in modo strano. O il clan non dava un nome alle montagne, o si trattava di un nome sacro da non pronunciare alla leggera.
Il terreno era in salita, adesso, e ci arrampicammo lungo pendii erbosi sempre più ripidi. Dopo circa una settimana di viaggio, il terreno si appiattì in un ampio plateau coperto da una foresta buia. Pini e abeti immensi, e a intervalli macchie di betulle e querce maestose. Sotto gli alberi la vegetazione era rada, ma si infittiva nei punti dove il soffitto verde lasciava filtrare i raggi del sole. Dal ci guidò lungo un sentiero che si addentrava serpeggiando tra le ombre degli alberi… terreno brullo, ammorbidito da un tappeto di aghi di pino. Un percorso facile.
La foresta era ricca di selvaggina. Ogni mattina gli uomini e i ragazzi più grandi si spingevano a caccia di cinghiali, cervi, e qualsiasi cosa riuscissero a trovare. Spesso anche alcune donne partecipavano. Le altre donne e i bambini restavano al campo, catturando selvaggina più piccola con le trappole. Io divenni un tiratore esperto con la fionda, e di solito riuscivo a uccidere un paio di conigli o di scoiattoli in un’ora. Il clan mangiava bene nella foresta. Chissà perché non rimanevano lì?
Lo chiesi ad Ava, un pomeriggio in cui era rimasta al campo invece di uscire con i cacciatori.
— Andiamo nella valle, nel nostro territorio estivo — mi disse. — Là incontreremo altri clan. Ci saranno matrimoni e feste.
Sedevo con la schiena appoggiata al tronco enorme di una quercia, mentre lei era in ginocchio, intenta a dividere le radici e le erbe medicinali che aveva raccolto quella mattina.
— Perché i clan non si incontrano qui nella foresta? — domandai. — C’è più selvaggina che in tutti gli altri posti che ho visto finora.
Ava mi sorrise paziente, il sorriso di un’insegnante alle prese con un allievo volenteroso. — La valle è un posto migliore. C’è molta selvaggina, là. E anche altri generi di cibo. Qui nella foresta… — Si guardò intorno, nella penombra tetra interrotta da raggi spettrali di luce. — Qui ci sono spiriti delle tenebre, pericolosi e malvagi.
Conoscevo uno spirito delle tenebre estremamente reale, io. Mi domandai se Ahriman fosse in agguato in quella cupa foresta.
— E nemici che possono tenderci imboscate. — La voce sonora di Dal interruppe la nostra discussione. — La foresta si presta facilmente alle trappole del nemico.
Si avvicinò a grandi passi, forte e sicuro di sé, sorridendo sotto la barba color rame. Su una spalla, portava un giovane cinghiale con le zampe posteriori legate.
Ava balzò in piedi, talmente felice di vederlo che io provai una fitta improvvisa di gelosia e irritazione. — Perché di ritorno così presto?
Lasciando cadere a terra la preda, Dal indicò e disse: — Abbiamo trovato un nuovo abbeveratoio, più a monte. Ci vanno tutti gli animali a bere. L’anno scorso non c’era; qualcosa ha sbarrato il torrente, formando un grosso stagno. Al tramonto prenderemo tanta selvaggina che mangeremo per il resto del viaggio!
Al tramonto tutto il clan era appostato nei pressi dell’abbeveratoio, un laghetto alimentato da un ruscello che scorreva nella foresta scendendo dal fianco ancora innevato della montagna. Solo i due anziani, i bambini e le quattro donne più vecchie erano rimasti al campo. Dal aveva portato tutti gli altri, disponendoci con cura attorno allo stagno e ai lati del sentiero che conduceva all’acqua.
Era tanto sicuro di sé da indicare anche a me dove nascondermi. Io accettai i suoi ordini sorridendo; Dal non mi temeva più, il che mi faceva piacere. Ormai facevo parte del clan.
Aspettammo, rannicchiati tra la vegetazione, sperando che il vento non cambiasse direzione e rivelasse la nostra presenza agli animali che sarebbero venuti a bere.
Le ombre della sera cominciavano a calare. Gli uccelli cinguettavano e svolazzavano tra gli alberi. Una processione di formiche mi sfilò davanti a qualche centimetro dagli occhi, mentre me ne stavo accovacciato, impaziente, sudato nonostante la frescura. Accanto, avevo tre lance. A destra e a sinistra, intravedevo altri membri del clan, nascosti e mimetizzati come me. Dovevamo attendere che Dal facesse la prima mossa.
Aspettammo. Le ombre si infittivano. I richiami degli uccelli cessarono. Ma gli animali non arrivavano. Cominciai a chiedermi se fosse successo qualcosa.
Poi sentii uno sbuffare alle mie spalle. Non osai voltarmi. Rimasi immobile, respirando appena. Avevo le mani bagnate di sudore. Ero eccitato come quei cacciatori del Neolitico… forse, più eccitato di loro.
Soli, a coppie gli animali scesero guardinghi il sentiero verso lo stagno. Cervi, cinghiali, uno strano genere di capre, altre specie mai viste. Avanzavano adagio, sapendo benissimo che la foresta era infestata di cani selvatici e lupi. Non sospettavano che ci fossero altri predatori nascosti proprio lì.
Con un grido agghiacciante, Dal scattò in piedi e scagliò una lancia contro il cervo più grosso, colpendolo dietro le zampe anteriori, facendolo stramazzare sul bordo del laghetto. Tutti balzammo in piedi, sfogando con urli assordanti l’eccitazione repressa, e iniziammo la strage.
Ava era la più scatenata del gruppo, impavida, feroce come un demone dell’inferno. Trafisse un cerbiatto con la sua prima asta, poi si precipitò sul sentiero per impedire alle bestie di fuggire. Un cinghiale la caricò a testa bassa, gli occhi accesi d’odio. Ava lo infilzò con l’altra lancia, ma lo slancio furioso dell’animale le strappò l’arma di mano. Mi affiancai a lei e inchiodai il cinghiale a terra trapassandogli le reni. Senza un attimo di esitazione, Ava gli saltò a cavalcioni e lo sgozzò.
Il sangue ci schizzò addosso, mentre Ava, alzava le braccia, e agitava il coltello di pietra insanguinato mettendosi a gridare lei stessa come una belva impazzita.
Rimasi ad osservare, improvvisamente paralizzato davanti a quella visione di ardore primitivo, di bramosia di morte e violenza appagata col sangue della preda. Attorno a noi il massacro continuava, riempiendo l’aria di urla e del tanfo del sangue. Ava mi gettò le braccia al collo, ridendo e singhiozzando nel medesimo tempo.
— Compagni di sangue! — strillò. — L’abbiamo ucciso insieme. Abbiamo una morte che ci accomuna!
Avrei preferito che fosse l’amore a unirci. Ma sembrava che per lei i sentimenti si equivalessero.
Trascinammo le bestie massacrate al campo, dove gli anziani e le donne ci tributarono un’accoglienza chiassosa. Eravamo macchiati di sangue, puzzavamo di sudore e di budella squarciate. Nessuno aveva riportato ferite gravi; uno degli adolescenti aveva un taglio profondo al polpaccio, ma non sembrava niente di serio.
Tremavo ancora quando arrivammo al campo. Avevo già cacciato in precedenza, da solo. Avevo cacciato con Dal e altri membri del clan. Ma la caccia di quella sera era stata qualcosa di diverso, un’esperienza selvaggia e brutale che aveva liberato gli istinti assassini che si celano nell’animo di ognuno. Non saremmo riusciti a mangiare tutta la selvaggina uccisa; molta sarebbe marcita. Eppure, in preda a una smania e a una voracità da squali, avevamo ucciso il maggior numero di bestie possibile, risparmiando solo quelle abbastanza svelte o fortunate da sfuggire alle nostre lance.
Dal mi fissò sospettoso sulla via del ritorno. Ma non perché temesse che fossi una spia nemica o uno spirito capace di rubargli l’anima. Era semplicemente un maschio affetto da gelosia. Aveva visto Ava che mi abbracciava, e la cosa non gli era piaciuta.
I due anziani insistettero perché il clan celebrasse un rito di sangue per ringraziare gli dei di quella caccia miracolosa. Volevano addirittura che io partecipassi, come rappresentante degli dei. Dal rifiutò deciso.
— Orion ci ha detto che è un uomo, non uno spirito — sostenne.
— Ma prima che venisse da noi, non avevamo mai fatto cacce così abbondanti — ribatté il più anziano degli anziani. — Forse parla così per modestia, o perché possiede la saggezza degli dei… Comunque, il suo arrivo ci è stato incredibilmente propizio.
Non presi parte alla discussione. Meglio che decidessero da soli, mentre io stavo zitto… per modestia o saggezza superiore.
Ma Ava intervenne. — Orion mi ha aiutato a uccidere il cinghiale. Siamo compagni di sangue. Dovrebbe partecipare al rito.
Al che, naturalmente, Dal si schierò ancor più accanitamente contro di me. Il clan era una specie di democrazia arcaica. Dal non era un sovrano assoluto. Ma come accade in tutte le democrazie, una minoranza caparbia di solito riesce a prevalere sui desideri della maggioranza. Dal voleva impedirmi ad ogni costo di prendere parte al rito tribale, sorretto da una base di gelosia e sospetto. Gli altri dalla loro avevano solo l’imparzialità e la buona volontà. Vinse Dal.
Così, mi sedetti al buio, lontano dal fuoco, mentre il clan danzava e sconquassava la notte con i suoi cori di grida allucinanti. Attorno a me, i tronchi si innalzavano neri e minacciosi; mi fecero pensare ad Ahriman, incarnazione delle tenebre, che mirava alla nostra estinzione.
Per ore osservai le danze, ascoltai i loro canti selvaggi, ripetendomi che ero contento di non essere come loro, contento di essere una persona civile, di starmene appartato.
Finalmente quegli urli sinistri cessarono e il chiarore del fuoco divenne un lucore rossastro tra le colonne scure degli alberi. Mi coricai sul tappeto di aghi di pino e chiusi gli occhi per dormire.
Ero contento di non essere uno di loro. Il pensiero mi rimbalzò nella niente, fino a trasmettermi un senso di nausea fisica. Io non ero uno di loro.
Ero solo, completamente solo, a migliaia di anni dal mio amico più vicino… anzi, la mia memoria era così bloccata che non sapevo nemmeno se avessi un amico in qualche angolo del continuum spazio-temporale.
Fu allora che Ava venne da me. C’era buio, ma sentivo prepotentemente l’odore di sangue e umori animali del suo corpo nudo macchiato.
— Non hai potuto prendere parte al rito — mormorò, ansimando ancora per l’eccitazione. — Così ho portato il rito qui da te.
Una buona parte del mio essere provava disgusto per lei e la sua primitiva brama di sangue; una parte di me sapeva che Dal non mi avrebbe mai perdonato se avessi fatto l’amore con la sua donna; una parte di me si sentiva raggricciare all’idea di stringerla tra le braccia e tuffarmi nel tanfo e nella passione di Ava.
Ma con una subitaneità che travolse ogni mio pensiero, mi trasformai in una creatura selvaggia e insaziabile come Ava, e almeno per un po’ non mi sentii più solo.
La mattina dopo riprendemmo a marciare verso nord, barcollando sotto il nostro carico di selvaggina. Eravamo attorniati da sciami di mosche, e l’odore della carne che marciva era nauseante. Gli altri però non sembravano sentirlo; erano tutti felici del bottino che portavano.
Ava era in testa alla piccola colonna, accanto a Dal. Ammesso che sapesse cosa avessimo fatto la notte prima, Dal non lo dimostrava.
Ava, neppure. Quando mi ero svegliato, se n’era già andata, tornando al suo solito giaciglio, a fianco di Dal, probabilmente. Dal suo atteggiamento, sembrava che i nostri rapporti non fossero cambiati. Cominciai a pensare che quanto era successo nella passione indemoniata del rito di sangue del clan fosse stato un evento straordinario, che non rientrava nelle regole della vita quotidiana, che non bisognava ricordare o rimpiangere una volta sorto il sole.
Due giorni dopo, sbucammo dalla foresta e iniziammo ad attraversare un ampio altipiano soleggiato punteggiato di fiori. Qui e là cresceva del grano selvatico, e delle file di alberi contrassegnavano il corso dei ruscelli. I primitivi erano sempre più allegri e distesi. Conoscevano alla perfezione quel territorio, e facevano commenti su ogni affioramento roccioso, ogni ansa di torrente, ogni estensione di grano che superavamo.
Un pomeriggio, Ava rimase indietro e mi si affiancò. Già da un po’, io restavo in coda al gruppo, per qualche misteriosa ragione interiore, avevo la sensazione che qualcuno ci seguisse, ci osservasse. Ma ogni volta che mi voltavo, non vedevo nulla, nessuno. Ma quella sensazione non accennava ad andarsene, continuava a solleticarmi la nuca.
— Presto saremo nella nostra valle — mi disse Ava, sorridendo.
— La nostra valle?
Lei annuì, soddisfatta come un viaggiatore che stesse finalmente arrivando a casa.
— La valle è un bel posto. Verrà altra gente a dividerla con noi. C’è acqua, grano, selvaggina. Tutti sono felici nella nostra valle.
Quando infine arrivammo a destinazione, circa una settimana più tardi, constatai che era davvero un piccolo paradiso terrestre, incantevole e riparato.
Ci fermammo sulla riva di un torrente, quel pomeriggio, contemplando dall’alto la vallata. Il torrente scendeva lungo una serie di terrazze, arrivava in fondo e attraversava la valle scomparendo tra le rocce all’estremità opposta. Vidi che quel dirupo costituiva la base della grande montagna; dalla vetta dove la neve scintillava nel sole della tarda primavera si levava un pennacchio di fumo.
Era facile capire come mai il clan fosse così contento di essere lì. La valle era verde e soleggiata. Dal contorno a U si intuiva che era stata formata da un ghiacciaio, abbarbicato alle pendici del maestoso vulcano, e ormai sciolto da chissà quanto. Era un angolino comodo e tranquillo, e non presentava problemi di difesa. L’unica via d’accesso alla valle passava lungo le terrazze di roccia dove si gettava il torrente a cascata, la strada che stavamo percorrendo. Era un sentiero scivoloso, ma non eccessivamente ripido. Sugli altri lati le pareti della valle si innalzavano molto scoscese per parecchie centinaia di metri.
Il nostro clan fu il primo ad arrivare quell’anno. La gente di Dal si precipitò lungo i gradini di pietra viscida ridendo felice, abbatté alcuni alberi, prese della selvaggina, e prima che calasse l’oscurità costruì delle capanne primitive con le pareti di fango e i tetti di rami e pelli. Le capanne erano scavate nel terreno, abitazioni sotterranee più che altro, ma a loro sembravano dimore sontuose.
Una nota di tristezza guastò il clima di allegria generale quella notte. Il ragazzo rimasto ferito durante la battuta di caccia entrò in coma. Non mi era parso un taglio particolarmente grave, invece si era infettato nonostante le cure di Ava a base di impiastri e impacchi di foglie. Quando eravamo arrivati nella valle, il poveretto ormai si reggeva in piedi a fatica; aveva la gamba gonfia e infiammata. Quella notte aveva cominciato a delirare, divorato da una febbre altissima. Poi erano subentrati il silenzio e l’immobilità. Sua madre gli restò accanto tutta la notte. All’alba, il suo lamento lacerante ci annunciò la morte del ragazzo.
Il clan lo seppellì nel pomeriggio. Ava celebrò il rito funebre, e nella tomba vennero messi tutti i beni personali che il ragazzo aveva accumulato in quattordici estati: alcuni attrezzi di pietra, una manciata di sassolini levigati, le sue pellicce invernali. Ogni membro del clan lasciò cadere un fiore nella tomba, mentre la madre osservava in silenzio. Le sue guance rugose erano asciutte; aveva finito le lacrime. In seguito Ava mi disse che il padre del ragazzo era rimasto ucciso due anni prima, e che la donna, che si chiamava Mara, non aveva altri figli. Era ormai troppo vecchia per sperare di trovare un nuovo marito. Probabilmente non sarebbe sopravvissuta al prossimo inverno.
Pensai al modo in cui avrebbero potuto sbarazzarsi di lei, ma non ebbi il coraggio di chiederlo.
La mattina seguente, percorsi tutta la valle seguendo il torrente. Il terreno doveva essere stato sconvolto da un terremoto perché mi sembrava che il torrente scorresse in senso inverso: dall’estremità della valle da cui eravamo entrati scendeva lungo le terrazze di roccia e proseguiva in direzione della base del vulcano. Secondo me, a rigor di logica, l’acqua avrebbe dovuto scendere dalla cima innevata della montagna e scorrere nella direzione opposta.
Mentre tornavo lentamente alle capanne di fango costruite dal clan, vidi Ava in lontananza tra i cespugli fioriti ai piedi di un versante della valle. Deviai, incamminandomi verso di lei. Vidi che stava raccogliendo erbe e radici per la sua scorta di medicine. Anche se non erano servite a molto per il ragazzo, le misture di Ava erano l’unica arma a disposizione del clan per combattere le malattie e le ferite.
— Salve.
Lei alzò lo sguardo dalla vegetazione che stava esaminando. — Che c’è? — mi chiese.
Avanzando tra l’erba alta fino al ginocchio, risposi: — Nulla. Stavo solo camminando lungo il torrente e ti ho vista.
Il sorriso di Ava era più che altro di perplessità. Evidentemente l’idea di fare una passeggiata e fermarsi a chiacchierare con un amico non era molto diffusa tra quella gente.
— Raccogli erbe per le medicine — dissi.
— Sì. — Il suo sorriso si spense. — Non sono riuscita a salvare il figlio di Mara. Il demone che aveva dentro era troppo forte per me. Devo trovare una medicina più potente.
Ventimila anni dopo i ricercatori medici avrebbero ancora battuto la stessa pista, riflettei.
— Hai fatto il possibile per salvarlo — la rincuorai.
Mi fissò. — Tu non hai fatto nulla per aiutarlo.
— Io?
— Sei un uomo dai grandi poteri, Orion. Perché non hai cercato di aiutare il ragazzo?
— Ma… io… io m’intendo di caccia, non di medicina.
I suoi occhi grigi mi scavarono nell’anima. — Tu sai molte cose, cose che nessuno di noi sa. Credevo che la tua vasta conoscenza comprendesse anche la capacità di guarire.
— No, purtroppo — dissi impacciato, sentendomi un po’ in colpa. — Mi spiace, ma non possiedo una conoscenza del genere.
Ava si scostò una ciocca di capelli ramati dal viso, poco convinta.
— Ti ho già detto che sono solo un uomo.
Lei scosse la testa. — Non ci credo. Sei diverso da tutti gli uomini che ho visto finora.
— Come, diverso? — Allargai le braccia, quasi volessi mostrarle che ero uguale a tutti gli altri.
— Non è il tuo corpo — rispose Ava. — Ho provato il tuo corpo; ho preso il tuo seme. Sei forte, ma il tuo corpo non è diverso da quello di Dal o degli altri uomini.
Di colpo, il sangue mi si raggelò. Dunque la nostra notte d’amore non era stata uno sfogo passionale per lei, bensì un esperimento calcolato. Una risata di scherno mi echeggiò nella mente: Voleva solo vedere di cosa eri fatto!
— La tua diversità è nel tuo spirito, nella tua anima — stava proseguendo Ava. — Tu sai molte più cose di noi!
— So certe cose, è vero — dissi, cercando di ignorare la risata inferiore. — Però ci sono anche parecchie cose che non so.
— Insegnami! — esclamò lei. — Insegnami tutte le cose che sai!
Rimasi sorpreso da quell’improvvisa avidità di sapere.
— Ci sono tante cose che devo imparare. Insegnami. Dividi la tua conoscenza con me! — mi supplicò.
— Posso insegnarti alcune cose, Ava — risposi. — Però molte delle cose che so per te non avrebbero senso. Non servirebbero né a te né al clan.
— Ma mi insegnerai?
— Se vuoi.
— Sì! — rispose, spalancando gli occhi eccitata.
— Ma perché vuoi imparare?
— Perché? Per sapere, per capire… È questo l’importante. Più saprò, più potrò aiutare il clan. Se avessi saputo abbastanza cose di guarigione, avrei potuto salvare il figlio di Mara.
Restai in silenzio. Sotto quella pelle sporca e quegli indumenti rudimentali, Ava possedeva la stessa carica umana e la stessa curiosità di Marie Curie. E soprattutto si rendeva conto che la conoscenza era la chiave del potere, che comprendendo il mondo circostante avrebbe imparato a manipolarlo, a piegarlo ai propri scopi.
Ma Ava interpretò in modo errato il mio silenzio. Esitante, disse: — Però non c’è nulla che possa darti in cambio della tua conoscenza…
Dunque, l’idea di barattare il sesso con il potere non le era venuta in mente. Sorrisi quasi, nel constatare che la più antica professione del mondo non era ancora stata inventata.
— Ci sono tante cose che tu sai e che io non so — dissi. — Sarà uno scambio di conoscenze, il nostro. Sei d’accordo?
— Sì! — rispose entusiasta.
— Bene. Innanzitutto, dimmi i nomi di questi fiori e parlami dei loro poteri medicinali.
Passammo il pomeriggio camminando tra la vegetazione, scambiandoci informazioni. Le dissi che esistevano sostanze chiamate metalli con cui si potevano costruire attrezzi migliori di quelli di pietra usati dal clan. Lei mi illustrò la sua farmacopea di piante selvatiche. Gradualmente, cominciai a dirottare la conversazione, discutendo degli altri clan che si radunavano nella valle e delle tribù nemiche.
— Tutti i clan hanno il vostro stesso colore di capelli? — chiesi.
— No, non tutti. Alcuni hanno i capelli scuri, come i tuoi.
— E il colore della pelle? Hanno tutti il vostro stesso colore?
Ava annuì. — D’estate, col sole, la pelle diventa più scura, ma d’inverno torna chiara.
— Hai mai visto un uomo dalla pelle color cenere, la cenere che rimane quando un fuoco si spegne? Un uomo alto quasi come me, ma molto più grosso, con due braccia enormi e occhi rossi?
Ava arretrò. — No — rispose spaventata. — E spero di non vederlo mai.
— Non hai mai sentito parlare di un uomo simile? — insistei. — A volte è chiamato Ahriman. A volte, il Tenebroso.
— Sembrerebbe un demone.
— No, è un uomo. Un uomo malvagio.
Ava mi fissò con rinnovata diffidenza. — Un uomo. Proprio come tu dici di esserlo.
Lasciai cadere l’argomento. Cominciammo a parlare della valle e della felicità che provava il clan trascorrendo lì l’estate. Con aria distratta, dissi che avrebbero potuto restare nella valle tutto l’anno se si fossero preparati ad affrontare l’inverno in maniera adeguata. Ava si incuriosì subito, e io cominciai a descriverle in che modo fabbricarsi indumenti pesanti.
Lo sapeva già. Ribatté invece: — Cosa mangeremmo quando cade la neve? Tutti gli animali si spostano nei territori caldi. Noi li seguiamo.
— Invece di ucciderli, potreste prenderne un po’, e tenerli in un recinto di pali. Farebbero anche dei piccoli, e avreste carne per tutto l’anno, senza andare via da questo posto.
Ava rise. — L’erba muore in inverno. Cosa mangerebbero gli animali?
— Tagliate l’erba che gli animali mangiano, d’estate, quando è alta, e tenetela nelle capanne d’inverno per darla agli animali.
Ava smise di ridere. Non che accettasse l’idea; era troppo nuova e fantastica, e andava digerita con calma. Però sembrava disposta a prenderla in considerazione. Il che non era poco.
Avevamo raggiunto le rocce che formavano la base del vulcano. — Questa montagna ha un nome? — chiesi.
— Sì — rispose Ava, socchiudendo gli occhi nel riflesso intenso del cielo per osservare i due picchi frastagliati coperti di neve.
— È un nome sacro che non può essere pronunciato?
Tornò a guardarmi, con un’espressione di rispetto negli occhi perché capivo il concetto di sacralità.
— La montagna fumante può far tremare la terra quando il suo spirito si arrabbia. Gli anziani dicono che molti anni fa, prima che loro stessi nascessero, la montagna ha rovesciato fuoco sugli uomini che vivevano in questa valle, cacciandoli via.
— Ma loro sono tornati.
— Solo dopo molti anni. Temevano la montagna, e hanno insegnato a temerla ai loro figli e ai figli dei loro figli.
Guardai i picchi innevati. Adesso, ed era la prima volta che capitava da quando eravamo arrivati, il vulcano non fumava più.
— La montagna sembra tranquilla — commentai.
— Sì, a volte è tranquilla. Ma quando il suo spirito si arrabbia può ancora sputare fuoco.
— Se mi dirai il suo nome, si arrabbierà lo spirito della montagna?
Il bel viso di Ava si incupì. — Perché vuoi saperlo?
Sorrisi. — Sono curioso, come te. Cerco risposte alle mie domande.
Ava mi capì; anche lei era smaniosa di sapere, di scoprire. Avvicinandosi, mi sussurrò il nome della montagna:
— Ararat.
Dal non aveva un’aria contenta quando Ava e io tornammo dalla nostra lunga passeggiata. E nei giorni successivi il suo umore peggiorò nettamente dato che noi due trascorrevamo sempre più tempo insieme.
Di notte ci allontanavamo dal riflesso dei fuochi del clan… adesso ogni famiglia aveva un piccolo falò davanti alla propria capanna, invece di un fuoco centrale per tutto il gruppo. Nell’oscurità, le mostravo le stelle, spiegandole che le costellazioni formavano un grande orologio e calendario celeste.
Ava afferrò in fretta il concetto, e dopo alcune notti mi fece notare che una stella sembrava essersi spostata leggermente, infatti.
— È Marte — le dissi. — Non è una stella come le altre che vedi. È un mondo, abbastanza simile al nostro mondo, ma incredibilmente lontano.
— È rosso, come il sangue.
— Sì, è fatto di sabbia rossa. Anche il suo cielo è rosa per la presenza di polvere rossiccia… un colore più o meno uguale a quello dei tuoi capelli.
— La gente lassù deve essere feroce e guerresca, se tutto il suo mondo è color sangue — commentò Ava.
Ebbi un tuffo al cuore, pensando che stavo contribuendo alla nascita dell’astrologia. Ma mi consolai dicendomi che certe idee non nascevano un’unica volta, in un unico posto, in un periodo preciso.
Quella notte restammo svegli fino all’alba, osservando le stelle che ruotavano in cielo nel loro maestoso orologio cosmico. E quando Venere, la Stella del Mattino, sorse, sentii il sospiro di piacere di Ava. Avrei voluto stringerla, baciarla. Ma lei si staccò da me, intuendo probabilmente le mie intenzioni.
— Sono la donna di Dal — mormorò. — Vorrei che non fosse vero, ma è così.
Stavo per dirle che l’amavo, ma mi resi conto in modo traumatico che nella loro lingua non c’era alcuna parola che esprimesse quel concetto. Il sentimentalismo non era ancora stato inventato. Lei era la donna di Dal, e le donne non cambiavano compagno in quell’era preistorica.
Tornammo alle capanne, alle braci dei fuochi. Dal sedeva davanti al suo tugurio, l’aria abbattuta, rabbiosa, preoccupata e sonnolenta contemporaneamente. Si alzò quando ci vide, e Ava gli sorrise e lo prese a braccetto. S’infilarono nella bassa apertura della capanna senza rivolgermi la parola.
Rimasi impalato per qualche secondo, quindi mi girai e raggiunsi la mia capanna, che il clan mi aveva costruito su richiesta di Dal… a un centinaio di metri dalla capanna più vicina del clan.
Quando mi chinai entrando nell’unica stanza, avvertii immediatamente la presenza di qualcun altro. L’alba stava appena cominciando a tingere il cielo a est, e non c’erano finestre nella capanna… l’aria e la luce penetravano solo dall’apertura d’ingresso. Eppure capii di non essere solo nell’oscurità del mio rifugio. Sentivo una presenza, cupa e minacciosa… un respiro lento, profondo, forte.
— Ahriman — sussurrai.
Qualcosa si mosse nell’angolo più buio della capanna. Portai la mano al mio coltello di selce. Un gesto inutile, sciocco; ma era stata una reazione istintiva.
— Ti aspettavi di trovarmi qui, vero? — La voce aspra, tormentata di Ahriman mi trasmise un brivido lungo la schiena.
Scostandomi dall’apertura, perché la mia figura non si stagliasse contro il chiarore crescente dell’esterno, risposi: — Ci segui da parecchie settimane.
— Sì.
Distinguevo a stento la sua sagoma oscura e massiccia. — Intendi fare del male a questa gente?
Ahriman si mosse leggermente.
— Che male posso fare? Sono solo un uomo, un uomo solo contro tutta la tua razza…
— Non considerarti un uomo — ringhiai.
Sentii un rantolo che assomigliava vagamente a una risata. — Orion, sciocco! Tu, non considerarti un uomo!
— Sono un essere umano — dissi — non uno della tua razza.
— Non sei della mia razza, è vero — disse Ahriman, sputando le parole a fatica. — Sono l’unico superstite della mia razza. I tuoi simili hanno ucciso tutti i miei simili.
— E tu cerchi vendetta.
— Giustizia.
— Anche se questo comporta la distruzione del continuum spazio-temporale.
— È l’unico modo per ottenere la giustizia che cerco. Abbattere i pilastri che sorreggono il mondo. Provocare la fine di tutto. Distruggere colui che assume le sembianze del Dio Radioso.
— Ormazd.
— Sì, Ormazd. Il signore dei massacri. Il tuo signore, Orion. Il tuo creatore.
— Non puoi toccarlo. È troppo potente per te, così sfoghi il tuo astio su questi poveri selvaggi ignoranti. — Sentivo l’odio che mi ribolliva dentro.
Ahriman ribatté: — Voi vi definite umani. Pensate di possedere questo pianeta.
— Certo! Questo è il nostro mondo.
— Momentaneamente. Solo momentaneamente. Lui vi ha fatti per conquistare questo pianeta, ma ci penserò io a distruggervi… definitivamente, per sempre.
— No. Ti ho già fermato due volte. Ti fermerò anche qui.
Ahriman fece una pausa, quasi volesse radunare le sue forze prima di riprendere a parlare. — Due volte, hai detto? Ci siamo già incontrati due volte, prima?
— Sì.
— Dunque è vero — borbottò, meditabondo. — Stai tornando verso La Guerra.
Rimasi zitto.
— Il Radioso è molto astuto. Ti sta spostando indietro nel continuum. Non hai ancora visto La Guerra. Non sai cosa è successo allora.
— So che il mio compito è di darti la caccia e ucciderti una volta per tutte, eliminarti per l’eternità.
Percepii una energica scrollata di capo. — Per l’eternità. No. Non ti rendi conto di quel che dici. Nessuno, nemmeno il Radioso Ormazd, può afferrare e manipolare l’eternità.
— È il mio compito — dissi.
Di nuovo quel gorgoglio gutturale, quella specie di risatina raccapricciante. — Fai il tuo dovere allora, qui, subito. Uccidimi.
Esitai.
— Hai paura.
— No — risposi. Ed ero sincero. Non avevo affatto paura. Stavo solo pensando al modo in cui aggredirlo. Sapevo che era molto più forte di me. E avevo solo quel ridicolo coltello di pietra. Come potevo sperare di attaccarlo efficacemente?
— Sono stanco di aspettare — disse Ahriman.
Le ombre esplosero. La sua mole imponente d’un tratto mi si proiettò addosso, sbattendomi contro la parete di fango della capanna. Le dita di Ahriman mi serrarono la gola. Sfondammo il muro, e il tetto di rami ci cadde addosso mentre lottavamo nella polvere. Io menavo colpi all’impazzata col coltello, ma senza esito.
La sua faccia era a pochi centimetri dalla mia, un ghigno gli arricciava le labbra, i suoi denti luccicavano maligni, un ringhio brutale gli scaturiva dalla gola, gli occhi ardevano rabbiosi e trionfanti. Le forze mi stavano abbandonando. Avevo le braccia molli, i miei tentativi di difesa erano sempre più fiacchi.
L’oscurità cominciava ad appannarmi la vista, e mi resi conto che stavo per morire.
Sentii un tonfo sul terreno accanto a me, poi un colpo smorzato, come se un oggetto duro avesse centrato il corpo di Ahriman che mi schiacciava. La stretta delle sue dita si allentò; lo sentii grugnire, drizzarsi. La vista mi si schiarì leggermente, respirai a fondo, e lo vidi sopra di me, ringhiante, con una lancia che gli penzolava da un fianco.
Un’altra lancia fendette l’aria, ma Ahriman l’afferrò con la mano. Girandomi, vidi che era stato Dal a scagliarla. Gli altri uomini del clan lo stavano raggiungendo di corsa, armati; sembravano soprattutto sorpresi, non spaventati. Se il loro capo era pronto ad affrontare quell’invasore sconosciuto, loro avrebbero fatto altrettanto… tenendosi a distanza di sicurezza.
Ahriman girò l’asta e piegò il braccio per scagliarla contro Dal. Gli sferrai un calcio alle gambe, facendolo cadere. Gli uomini lanciarono un urlo agghiacciante e partirono alla carica.
Mi drizzai per gettarmi addosso ad Ahriman, ma lui mi mise in ginocchio con un tremendo manrovescio, si strappò l’asta dal fianco insanguinato e la lanciò verso gli uomini del clan. Era un tiro a casaccio, eppure la forza impressa all’asta era tale che un primitivo venne passato da parte a parte, stramazzando all’indietro sul terreno.
Gli uomini si bloccarono. Tutti, tranne Dal, che si gettò addosso ad Ahriman brandendo solo il suo inutile pugnale. Ahriman lo stese con un pugno, si tirò in piedi e si allontanò barcollando in direzione del dirupo.
Per parecchi istanti, nessuno si mosse. Mi drizzai sulle ginocchia, indolenzito. Dal si alzò a sedere lentamente, scuotendo la testa, intontito, la mascella segnata da un livido.
Gli altri sembravano paralizzati, spostando continuamente lo sguardo da noi due al corpo del compagno morto. Ahriman era scomparso tra le rocce, dove la luce dell’alba non era ancora arrivata.
— Chi era? — chiese infine Dal. Si passò due dita sulla faccia gonfia e sussultò.
— Un nemico — risposi.
Gli altri si avvicinarono, mettendosi a vociare contemporaneamente. Ava si fece largo a spintoni e si inginocchiò accanto a Dal. Lo esaminò e concluse che non c’erano ossa rotte. Quindi si rivolse a me.
— Sto bene — dissi, alzandomi. La gola mi bruciava, però, e avevo la voce rauca.
Gli altri mi fissavano.
— La tua gola porta i segni del nemico — disse Ava, esaminandomi. — Si vedono le impronte di tutte le dita. — Mi accostò le mani alla gola. — Ha delle mani enormi!
— Chi è? — volle sapere Dal.
— Il nemico di tutti gli uomini — risposi. — Il nemico di tutti gli esseri umani. È il Tenebroso, un nemico che desidera solo ucciderci tutti.
Avevano visto Ahriman, ma io lo descrissi il più accuratamente possibile. Non volevo che cominciassero a considerarlo uno spirito o un demone dai poteri sovrumani. Li ringraziai per averlo messo in fuga, per averlo ferito, salvandomi dalla sua stretta strangolatrice.
— Possiamo seguire le sue tracce e arrivare alla sua tana — disse Ava, indicando le macchie di sangue sull’erba.
Gli uomini mostrarono una netta avversione all’idea. Anche Dal, così temerario pochi attimi prima.
— No — dissi. — Ormai si sarà nascosto nelle caverne. Non riusciremmo a trovarlo, e potrebbe anche avere preparato delle trappole per noi. Meglio restare qui alla luce del sole. Non tornerà.
— “Non subito, almeno”, aggiunsi tra me.
Gli uomini si raccolsero attorno al compagno caduto e lo sollevarono delicatamente per riportarlo alla sua capanna. La mole e la ferocia di Ahriman crescevano sempre più, man mano che chiacchieravano tra loro, e parimenti gli uomini ingigantivano anche la propria forza e il proprio coraggio.
Dal indugiò accanto a me, affiancato da Ava.
— Mi hai salvato la vita. Grazie — gli dissi.
Lui scosse la testa, preoccupato. — Sei uno di noi. Ho fatto quello che andava fatto.
— Hai fatto più di tutti gli altri.
— Sono il loro capo.
Mi venne in mente un aforisma: Da coloro ai quali si dà molto, ci si aspetta molto. Dal era un vero capo, e un buon capo. Eppure sembrava turbato.
— Ahriman non è né uno spirito né un demone — dissi. — È un uomo, come me.
— Aveva un’asta nel fianco e l’ha strappata come se fosse un fastidio da nulla.
— È molto forte.
Dal si toccò il livido sulla mascella. — È vero. Ha infilzato Radon lanciando l’asta mentre era a terra.
— Però è scappato. — Non volevo che Dal temesse Ahriman più del necessario.
Mi fissò negli occhi. — Non mi avevi detto di essere inseguito da un nemico.
— Non sapevo che lui fosse qui — risposi, mentendo per metà. — Credevo di averlo lasciato molto lontano da qui.
Intuendo che stava per iniziare una discussione accesa, Ava intervenne. — Vieni a mangiare con noi. Il sole è già alto sulle colline. Sarà una bella giornata.
Ma adesso Dal mi osservava nuovamente sospettoso, anche se provavo un senso di rispetto e ammirazione per l’uomo che aveva attaccato con notevole coraggio il Tenebroso, salvandomi la vita.
I giorni successivi furono abbastanza tranquilli. Tre altri clan arrivarono nella valle, per un totale di centosei persone in più. Grosso modo, due terzi erano adulti, il resto bambini di tutte le età. In quella società neolitica dove la vita media era così corta, gli adolescenti diventavano adulti non appena raggiungevano la maturità sessuale. I dodicenni erano già padri. I quarantenni spesso erano troppo deboli e sdentati per andare a caccia e mangiare, e venivano pietosamente eliminati dai compagni.
— Stiamo qui nella valle finché il grano diventa d’oro — mi disse Ava. — Poi lo raccogliamo e lo portiamo con noi per l’inverno. — Corrugando la fronte, aggiunse: — A meno che non venga la neve prima che il grano maturi.
E in un lampo di intuizione capii perché Ahriman si trovasse lì e a cosa mirasse.
Quello era un altro punto cruciale della storia umana. Quei clan di cacciatori sporchi e laceri stavano per compiere la transizione dalla caccia all’agricoltura. Sarebbero stati gli artefici della Rivoluzione del Neolitico, il passaggio che avrebbe trasformato gli uomini da nomadi selvaggi a costruttori civili di città. Ahriman voleva impedire la trasformazione, soffocare questa fase di sviluppo.
Se fosse riuscito a impedire a quei cacciatori primitivi di progredire, alla fine avrebbe potuto spazzar via tutte le tribù umane sparse nel paesaggio del Neolitico. Ne ero certo. Avrebbe annientato il genere umano, un clan dopo l’altro, una tribù dopo l’altra, fino a cancellare dalla Terra anche l’ultimo uomo. E avrebbe vinto.
Però se l’umanità fosse passata all’agricoltura, se fosse avvenuta l’esplosione demografica da cui sarebbero sorte le civiltà dell’Egitto, della Mesopotamia, della valle dell’Indo e della Cina, nemmeno Ahriman con tutti i suoi poteri sarebbe stato in grado di annientare il genere umano. L’umanità avrebbe imboccato la strada che l’avrebbe condotta al dominio dell’intero pianeta; al posto di poche tribù di cacciatori affamati ci sarebbero stati gruppi prosperi di agricoltori e una popolazione in costante crescita.
L’agricoltura sarebbe stata inventata lì, nella valle dove il clan di Dal e i suoi alleati trascorrevano l’estate? Anche se Ahriman avesse impedito che l’invenzione avvenisse proprio lì, stentavo a credere che un fenomeno uguale non dovesse verificarsi altrove, in qualche altro clan, in un’altra zona dove esistessero condizioni favorevoli. Poi mi resi conto che, con la sua padronanza del tempo, Ahriman avrebbe potuto setacciare tutti i posti in cui l’invenzione era imminente e intervenire in modo repressivo. Mi sentii l’animo oppresso da un peso enorme al pensiero che Ormazd mi avrebbe inviato in tutti quei posti, in chissà quante epoche, perché continuassi la battaglia eterna contro Ahriman.
Era una prospettiva insopportabile. O quasi. Mi consolai ragionando… Se Ahriman era lì, quello doveva essere il posto dove era nata l’idea dell’agricoltura. Se lo avessi bloccato lì, non ci sarebbe stato bisogno di affrontarlo altrove… in quell’era. Era ovvio che dovevamo esserci incontrati almeno un’altra volta in un’era precedente. Forse durante La Guerra di cui parlava.
Il nuovo atteggiamento di diffidenza di Dal si diffuse e contagiò il resto del clan, e gli altri clan che ci raggiunsero nella valle si tenevano alla larga da me. Ero considerato un essere in parte divino in parte umano, temuto e rispettato. Tutti sapevano che potevo insegnare cose strabilianti, ma anche se si rivolgevano a me per imparare a costruire archi e frecce e catapulte, anche se impararono a chiudere le bestie in un recinto addossato alle rocce e ad allevarle invece di ucciderle subito, continuavano a escludermi dalla loro vita sociale.
Tutti, eccetto Ava. Trascorreva parecchie ore con me, imparando tutto quello che sapevo sulle stelle, sulla filatura e tessitura della lana delle capre e delle pecore, sulle regole elementari della pulizia e della medicina.
Però ogni sera tornava nella capanna di Dal per preparargli la cena. Mi invitò spesso a cenare con loro, ma Dal mi fece capire chiaramente che lo mettevo a disagio e che era già fin troppo geloso di tutto il tempo che Ava passava con me. Di solito mangiavo in solitudine, davanti alla mia capanna ricostruita, cuocendo la carne e la verdura che quelli del clan mi davano in cambio delle mie lezioni di fabbricazione di attrezzi e allevamento del bestiame. Se non fosse stato così tragico, sarebbe stato divertente considerarmi il maestro di quei primitivi. In realtà, io mi limitavo a suggerire delle idee a cui non avevano mai pensato. Una volta afferrato il concetto, si mettevano al lavoro ottenendo risultati migliori di quelli che avrei potuto ottenere io. Impararono a fabbricare frecce precise, a costruire recinti, a filare la lana. Io piantavo semplicemente i semi; loro li coltivavano e raccoglievano i frutti.
La vita nella valle era piacevole e comoda. Le giornate si allungavano, ma il caldo e l’umidità dell’estate non erano mai opprimenti. Il grano cresceva bene, riempiendo la valle di distese dorate mosse dalla brezza. Il colore di Ormazd, pensai, e mi resi conto che era bello. Le notti erano fresche, spesso ventose. Mostravo ad Ava le fasi lunari, l’orbita dei pianeti, le costellazioni. Le indicai il Triangolo Estivo alto nel cielo: Deneb, Altair e Vega. Imparava in fretta, e dalle domande che mi rivolgeva si capiva che era ansiosa di imparare altre cose.
Dal ci accompagnava in quelle notti. Dapprima perché non si fidava di lasciarmi solo con Ava, e non potevo dargli torto. Però, nonostante tutto, cominciò a interessarsi alle cognizioni celesti.
— Intendi dire che si può capire quando le stagioni cambieranno, prima che il cambio cominci? — Era scettico.
— Sì. Le stelle possono dirci quando piantare il seme e quando raccogliere il grano.
Dal corrugò la fronte nel chiarore lunare. — Piantare il seme? Cosa intendi dire?
E iniziarono lunghe notti di discorsi sulla crescita delle piante. Forse fui io il primo essere umano a spiegare la similarità tra gli uccelli e le api, la crescita delle piante e la sessualità umana. Comunque lo feci in maniera inversa rispetto a quella usata dai genitori del ventesimo secolo per spiegare certe cose ai loro figli: usai l’esempio della sessualità, che Dal e Ava capivano benissimo, per spiegare la nascita delle piante dai semi.
Come i bambini, anche loro stentarono ad accettare l’idea.
— Intendi dire che se mettiamo qualche piccolo seme nella terra nascerà un intero campo di grano?
Quando risposi affermativamente, Dal scosse il capo incredulo. Ava invece era assorta, i suoi occhi grigi contemplavano il futuro.
A parte quell’unica notte di follia del rito della caccia, Ava e io non ci eravamo più toccati. Non che non la desiderassi. Ma era la donna di Dal, e il suo interesse per me era del tipo indicato da un termine coniato millenni più tardi: platonico. Da me, lei voleva la conoscenza. Non l’amore e nemmeno la compagnia.
Un pomeriggio, mentre Dal guidava un gruppo di cacciatori all’estremità della valle, dov’era possibile intrappolare facilmente gli animali contro i dirupi, vidi Ava che fissava cupa i campi di grano. Era un po’ più piena, adesso. Come tutti. Ora che non dovevamo più marciare tutti i giorni, e che la selvaggina abbondava, avevamo tutti qualche chilo in più.
Il volto di Ava era contratto in una espressione così seria che decisi di chiederle cosa la turbasse.
— Ava, cosa c’è che ti preoccupa?
Lei ebbe un sussulto. — Cosa? Ah… sei tu.
— Qualcosa che non va?
— Che non va? No… non proprio. — Tornò a fissare il grano biondo accarezzato dalla brezza sotto i raggi dorati del sole.
— Non credi a quello che ho detto qualche notte fa — provai a indovinare. — Che è possibile piantare i semi del grano e farlo crescere…
Ava sorrise debolmente. — No, Orion. Io ci credo. Quello che dici ha senso, secondo me. Stavo solo pensando che… — Esitò, e dalla sua espressione di intensa concentrazione capii che si stava sforzando di riordinare le idee.
Attesi in silenzio. Era bellissima, morivo dalla voglia di abbracciarla. Ma lei non mi desiderava, lo sapevo.
— Immaginiamo — cominciò lentamente, ancora incerta — immaginiamo di poterlo fare davvero… di far crescere il grano come dici. Immaginiamo di restare in questa valle… sempre, d’estate e d’inverno. Potremmo far crescere il grano, tenere gli animali nel recinto. Non dovremmo andare a caccia ogni giorno. Potremmo restare qui e vivere molto più facilmente.
Annuii. La transizione dalla caccia a una vita agricola di insediamenti fissi aveva avuto inizio, almeno nella mente di una donna del Neolitico.
— Ma se il grano non crescesse? — chiese Ava.
— Cresce ogni anno, no? È sempre qui quando tornate in questa valle.
— Be’, sì… comincia a crescere quando noi siamo via. Ma se restassimo sempre qui, crescerebbe ugualmente il grano?
— Certo. Anzi, scoprireste anche dei sistemi per farlo crescere meglio per aiutarlo, curarlo.
— Ma lo spirito del grano non ha bisogno di star solo? Se staremo sempre qui, non morirà il grano?
— No — la rassicurai. — Lo spirito del grano diventerà più forte se lo aiuterete, curando il grano, uccidendo le erbe cattive che lo soffocano, spargendo il seme in altre parti della valle dove il grano non cresce ancora.
Capivo che si sforzava di credermi. Ma le vecchie superstizioni, certi schemi di pensiero profondamente radicati, la paura dei cambiamenti, di qualsiasi novità, di attirare la collera degli dei, tutte queste cose nell’animo di Ava si ribellavano di fronte alla vivida prospettiva che le avevo illustrato.
— Vado a fare una camminata — dissi, seguendo un’ispirazione improvvisa. — Vuoi venire?
Ava accettò, e io attraversai il campo di grano dorato, in direzione dei dirupi all’estremità della valle.
Chiacchierammo mentre raggiungevamo la base della parete rocciosa; Ava riesaminò da ogni angolazione l’idea dell’agricoltura e dell’allevamento, cercando qualche punto debole, qualche tranello nascosto che avrebbe potuto provocare la rovina del clan.
Avrei potuto dirle che quando il clan avesse smesso di peregrinare e rinunciato alla caccia si sarebbero formati dei villaggi agricoli, poi una società gerarchica di contadini e di re, le divisioni di classe tra ricchi e poveri. Avrei potuto dirle che gli occasionali scontri tribali che conosceva così bene sarebbero sfociati in guerre tra i villaggi, poi in guerre tra città, e infine in conflitti che avrebbero bagnato di sangue il mondo intero. Avrei potuto parlare delle metropoli sovrappopolate, dell’inquinamento, dell’olocausto nucleare, dei disastri ecologici.
Ma non dissi nulla. Nell’alba radiosa della civiltà umana, rimasi in silenzio e lasciai che Ava esaminasse quell’idea da sola.
Arrivammo ai piedi del dirupo. Sollevai lo sguardo verso la sommità, socchiudendo gli occhi nel riflesso abbacinante del cielo.
— Credo che mi arrampicherò sulla cima. Vuoi venire con me?
— Lassù? — Ava rise. — Nessuno può arrampicarsi su queste rocce, Orion. Mi stai prendendo in giro.
— No. Secondo me, possiamo farcela ad arrivare lassù.
— È troppo ripido. Una volta Dal ci ha provato e ha dovuto rinunciare. Nessuno può arrampicarsi su queste rocce.
Scrollai le spalle. — Proviamoci, insieme. Forse in due riusciremo a fare quello che uno da solo non può fare.
Mi fissò incuriosita. — Perché? Perché vuoi salire dove nessuno è mai salito?
— Proprio perché nessuno lo ha mai fatto. Voglio essere il primo. Voglio guardare il mondo da un punto dove nessuno ha mai messo piede.
— Che idea assurda.
— Non ti è mai capitato di fare qualcosa solamente perché avevi voglia di farla? Non ti è mai venuta voglia di fare qualcosa che nessun altro ha mai fatto?
— No — rispose Ava, in modo non troppo convincente. Guardò la parete rocciosa e i suoi occhi grigi traboccavano di curiosità. — Facciamo sempre delle cose che sono già state fatte. È il modo migliore, seguire i nostri padri e i padri dei nostri padri.
— Però, un giorno, uno di loro deve aver fatto qualcosa per la prima volta. Deve esserci una prima volta per tutto.
Ava mi squadrò corrucciata. Stavo sfidando le abitudini sicure e ordinate del suo mondo, e lei non sembrava eccessivamente contenta di questo. Poi la sua espressione si addolcì, e mi chiese: — Credi davvero che potremmo arrivare lassù?
— Sì, unendo i nostri sforzi.
Osservò ancora le rocce. Erano ripide, d’accordo, però qualsiasi scalatore dilettante avrebbe saputo affrontarle, ne ero proprio sicuro. E avevo la certezza assoluta che Ormazd mi avesse programmato con energie e doti di gran lunga superiori a quelle di dilettante.
Ava tornò a contemplare i campi di grano che avevamo attraversato, che ondeggiavano dorati nella brezza pomeridiana. D’un tratto mi rivolse un largo sorriso.
— Sì! — esclamò smaniosa. — Anch’io voglio vedere cosa c’è lassù!
Usammo delle liane come corde, mentre i nostri piedi nudi induriti da chilometri e chilometri di marcia fungevano da scarponi. Il dirupo non era affatto l’ostacolo insormontabile che poteva sembrare a prima vista. Fu un’arrampicata di due ore, ma alla fine toccammo la cima, ansanti, sudati, stanchi.
Il panorama che si godeva da lassù compensava senza dubbio lo sforzo fatto.
Ava rimase incantata, un sorriso sulle labbra. A est e a ovest, un susseguirsi di valli e di fiumi che scorrevano verso sud attraverso campi dorati. Sopra di noi, la mole torreggiante dell’Ararat si stagliava nel cielo limpido, col vertice innevato, e un pennacchio di fumo che si levava dal più alto dei suoi due picchi. E più in là, a nord, una distesa candida di ghiaccio accecante, un diamante enorme che feriva gli occhi con la sua intensità.
Quella distesa copriva ancora gran parte dell’Europa, anche se stava ritirandosi lentamente, cedendo a un clima più benevolo.
— Quante cose da vedere! — gridò Ava, — Guarda! Come sembra piccola la nostra valle da quassù!
— È grande il mondo — annuii.
Ava osservò la vallata, e lentamente la sua espressione entusiasta e felice si spense.
— Che c’è, Ava?
Si girò verso di me. — Se vivessimo lontano dagli altri, se trovassimo una valle tutta per noi… solo tu e io, insieme…
Restai allibito. — Cosa stai dicendo?
Nella sua lingua non esistevano le parole per esprimere quello che provava.
— Orion — mormorò con voce tremante — voglio stare con te. Voglio essere la tua donna.
Mi avvicinai e lei mi si gettò tra le braccia. La strinsi forte, sentendo il suo corpo agile e vigoroso contro il mio, e restammo così per un’eternità, abbracciati, scaldati dal sole e dal calore della nostra passione.
— Ma è impossibile — mormorò infine Ava.
— No, è possibile. Questo mondo è così vasto, così vuoto. Possiamo trovare una valle tutta per noi, e viverci…
Mi guardò, e io la baciai. Non sapevo se il bacio fosse già stato inventato da quei primitivi, comunque lei lo accettò con la massima naturalezza.
Però quando le nostre labbra si separarono aveva gli occhi umidi di lacrime.
— Non posso stare con te. Sono la donna di Dal. Non posso lasciarlo.
— Puoi, se vuoi…
— No. Sarebbe una vergogna per lui. Dovrebbe radunare gli uomini del clan e darci la caccia. Dovrebbe ucciderti e riportarmi nel clan.
— Non ci troverebbe mai — replicai. — E anche se ci trovasse, non riuscirebbe mai a uccidermi.
— Allora dovresti ucciderlo tu. Per colpa mia.
— No. Possiamo andare tanto lontano da…
Ava scosse il capo e si staccò adagio da me. — Dal ha bisogno di me. È il capo del clan, ma come potrebbe guidare gli altri se la sua donna dovesse abbandonarlo? Non è sicuro come credi; di notte, quando siamo soli, mi parla delle sue paure e dei suoi dubbi. Ti teme, Orion. Ma è abbastanza coraggioso da vincere la paura perché capisce che tu puoi essere utile al clan. La sua responsabilità verso il clan per lui è più importante della paura che ha di te. La mia responsabilità verso il clan deve venire prima del mio desiderio per te.
— E io? — dissi, sentendo la rabbia crescermi dentro. — Io non conto?
Ava mi fissò negli occhi. — Tu sei forte, più forte di qualsiasi uomo, Orion. Sei stato mandato tra noi per aiutarci, lo so. Portandomi via a Dal, al clan, non aiuteresti nessuno. Distruggeresti Dal, forse anche il clan. E non è per distruggere che sei venuto tra noi.
Avrei potuto ribattere. Avrei potuto sollevarla di peso e portarla via, scappare. Ma alla prima occasione lei sarebbe tornata nel suo clan. E mi avrebbe odiato.
Così, distolsi lo sguardo e fissai il sole, basso all’orizzonte.
— È ora di scendere a valle — borbottai. — Andiamo.
Il grano mi arrivava alle spalle, e la gente dei clan era sempre più eccitata e impaziente di mieterlo.
Io me ne stavo in disparte. Avevo insegnato loro tutto quello che sapevo. Adesso, aspettavo anch’io. Non il tempo del raccolto. Aspettavo Ahriman. Sarebbe tornato; intendeva attaccare quella gente, e me, e l’esistenza futura dell’umanità. Era un’attesa logorante.
Setacciai la valle, perlustrai le caverne che si aprivano nella parete rocciosa, in cerca del Tenebroso. Trovai solo serpenti e pipistrelli, umidità gelida e acqua gocciolante. E un orso, che mi avrebbe fracassato il cranio con un’unica zampata se non fossi stato svelto a schivare il colpo e ad allontanarmi dalla sua tana.
Sapevo che Ahriman era lì, nascosto, intento a scegliere il punto in cui sferrare l’attacco. Non mi restava che attendere. Ormazd non mi apparve di nuovo per darmi qualche informazione o un piccolo appoggio morale, dimostrandomi che esisteva ancora e che gli stava a cuore la mia esistenza. No, niente. Ero solo, collocato lì come un congegno a orologeria, in attesa di entrare in azione.
Ava manteneva le distanze da me. Dal invece veniva alla mia capanna quasi ogni giorno, adesso. Dapprima pensai che stesse cercando di trovare il coraggio di provocarmi e battersi con me. Ma dai suoi tentativi stentati di imbastire una conversazione, mi resi conto invece che tentava di trovare il coraggio per affrontare qualcosa di più difficile di una sfida.
— Presto il grano sarà pronto per essere tagliato — disse un pomeriggio. Io ero seduto davanti alla mia capanna, stavo fissando una lama di selce nuova all’impugnatura del coltello. Uno degli anziani del clan era un artista nel fabbricare attrezzi affilati; era per questo che gli consentivano di restare nel clan anche se era troppo vecchio e lento per cacciare.
Dal si accovacciò accanto a me, abbozzando un sorriso forzato. — Se nei prossimi due giorni non piove, potremo tagliare il grano.
— Bene — dissi.
— Sì.
Lo guardai. — Cos’è che ti preoccupa, Dal?
— Che mi preoccupa? Nulla! — Lo disse così bruscamente che era chiaro che era turbato.
— È qualcosa che ho fatto?
— Tu? No, certo che no!
— E allora che cos’è?
Col dito tracciò un ghirigoro nella polvere, come un ragazzino imbarazzato.
— Si tratta di Ava?
Per un attimo Dal mi fissò, poi abbassò di nuovo lo sguardo. — Riguarda lei, e le cose che le hai detto. Pensa che dovremmo restare in questa valle… sempre.
Non dissi nulla.
— Dice che le hai detto che potremmo chiudere gli animali in un recinto, e stare qui anche quando arriva la neve — proseguì Dal tutto d’un fiato. — Che la prossima primavera possiamo piantare il seme del grano in tutta la valle e far crescere più grano di tutto quello che abbiamo visto finora.
Mi guardava con un’espressione quasi accusatoria.
— Le ho dette anche a te queste cose — dissi. — Le ho dette a tutti e due.
Dal scosse la testa. — Ma lei ci crede davvero!
— Tu no, invece.
— Non so cosa credere! — sbottò Dal confuso. — Viviamo bene qui, è vero. Potremmo andare nelle caverne quando arriva la neve. Purché non ci manchi il fuoco possiamo stare nelle caverne e tenerle calde e asciutte.
— È vero.
— Ma i nostri padri non l’hanno mai fatto. Perché dovremmo smettere di vivere come hanno sempre vissuto i nostri padri?
— I vostri padri non hanno vissuto sempre così — dissi. — Molto tempo fa i vostri antenati vivevano molto lontano da qui, in una terra dove c’era sempre caldo e loro potevano raccogliere i frutti degli alberi e vivere comodi e felici per tutto l’anno.
— Ah, e perché hanno lasciato un simile paradiso, allora? — ribatté Dal.
— Sono stati costretti ad andarsene da un cambiamento del tempo — spiegai. — Gli alberi rinsecchivano. La terra cambiava. Hanno dovuto spostarsi altrove. Così hanno cominciato a girare, come voi, seguendo i branchi di animali.
— Ma ogni anno i branchi sono sempre più piccoli — intervenne Dal, la mente concentrata sul presente, accantonando vecchie leggende alle quali non credeva poi tanto. — Ogni anno dobbiamo fare viaggi sempre più lunghi, e è sempre più difficile cacciare.
Gli indicai i campi. — Però il grano cresce bene. E qui ci sono abbastanza ammali da sfamare tutti i clan riuniti, basta che li teniate nel recinto e lasciate che si moltiplichino. Vi daranno tutta la carne e il latte di cui avete bisogno; dovete solo imparare a curarli.
Dal era estremamente perplesso. Per lui si trattava di un enigma gigantesco.
— Il grano va bene — ammise lentamente. — Dal grano ricaviamo cibo… e una bevanda che ti fa sentire come se stessi volando.
Pane e birra, i due prodotti base dell’agricoltura. Probabilmente Dal era attratto soprattutto dalla birra, pensai. — Allora perché non rimanete qui, dove il grano cresce rigoglioso? Potete tenerlo nelle caverne dopo averlo raccolto. Se farete crescere abbastanza grano, poi, potrete anche darlo da mangiare in parte agli animali nel recinto.
Sempre più cupo, Dal si chiese ad alta voce: — Ma cosa penserebbero gli spiriti dei nostri padri se smettessimo di seguire le piste della selvaggina? Come si sentirebbero se abbandonassimo i loro insegnamenti?
Mi strinsi nelle spalle. — Probabilmente, saranno contenti che abbiate trovato un sistema di vita migliore.
— Gli anziani dicono che il grano non crescerà se rimarremo qui tutto l’anno.
— Perché non dovrebbe crescere?
— Il suo spirito si spegnerebbe se guardassimo i campi di continuo.
Che gli anziani stessero brancolando verso un vago concetto di inquinamento ambientale? mi chiesi. Ma dissi: — Il grano cresce, e basta, così come il sole brilla e la pioggia cade dal cielo. È una cosa naturale, e avverrà sia che siate qui a guardare sia che non ci siate.
— La caccia è una cosa buona — borbottò Dal. — La caccia è la nostra vita.
“E io distruggerò questo sistema di vita e vi trasformerò in contadini,” riflettei. Mi rendevo conto che l’istinto di Dal lo esortava a respingere quelle strane idee che gli avevo messo in testa. Gli esseri umani erano cacciatori da migliaia di generazioni. Le loro menti e i loro corpi erano modellati per la caccia; le loro società si imperniavano sulla caccia. Adesso io gli stavo dicendo che potevano vivere meglio rinunciando alla caccia e passando all’agricoltura e all’allevamento. Era vero; l’agricoltura sarebbe stata il primo passo verso il dominio completo del pianeta da parte dell’umanità. Ma avrebbero dovuto volgere le spalle alla vita naturale che conducevano adesso; avrebbero dovuto rinunciare alla loro libertà, alla democrazia primitiva in cui ogni membro del clan contava quanto gli altri.
Per un attimo mi chiesi se li stessi veramente aiutando. Poi capii che non si trattava di una scelta tra modi di vita diversi; per quella gente si trattava di scegliere tra l’agricoltura o l’estinzione. Certo, avrebbero dovuto pagare un prezzo salato per la sopravvivenza, ma se non lo avessero pagato sarebbero morti.
“Rientra anche questo nei piani di Ormazd?” mi domandai. “Il Radioso ha un piano? O gli preme soltanto salvarsi dal Tenebroso, costi quel che costi?” Di fronte all’espressione dubbiosa e concentrata di Dal, fui tentato di dirgli di lasciare perdere tutto quanto e continuare a vivere come aveva sempre fatto. Poi pensai al ragazzo morto per una banale infezione. Pensai a com’era magra e lacera quella gente quando vagava in cerca di selvaggina tirando avanti a stento. Ricordai che i loro anziani avevano un’età che nei secoli a venire sarebbe stata considerata ancora giovanile. Mi resi conto che il clan viveva costantemente rasentando l’estinzione. Ahriman non avrebbe faticato a spazzar via il genere umano.
— È vero, la caccia è sempre stata il vostro sistema di vita — dissi a Dal. — Un buon sistema di vita per te e il clan. Ma non è l’unico sistema di vita. Non è il migliore.
Non sembrava per niente convinto, ed era tormentato dall’incertezza. Dal era un uomo onesto e schietto. Non sapeva cosa credere, ed era troppo onesto per prendere una decisione prima di essere convinto fino in fondo.
— Ava vuole restare — borbottò — ma gli anziani dicono che non dobbiamo farlo.
Gli misi una mano sulla spalla.
— Parla al clan, a tutta la gente che è venuta nella valle. Digli quello che ti ho detto. Se vuoi, gli parlerò anch’io e gli spiegherò la crescita del grano. Gli spiriti dei vostri padri non si arrabbieranno con voi; saranno felici che abbiate trovato un sistema di vita migliore.
Dal sorrise esitante. — Credi davvero che saranno felici?
— Sì, ne sono sicuro.
Dal si alzò, flettendo le gambe per sgranchire i muscoli, e annuì.
— Parlerò ai clan. Gli dirò quello che mi hai detto.
Si sentiva risollevato. Non avrebbe dovuto decidere. Avrebbe messo la decisione ai voti. Si era tolto di dosso un gran peso. O almeno, lo pensava.
Anche in quella semplice società neolitica, con meno di un centinaio di adulti, ci vollero tre giorni prima che Dal riuscisse a radunare tutti. Era affascinante vedere il funzionamento di una burocrazia primitiva. Ogni clan doveva discutere l’idea di quella riunione tra i suoi membri, e gli anziani esaminavano in modo mostruosamente dettagliato lo svolgimento delle riunioni di clan del passato, la posizione in cui doveva sedere il proprio clan rispetto agli altri, chi doveva occuparsi del fuoco, chi doveva parlare e in che ordine. Per quegli uomini rozzi, una riunione di clan era un evento eccezionale, un divertimento, oltre che un momento serio in cui prendere delle decisioni importanti. Tutti assaporavano i particolari organizzativi e il protocollo, eccitati perché finalmente avevano qualcosa di diverso da fare.
Infine i clan si radunarono attorno a un grande falò vicino alle capanne del Clan della Capra. Nelle prime ore della notte gli anziani raccontarono le loro storie più importanti, rievocando la storia e l’eminenza dei rispettivi clan con leggende cantilenate che tutti sapevano a memoria. Eppure tutti i partecipanti ascoltarono quei racconti di mostri ed eroi, di dei e di fanciulle, coraggio e astuzia, divertendosi apparentemente moltissimo… come una famiglia del ventesimo secolo che passasse una sera in casa davanti al televisore.
Finalmente, Dal presentò la proposta all’assemblea. Ormai l’oscurità era fitta, era notte fonda. Nonostante il falò, in cielo si vedevano le stelle che annunciavano l’autunno: la mia costellazione omonima stava sorgendo sopra l’orizzonte frastagliato, fissandomi. Era diversa dai miei ricordi di altre ere, facilmente riconoscibile, ma un po’ storta. E c’erano quattro stelle nella Cintura, invece che tre.
Dal non era un grande oratore, ma illustrò con semplicità e chiarezza l’idea di restare nella valle anche durante l’invero. Si mostrò un po’ perplesso, comunque rese bene l’idea che avrebbero potuto chiudere gli animali in un recinto e ucciderli con comodo invece di doverli inseguire, che avrebbero potuto vivere del grano che cresceva nella valle, anzi farne crescere dell’altro.
Tutti ascoltarono senza interromperlo, anche se molti anziani scossero il capo, facendo oscillare le barbe grigie con sincronismo perfetto.
Per concludere, Dal disse: — E se volete sentire anche le parole di Orion, bene, sarà felice di parlarvi. È un’idea sua, infatti.
Un uomo dell’età di Dal, del Clan del Lupo, balzò in piedi. — Noi non dobbiamo stare in un unico posto! Ogni anno i nostri spiriti-padri preparano questa valle per noi! Come potranno preparare il grano se staremo qui a guardare tutto l’anno? Gli spiriti andranno via e il grano morirà!
Dal si girò verso di me, imbarazzato. Sedevo su un lato del settore del Clan della Capra, all’estremità, e in pratica mi trovavo isolato nello spazio tra i clan. Mi alzai e feci un passo verso il fuoco perché tutti mi vedessero bene, vedessero che ero un uomo, anche se straniero, un uomo e non uno dei mostri dalle cento braccia di cui gli anziani avevano parlato prima.
— Sono Orion — dissi — un nuovo venuto in questa parte del mondo. Mi piace cacciare, come piace a voi. Però so che c’è un sistema migliore per vivere, un sistema che porterà a tutti più comodità, che permetterà a tutti di mangiare bene per tutto l’anno. I bambini saranno grassi e sani anche col freddo e la neve del peggior inverno. Potremo…
Non riuscii a dire altro. Un’esplosione di grida agghiaccianti lacerò la notte, e il fuoco sembrò avvampare ovunque.
Tutti balzarono in piedi scompostamente. Una lancia si conficcò nel terreno accano ai miei piedi. Urla e gemiti si levavano da ogni parte mentre uomini e donne stramazzavano, i corpi trapassati da aste. Il falò sibilava, per il sangue schizzato sul fuoco. La gente dei clan corse verso le capanne, terrorizzata.
Ma non Dal. — Stanno bruciando il grano! — ruggì. — Prendete le armi!
Attraverso le lingue di fiamma vidi degli uomini nudi dipinti di colori spaventosi che si precipitavano in direzione delle capanne. Alcuni reggevano delle torce, altri delle lance.
— Demoni! — strillò Ava. E in effetti erano spaventosi, non sembravano esseri umani, con quei colori addosso, coi riflessi del fuoco sui loro corpi luccicanti.
Dal aveva già estratto un’asta dal corpo di un compagno caduto e stava correndo verso un guerriero nemico. Ava lo seguì, raccattò un’asta da terra e gli si affiancò. Un’altra lancia mi sfiorò la testa. Tre guerrieri penetrarono in una capanna, e poco dopo dall’interno giunsero grida di dolore.
Accadde tutto nel giro di pochi secondi. Mi precipitai verso la mia capanna, atterrai due guerrieri che cercavano di bloccarmi, e presi l’arco e una manciata di frecce. Fuori le urla e i gemiti continuavano, e la voce di Dal risuonava chiara e autoritaria nella confusione dello scontro.
Mentre mi chinavo e uscivo, un aggressore dipinto mi balzò addosso puntandomi l’asta al petto. Lo schivai e lo atterrai con un colpo micidiale al collo. Scavalcai il cadavere e avanzai nel furore infuocato della mischia, i riflessi in funzione a pieno regime. Provavo un’euforia selvaggia: l’attesa era finita, la battaglia aveva avuto inizio.
Incoccai una freccia e trapassai il cranio a un guerriero. Dal e Ava erano sulla mia destra, intenti a respingere quattro assalitori armati ai aste. Ne misi fuori combattimento uno, mentre Dal ne sbudellava un altro. Ava si inginocchiò di fronte all’attacco di un guerriero e lo infilzò dal basso. L’uomo le cadde addosso agonizzante, ma lei si divincolò subito, gli prese la lancia e tornò a combattere. Nel frattempo io avevo centrato il quarto invasore con una freccia nel collo.
Nei bagliori del grano che brudava, vidi molti uomini dei clan esanimi a terra. Ma molti di noi erano in piedi, e si battevano. Adesso gli aggressori stavano arretrando, scagliandoci le loro torce per rallentare l’inseguimento.
Una furia cieca mi spinse a stargli dietro. Mugghiando come un ossesso, gli scaricai addosso tutte le frecce che mi rimanevano, poi raccattai l’asta di una vittima e li incalzai, sfogando la rabbia accumulata. Abbattei il primo che cercò di contrastarmi calandogli l’asta sul cranio come se fosse una mazza. Un’altro mi si parò di lato, e gli conficcai la punta dell’arma nel ventre. Urlò, mentre estraevo l’asta e colpivo in faccia un terzo guerriero.
Nel giro di pochi secondi, la mia lancia grondava di sangue da cima a fondo, mi guizzava viscida tra le dita mentre massacravo tutti quelli che mi capitavano a tiro. I guerrieri superstiti fuggirono, gli occhi sbarrati di paura, ma io continuai a inseguirli, uccidendo, uccidendo, colpendoli inesorabile. Dietro di me, le grida di Dal e degli altri si facevano sempre più deboli e lontane.
Seguii il nemico in ritirata verso la parete rocciosa costellata di caverne. Un guerriero inciampò e cadde di fronte a me; gli affondai la lancia in corpo e sentii che la punta penetrava nel terreno. Il suo ultimo respiro fu un rantolo raccapricciante. Con un violento strappo, liberai l’asta e ripresi a dare la caccia agli altri.
Gli invasori fuggivano in tutte le direzioni, abbandonando le armi, cercando di sottrarsi alla mia furia omicida. Rallentai e mi voltai. In lontananza, Dal e i suoi stavano occupandosi degli incendi nei campi di grano. Ava, bagnata di sangue nemico, agitava trionfante le braccia, sollecitandomi a tornare indietro.
Ma io continuai ad avanzare verso quelle caverne, perché sapevo che là avrei trovato il tenebroso Ahriman. Era stato lui a organizzare quell’incursione, ne ero sicurissimo. Era nascosto là, e io dovevo trovarlo, dopo avere assaggiato il sangue dei suoi sicari. Come un automa impazzito, seguivo la pista che mi avrebbe portato fino a lui, perché morivo dalla voglia di aggiungere anche il suo sangue a quello che già macchiava la mia lancia.
C’era buio pesto alla base del dirupo; e nemmeno il chiarore dei campi in fiamme diradava almeno un po’ l’oscurità. Ma nelle tenebre silenziose, dove anche gli insetti e gli animali notturni se ne stavano immobili spaventati dal clamore della lotta, percepii dei respiri e un frusciare di piedi nudi sul terreno sassoso.
Erano in tre, sulla sinistra, pronti ad attaccarmi… e ce n’erano altri due a destra, pronti ad aggirarmi e a far scattare la trappola.
Proseguii, come se fossi ignaro della loro presenza. Ma nel preciso istante in cui scattarono verso di me, mi girai, li colpii alle gambe usando l’asta come una falce e li atterrai tutti e tre. Mentre cadevano rovinosamente, impugnai nella destra la lancia e la scagliai nel petto del primo dei due nemici che tentavano di aggirarmi. Il tud dell’asta che lo trapassava fu più forte del gemito strozzato che esalò mentre moriva. Uccisi i tre uomini a terra, in fretta, con le mani, mentre l’unico superstite fuggiva.
Raccolsi le loro tre aste e mi diressi verso la caverna più vicina, guidato dalla certezza interiore che lì avrei trovato Ahriman.
Nella caverna regnava un’oscurità impenetrabile, ma io avanzai deciso nelle sue fauci, trasportato da una rabbia non ancora placata.
Fu il ruggito dell’orso a salvarmi la vita. Se la bestia fosse stata animata dai miei stessi istinti omicidi, avrebbe atteso che le finissi addosso e mi avrebbe stritolato. Invece era solo un animale che difendeva la propria tana; non possedeva l’aggressiva ferocia degli esseri umani. Ruggì, prima di artigliarmi. Mi lanciai in avanti verso il ruggito, stringendo le tre aste. Fui fortunato. Lo centrai al cuore o ai polmoni. Una lancia si spezzò, ma le altre due andarono a segno e l’animale morì dopo una breve agonia.
Tutt’a un tratto, la smania di sangue sbollì dentro di me. Gocciolavo di sudore, ero letteralmente coperto di sangue, tremavo per lo sforzo fisico ed emotivo. Avevo ucciso degli altri esseri umani con la massima indifferenza, ma l’uccisione dell’orso mi aveva strappato dalla mia frenesia guerresca. Mi rannicchiai nel buio ella caverna, le mani sulle ginocchia, ansimando, piangendo quasi di vergogna.
Rimasi così per parecchi minuti. Gradualmente, riacquistai le mie forze, e con esse la decisione. Ahriman era lì. Lo sapevo. Lo sentivo. Forse l’orso era stato uno dei suoi sistemi difensivi, da scatenare contro di me, come si era servito dei topi in una caverna artificiale per uccidere la donna che amavo.
Strappai una lancia dal corpo ancora caldo dell’orso, scavalcai la carcassa, e avanzai brancolando. La vista era inutile in quella voragine nera, ma gli altri miei sensi erano tesi al massimo.
Ma se non riuscivo a vedere nulla, non riuscivo nemmeno a sentire nulla. Non il minimo rumore, a parte il mio respiro e lo scalpiccio quasi impercettibile dei miei piedi. Con la sinistra tastavo la parete scabra della caverna, con la destra stringevo la lancia. Avanzai adagio, come un cieco, in cerca del nemico che sapevo in agguato davanti a me…
La vampata improvvisa di luce accecante mi paralizzò, poi un colpo tremendo alla testa mi fece sprofondare di nuovo nell’oscurità.
Sentii il gelo della morte, e quando aprii gli occhi vidi che eravamo in una caverna di ghiaccio. Eravamo circondati da superfici traslucide e scintillanti. Il pavimento e le pareti erano lisci, biancazzurri. Il soffitto, alto, era irto di stalattiti. Il respiro mi si condensava. Rabbrividii, involontariamente.
Eravamo in profondità, sotto il massiccio roccioso dell’Ararat. Un incredibile nascondiglio naturale per Ahriman. Ahriman sedeva, incongruamente, dietro una massiccia, ampia lastra di legno, che sembrava tagliata di netto da un grosso tronco adulto. La superficie superiore era talmente lucida che rifletteva la faccia truce di Ahriman, il suo collo taurino e le spalle.
Io ero seduto con la schiena appoggiata a una roccia sporgente. La testa mi rintronava per il colpo ricevuto, ma intervenni allentando la tensione dei muscoli del collo e controllando la circolazione capillare per ridurre l’ematoma. Il dolore cominciò a diminuire.
Dietro la figura minacciosa di Ahriman c’era un contenitore che emanava una luminosità fioca. Sembrava di legno anche quello, ma di un legno nero, compatto, quasi simile a metallo. La parte superiore, incernierata, era aperta. Mi ricordava più che altro una bara.
Ahriman sedeva in silenzio dietro la strana scrivania, fissando la superficie lucida come se potesse leggervi qualcosa che io non ero in grado ai vedere. Mi mossi leggermente, saggiando i miei riflessi. Non ero legato; braccia e gambe erano libere, e sembravano rispondere senza problemi ai miei comandi.
Ahriman alzò lo sguardo e mi osservò. Indossava una tuta attillata di fibra metallica, chiusa sulla gola da una pietra dai colori cangianti. La tuta scintillava nella tenue luminosità della caverna. Guardai in alto, ma non c’erano sorgenti luminose, solo un lucore che sembrava provenire dal ghiaccio stesso.
— Bioluminescenza — disse Ahriman, con la solita voce aspra.
Annuii, più che altro per mettere alla prova la mia testa. Il dolore si stava calmando rapidamente.
— La tua gente ha spento le fiamme in poco tempo — disse Ahriman. — Il grano è saturo di umidità. Avrei dovuto aspettare una settimana, sarebbe stato più secco allora.
— Dove hai preso quei guerrieri? — chiesi.
Un macabro sorriso apparve brevemente sul suo volto dalle labbra sottilissime. — È stato facile. Ci sono molte tribù di tuoi simili che fremono d’impazienza tanto desiderano poter uccidere e depredare. La considerano gloria. E ritornano nei loro squallidi tuguri con una manciata di teste mozze e vantano la propria forza di fronte alle mogli e ai figli.
— Sei tu che li spingi a farlo.
— Non è necessario insistere molto. Uccidere è parte del loro sistema di vita, una qualità innata.
— Sai, il tuo piano fallirà qui — dissi. — Ci incontreremo di nuovo.
— Sì, me l’hai detto. Mi hai già incontrato due volte, prima.
— Il che significa che qui il tuo piano fallirà. Non riuscirai a impedire a questa gente di sviluppare l’agricoltura…
M’interruppe alzando una mano. — Che certezza incrollabile, la tua — mormorò rauco. — Sei davvero sicuro di trionfare, di avere ragione. Credi davvero che il Radioso rappresenti la verità e la vittoria.
— Ormazd è…
— Ormazd non è nemmeno il suo vero nome, come il mio non è Ahriman. Sono solo invenzioni, menzogne, artifici, semplificazioni necessarie perché la tua mente non è in grado di afferrare la verità complessiva in tutte le sue innumerevoli sfaccettature.
La rabbia cominciò a riscaldarmi interiormente. — So quel tanto di verità sufficiente per capire le tue intenzioni.
— Distruggere la tua razza, ecco cosa intendo fare. Anche se dovrò impiegare un’eternità per riuscirci. Anche a costo di lacerare il continuum e distruggere l’intero universo spazio-temporale. Non ho nulla da perdere. Lo capisci, Orion? Io non ho nulla da pendere.
I suoi occhi rossi mi fissavano. Percepivo la forza della sua collera, il suo odio, e qualcos’altro… qualcosa che non riuscivo a identificare, qualcosa di simile a un dispiacere eterno.
Ma ribattei velenoso: — Non vincerai mai! Per quanto ti affanni, sarai tu a essere distrutto!
— Davvero?
— Fallirai anche qui, come hai fallito altre volte. Non puoi fermare la razza umana.
Appoggiò le braccia alla strana scrivania e si piegò in avanti, sovrastandomi come una nube temporalesca.
— Povero sciocco, non capisci ancora la natura del tempo, vero?
Prima che potessi replicare, proseguì: — Anche se ci siamo incontrati prima, in altri secoli, in altri luoghi, non significa che tu mi sconfiggerai qui. Il tempo non è come un binario che viene steso un troncone alla volta, fissato saldamente, permanentemente. Il tempo è come un fiume, o meglio ancora un oceano. Si muove, si sposta, cambia; erode lembi di terra in alcuni punti, e in altri forma nuove isole. Non è immutabile. Se vincerò qui, le ere in cui tu ed io ci siamo già incontrati si dissolveranno nel caos primordiale, come se non fossero mai esistite.
Lo fissai per qualche attimo in silenzio, poi dissi: — Non ci credo. Stai mentendo.
Ahriman scosse il capo. — Posso vincere, qui, Orion. Vincerò. E tutto lo spazio-tempo sarà sconvolto. Il continuum si sgretolerà, e le epoche e i luoghi dove ci siamo incontrati scompariranno.
— Non può essere vero!
— Però è vero. E tu lo sai. Vi distruggerò tutti, Voi che vi chiamate Homo sapiens sapiens. Voi tutti, creature di Ormazd. Voi e lui sparirete nel nulla, insieme, e la mia gente finalmente trionferà.
— Mai — dissi, ma così piano che stentai a sentire la mia voce.
Ahriman mi ignorò, esultante. — La tua piccola banda di selvaggi non compirà la transizione dalla caccia all’agricoltura. Né nessun’altra tribù. I tuoi simili rimarranno una debole, misera accozzaglia di tribù di cacciatori isolate… con l’istinto della guerra innato in loro.
Calcò il tono sulle ultime parole, le gustò, me le sbatté in faccia quasi fossero una giustificazione per tutto quello che aveva fatto, tutte le vite che aveva stroncato, tutte le malvagità commesse.
— Sarà facile spingere le tue tribù sanguinarie a massacrarsi a vicenda — continuò Ahriman. — Basta solo portarle su rotte di collisione, farle incontrare inaspettatamente. I vostri istinti selvaggi provvederanno al resto.
— Non sempre i clan combattono quando si incontrano — replicai. — Qui nella valle lavorano insieme…
— Solo perché si conoscono, e il cibo qui abbonda. Ma sono talmente sciocchi, irresponsabili, sventati… Il numero degli animali da allevare è già molto ridotto, e hanno già provocato l’estinzione di alcune specie. Il cibo diventerà più scarso per loro, te lo garantisco.
— Se non passeranno all’agricoltura — mormorai.
— Non lo faranno. E quando una di queste bande nomadi di cacciatori si imbatterà in un gruppo di stranieri, ecco, si annienteranno reciprocamente.
Scossi la testa ostinato, rifiutandomi di credergli. — Ci sono troppe tribù umane. Non puoi distruggerle tutte. Sono disseminate in tutto il mondo…
— No. I ghiacciai coprono gran parte dell’emisfero settentrionale. E anche se non fosse così, che differenza ci sarebbe per me? Ho tutto il tempo di questo mondo per eliminare le tue tribù di selvaggi. Pensaci! Secoli, millenni, eoni! Una lunga, deliziosa festa di morte.
I suoi occhi di brace sfavillarono al pensiero. Io ero immobile, silenzioso, calcolando quante possibilità avessi di tuffarmi attraverso la scrivania e serrargli la gola prima che potesse fermarmi.
— E alla fine — proseguì inesorabile Ahriman, un’espressione quasi felice sul volto — quando i tuoi primitivi sanguinari avranno terminato di massacrarsi, il continuum subirà una scossa così violenta che la Terra, il sole, le stelle e le galassie crolleranno, imploderanno. Un buco nero temporale. La fine di tutto, finalmente.
Mi scagliai verso la gola oscena di Ahriman. Ma dal ghigno beffardo della sua faccia mi resi conto che aveva fatto un calcolo identico al mio, sistemandosi a una distanza sufficiente che gli consentisse di bloccare in tempo la mia mossa. Le sue mani poderose si serrarono a pugno e scattarono incontro alla mia faccia. Un’esplosione di dolore nel cervello. Persi di nuovo i sensi.
Mi ripresi, sentendo un gocciolio d’acqua. Ero steso su una superficie di pietra, nell’oscurità più assoluta. Passò parecchio tempo prima che la pulsazione nella mia testa cessasse, nonostante i miei sforzi di controllare il sistema nervoso ed escludere il dolore.
Quando cercai di drizzarmi, urtai con la testa contro la roccia. Toccai in alto con le mani e mi accorsi di essere incastrato in una specie di stretto crepaccio. Sulla destra, una parete di roccia; a sinistra, un bordo, oltre il quale si apriva il vuoto.
Ahriman se n’era andato. Per ultimare il suo piano, o cacciando i clan dalla valle, o uccidendoli tutti. Dovevo liberarmi e impedirgli di vincere.
La vista non serviva; non c’era un filo di luce. Il rumore d’acqua proveniva dal basso. Mi girai adagio sullo stomaco e tastai oltre il bordo allungando il braccio più che potevo. Niente fondo. Cercai un sasso lì attorno, ne trovai uno, e lo lasciai cadere. Mi concentrai, tesi l’udito, aspettai un’eternità ma non sentii nulla. Cercai un sasso più grosso e riprovai. I secondi trascorsero lenti, lentissimi… poi finalmente udii un tonfo lievissimo. C’era dell’acqua laggiù, molto in basso.
Cominciai a strisciare in avanti, ignorando se stessi muovendomi nella giusta direzione. La roccia sembrava salire leggermente, ma non era detto che fossi diretto verso la superficie. Comunque, non mi venne in mente un’idea migliore, e continuai a strisciare, lentamente. Non mi giungeva nessun rumore, se non il mio respiro e lo strusciare del corpo lungo il costone di roccia.
Poi mi accorsi gradualmente che la roccia stava diventando più calda. Pensai alla cella sotterranea in cui Ahriman mi aveva intrappolato la prima volta che ci eravamo incontrati. Ma, no, questa era una caverna naturale, non una bolla di energia distorta. Il calore proveniva da una sorgente naturale. Magma del vulcano, riflettei. Forse stavo scendendo in profondità, invece che verso la luce del giorno.
Mi fermai, ansimando nell’aria umida e scura, e cercai di ragionare. Non conclusi nulla; non disponevo di informazioni sufficienti. Poi provai a mettermi nei panni di Ahriman. Cosa voleva fare?
Distruggere il Clan della Capra, fu la risposta.
Come? mi chiesi. L’attacco era fallito. Adesso quegli uomini non si sarebbero più lasciati sorprendere. Invece di allontanarli dalla valle, l’attacco probabilmente era servito a fargli capire quanto fossero preziosi i campi di grano. Forse a questo punto avevano addirittura deciso di restare nella valle tutto l’anno, per proteggere il grano dai razziatori.
Ma Ahriman non era uno sciocco, mi dissi. Doveva avere previsto tutto quanto.
Dunque, il vero scopo dell’attacco era convincere i clan a rimanere sempre nella valle. Ma questo non aveva senso… a meno che Ahriman non intendesse distruggere i clan e la valle, insieme!
In che modo? Con un terremoto? Ahriman era in grado di controllare le forze tettoniche? Non lo sapevo. Ma la risposta mi arrivò poco dopo, mentre mi trovavo nella mia buia prigione di roccia. Sentii uno sciacquio, uno sciabordio sotto di me. Un’onda stava percorrendo il fiume sotterraneo che scorreva laggiù nell’oscurità.
— Un’alluvione — dissi ad alta voce, mettendomi a pensare a ritmo frenetico… “Calore sotterraneo per fondere il ghiaccio sotterraneo. Il torrente che attraversa la valle si riverserà squarciando il fianco della montagna in diluvio inarrestabile. I clan non riusciranno mai a mettersi in salvo. La valle verrà sommersa, con tutti i suoi abitanti.”
La catastrofe era già in corso. L’acqua rumoreggiava sotto di me, salendo. Sarei stato il primo ad annegare. Ahriman aveva calcolato tutto alla perfezione.
Conoscere la morte e rinascere non incoraggia certo ad affrontare di nuovo la morte. Ormazd controllava il mio destino, lo sapevo, ma più cose imparavo riguardo il Radioso e i suoi poteri, più mi rendevo conto dei suoi limiti. Se ne avesse avuto la forza, avrebbe sistemato Ahriman direttamente, senza ricorrere a un intermediario come me. Era abbastanza potente da strapparmi alla morte e proiettarmi in epoche e posti diversi; lo aveva già fatto un paio di volte. Ma chi mi garantiva che ci sarebbe riuscito di nuovo, o che lo avrebbe fatto di nuovo, o anche che sapesse dov’ero e cosa stavo affrontando?
Mi sentii completamente solo; non avevo molta scelta. O aspettare che l’acqua salisse e mi sommergesse, o tuffarmi e cercare un’uscita che mi portasse all’esterno. Il tempo era di vitale importanza. Se fossi scampato, avrei dovuto raggiungere Dal e Ava quanto prima per avvisarli dell’alluvione.
Presi una decisione, respirai a fondo, e rotolai oltre il bordo piombando giù come uno dei sassi che avevo fasciato cadere. Ebbi tutto il tempo che volevo per avere paura; fu una caduta lunga. Cercai di puntare i piedi verso il basso, il modo migliore di affrontare un tuffo del genere. Mi ritrovai a chiedermi quanto fosse profonda l’acqua; avrei potuto rompermi l’osso del collo prima di annegare.
L’acqua sembrava cemento quando finalmente colpii la superficie, poi sprofondai sempre più giù, velocissimo, in quel liquido nero e gelido, i nervi insensibili per lo shock, senza alcuna percezione sensoriale a parte un gorgoglio doloroso nelle orecchie.
Finalmente riaffiorai, respirai, mi tenni a galla e mi lasciai trasportare dalla corrente, dovunque mi stesse trascinando. Avevo l’impressione che fosse nella direzione opposta rispetto a quella in cui strisciavo poco prima.
Dopo un periodo di tempo che mi parve interminabile, le mie braccia urtarono contro la roccia. Il fiume si infrangeva contro una parete solida, ma dal risucchio capii che proseguiva in un tunnel ancor più in profondità e continuava la sua corsa. Non mi restava che seguire il tunnel. Mi riempii i polmoni d’aria e mi immersi, abbandonandomi alla corrente.
Ben presto, l’ossigeno nei polmoni si esaurì; eppure il fiume scorreva ancora. Cominciai a spremere ossigeno dalle cellule, escludendo interi sistemi di muscoli e organi che non mi servivano, rubando il loro ossigeno per alimentare il cuore e il cervello e gli arti. Cominciai a morire, progressivamente… come le luci di una città che si spegnessero per un guasto alla rete elettrica, un quartiere dopo l’altro. Disperato, rallentai il battito cardiaco ed entrai in una trance catatonica, seguendo passivamente il fiume sotterraneo, affamato di ossigeno, senza sapere se avrei rivisto la luce del giorno.
Dopo un’eternità, finalmente l’oscurità cominciò a dissiparsi e affiorai in superficie.
Aria! Aria vera, respirabile. Aveva un gusto meraviglioso; mentre il mio corpo tornava in vita trangugiai avide boccate della sostanza più preziosa della Terra.
Il fiume si riversava in una immensa caverna, trasformandola in una cisterna smisurata. Mi trascinai sul bordo asciutto di roccia, il corpo che protestava ancora per l’interruzione metabolica. La luce del sole filtrava da un’apertura in alto, ma ero troppo debole per cercare di raggiungerla.
Per ore dovetti rimanere steso e recuperare le mie forze. Ma di minuto in minuto l’acqua si alzava, gorgogliando, schiumando, riempiendo quel serbatoio naturale.
Quando mi lambì i piedi, mi costrinsi a drizzarmi e cominciai ad annaspare lungo la parete digradante della caverna, verso la fenditura. Il fondo era friabile, sassoso, difficile. A ogni passo rischiavo di scivolare al punto di partenza. Ma strinsi i denti e finalmente mi issai attraverso l’apertura e sbucai all’esterno.
Girandomi, vidi che il fiume sotterraneo scrosciava sempre più impetuoso. Quando avesse raggiunto il soffitto della caverna, l’acqua priva di sfogo avrebbe sfondato la roccia che le sbarrava la strada, riversandosi nella valle con la forza di un maremoto che avrebbe spazzato via tutto.
Scesi barcollando lungo il versante ripido. Gli occhi appannati, osservai la valle che si estendeva sotto di me nel sole pomeridiano, bella, tranquilla, vulnerabile. Dovevo trovare Dal e Ava, metterli in guardia.
Avanzai traballante verso i campi di grano. La gente era al lavoro, tagliando i lunghi gambi dorati coi coltelli di selce.
— Guardate! — esclamò un uomo. — È Orion!
— È tornato dalla terra dei morti!
Smisero di lavorare e si raccolsero attorno a me, tenendosi a rispettosa distanza.
Alzai la mano in segno di saluto, ma prima che potessi pronunciare una parola, fui sopraffatto dalla stanchezza e dalla fame. Persi i sensi.
Il volto teso di Ava mi stava fissando quando aprii gli occhi.
— Sei vivo — disse, il tono grave.
— Sì — gracchiai. — E sono affamato.
Guardandomi intorno, vidi che ero nella capanna, steso sul mio giaciglio d’erba. Sulla soglia, un capannello di gente agitata che sbirciava dentro. Al centro della stanza, una quantità di cibo di ogni genere… doni della gente, immaginai.
Ava si staccò momentaneamente da me. Pochi secondi più tardi, una donna entrò portando una zucca di brodo fumante. Lo sorseggiai, scottandomi la lingua. Ma era buono e corroborante.
— Dov’è Dal? — chiesi, la voce quasi normale. — Dobbiamo portare la gente fuori…
— Prima mangia — m’interruppe Ava. — Riacquista le tue forze.
Accostai la zucca alle labbra e inghiottii l’intero contenuto. Ava cercò di farmi coricare di nuovo, ma io respinsi adagio le sue mani.
— Devo vedere Dal.
— Sei stato nella terra dei morti? — chiese la donna che aveva portato la zucca.
Scossi la testa, ma i suoi occhi erano spalancati. — Com’era? Hai visto mio figlio là? Il suo nome è Mikka, e aveva quattro anni quando è morto di febbre.
Ava la allontanò. — Sei stato nella terra dei morti, vero? — mi domandò sottovoce.
La gente assiepata sulla soglia ne era convinta, nonostante avessi negato. Perfino Ava lo credeva, con quella logica elementare secondo cui: I morti sono sepolti sottoterra — Orion è stato sottoterra — Quindi Orion è stato nella terra dei morti.
— Dal — mormorai eccitato. — Devo parlare con Dal. Dobbiamo lasciare la valle. Presto!
— Lasciare la valle? Perché…?
— Ci sarà un’alluvione. Annegheremo tutti, se stiamo qui. Trova Dal e portalo qui. Subito!
Ava si voltò e disse a un uomo di andare a prendere Dal. Rivolgendosi a me, disse: — Dal è stato ferito nella lotta tre notti fa.
— In modo grave?
— Un taglio alla gamba, appena sopra il ginocchio.
Infezione, pensai.
— Non è una ferita grave, però ho voluto che stesse coricato a riposare. Ho coperto la ferita con un impiastro di foglie.
Mi alzai e mi avviai alla porta. La gente si ritrasse intimorita. Ero stato nella terra dei morti ed ero ritornato. C’era paura nei loro occhi, e una curiosità disperata di sapere cosa ci fosse al di là della morte. Accigliato passai in mezzo alla folla, riflettendo che la loro primitiva superstizione aveva un fondo di verità: ero stato nella terra dei morti, più di una volta.
Nel sole del tardo pomeriggio, vidi che il torrente era già più gonfio e impetuoso. E la sua direzione si era invertita. Scorreva dalla base dei dirupi verso la cascata all’estremità opposta della valle, dove i due corsi si incontravano formando uno stagno sempre più esteso.
In lontananza sentii un brontolio cupo, e la terra tremò. Tutta la gente dei clan guardò la vetta fumante dell’Ararat.
— Orion cammina e la montagna gli parla — sentii che diceva una donna.
Gli altri annuirono bisbigliando.
Non dissi nulla. Per ora, il loro atteggiamento di timore e rispetto mi era utile; stavo per dare a quella gente degli ordini che dovevano essere eseguiti senza esitare.
Due adolescenti stavano aiutando Dal a drizzarsi in piedi quando entrai nella sua capanna seguito da Ava. Sotto le foglie, la gamba di Dal non sembrava gonfia. Forse se la sarebbe cavata.
— Fatelo sedere — dissi, e i ragazzi riadagiarono Dal sul pagliericcio.
Dal mi fissò nella semioscurità dell’interno. — Pensavamo che fossi morto. Ma non siamo riusciti a trovare il tuo corpo.
— Sono ancora vivo. Ma rimarremo uccisi tutti, se non ce ne andiamo subito da questa valle.
Dal sussultò come se lo avessi schiaffeggiato. — Cosa? Lasciare la valle? Ma io credevo…
— Ci sarà un’alluvione — dissi. — Presto. Molto presto. Forse tra poche ore. L’acqua coprirà tutta la valle.
— Ma il torrente non…
— Dal — scattai — ti ho mai mentito? Ci sarà un’alluvione. Lo so! Se stiamo qui moriremo tutti. Dobbiamo andar via. Subito!
Dal guardò Ava.
— Non c’è tempo per discuterne — dissi. — Dobbiamo dirlo alla gente, ai clan, e andare via.
— Lungo i gradini della cascata — intervenne Ava.
Mi resi conto che sarebbe stato impossibile. La prima fase dell’inondazione stava creando un lago sempre più profondo ai piedi della cascata. Non potevamo lasciare la valle per la stessa strada lungo la quale eravamo arrivati.
— No — dissi. — Dobbiamo salire le rocce lungo il fianco della valle.
Dal parve scioccato. — Nessuno può salire quelle rocce!
— Vi mostrerò come fare.
— Ma è impossibile. Noi siamo gente normale, non sappiamo volare!
— Possiamo arrampicarci — disse Ava decisa. — Orion e io ci siamo arrampicati sul dirupo un giorno, più di un mese fa.
Dal la fissò, fece per obiettare, poi scosse la testa. Non riusciva a digerire tante novità tutte in una volta, riflettei. Ma quando si guardò la gamba rigida solcata dalla ferita della lancia, mi resi conto che era preoccupato per la propria sopravvivenza.
Un rombo di tuono fece vibrare il terreno. Ma non proveniva dal cielo. Il cielo a nord avvampava di rosso, e all’esterno della capanna si levarono i gemiti spaventati della gente. Il vulcano ribolliva, stava per iniziare la terribile eruzione. Ahriman stava sciogliendosi i muscoli.
— Non c’è tempo da perdere — dissi. — Dobbiamo andare via subito.
Dal annuì. — Andate. Ava, guida tu il clan. Manda qui gli anziani; dirò loro che comanderai tu finché non sceglieranno un altro capo.
— Ma vieni anche tu! — esclamò lei.
Dal indicò la gamba. — E come posso venire? Non riuscivo ad arrampicarmi su quelle rocce nemmeno quando avevo tutte e due le gambe sane.
Ero tentato di dargli ragione. Sarebbe già stato abbastanza problematico portare in salvo quel centinaio di uomini, donne e bambini, che non avevano mai scalato un dirupo prima d’ora. Un uomo con una gamba inutilizzabile avrebbe potuto rallentare la fuga, fino a farci sommergere dalle acque. E se Dal fosse rimasto indietro, avrei avuto Ava tutta per me una volta al sicuro.
Lo fissai negli occhi. Sì, aveva paura; mi credeva, e sapeva che rimanendo lì sarebbe morto. Eppure era pronto a sacrificarsi per la salvezza del suo clan. Coraggio, cocciutaggine, pura e semplice stupidità… qualunque cosa fosse a spingerlo ad agire così, io non potevo abbandonarlo lì a morire.
Mi chinai e lo alzai in piedi. Poi, portandomi sul lato della gamba ferita, lo afferrai per la vita.
— Aggrappati alle mie spalle e appoggiati a me — gli ordinai.
— Non puoi…
— Non discutere! Non c’è tempo da perdere! — lo zittii.
Ava mi guardò raggiante, mentre uscivamo dalla capanna. Dal cominciò a urlare ordini alla gente. I giovani del clan corsero ad avvertire gli altri clan. Le donne raccolsero dalle capanne tutti i viveri che potevano, gli uomini presero i loro attrezzi e le armi.
— Il grano! — esclamò Ava. — Che ne sarà del grano?
— Sarà spazzato via dall’alluvione — risposi.
— No! — Ava partì di corsa verso i campi, facendo segno a due ragazze di seguirla.
L’Ararat brontolò ancora, facendo tremare la terra. Ora dalla cima del vulcano sgorgava vapore rovente, e capii che presto la situazione sarebbe precipitata. Il torrente che scorreva pigro nella valle adesso fluiva impetuoso, traboccando già dalle sponde in alcuni punti, allagando i primi campi e andando a ingrossare il lago in fondo alla cascata. La cascata stessa piombava dalle terrazze con maggiore violenza e una massa d’acqua sempre più impressionante. Dallo specchio del lago si alzava un velo di foschia che filtrava i raggi inclinati del sole al tramonto in un arcobaleno di bellezza diabolica.
— Da questa parte — gridai, mentre la gente si radunava attorno a Dal e a me; erano spaventati, confusi, lanciavano occhiate piene di terrore al torrente rabbioso e al vulcano.
— Ubbidite a Orion! — ordinò Dal. — Solo lui può salvarci. Non attiratevi la collera degli spiriti dei morti disubbidendogli.
Sembrarono calmarsi un po’… Dicci cosa fare, indicaci una via, guidaci… da qualsiasi parte, se tu sai cosa fare… Non occorreva altro per impedire a una folla spaventata di trasformarsi in una marea autolesionista in preda al panico.
Ci dirigemmo verso le rocce, allontanandoci dal torrente in piena. Dal si appoggiava a me, zoppicando sulla gamba sana. Con la coda dell’occhio, vidi che la gente degli altri clan aveva cominciato a seguirci. Però non riuscii a scorgere il volto di Ava nella moltitudine.
Finalmente arrivammo alla base del dirupo, e io feci sedere Dal su una roccia. Scegliendo due adolescenti agili, formai una cordata usando delle liane e partii in testa lungo la parete. A differenza degli anziani, i ragazzi erano abbastanza giovani da non sapere cosa fosse impossibile o no. Mi seguirono senza fare in pratica nessun passo falso.
Toccammo senza problemi la sommità, dove il sole era ancora sopra l’orizzonte. In basso, il torrente stava allungando i suoi tentacoli in ogni direzione, allagando rapidamente i campi e avanzando verso le capanne deserte. La cascata all’estremità della valle era nascosta da un muro di foschia, però anche a quella distanza si sentiva il suo fragore.
Lavorando in fretta, legammo le corde agli alberi e le gettammo a quelli che aspettavano sotto di noi. Ordinai ai ragazzi di restare lì, poi mi precipitai giù, iniziando a organizzare l’ascesa degli altri. Sotto lo sguardo ammirato di Dal, la gente si issò sulla parete scoscesa, arrampicandosi lentamente a forza di braccia, una mano dopo l’altra lungo le corde.
— Hai visto Ava? — chiesi.
— No…
— Arriviamo! — gridò Ava.
Alzai lo sguardo. Ava e le due ragazze stavano avvicinandosi, stanche ma sorridenti, portando sulle spalle grosse sacche di pelle.
— Abbiamo raccolto tutto il grano tagliato che riuscivamo a portare — disse Ava felice. — Tutti i semi di cui ci hai parlato, Orion. E radici e bacche, tutto quello che siamo riuscite a trovare. Lo portiamo con noi. Pianteremo i semi la prossima primavera.
Sorrisi. Guardando il vulcano fumante, pensai che Ahriman aveva perso. L’idea dell’agricoltura aveva trovato un terreno fertile lì, e le sue radici avevano attecchito. E le leggende si sarebbero tramandate di generazione in generazione fino all’invenzione della scrittura, avrebbero confuso la vera storia dell’Ararat: era stata una donna, non Noè, e aveva salvato le piante che avrebbero sfamato l’uomo, non gli animali che potevano sottrarsi all’alluvione coi propri mezzi. La mitologia di solito si basa su un fondo di verità, ma come avrebbero distorto quella vicenda le tribù patriarcali!
Per tutto il tramonto quei primitivi si impegnarono come mai si erano impegnati prima d’allora. Il brontolio del vulcano era sempre più minaccioso, e dalla vetta cominciarono a levarsi colonne di fumo nero striate di fiamme. Il cielo si oscurò, e il bagliore dei lampi squarciò il crepuscolo, spaventando la gente ancor di più. Ma la gente si arrampicava tenacemente, annaspava, si aggrappava, si trascinava lungo le corde verso la salvezza. I giovani e i ragazzi più robusti aiutarono i vecchi e i meno agili. I bambini si stringevano al collo degli uomini. Io feci il viaggio di andata e ritorno ripetutamente, per aiutare tutti quelli che potevo.
Dal sedeva sulla roccia ai piedi del dirupo, organizzando l’esodo, tenendo a bada il panico di chi doveva ancora scalare la parete.
Adesso l’Ararat ci rischiarava la sera col suo lugubre fulgore rossastro; dal cratere schizzavano macigni grandi quanto una casa e lingue di lava rovente. Ad ogni ruggito della montagna, la terra tremava, ma non si trattava di un vero terremoto… non ancora.
Poco più della metà della gente era arrivata in cima al dirupo, quando l’alluvione dilagò nella valle. La parete di roccia da cui sgorgava il torrente esplose in una doccia gigantesca di acqua e vapore, proiettando massi a centinaia di metri di distanza. La cisterna naturale dov’ero sbucato si era riempita completamente; non solo, il calore delle forze tettoniche scatenato da Ahriman l’aveva trasformata in una colossale caldaia. L’acqua aveva raggiunto la temperatura di ebollizione, e il vapore espandendosi aveva sventrato il fianco della montagna con la forza devastante di tonnellate di esplosivo.
Un muro di acqua bianca si riversò nella valle ruggendo. Il vapore sibilava verso il cielo buio, e cominciò a cadere una pioggia bollente.
Stavo scendendo per aiutare un altro paio di persone a salire, e mi trovavo a metà del dirupo, quando accadde. Nonostante l’oscurità, vedevo tutto in modo chiaro… vidi la gente ancora in fondo che fissava paralizzata dal terrore quella marea micidiale che si scagliava contro di noi.
— Presto, presto, muovetevi! — urlai, lasciando andare la corda, e terminai la discesa a balzi, atterrando violentemente e rotolando su me stesso per assorbire l’impatto.
La gente si scosse, ebbe una reazione frenetica; decine di uomini e donne all’improvviso presero a scalare il dirupo per non morire. Altri scesero dalla sommità, rischiando la vita senza alcuna esitazione per aiutare amici e parenti.
Dal si alzò in piedi, appoggiandosi a un’asta, fissando la marea schiumosa di acqua bollente che distruggeva ogni cosa che incontrava.
L’eruzione del vulcano era iniziata in piena regola, adesso, e la terra tremava tanto forte da far perdere l’appiglio a quelli attaccati alle corde. Cadute, ossa rotte, urla di dolore e di terrore che laceravano l’oscurità mischiandosi al frastuono dell’alluvione e del vulcano.
Aiutai quelli che potevo, correndo tra i caduti per rimetterli in piedi e spingerli di nuovo verso la parete da scalare.
Poi vidi Dal, immobile, che ci osservava, il volto contratto in una maschera ostinata di autocontrollo. Non batteva ciglio, né invocava aiuto. Appoggiato all’impugnatura nodosa della lancia, la gamba ferita tesa rigidamente all’infuori, guardava la sua gente che si arrampicava verso la salvezza. Dietro di lui, le acque rabbiose ribollivano sempre più vicine.
Con un urlo, afferrai una delle liane penzolanti e corsi da Dal. Lui alzò un braccio per protestare, ma io lo tenni fermo e gli legai la corda sotto le spalle!
— Stringi la lanciai gridai nel baccano infernale. — Usa la forza delle braccia al posto della gamba ferita.
— Non posso farcela! Salvati, Orion!
— Ce la faremo. Andiamo! Lo trascinai alla base del dirupo e lo spinsi verso l’alto. Chiunque si trovasse all’altro capo della corda, capì le mie intenzioni e cominciò a tirare. Dal usò la lancia come stampella, mentre io mi arrampicavo di fianco a lui. La pioggia rendeva le rocce scivolose, e più di una volta fui sul punto di cadere.
Avevamo scalato sì e no un quarto della parete quando l’ondata si infranse contro la base del dirupo, inondandoci di schizzi roventi e facendo avvitare Dal su se stesso all’estremità della corda. Dal perse la lancia e gemette di dolore. Io bloccai automaticamente i miei recettori del dolore mentre l’acqua mi ustionava le gambe. Afferrando Dal, cominciai a trascinare, a spingere, reggendo anche il suo peso. L’acqua ci sferzava, cercava continuamente di risucchiarci nei suoi gorghi fumanti.
Mi aggrappai con una mano alla corda e con l’altro braccio cinsi le spalle di Dal. Lentamente, centimetro per centimetro, salimmo lungo il dirupo, inseguiti dall’acqua sempre più alta che ci bruciava le gambe.
Tutt’a un tratto sentii la voce di Ava che impartiva ordini urlando, e fummo issati verso l’alto dalla forza concentrata di parecchie mani. Miracolosamente, quella forza ci strappò dalla morsa di quell’inferno liquido, e ci permise di arrivare bagnati, ustionati, esausti, in cima al dirupo.
— Stai bene? — chiese ripetutamente Ava. — Stai bene?
Si stava rivolgendo a Dal. Mi drizzai a sedere, sussultando quando lasciai che i ricettori del dolore delle mie gambe riprendessero la loro normale funzione. Le ustioni erano estese, ma non sembravano gravi. Inginocchiata accanto a Dal, Ava gli stava già spalmando un unguento sugli arti arrossati.
Dal si voltò. — Mi hai salvato, Orion.
— Come tu mi hai salvato, una volta.
— Ti devo la vita.
Scuotendo la testa, dissi: — No, tu devi la vita alla tua gente. Guidala bene, Dal. Trova un’altra valle, e stabilitevi là.
— Lo faremo — mi disse Ava. — Vivremo come ci hai detto di vivere, Orion. Cominceremo una nuova vita, in un’altra valle.
Avrei dovuto essere felice, invece dentro di me sentivo solo sofferenza al pensiero che Ava sarebbe andata con Dal, com’era giusto, e che io sarei rimasto di nuovo solo.
Mi girai e nell’oscurità osservai l’inondazione sotto di noi. L’acqua ribolliva e si protendeva verso di me, quasi fosse arrabbiata perché ero scampato e cercasse ancora di ghermirmi.
— Meglio portare i clan più in alto — dissi — finché non tornerà un po’ di calma.
— Sulla montagna — annuì Dal.
— Ma trema, brucia — disse Ava.
— Non ci succederà nulla — disse Dal, di nuovo sicuro di sé. — E poi troveremo una nuova valle per noi.
— Bene — dissi. La pioggia stava calando, però là in basso l’acqua imperversava ancora. — È meglio che vi mettiate subito in cammino.
— E tu? — chiese Ava.
— Io rimango qui. Non avete più bisogno di me.
— Ma…
— Andate — ordinai.
Con riluttanza partirono. Fecero una barella per Dal, recitarono una breve preghiera per le vittime, poi si allontanarono per raggiungere un terreno più elevato, molti di loro zoppicando.
Restai seduto, curando le mie gambe con la volontà, aspettando l’inevitabile. Scrutai la valle; l’oscurità era interrotta solo dai rigurgiti di fuoco del vulcano, il vapore dell’acqua saliva fino a me, l’intera valle era stata trasformata in un enorme calderone. Ahriman aveva fatto bene il suo lavoro… non abbastanza, però.
— Credi di aver vinto. — La sua voce aspra sibilò nell’oscurità.
Voltandomi, dissi: — Ho vinto, lo so.
La sua mole poderosa si materializzò sbucando dalle tenebre, sovrastandomi, mentre io sedevo con le gambe stese goffamente in avanti.
— Per parecchio tempo non crescerà più nulla in questa valle — disse Ahriman. — La tua piccola banda di cacciatori superstiziosi avrà talmente paura di tornare qui che…
— Non sarà necessario che ritornino — lo interruppi. — Hanno portato con sé i semi del grano.
I suoi occhi rossi avvamparono.
— Cosa?
— E hanno nella mente il seme di una idea nuova — proseguii. — Hai perso, Ahriman. Quei cacciatori soprayviveranno. Diventeranno contadini e prospereranno.
Ahriman non si scomodò a discutere o a negare la verità di quanto avevo appena detto. Non inveì, non fece esplodere la sua rabbia. Rimase a lungo in silenzio, pensando, calcolando, facendo piani.
— È scacco matto, Ahriman — dissi. — Non puoi più fermarli adesso. Ti sei accanito contro di loro, ma loro hanno resistito.
— Per colpa tua.
— Li ho aiutati, sì.
— Per l’ultima volta, Orion. — Ahriman mi si avvicinò e mi sollevò da terra, stringendomi le costole in una morsa d’acciaio. Mi tenne in alto, e le mie gambe penzolavano inutilmente.
— Per l’ultima volta! — urlò, e mi gettò oltre il bordo del dirupo, giù, verso l’acqua che ribolliva.
Ma in quell’ultimo istante lo abbrancai per il collo e mi aggrappai con quanta forza avevo in corpo. Restammo in bilico per una frazione di secondo, oscillando nell’oscurità, poi piombammo tutti e due di sotto.
Quando sprofondammo nell’acqua, il dolore fu terribile. “Ti abbiamo battuto ancora” esultai in silenzio, mentre l’acqua sibilava e gorgogliava inghiottendomi. “E forse questo è stato l’ultimo scontro, forse questa volta ti ho liquidato definitivamente”.
Fui risucchiato dai gorghi bollenti, che mi straziarono la carne. Lasciai via libera alla sofferenza e alla morte, sperando che quella fosse davvero la fine di tutto.