Dal calore infuocato dell’inferno piombai così in un freddo così intenso che bruciava. Aprii gli occhi e mi trovai rannicchiato sotto le sferzate di un vento rabbioso, con la neve che mi batteva in faccia, in un paesaggio coperto di ghiaccio e massicci banchi di neve.
Il vento ululava. Sentii che la faccia mi si stava congelando, mentre riducevo gli occhi a due fessure orizzontali per ripararmi dai proiettili bianchi che mi punzecchiavano.
Barcollando, scivolando, tenendomi piegato in avanti, avanzai verso l’unico riparo in vista… un banco di neve che si profilava in lontananza ergendosi in mezzo a quella allucinante bufera bianca.
Mi accovacciai, appoggiando la schiena. Non c’era verso di sfuggire al freddo anche lì dietro, però almeno ero protetto dalle frustate continue del vento. Attraverso le ciglia già incrostate di ghiaccio, vidi che indossavo una specie di armatura bianca, dalla gola ai piedi, anche se il materiale sembrava di plastica, non metallo. Mi resi conto che, a parte la testa gelata, ero protetto e sentivo un tepore confortevole. La tuta era riscaldata. Alle mani portavo guanti così sottili e flessibili che avrebbero potuto essere tranquillamente un altro strato di pelle, ma nonostante lo spessore minimo mi tenevano calde le mani. Senza dubbio quella tenuta comprendeva pure un casco, che però doveva essersi perso chissà dove in quella bufera polare che ammantava il mondo in un anonimo bianco uniforme.
Rimasi seduto, sconcertato, gelando lentamente, per un periodo di tempo che mi sembrò protrarsi per ore. Modificai il flusso sanguigno dei miei capillari per riscaldare il più possibile la testa, ma stavo semplicemente rimandando l’inevitabile. In quella temperatura sotto zero, stavo attingendo alle scorte interne di energia del mio corpo per ritardare il congelamento e la morte. Dovevo trovare un rifugio.
Ma dove? La neve copriva tutto. Non riuscivo neppure a individuare la linea dell’orizzonte; tutto era confuso, sfocato.
E in che era mi trovavo? Stando a quanto mi era successo finora, stavo muovendomi indietro nel tempo, verso La Guerra. In tal caso, avrei dovuto trovarmi in un’era precedente al Neolitico. Con quella tempesta polare che infuriava attorno a me, ebbi il sospetto di essere stato spedito nell’Era Glaciale. Ma gli indumenti che portavo erano in contrasto con una simile ipotesi. Indossavo prodotti di una tecnologia molto avanzata… meno il casco, naturalmente. La parte centrale della mia corazza polare era piena di sacche di plastica che contenevano complessi congegni elettronici di cui ignoravo la funzione. Prima, mi ero sempre trovato vestito in modo adatto all’epoca in cui ero stato inviato… però quelle non erano pellicce da cacciatore dell’Era Glaciale.
Dov’ero? E in che periodo?
Questi comunque erano interrogativi secondari rispetto al problema della mia sopravvivenza. Uno alla volta, provai a usare i vari strumenti racchiusi nelle sacche. No, perlopiù non ci capivo niente. Uno assomigliava vagamente a un telefono o a un apparecchio di comunicazione; stava nel palmo della mano, con una piccola griglia alla base e un minuscolo ovale di plastica sulla sommità che ricordava moltissimo uno schermo visivo miniaturizzato. Premetti i tre tasti che attraversavano la parte centrale, uno alla volta. Avevano tre colori di codice diversi: rosso, giallo, blu. Non accadde nulla.
Nella fretta di esaminare gli strumenti deposi il comunicatore sulla neve accanto a me, assieme agli altri congegni estratti dalle tasche, e continuai a estrarne altri per capire cosa fossero e come funzionassero… ma senza risultato.
Tranne che per l’ultimo congegno. Questo era fin troppo evidente. Aveva la forma di una pistola ed era infilato in un fodero sul fianco destro. La canna era una barra di cristallo circondata da alette di raffreddamento metalliche. Il calcio era leggermente rigonfio ed era caldo al tatto; senza dubbio conteneva una specie di accumulatore. Piegai il dito attorno al grilletto, puntai l’arma verso l’alto e premetti lentamente. Per un attimo l’arma emise un lieve ronzio, poi sparò un raggio rosso sangue così intenso che dovetti distogliere lo sguardo. Per diversi secondi l’immagine residua mi rimase impressa sulla retina, e fu qualcosa di gradito, un lampo di colore che spezzava la monotonia mortale del bianco che ricopriva il mondo circostante.
Sparai di nuovo, questa volta evitando di guardare direttamente il raggio che fendeva l’aria satura di fiocchi. Il raggio scomparve penetrando nelle nubi grigie, ed ebbi l’impressione che avrebbe potuto perforare facilmente l’armatura che portavo, o anche il fianco di una montagna, volendo.
Mentre rinfoderavo l’arma, sentii un debole pigolio che si mutò in fretta in un fischio continuo. Estrassi di nuovo l’arma e la controllai; non trasmetteva nessuna vibrazione, nessun suono. Per un attimo pensai che potessero essere le mie orecchie, forse un effetto fisico conseguente allo sparo. Poi però guardai gli strumenti sparsi sulla neve. La neve che cadeva incessante li stava già imbiancando… tutti, tranne il comunicatore, notai.
Lo raccolsi, accostandolo all’orecchio. Non solo era leggermente caldo, ma il tenue lamento elettronico proveniva proprio da lì. Il tasto rosso era acceso! Qualcuno stava cercando di mettersi in contatto con me!
Premetti tutti i tasti, armeggiando come un ossesso. Inutile. Il fischio continuava, e basta. Mi alzai, pensando che la trasmissione potesse essere bloccata dal banco di neve contro cui mi ero rannicchiato. Nessuna differenza… solo che quando mi voltai l’intensità del fischio cambiò.
Socchiudendo le palpebre nella bufera, lentamente feci un giro completo. Il fischio aumentava e calava, più forte nella direzione in cui ero voltato all’inizio, bassissimo quando ero girato nella direzione opposta.
Un raggio direzionale, mi dissi. O forse un localizzatore, aggiunsi con un barlume interiore di speranza. Mi inginocchiai a raccogliere gli altri apparecchi, li riposi nelle tasche, quindi mi avviai nella direzione indicata dal segnale elettronico, piegato quasi completamente in avanti per offrire minor resistenza alle raffiche gelide.
Arrancai tra cumuli di neve che mi arrivavano alle spalle. Per fortuna, grazie alla strana tuta, ero caldo e asciutto. I capelli invece erano una massa friabile di ghiaccio, e riuscivo a vedere a stento attraverso le incrostazioni bianche che mi bloccavano le palpebre. Le guance, le orecchie, il naso avevano perso qualsiasi sensibilità. Però respiravo ancora, e continuai a muovermi, ora dopo ora, sempre più debole e affamato.
La bufera non accennava a diminuire. Anzi… Ma tra i vortici di fiocchi cominciai a distinguere la forma grigia di una enorme massa rocciosa. Il raggio direzionale stava guidandomi là, e mentre barcollavo semiaccecato, vidi che si trattava di una imponente rupe di granito che il vento ripuliva da qualsiasi traccia di neve, una rupe che affiorava ostinata dalla distesa bianca, proiettandosi aspra e frastagliata nel grigiore spettrale del cielo.
Mi trascinai in avanti, fermandomi ogni tanto a controllare il comunicatore, per essere sicuro di stare seguendo ancora la sua rotta elettronica. Le forze mi stavano abbandonando rapidamente. Il freddo mi penetrava nelle ossa, svuotandomi i muscoli, attenuando la mia volontà di proseguire a tutti i costi. Ogni passo era sempre più faticoso. I piedi, caldi negli scarponi, mi sembravano di piombo, pesanti una tonnellata. Desideravo solo coricarmi e riposare nella neve morbida, comoda.
Ricordavo di aver visto fotografie di un’era remota in cui i cani da slitta esquimesi si raggomitolavano beati in piccole buche scavate nella neve da loro stessi, le code irsute piegate sul muso, gli occhi scuri che affioravano da un mondo fatto di bianco e di gelo. Mi fermai a tirare il fiato e mi girai a guardare il sentiero che avevo aperto nella neve. Le mie impronte erano già state cancellate. La mole arcigna della rupe sembrava fissarmi in silenzio, mentre io ero immobile, smarrito in un mondo bianco, completamente solo nell’universo, per quanto ne sapevo. Era giunto il momento di riposare, di coricarmi e dormire.
Anche le dita cominciavano a essere intirizzite, nonostante i guanti e il sistema di riscaldamento sovraccarico della tuta. Lasciai che il piccolo comunicatore mi scivolasse di mano. Cadde nella neve, e il suo tasto rosso mi lanciava occhiate d’accusa.
— Guardami male finché ti pare — dissi all’apparecchio, la voce rotta dalla sofferenza. Ogni respiro era una tortura; l’aria era così fredda che mi bruciava i polmoni.
— Devo riposare — dissi alla luce rossa.
Il tasto luminoso mi fissò impassibile. L’acuto lamento elettronico continuava a parlarmi tra gli ululati della bufera.
— D’accordo — gracchiai. — Farò altri dieci passi. Poi se non troverò un riparo, mi scaverò una buca e dormirò.
Mi costrinsi a fare altri dieci passi. Poi altri dieci. Poi ancora cinque. La rupe di granito sembrava sempre lontanissima. La violenza della bufera aumentava.
— È inutile — dissi alla scatoletta inanimata che tenevo in mano. — È inu…
Un sottile raggio di luce rossa accecante guizzo oltre la mia testa. Mi tuffai istintivamente nella neve estraendo la mia arma.
Un altro raggio guizzò nell’aria facendola crepitare.
Amici o nemici? mi chiesi, e per poco non scoppiai a ridere rendendomi conto di quanto fosse assurda una domanda del genere. Il nemico era quella bufera, il freddo, la morsa pungente del ghiaccio che mi circondava. Chi aveva sparato, chiunque fosse, doveva avere calore, cibo…
Alzai la pistola e sparai dritto in aria. Un bagliore di tale intensità doveva essere visibile anche a chilometri di distanza, anche in mezzo a quella bufera.
Sbirciando verso la rupe, vidi un raggio di risposta che si perdeva tra le nubi. Mi rimisi in marcia, sorretto dall’adrenalina, arrancando scompostamente nella neve mentre spremevo le ultime riserve di energia del mio corpo.
In alto, di fronte a me, scorsi, una spaccatura scura nella roccia, l’imboccatura di una caverna. C’erano parecchie persone lassù, indossavano armature bianche identiche alla mia. Mi videro e cominciarono a sbracciarsi, incoraggiandomi. Ma non lasciarono la sicurezza del loro rifugio.
Cercai di affrettare il passo, agitando scioccamente le braccia, lanciando urla strozzate.
— Forza, puoi farcela! — gridò uno di loro.
— Hai ancora pochi metri, dai! — mi incitò un altro.
Avanzai barcollando verso di loro, chiedendomi in modo vago come mai non uscissero dalla caverna per aiutarmi a percorrere quegli ultimi metri. Ma la domanda fu spazzata via dalla gioia che provavo nel trovare dei miei simili in quel deserto sterminato di neve e di ghiaccio.
Il vento aveva scolpito i banchi di neve attorno alla base della rupe, formando candide rampe levigate. Una serie di scivoloni sul fondo liscio di ghiaccio, e finalmente mi ritrovai tra le braccia di quegli sconosciuti.
Mi afferrarono, mi sostennero, sorridendo, ridendo felici. Dietro di loro, nella caverna, vidi casse di equipaggiamenti e un grosso radiatore elettrico acceso.
— Ehi! — esclamò uno di loro. — Non è della nostra unità!
Le risate si spensero, i sorrisi scomparvero.
— Chi diavolo sei?
— Di che unità sei?
— Non sapevo che ci fossero altre unità operative in questo settore.
— Forza, amico… chi sei, e cosa ci fai qui?
Non avevo alcuna risposta da dargli. Il mio corpo si afflosciò, completamente svuotato. Mi si chiusero gli occhi, e persi conoscenza.
Quando rinvenni, vidi il soffitto della caverna, lastre scabre di granito, molto in alto. Piegai le dita dei piedi e delle mani, quindi girai leggermente la testa. Mi accorsi di essere stato spogliato; la mia armatura era sparita, portavo solo un paio di mutande.
Però provavo una deliziosa sensazione di tepore. L’assaporai per qualche secondo, poi mi drizzai sui gomiti per guardarmi attorno meglio.
Mi avevano steso su una branda che sembrava sospesa a mezz’aria. Sembrava di essere su un’amaca; ondeggiava al minimo movimento. Ma non c’erano supporti che la sostenessero. Gli altri erano raggruppati più all’interno della caverna, attorno a una specie di scrivania. Vedevo solo le loro schiene. Quasi tutti si erano tolti la corazza, e contai sette uomini e cinque donne in tuta grigia. C’era qualcuno seduto alla scrivania, ma il capannello era così fitto che non riuscivo a vedere se fosse un uomo o una donna.
— Come ti senti?
Una voce femminile mi fece girare, così in fretta che l’oscillazione dell’amaca per poco non mi fece ruzzolare sul pavimento della caverna.
— Bene… credo.
Era una donna bionda, bella, con un naso sbarazzino. Mi sorrise. — Quando sei arrivato barcollando mi aspettavo un caso di congelamento piuttosto serio, invece il computer ha controllato e sei a posto.
— Mi sento bene, infatti — confermai, rendendomi conto che era vero. Ero al caldo e al sicuro. Non avevo nemmeno fame.
Quasi mi avesse letto nel pensiero, la donna disse: — Ti ho iniettato un paio di fiale di sostanze nutritive mentre dormivi. Ma che fine ha fatto il tuo casco? Per fortuna che avevi il comunicatore d’emergenza. E poi, usare la pistola come segnalatore di pericolo! Come ti è venuta un’idea del genere? Di che unità sei, a proposito?
Interruppi la sua raffica di domande alzando una mano. — Credo di potermi alzare, se mi tieni fermo questo affare per un attimo.
Lei rise e prese un’estremità della branda fluttuante. — Per il quartier generale è una cosa fantastica; richiede solo un disco gravitazionale e un pezzo di stoffa, e si trasporta bene perché non pesa niente. Però quegli scaldascrivanie non hanno mai provato a dormire su una di queste mostruosità!
Mi alzai in piedi, contento di staccarmi dalla branda. Vidi un dischetto metallico sul pavimento, proprio sotto di essa. Chissà come, annullava la forza di gravità e permetteva alla branda di galleggiare a mezz’aria.
— Mi chiamo Rena — si presentò la donna tendendo la mano. — Tecnico e specialista di guerra batteriologica. Naturalmente, mi hanno fatto medico della squadra.
Le strinsi la mano. Mi arrivava a stento alla spalla ed era snella come un folletto. Mi guardò ansiosa con occhi azzurri come una montagna lontana coperta di neve.
— Orion — mi presentai. — Mi chiamo Orion.
— Unità? Specialità?
Scossi la testa. — Nessuna, che io sappia.
Il suo sorriso si mutò in un’espressione preoccupata. — Forse dovrei farti dare un’altra occhiata dal computer diagnostico. Ha un programma neurologico…
— Rena, mettigli addosso qualcosa, santo cielo!
Un uomo si avvicinò a noi. La sua tuta aveva degli stemmi d’argento sul colletto, e una targhetta col nome sulla parte pettorale:
Kedar. Sulla spalla sinistra c’era il simbolo di un lampo. Aveva una faccia truce, la corporatura forte e asciutta di un atleta, ma notai che zoppicava leggermente.
— Signorsì — disse Rena, portando la mano sulla fronte in un saluto militare. Dall’enfasi con cui aveva pronunciato la parola, però, mi sembrava che quel saluto fosse stato leggermente beffardo.
Mi indicò l’interno della caverna, dove delle file di contenitori di plastica erano allineate in bell’ordine.
— Qui ci sono i vestiti. — Aprì il lato di un contenitore, e vidi una pila di tute grigie. — Caschi e strumenti vari, nella fila là dietro. Serviti pure. Taglia unica.
Presi una tuta. Sembrava troppo piccola per me quando la osservai tendendo le braccia. Comunque, provai a indossarla. Sorprendentemente, si modellò al mio corpo, allargandosi e allungandosi se necessario per aderire comodamente senza essere troppo stretta.
Rena staccò la targhetta vuota dalla mia uniforme e sfilò da una tasca una penna termica.
— Orion — disse, tracciando il mio nome sul tessuto. Mentre mi porgeva la targhetta, mormorò: — Attento a Kedar. Crede di essere superiore a noi altri, solo perché e un tecnico dell’energia.
La ringraziai annuendo, e riattaccai la targhetta sul taschino della uniforme. Poi andammo a prendere una nuova armatura di plastica bianca, che tutti indossavano fuori dalla caverna, mi disse Rena. E un casco.
Mi sentivo un po’ come lo scudiero di un cavaliere medioevale, con le braccia ingombre di roba, mentre seguivo Rena verso la parte anteriore della caverna.
Kedar ci venne incontro. — Bene, almeno sei equipaggiato come si deve — commentò, squadrandomi da capo a piedi. — Vieni, Adena vuole farti qualche domanda.
Per un attimo, rimasi lì impalato, le braccia cariche, non sapendo cosa fare. Rena risolse il mio problema prendendo la roba che portavo. Si ritrovò nascosta dietro una montagna di oggetti quando le ebbi passato tutto quanto. Ma mi rivolse una strizzatina d’occhio amichevole mentre si allontanava traballando verso l’area dov’erano sistemate le brande.
Kedar mi guidò alla scrivania dove gli altri si erano radunati poco prima. C’era una donna là accanto, mi volgeva le spalle, china lievemente in avanti, intenta a studiare una carta geografica su un video.
— È qui, Adena — disse Kedar.
La donna si girò, e io restai senza fiato. Era lei. Giovane e bellissima come la prima volta che l’avevo vista, ere addietro. Aveva i capelli corti, più corti dei miei, ma erano folti, di un nero lucente, e le si arricciavano sulle orecchie e la fronte. I suoi occhi erano gli stessi… grigi, profondi, caldi, intelligenti.
Diede uno sguardo al nome sulla targhetta.
— Orion? — Anche la sua voce possedeva lo stesso tono melodioso.
Annuii. — E tu sei Adena. — L’emblema sulla sua spalla raffigurava un pugno chiuso.
— Cosa fai in questo settore? A che unità appartieni?
— Non lo so — risposi. — Mi sono ritrovato là fuori, perso nella bufera. I miei ricordi si fermano a qualche ora fa. — “A meno che non vogliamo tener conto di altre ere, di altre vite,” aggiunsi nel mio intimo.
Adena aggrottò la fronte.
Kedar disse: — È evidente che non è della squadra di trasporto.
— Già — annuì Adena. — Quale è la tua specializzazione?
Non sapevo cosa rispondere.
— Guerra batteriologica? Chimica? Armi a energia? Energia? Comunicazioni? — La sua voce salì leggermente di tono mentre io la fissavo muto, frastornato.
— Una specializzazione devi pure averla, soldato — scattò Kedar.
— Sono in missione speciale — mi sentii rispondere. — Sono un assassino.
— Cosa? — Kedar lanciò un’occhiata ad Adena, inarcando le sopracciglia.
— Il mio scopo è quello di trovare Ahriman e ucciderlo — dissi.
— Ahriman? In nome dei venti demoni della notte, chi è questo Ahriman?
— In questa unità non c’è nessuno che si chiami così — intervenne Adena.
— Ahriman non è uno di noi — spiegai. — È una creatura diversa, è intelligente, ma non è del tutto umano, è pericoloso e molto potente… — E fornii una descrizione dettagliata del Tenebroso.
A ogni mia parola, le loro facce sembravano sempre più sorprese e sconcertate.
Quando ebbi finito, Adena disse: — E il tuo incarico speciale è quello di trovare questa persona e ucciderla?
— Sì. Sono stato mandato qui proprio per questo.
— Da chi?
— Da Ormazd — risposi.
Si guardarono in faccia. Quel nome evidentemente non significava nulla per loro.
— Avete sentito parlare del tenebroso Ahriman? — domandai. — Sapete dove possa trovarlo?
L’espressione di Kedar si mutò in un sorriso sarcastico. — Resta qui ancora un giorno, e vedrai, Orion. Non appena la bufera passerà, ne vedrai tanti di uomini uguali a quello che hai descritto da farne indigestione, uomini con la pelle grigia e gli occhi rossi.
— Non capisco.
— Non lo sai che siamo in guerra con loro? — disse Adena.
— Guerra? Con… con chi?
— L’uomo che hai descritto — spiegò Adena. — questo pianeta era pieno di gente come lui. Siamo qui per eliminarli.
— Ma siamo tagliati fuori dalle altre unità — aggiunse subito Kedar. — Quelli si stanno ammassando là fuori in mezzo alla neve… a centinaia. Forse, migliaia. Ci attaccheranno non appena finirà la bufera. Ci annienteranno. Le nostre radio sono disturbate. Non possiamo comunicare.
Ma io ignorai quasi le sue parole disperate. Avevo la mente in tumulto. La Guerra! Quella doveva essere La Guerra!
Adena e Kedar ben presto mi lasciarono andare. Non sapevano che farsene di un uomo che evidentemente era impazzito durante i combattimenti o si fingeva pazzo per imboscarsi ed evitare di combattere. Dovevano pensare a difendere la caverna dall’attacco che sarebbe iniziato non appena fosse cambiato il tempo.
Mi avviai verso l’imboccatura della caverna, sentendo su di me gli sguardi degli altri soldati. Fuori il vento spirava ancora violentissimo, gelido.
Rabbrividii, e tornai nel calore dei radiatori.
Rena mi prese di nuovo in consegna, portandomi accanto a un gruppetto di uomini e donne che stavano scaldando dei pasti precotti in una specie di forno a microonde. Mangiammo in silenzio. Ad uno ad uno, i soldati si alzarono e tornarono alle ridicole brandine fluttuanti, dove controllarono le loro armi con aria truce.
L’unica persona un po’ allegra della squadra era un tipo giovanile che si presentò come Marek, specialista delle comunicazioni. Mi mostrò gli schermi e i quadri di comando di cui doveva occuparsi.
— I bruti stanno disturbando tutte le nostre trasmissioni in partenza — disse con una voce simpatica, come sedesse descrivendo il funzionamento dell’impianto. — Non so come facciano, ma ci riescono maledettamente bene.
— I bruti? — chiesi.
Annuì. — Il nemico, i tipi con la pelle grigia e gli occhi rossi. — Si ingobbì, ritraendo il collo e alzando le spalle, poi fece qualche passo strascicando i piedi, assumendo per quanto possibile un’espressione cupa e minacciosa. Tenendo conto che era un giovanotto esile, era un’imitazione abbastanza riuscita dell’essere che conoscevo come Ahriman.
— Comunque — proseguì Marek, rilassandosi — stanno disturbando le nostre trasmissioni, così non possiamo dire ai comandanti su nelle navi in orbita dove siamo e cosa abbiamo di fronte.
— Siamo isolati — dissi.
Marek annuì di nuovo, tranquillamente, come se il problema si riducesse a un semplice guasto delle apparecchiature.
— Le trasmissioni in arrivo le riceviamo quasi tutte. Gli ordini dall’Alto… — e puntò un dito verso il soffitto della caverna — …ci arrivano chiari. E le carte meteorologiche. E le analisi multispettrali che ci indicano i punti in cui i bruti stanno ammassando le loro forze.
Indicò uno schermo e batté sulla tastiera. Lo schermo si accese, mostrandomi un vortice di nubi, una gigantesca massa ciclonica vista dalle telecamere di un satellite.
— Questi siamo noi… questo punto dove c’è il cursore — disse Marek, battendo il dito su una macchiolina verde che lampeggiava in basso a sinistra sullo schermo.
Mentre osservavo l’immagine, spalancai gli occhi. Le nubi coprivano una buona metà dello schermo, ma dove era visibile la terra, distinguevo contorni geografici sorprendentemente familiari. Una lunga penisola protesa in un grande mare; sembrava l’Italia, solo che la forma presentava lievi diversità e la punta dello stivale italico era attaccata a quella che un giorno sarebbe stata l’isola di Sicilia. Sopra quell’unica forma riconoscibile, una distesa ininterrotta di bianco. I ghiacciai coprivano quasi tutta l’Europa. Quella era proprio l’Era Glaciale.
Marek mi chiese: — Visto abbastanza? Pronto per le brutte notizie?
Annuii.
Batté di nuovo sulla tastiera e le nubi scomparvero dallo schermo, mostrando il terreno, o meglio il ghiaccio, sotto di esse. L’immagine si ingrandì, avvicinandosi alla superficie, finché non apparvero dei picchi grigi di granito che affioravano dalla neve.
— Questa è la nostra caverna — disse Marek, indicando di nuovo il cursore. — E qui… — aggiunse battendo un tasto — qui ci sono i bruti.
Una marea di puntini rossi balzò in evidenza sullo sfondo bianco. Erano almeno un migliaio, disposti lungo un semicerchio approssimativo rivolto verso il nostro rifugio.
Dunque eravamo isolati dal resto delle nostre forze e in netta inferiorità numerica, mentre attendevamo che il nemico attaccasse.
Per quanto sembrassero giovani, i soldati attorno a me avevano all’attivo molte battaglie. Non perdevano tempo a preoccuparsi. Mangiarono, controllarono le armi, quindi cominciarono a stendersi sulle brandine e a dormire come se non esistesse il pericolo.
— Tanto vale fare un sonnellino intanto che si può — mi disse Marek imperturbabile. — La bufera non smetterà per altre sei ore, e i bruti non attaccheranno prima d’allora.
— Sicuro?
Il suo eterno sorrisetto cambiò in modo impercettibile. — Da quanto tempo combattiamo contro quelli? Che tu sappia, hanno mai attaccato durante una bufera del genere?
Mi strinsi nelle spalle.
— E poi, il campo là fuori è coperto dalle sonde. Quando cominceranno a muoversi, lo sapremo subito, con buon anticipo.
Però notai che restava accanto alle sue apparecchiature, armeggiando, ricontrollando, cercando un modo di superare le interferenze e dire ai comandanti in orbita la nostra posizione e la nostra situazione.
Vidi Adena sola vicino all’ingresso della caverna; indossava già l’armatura, e il casco le copriva gli stupendi capelli scuri. Gli altri per lo più dormivano o fingevano di dormire. La caverna era silenziosa, a parte il ronzio delle apparecchiature elettriche e il gemito sinistro del vento all’esterno.
Kedar era accovacciato accanto a una serie di tozzi, massicci cilindri verdi. Dalle strane sigle stampigliate su di essi, capii che erano le batterie che fornivano energia alla squadra. Kedar mi lanciò un’occhiata molto sospettosa mentre mi incamminavo lentamente verso Adena, ma non disse nulla e restò dov’era, a controllare le sue batterie.
Adena mi parlò prima che fossi io a farlo. — Ti conviene riposare un po’.
— Non ho bisogno di molto sonno — risposi. — Sto bene, adesso.
— L’attesa è la parte peggiore — disse, scrutando i mulinelli di neve. — Se avessi più uomini, uscirei subito ad attaccarli intanto che stanno ancora preparandosi.
— Non ti ricordi di me? — chiesi.
Si girò, l’espressione turbata.
— Dovrei? Ci siamo già incontrati, prima?
— Molte volte.
— No. Se fosse vero, me lo ricorderei. Eppure…
— Eppure ti sembra di conoscermi.
— Sì — ammise.
— Pensaci — la esortai, avvertendo dentro di me una smania bruciante. — Ci siamo già incontrati, prima. Molto tempo fa… nel futuro.
— Nel futuro?
— Una tribù primitiva di cacciatori, nella primavera che seguirà quest’era di inverno. La capitale di un impero barbaro, migliaia di anni dopo. Una grande metropoli, secoli dopo…
Adena parve stupita, preoccupata — Sei pazzo — mormorò. — Stress da combattimento, o il trauma climatico delle ore passate in mezzo alla bufera.
— Pensaci! — insistei. — Chiudi gli occhi, e guarda cosa ti viene in mente quando pensi a me.
Mi guardò con un misto di incredulità e diffidenza, ma chiuse lentamente gli occhi, e io mi concentrai spremendo al massimo la mia forza di volontà.
— Cosa vedi? — le chiesi. Dopo parecchi secondi, rispose: — Una cascata.
— Che altro?
— Nulla… alberi, della gente… e… animali strani, quadrupedi… io gli monto sul dorso… e… anche tu! Tu sei su un animale, vicino a me…
— Continua.
— Uno dei bruti. Grande e grosso. In una caverna… No, è una specie di tunnel… — Adena sussultò, spalancando gli occhi.
— I topi — mi resi conto. Adena portò le mani alla gola.
Le tremavano. — È orribile… i topi… i topi…
— Siamo morti tutti e due in quell’era — dissi. — Abbiamo vissuto molte vite, tu e io.
— Chi sei?
— Orion, il Cacciatore. Cerco Ahriman, il Tenebroso, quello che ti ha scatenato addosso i topi. Sono stato inviato in tutte quelle epoche diverse per stanarlo e ucciderlo.
— Inviato? Da chi?
— Da Ormazd — risposi.
Chiuse gli occhi per una frazione di secondo, e l’aria attorno a noi sembrò brillare di una fredda luce argentea. La caverna, la bufera, scomparvero quasi. Con la coda dell’occhio intravidi Kedar bloccato nel tempo, la mano tesa immobile come quella di una statua. Adena riaprì gli occhi, e in quelle profondità grigie splendeva tutta la conoscenza del continuum.
— Orion… Grazie. La cortina si è dissolta. Adesso ho una visione chiara. Ricordo… molte più cose, ricordo di te, di noi.
Eravamo soli in una sfera di energia, al di là del tempo normale; noi due soli, in un posto che lei aveva creato. Il cuore mi batteva forte. — Adena, un attimo fa ti ho mentito…
Lei sorrise. — Mentito? A me?
— Forse più che una bugia è stata una mezza verità. Ti ho detto che sono stato inviato qui per dare la caccia ad Ahriman.
— È vero, lo so.
— Ma è una verità incompleta. Anche se Ormazd mi ha mandato qui a uccidere Ahriman, il vero motivo per cui sono qui… lo scopo che mi spinge ad agire… è il fatto che volevo ritrovare te. Ho attraversato migliaia di anni per trovarti, e ogni volta che ti trovo, lui ti porta via da me.
— Questa volta, no.
— Ti amo, Adena… Aretha… qualunque sia il tuo vero nome.
Lei rise sommessamente. — Adena può andare, per ora. Ma tu sei sempre Orion, sempre costante.
Mi strinsi nelle spalle. — Sono quello che sono. Non posso essere nient’altro.
— E io ti amo, amo quello che sei e chi sei. Ti amerò per sempre.
Avrei voluto mettermi a correre nella bufera e gridare più forte del vento. Avrei voluto urlare trionfante rivolto a Ormazd, dovunque e chiunque fosse, dicendogli che nonostante tutti i suoi poteri avevo trovato il mio amore e lei mi amava. Avrei voluto abbracciarla e sentire il calore del suo amore.
Invece rimasi immobile di fronte ad Adena, quasi paralizzato dalla felicità. Non le presi nemmeno la mano. Mi bastava crogiolarmi nella contentezza che provavo adesso che l’avevo trovata.
— Orion — disse Adena, parlando sottovoce e in fretta — ci sono ancora molte cose che non sai, molte cose che ti vengono ancora tenute nascoste. Quello che chiami Ormazd ha le sue ragioni per tutto quello che ti ha fatto…
— E ti ha fatto — dissi.
Sorrise. — Ho insistito per venire qui. Sono diventata umana, mortale, accettando le sue condizioni. Quello che mi è successo l’ho voluto io.
— E Ahriman? Che mi dici di lui?
La sua espressione divenne cupa. — Orion, quando saprai tutta la verità, non ti farà piacere. Forse Ormazd fa bene a tenerti all’oscuro.
— No, voglio sapere — dissi deciso. — Voglio sapere chi sono e perché sono stato costretto a fare queste cose.
Lei annuì. — Sì, ti capisco. Ma non aspettarti tutto in una sola volta.
— Dimmi almeno qualcosa — la supplicai.
Adena indicò l’esterno della caverna. — Benissimo. Incominciamo con la situazione attuale. Questa squadra di soldati fa parte di un esercito di sterminio. Il nostro compito è annientare i bruti, liberare il pianeta da loro.
— Dopo di che?
— Un compito alla volta. Prima che possa succedere tutto il resto, prima che noi due possiamo incontrarci ai piedi dell’Ararat o fare l’amore a Karakorum, prima che possiamo incontrarci a New York… be’, dobbiamo sterminare i bruti.
Respirai a fondo. — Ahriman è tra loro?
— Certo. È uno di loro. Uno dei loro capi più potenti. E sa, ormai, che se riuscirà a impedirci di portare a compimento il piano di Ormazd, la vittoria finale toccherà proprio a lui.
Riflettei perplesso. — Intendi dire che se non riusciremo ad annientare i bruti, saremo noi umani… tu e io… a essere spazzati via?
— Se non riusciremo ad annientare i bruti, la razza umana, la tua specie, si estinguerà per sempre.
— Allora il continuum si spaccherà. Lo spazio-tempo si disgregherà.
— Ormazd crede di sì — confermò Adena. — C’è qualche prova che sostiene questa ipotesi.
— Qualche prova? — scattai. — Siamo dentro fino al collo in una guerra di sterminio, basandoci su qualche prova?
Adena reagì con un sorriso alla mia domanda rabbiosa. — Ti ho detto che ci sono ancora molte cose che non capisci. Scusami se mi sono espressa così. Non ti chiederei di combattere questa battaglia se non fosse necessario.
La mia rabbia svanì, la confusione rimase. — Chi sei? — le domandai, quasi senza accorgermene. — Cosa sei? E Ormazd, cosa…?
Mi zittì posandomi un dito sulle labbra. — Sono umana e mortale quanto te, Orion. Non sono sempre stata così, però ho scelto questa condizione. Posso soffrire, posso morire.
— Però poi vivi ancora — dissi.
— Anche tu.
— Tutti?
— No, non tutti — rispose. — La capacità esiste. Ogni essere umano può vivere oltre la morte. Ma pochissimi se ne rendono conto, pochissimi riescono a sfruttare questa loro potenzialità.
— Tu ci riesci.
— Sì, certo. Tu, invece, no. Ormazd deve intervenire per te. Altrimenti vivresti solo per la durata di una vita e moriresti come gli altri della tua specie.
— La mia specie. Dunque, tu non appartieni alla mia specie. Hai detto che hai scelto tu di diventare umana. Questo significa che sei… qualcos’altro.
Il sorriso di Adena esprimeva la tristezza di una conoscenza eterna. — Sono quella che un giorno la tua gente chiamerà una dea. Costruiranno templi dedicati a me. Ma io voglio essere umana. Voglio stare con te… Ormazd me lo permetterà.
Fissai lo sguardo sui suoi occhi grigi e vidi vortici infiniti, ruote cosmiche, l’intero continuum di stelle, galassie, atomi e quark, che girava in un ciclo interminabile di creazione e mutamento. Non capivo, non potevo capire, quello che Adena mi stava dicendo. Ma le credetti, fino all’ultima parola.
Ero innamorato di una dea, una dea che un giorno sarebbe stata adorata dagli esseri umani, esseri umani creati dagli dei… Il ciclo della creazione, la ruota della vita, il continuum dell’universo.
Il continuum che Ahriman cercava di distruggere.
L’aura argentea che ci circondava si dissolse, e una raffica di vento gelido mi fece rabbrividire. Sentii l’ululato della bufera, poi le voci attutite dei soldati all’interno della caverna. La mano di Kedar si strinse attorno all’oggetto che stava prendendo. Eravamo rientrati nel normale spazio-tempo.
— Il vento ha cambiato direzione — disse Adena. — Tra poche ore la bufera cesserà, e loro ci attaccheranno.
Tornai a concentrarmi sul presente. — Possiamo resistere?
Finché abbiamo energia. Quando le batterie saranno scariche, però… — Adena lasciò la frase in sospeso.
— Ci sono gli altri — dissi. — Ci sono altre unità nel settore, no? Non arriveranno dei rinforzi?
Adena esitò un istante, poi rispose: — Questa è l’ultima battaglia. I bruti che si stanno radunando là fuori sono gli ultimi rimasti.
— E noi? Vorresti dire che noi siamo tutto quello che rimane dell’esercito umano?
— Siamo gli ultimi umani superstiti.
— Ma… i comandanti, le navi in orbita?
Adena scosse il capo. — Non ci sono navi, né comandanti. Le trasmissioni che Marek riceve provengono da Ormazd. Non vuole che lo sappiamo, ma siamo completamente soli qui. Non avremo nessun aiuto.
— Non capisco!
Un sorriso amaro le incurvò nuovamente le labbra. — Tu non sei tenuto a capire. Ti ho già detto molte più cose di quel che voleva Ormazd.
Si staccò da me; non era più la dea adesso, ma il comandante di una squadra di soldati in trappola, sacrificabili. Restai all’imboccatura della caverna, lasciando che il vento mi frustasse, apprezzando quasi il suo morso gelido. I pensieri che mi turbinavano nella testa si rincorrevano inutilmente, mentre là fuori nella bufera il nemico era in attesa. Quel gruppetto di uomini e di donne aveva in mano le sorti del continuum. Presto sarebbe iniziata la battaglia, e il vincitore avrebbe ereditato il mondo, l’universo, l’eternità.
— Orion?
Mi girai e vidi Rena che mi osservava apprensiva.
Cercò di sorridere. — Il comandante dice che dovremmo mettere subito le armature e controllare le armi.
Annuii e la seguii nell’area dove galleggiavano le brandine. Gli altri stavano infilandosi le corazze. Presi la mia e imitai Rena: prima il tronco, poi le gambe, gli scarponi, le braccia, i guanti incredibilmente sottili, e infine la cintura. Quindi presi il casco; era dotato di un comunicatore interno e di una visiera che si abbassava fino a coprire completamente la faccia. La visiera era trasparente dall’interno, ma opaca all’esterno. Per riconoscere gli altri bisognava guardare gli stemmi sulle spalle e i nomi sulle targhette.
Dopo avere controllato le armature, Rena mi condusse accanto alle batterie che Kedar custodiva e curava con tenerezza, e caricammo gli accumulatori delle corazze. Poi ci unimmo agli altri, in fila per la distribuzione delle armi.
Sotto lo sguardo di Adena, Ogun, l’armiere corpulento e arcigno della squadra, consegnò a ogni soldato un paio di armi: un oggetto a canna lunga simile a un fucile e una pistola che si collegava alla batteria della corazza.
Quando mi fermai di fronte a lui, Ogun mi squadrò accigliato e si girò verso Adena.
— Dagli una pistola — gli ordinò lei. — Starà al cannone, con me.
La pistola era uguale a quella che mi ero ritrovato addosso quando mi ero risvegliato in mezzo alla bufera. La strinsi nella mano guantata.
— Ha una batteria autonoma — disse Rena — però secondo il regolamento bisogna collegarla alla corazza. Così aumentano la portata e la durata.
La guardai e annuii. Era strana con quella corazza e quel casco, sembrava quasi una bambina che giocasse alla guerra. Ma quello non era un gioco, come potevo vedere dalle espressioni serissime che c’erano attorno a me.
Erano soldati esperti. Una volta armati, si portarono all’ingresso della caverna e presero posizione in modo da coprirsi a vicenda e martellare nello stesso tempo la distesa di neve che saliva verso la caverna.
Rimasi in mezzo alla caverna, incerto, osservando gli altri, non sapendo cosa fare. Rena mi rivolse un sorrisetto frettoloso e raggiunse una cassa metallica su un lato della caverna. Toccò alcuni pulsanti sulla sommità, e la cassa si staccò di parecchi centimetri dal pavimento, levitando, seguendola come un cagnolino obbediente verso l’ingresso.
— Puoi aiutarmi — disse Ogun. Aveva una voce burbera, come la faccia. S’incamminò verso i recessi più interni della caverna. Lo seguii.
— Rena è l’esperta di guerra batteriologica — mi disse, senza che gli avessi chiesto nulla. — I suoi strumenti controllano che i bruti non ci lancino contro virus e microbi. Abbiamo perso un sacco di bravi ragazzi prima di accorgerci di quello che sapevano fare i bruti con quei piccoli assassini. Veleni istantanei. Roba che paralizza, che ti strappa e ti rigira le budella, che acceca, che soffoca… ne hanno di veramente eccezionali.
— Agiscono all’istante? — chiesi.
— Non fai neanche in tempo a dire bah — rispose Ogun mentre ci infilavamo in un cunicolo che si apriva nella roccia. — È per questo che bisogna tenere giù la visiera e respirare solo l’aria della corazza finché Rena non ci da il via libera. Capito?
— Signorsì.
Ogun contrasse la faccia in una smorfia che assomigliava vagamente a un sorriso. Nonostante l’aspetto e il comportamento arcigno, era un tipo a cui stava a cuore la sorte di quelli che gli stavano attorno.
— Bene; — sbuffò — eccolo. Mettiamolo in posizione.
Si trattava di un ammasso di tubi e serpentine che ricordava lontanamente un cannone. Ogun attivò i sollevatori gravitazionali, e il cannone si alzò da terra. Lo spingemmo nel passaggio buio verso l’imboccatura della caverna, e Ogun a ogni passo mi raccomandava di stare attento a non farlo sbattere contro le pareti di roccia.
— Siete sicuri che questa caverna abbia un solo ingresso? — chiesi continuando a spingere.
Ogun annuì. — Siamo rintanati qui dentro da sei giorni. Il comandante ci ha fatto esplorare centimetro per centimetro. Tutti questi cunicoli sono vicoli ciechi, a parte uno che finisce giù nell’acqua. Per poco non ci sono caduto dentro. Uno strapiombo parecchio alto. Da quella direzione non ci arriverà addosso nessuno.
Era assolutamente sicuro di quel che diceva. Ma io riflettei ugualmente sul problema, ricordando l’abilità di Ahriman nell’alterare lo spazio-tempo e la sua predilezione per l’oscurità e gli abissi.
— Forse dovremmo piazzare un sensore, là… non si sa mai — dissi. — Probabilmente hai ragione, ma se trovassero un modo per passare di là, sarebbe meglio essere avvertiti in tempo, non credi?
Avevamo raggiunto la fila di batterie verdi di Kedar. Ogun si drizzò con una smorfia e lasciò che Kedar prendesse i cavi massicci del cannone e li collegasse a due cilindri verdi.
— Io sono l’armiere, non il comandante. Io non devo pensare. Mi occupo delle armi ed eseguo gli ordini, e basta. — Ogun si stiracchiò, tendendo le braccia muscolose verso l’alto. — E poi, se quelli riescono a passare di là, siamo fregati, anche se c’è un allarme che ci avverte.
Kedar gli lanciò un’occhiata interrogativa.
— Vuole piazzare un sensore vicino al pozzo — spiegò Ogun. — Per precauzione.
Il tecnico dell’energia mi guardò, e per un attimo ebbi l’impressione di trovarmi di fronte a Dal, un Dal senza barba.
— Lo chiederò al comandante — disse. — Potrebbe essere una buona idea.
— Una buona idea — borbottò tra sé Ogun.
In tre, spingemmo il cannone all’imboccatura della caverna. I soldati avevano lasciato un’area sgombra per l’arma, e cominciarono a sistemare pezzi di roccia davanti al cannone formando un muretto protettivo. Li aiutai, mentre Ogun e Kedar controllavano il pezzo.
Mi ritrovai a spostare sassi con Marek. Eravamo un duo efficiente, anche se avevo la sensazione di essere quello che si sobbarcava la mole maggiore di lavoro. Mentre sgobbavamo, Marek sogghignò, piegando la testa in direzione di Ogun e Kedar.
— Ufficiali — mormorò.
Per poco non scoppiai a ridere. La stessa storia in tutti gli eserciti, in tutte le organizzazioni. Alcuni lavoravano coi muscoli; altri, col cervello.
E c’era sempre uno che dirigeva. Nel nostro caso, Adena.
— Il vento sta calando — ci avvisò. Era fuori, a qualche metro dall’ingresso, chiusa nella corazza e nel casco, ma con la visiera alzata.
Guardai, e vidi che non nevicava più. Nel punto in cui si trovava Adena, la neve arrivava al ginocchio, ma più in là, nel tratto non riparato dalla rupe, lo strato bianco era molto più alto. Le nubi grigie filavano svelte nel cielo, quasi avessero fretta di allontanarsi dal luogo della strage imminente.
— Presto uscirà il sole — annunciò Adena, il tono quasi allegro. — Combatteremo col sereno.
I soldati si agitarono, giocherellando con le armi. “Puro istinto,” pensai, “frutto di un addestramento spietato.”
Ogun mi spiegò rapidamente il funzionamento del cannone. Era un’arma a raggi, una specie di laser potentissimo che faceva impallidire al confronto i laser dell’impianto a fusione che avevo visto nel ventesimo secolo.
Mentre ci rannicchiavamo dietro il cannone, mi chiesi in che modo quelle persone e i loro armamenti avanzati potessero essere stati trasferiti nell’Era Glaciale. Sapevo che Ormazd era in grado di manipolare a piacimento il tempo e lo spazio. Come Ahriman. Ma, per la prima volta dal mio arrivo in quel luogo sconcertante, mi domandai come potessero esistere degli umani dotati di una tecnologia così raffinata in un’epoca che doveva coincidere col Pleistocene, cioè centomila anni prima della costruzione delle piramidi in Egitto. Nei secoli futuri, non mi risultava che ci fossero documentazioni archeologiche di un fatto simile.
E chi era il nostro nemico? Chi erano le creature contro cui lottavamo? La gente di Ahriman. Da dove venivano? Perché erano lì, sul pianeta Terra?
Erano ancora molte le cose che non sapevo, mi aveva detto Adena, E mi aveva anche detto che quando avessi saputo tutta la verità, non mi avrebbe fatto piacere.
Quel drappello di esseri umani faceva parte di un esercito che Ormazd aveva inviato nell’Era Glaciale da qualche remota era futura? Ci aveva mandato lì perché scacciassimo i bruti, gli invasori che cercavano di distruggere il genere umano? Ma Marek aveva parlato di navi in orbita. Perché i capi di questo esercito avrebbero dovuto trovarsi a bordo di navi in orbita attorno alla Terra? Perché non si trovavano nelle città o nei quartier generali dei loro paesi d’origine?
Un pensiero agghiacciante mi colpì. E se fossimo stati noi gli invasori? E se fossero stati i bruti, la gente di Ahriman, quelli che stavano difendendo la loro patria da noi.
Era un’idea dolorosa; per poco, non mi lasciai sfuggire un gemito. Ma i miei pensieri furono soffocati dalla voce di Adena che annunciava, calma:
— Innescate le armi. Arrivano.
— Giù le visiere.
All’ordine di Adena, calai la visiera trasparente facendo scattare la chiusura della flangia del collo della mia corazza.
Le nubi stavano diradandosi, e nel cielo si aprivano ampi squarci d’azzurro. La neve luccicava sotto un pallido sole, una distesa informe che si allungava a perdita d’occhio. Non una roccia, non un albero che interrompesse quell’oceano bianco.
Mi drizzai, guardando da dietro il cannone laser, studiando il campo di fronte a noi. Adena, notai, era rannicchiata appena dentro l’ingresso della caverna, gli occhi fissi sullo schermo di una scatola di metallo grigio posata sulla sporgenza rocciosa dove lei stessa si era appostata.
All’inizio non riuscii a vedere nulla, là fuori. Poi, gradualmente, cominciai a distinguere macchioline in movimento che avanzavano arrancando, lentamente, inesorabili.
— Hanno messo gli orsi all’avanguardia — ci comunicò la voce piatta, controllata, di Adena. — E ci sono animali più piccoli in avanscoperta… lupi, sembrerebbe.
Tesi lo sguardo per capire cosa stesse dicendo. E mi resi conto che le forze in marcia verso di noi erano perlopiù animali, non bruti umanoidi. Lupi grigi in testa, con volpi dal pelo argentato che scivolavano tra di loro. Più indietro, le forme caracollanti di grandi orsi, alcuni bianchi, la maggior parte bruni. Erano enormi, montagne di muscoli, e si muovevano su quattro zampe.
Aquile, falchi e uccelli più piccoli riempivano il cielo. Animali più piccoli… procioni, tassi, ghiottoni… apparvero sul manto di neve scintillante. Sembrava che la fauna di tutto il pianeta si fosse riunita per attaccarci.
Adesso, mentre entravano in un raggio di tiro alzo zero, riuscivo anche a scorgere gli umanoidi che li seguivano. Uomini dalla pelle grigia, muscolosi, vestiti di pelli animali. Tra loro, delle femmine più piccole, più snelle. Tutti impugnavano lunghe armi simili a lance.
— Pronti — ci disse Adena, in un sussurro eccitato. — Scegliete i vostri bersagli. Gli animali lasciateli al cannone.
Mi rannicchiai dietro lo scudo trasparente di plastica che si incurvava nella parte anteriore del pezzo. Il mio compito era quello di controllare l’energia utilizzata dal laser e avvisare quando il livello si abbassava pericolosamente. Anche una scimmia sarebbe stata in grado di svolgere un simile lavoro; bastava guardare gli indicatori del pannello di conversione incorporato nel quadro comandi principale del cannone.
Staccai lo sguardo dal pannello e fissai affascinato l’esercito di bestie che avanzava. Come poteva controllarle la gente di Ahriman? Mentre osservavo la scena, gli animali sembrarono esitare un attimo, poi di colpo partirono alla carica.
— Fuoco! — gridò Adena, e all’improvviso nella caverna si sentì solo il ronzio e il crepitio delle armi a energia.
Un ruggito mostruoso si levò dalla distesa ghiacciata all’esterno, e la neve immacolata si trasformò in un mare di fiamme mentre il cannone laser tracciava un arco di energia devastante, fondendo la neve, arrostendo gli animali lanciati, riempiendo l’aria di un fumo denso e fetido.
I soldati sparavano con le loro armi individuali attraverso le nubi di fumo e le fiamme. Non vedevo a cosa stessero mirando. Ma alcuni puntarono le armi verso l’alto, sparando ai falconi e agli altri uccelli che stavano tuffandosi in picchiata sull’imboccatura della caverna. Un’aquila sbatté contro il casco di un soldato, gettandolo a terra e uccidendosi per la violenza dell’impatto.
Intanto, lupi ringhianti sfrecciavano sulla neve, superando a balzi la striscia annerita disseminata di carne carbonizzata lasciata dal cannone. Quando puntavamo il cannone da una parte, gli animali ci attaccavano sull’altro lato. Gli artiglieri accorciarono la portata del raggio, arrostendo gli animali all’istante, ma altri animali continuavano a venirci addosso, sempre più vicini nonostante il fuoco di sbarramento degli altri soldati.
All’improvviso, un orso si stagliò all’imboccatura della caverna, spaventoso nella sua mole, digrignando i denti, sbavando, ritto sulle zampe posteriori. Colpì un soldato con le lame dei suoi artigli, maciullandolo, facendolo accasciare in un lago di sangue contro una parete. Quattro soldati fecero fuoco coi fucili laser, sventrando la bestia, staccandogli quasi la testa, ma l’orso continuò ad avanzare per inerzia, ruggendo di dolore, menando zampate, mandando soldati a gambe all’aria.
Senza riflettere, balzai da dietro lo scudo del cannone e mi tuffai placcando la bestia. Mi sembrò di urtare i pilastri di cemento di un grattacielo, ma l’orso perse l’equilibrio e ruzzolò sul pavimento della caverna.
Una mezza dozzina di raffiche di laser lo finirono; sentii lo sfrigolio dei raggi roventi, l’odore dei peli e della carne bruciata, poi l’ultimo rantolo d’agonia della bestia.
Non c’era tempo per le congratulazioni. Raccolsi il fucile del soldato caduto e dallo stemma sulla spalla vidi che si trattava di Rena. La visiera del suo casco era macchiata di sangue, il suo corpo straziato giaceva esanime.
— Stanno infiltrandosi lungo la parete del dirupo! — mi gridò Adena.
Superai i soldati che stavano ancora sparando contro la massa compatta di animali che avanzavano, e mi spinsi verso l’esterno abbandonando parzialmente la protezione offerta dall’imboccatura della caverna. Con la coda dell’occhio, notai che Adena stava facendo la stessa cosa sul lato opposto.
Una decina di metri davanti a me, un lupo grigio stava muovendosi rasentando la parete di roccia, in modo tale che non era possibile vederlo stando dentro né individuarlo coi sensori. Dietro il lupo, in fila indiana, un colossale orso bianco e altri lupi.
Quando mi vide, il lupo si fermò. Per un attimo ci guardammo negli occhi. Nei suoi, vidi l’intelligenza e un odio così intenso che rimasi scioccato. La bestia ringhiò e balzò per azzannarmi la gola. Premetti il grilletto e lo bruciai dal muso alla coda. Era morto quando mi colpì, e io barcollai all’indietro per l’impatto, ma non caddi. L’orso si impennò ruggendo e mi incalzò. Gli sparai in bocca, e vidi il raggio rosso del laser uscirgli dalla sommità del cranio. Mentre l’orso stramazzava ai miei piedi, feci fuoco sugli altri animali. Lupi, volpi, tassi… si sparsero in tutte le direzioni o fuggirono.
Per un attimo rimasi dov’ero, ansimando, provando un senso di trionfo. Poi mi voltai e vidi che Adena sul suo lato se la stava cavando meglio di me. Parecchi animali morti erano disseminati attorno a lei, e Adena stava falciando ad uno ad uno quelli in fuga.
L’area di fronte alla caverna era un ammasso disgustoso di carcasse carbonizzate e di ghiaccio opaco. Il laser aveva sciolto la neve, ma data l’aria polare si era subito riformato del ghiaccio.
D’un tratto mi resi conto che la battaglia era terminata. L’unico suono che si sentiva era il sibilo lieve del vento. Le nuvole erano scomparse, e il cielo cristallino era macchiato solo dalle spirali di fumo che si alzavano dai corpi bruciati delle bestie.
— Rientra nella caverna — mi ordinò negli auricolari la voce di Adena. Non potevo vederla in faccia attraverso la visiera, però dal tono avrei detto che mi stesse sorridendo.
Rientrai e sollevai la visiera. Gli altri erano attorno al cadavere di Rena o stavano controllando il cannone e le batterie.
— Ci siamo? — chiesi ad Adena. — È finita?
Lei scosse la testa. — Questo era solo il primo attacco. Stanno schierandosi di nuovo. Tra pochi minuti li riavremo addosso.
— Ma… è una strage — balbettai. — Ne abbiamo uccisi centinaia.
— Abbiamo ucciso solo degli animali — ribatté Adena. — I bruti stanno combattendo una guerra di logoramento. Mandano avanti gli animali per farci consumare energia. Poi, quando saremo a secco, allora sferreranno davvero il loro attacco.
Stentai un po’ ad assorbire il significato di quelle parole. — Intendi dire che continueranno a mandarci addosso quegli animali finché non avremo le armi scariche?
— È quello che hanno sempre fatto in passato.
— Allora che possibilità di vittoria abbiamo?
Adena sorrise, ma era un sorriso amaro, ironico. — Dipende… Bisogna vedere se esauriranno gli animali prima che noi esauriamo l’energia, o viceversa.
Probabilmente la guardai con aria poco convinta.
— Succede, Orion. La gente di Ahriman non è invincibile. Sono solo disperati quanto noi. Il loro è l’ultimo gruppo di superstiti. Se riusciremo a ucciderli, non ce ne saranno più altri che possano infastidirci.
— E se loro riusciranno a uccidere noi, invece…
Lei annuì. — Avranno vinto. Per sempre.
Stavo per ribattere, quando un soldato gridò: — Stanno arrivando ancora. Ci precipitammo ai nostri posti. Il corpo di Rena restò sul nudo pavimento di roccia all’interno della caverna. Senza che nessuno me lo dicesse, stringendo il fucile di Rena andai a piazzarmi sull’orlo dell’imboccatura del nostro rifugio, dove potevo tenere sotto tiro gli animali che avessero cercato di infiltrarsi lateralmente. Era un punto esposto, ma il nemico avrebbe dovuto avvicinarsi moltissimo per potermi aggredire, ragionai. Finche avessi avuto il fucile carico, ero discretamente al sicuro.
— Giù le visiere — ordinò Adena. Eseguii, e guardai l’orda di animali che avanzava.
Per quattro volte in quattro ore gli animali ci attaccarono. Ogni volta li respingemmo: raggi d’energia contro zanne e artigli. Nell’aria ristagnava un tanfo nauseabondo di carne e pelo che bruciavano.
Nubi nere di morte inquinavano il cielo azzurro mentre un pallido sole si spostava verso ovest cominciando a proiettare ombre sempre più lunghe sulla distesa di neve e ghiaccio cosparsa di carcasse.
Avevo tutti i muscoli indolenziti. La testa mi ronzava. Nella grande caverna si respirava un odore umidiccio di sudore e di ozono. Marek passò in mezzo a noi, consegnando a ognuno un paio di capsule gialle. Pillole alimentari, mi disse. Un concentrato nutritivo sufficiente a tenere in piedi un uomo per oltre dodici ore. Mancò poco che ridessi. A un centinaio di metri da noi, c’era tanta carne che in un mese noi sedici non saremmo riusciti a mangiarla tutta. E ci nutrivamo di capsule!
Kedar stava parlando sottovoce con Adena, il volto cupo. Notai l’espressione di lei, e mi parve di capire che mi invitasse a unirmi a loro.
— A quanti altri attacchi possiamo far fronte? — gli stava chiedendo, quando mi avvicinai.
Prima di rispondere, Kedar mi lanciò un’occhiata sospettosa. — Due, almeno. Forse tre.
Adena controllò lo schermo ancora appoggiato, un po’ inclinato, sulla sporgenza di roccia accanto all’ingresso. — Hanno ancora abbastanza animali per tre attacchi, come minimo.
— Allora non possiamo rimanere qui — dissi subito.
Kedar mi fissò accigliato. Adena disse: — Cosa proponi?
— Smettiamola di combattere contro degli animali e attacchiamo il vero nemico.
— Li invitiamo gentilmente qui alla caverna? — fece Kedar sarcastico. — O usciamo in mezzo alla neve e raggiungiamo il loro campo?
— Andiamo là — risposi. — Mandiamo fuori due o tre volontari perché penetrino nel campo nemico, e li attacchiamo sul posto.
Kedar sbuffò. — Le bestie là fuori li farebbero a pezzi prima che riuscissero ad avvicinarsi…
— No, basta che escano dalla caverna senza essere visti e che aggirino gli animali — dissi. — Potranno attaccare il nemico sul retro.
— Come faresti a uscire senza essere visto? — chiese Adena.
— Andrei subito, tenendomi a ridosso della parete della rupe fino a trovarmi oltre il fianco dell’esercito di animali. Poi mi dirigerei verso il campo nemico tagliando per la pianura.
— Ammesso che non ti vedessero, ci impiegheresti delle ore — disse Kedar.
— Lo so. Arriveremmo vicino al loro campo di notte.
— Si potrebbe partire di notte, invece, e attaccare all’alba — intervenne Adena. — Noi potremmo bombardarli col cannone dalla caverna come azione diversiva.
Kedar scosse la testa. — Di notte sono avvantaggiati. Là fuori hanno degli animali che vedono anche al buio, cosa che noi non possiamo fare.
— Abbiamo i sensori, che sono altrettanto efficaci — ribatté Adena. — E poi non attaccano mai di notte. Li sopravvaluti, Kedar. Col buio, saremo noi ad essere avvantaggiati.
— Non credo.
— Io sì — disse Adena. — Orion, proveremo il tuo piano. Vale la pena di rischiare. Sceglierò due soldati, perché vengano con noi.
— Noi?
— Vengo anch’io, con te.
— Non puoi farlo, Adena! — esclamò Kedar.
— Devo farlo. Gli altri non seguirebbero mai Orion; è un estraneo. Invece, obbediranno ai miei ordini senza discutere.
— Ma il pericolo…
— Le missioni che affido ai miei uomini sono missioni alle quali sono sempre pronta a partecipare di persona — disse Adena. — Sempre.
Dal fuoco che le brillava negli occhi si capiva che sarebbe stato inutile cercare di dissuaderla. E, a dire il vero, ero contento di averla al mio fianco.
— Ma… e noi altri? — C’era una nota di paura nella voce di Kedar.
— Assumerai tu il comando, qui — rispose Adena. — Iniziate a martellare gli animali alle prime luci dell’alba. Entro allora dovremmo essere in posizione per attaccare il campo dei bruti.
— E se non foste in posizione?
Adena sorrise. — Non avrà importanza. Se non saremo pronti ad attaccarli entro l’alba, vorrà dire che saremo già morti.
Non scoprimmo mai se il mio piano avrebbe funzionato. I bruti ci attaccarono prima che potessimo attuarlo.
Adena scelse i due soldati che avrebbero dovuto venire con noi: Ogun, l’armiere massiccio dall’espressione perennemente torva, e Lissa, una splendida donna bruna, alta, atletica, specialista in esplosivi.
— Se sorprendiamo i bruti nel sonno — spiegò Adena — Lissa con le sue bombe potrà distruggerli in un sol colpo.
Il sole era calato dietro la rupe in cui si apriva la nostra caverna, avvolgendo in un’oscurità sempre più fitta il campo di battaglia annerito e il carnaio di fronte a noi. Adena ordinò al nostro gruppetto di dormire, dal momento che ci saremmo messi in marcia non appena la notte fosse scesa completamente sulla zona.
Non ho mai avuto bisogno di molto sonno, comunque ordinai al mio corpo di rilassarsi, mi stesi sulla brandina galleggiante, chiusi gli occhi e nel giro di pochi minuti mi appisolai.
Non ricordo di aver sognato. So solo che fui svegliato da uno strano odore dolciastro che mi solleticava le narici e mi dava una sensazione di soffocamento. Aprendo gli occhi, cercai di drizzarmi a sedere. La branda oscillò sotto di me e scivolai pesantemente sul pavimento.
Adena dormiva sulla branda accanto alla mia, le braccia e le gambe afflosciate, la testa girata nella mia direzione, fin troppo rilassata. Cominciai ad ansimare, a tossicchiare per quell’odore nauseante; era come avere la testa infilata in una macchia di fiori tropicali.
Mi alzai barcollando, e vidi che tutti i soldati dormivano. Non c’era nessuno di guardia. Gas! mi resi conto. Chissà come, stavano riempiendo la caverna di gas, un gas che aveva fatto perdere i sensi a tutti quanti. L’unico suono nella caverna era il lieve ronzio delle batterie, che tenevano in funzione l’impianto di illuminazione.
Traballando, tossendo, superai i corpi dei soldati caduti e mi spinsi oltre l’imboccatura della caverna, all’aria aperta. Era notte fonda, le stelle brillavano fredde su quel panorama gelido. Mi riempii i polmoni una volta, due, e la mia testa cominciò a schiarirsi.
“Probabilmente si preparano ad attaccarci,” pensai. “A meno che non si tratti di un gas letale.”
Tornai nella caverna e, trattenendo il respiro, corsi alla mia branda, sotto cui era posato il mio casco. Lo infilai, calai la visiera, e premetti il pulsante che attivava il sistema di mantenimento autonomo dell’armatura. Una minuscola ventola si accese ronzando, e sentii dell’aria pura che mi soffiava in faccia. Ripresi a respirare.
Svelto, tenendo d’occhio l’ingresso della caverna, infilai il casco ad Adena e attivai la sua armatura. Poi andai all’imboccatura del rifugio, restando di guardia.
— Cos’è successo? — La voce di Adena mi giunse attraverso gli auricolari, incerta, confusa.
Girandomi verso di lei, cominciai a spiegare. Ma dalle ombre in fondo alla caverna vidi sbucare un bruto che puntava un’asta appuntita di cristallo alla schiena di Adena.
— Attenta! — gridai, afferrando la pistola che portavo al fianco. Adena si chinò istintivamente, mentre il bruto le si avventava contro. Sparai e lo centrai in faccia. Stramazzò, urlando, e la verga di cristallo si infranse sul pavimento.
Non c’era tempo per altre spiegazioni. Altri nemici stavano arrivando di corsa dal retro della caverna. Adena imbracciò un fucile e li abbatté, mentre io la coprivo con la pistola. L’attacco mi sembrò protrarsi per ore, invece durò solo pochi minuti. D’un tratto gli aggressori si dileguarono nell’oscurità. Quattro dei loro giacevano morti ai nostri piedi.
— Hanno trovato un passaggio per penetrare nella caverna da dietro — dissi, regolando con la volontà il ritmo del respiro e del battito cardiaco.
— O ne hanno aperto uno — annuì Adena. — Non ci resta molto tempo. Torneranno.
Mi sentivo in trappola. E battuto in astuzia. Adesso i bruti ci avevano circondato; la nostra caverna non era più un rifugio, era una cella angusta, opprimente, fatta di pietra, in cui non potevamo muoverci, da cui non potevano fuggire. Avevo la sensazione che le pareti stessero già stringendosi per schiacciarmi. Le mani cominciarono a tremarmi.
Ma non era la paura a scuotermi. Era la rabbia. Guardando le nude pareti di roccia della caverna, rendendomi conto che avrebbe potuto diventare una grossa bara per tutti noi, fui assalito da una furia intensa. Ero furioso con me stesso. Come avevo potuto essere così stupido? La camera sotterranea che Ahriman aveva creato nel ventesimo secolo, l’oscuro tempio di pietra che aveva costruito a Karakorum, la caverna in cui si era rintanato nel Neolitico… le caverne e le tenebre erano il suo ambiente, la sua fonte di energia. Perché non me n’ero accorto prima? Perché avevo lasciato che quei poveri soldati rimanessero chiusi in quella trappola? Che sprovveduto, ero stato!
Mentre mi rimproveravo, aiutai Adena a far rinvenire gli altri. Lei raccontò in modo conciso cosa fosse successo.
— Credevano di trovarci tutti svenuti, di poterci uccidere facilmente. Adesso sanno che non è così. Da un istante all’altro, ci attaccheranno su due fronti opposti. I sensori all’ingresso mostravano chiaramente un concentramento di animali all’esterno. Adena tenne il cannone puntato in quella direzione.
— Orion — ordinò — tu, Ogun e Lissa dovete coprire il retro della caverna. Cercate di scoprire da dove arriva il nemico. A quanto pare, non possono far passare molti dei loro contemporaneamente. Se voi tre non riuscite a tenerli a bada, chiedete aiuto.
Non vedevo la faccia di Ogun dietro la visiera, ma immaginai facilmente la sua smorfia arcigna. Lissa aveva con sé una cassa di bombe, legata alla vita, che galleggiava sul suo disco antigravità a pochi centimetri dal suolo.
— Posso fornire una gamma vastissima di potenza esplosiva… da un’esplosione tipo bomba a mano, fino a uno scoppio misurabile in kiloton — spiegò Lissa, la voce quasi allegra.
— Mi sembra uno spazio un po’ troppo ristretto per usare degli esplosivi — osservai, mentre ci addentravamo nel cunicolo sempre più stretto della caverna.
— Già, credo che tu abbia ragione — disse Lissa, avvilita.
Lasciandoci alle spalle i cadaveri dei bruti, controllammo il cunicolo di roccia alla luce dei faretti dei nostri caschi. Ben presto, lo spazio diventò troppo angusto perché potessimo procedere affiancati. Ogun passò in testa; io lo seguii, con Lissa dietro di me di qualche passo.
— Abbiamo controllato quest’area la prima volta che siamo venuti in questa caverna — borbottò Ogun. — Non c’è nessun…
— Cosa c’è?
Ogun si era fermato di colpo. Guardai oltre le sue spalle e vidi un’apertura nel pavimento del cunicolo di fronte a lui.
— Questo non c’era, ieri — mormorò. Si inginocchiò e raccolse una manciata di frammenti di roccia. — Questo buco è nuovo. Devono averlo scavato mentre eravamo attaccati.
— Perché non hanno messo nessuno a sorvegliare il pozzo? — fece Lissa. — L’hanno abbandonato così?
Guardai nel foro. La luce dei caschi fu inghiottita da un baratro che sembrava senza fondo.
— Torneranno — disse Ogun. — Quando saranno pronti ad attaccare ancora, piomberanno in massa attraverso questo passaggio.
Quel pozzo però aveva qualcosa che non mi convinceva. Lissa aveva ragione; se quello era il loro punto di transito per attaccarci alle spalle, perché l’avevano abbandonato?
— Torniamo indietro — dissi.
— Indietro? Perché? — chiese Ogun perplesso.
— Posso piazzare un congegno esplosivo — suggerì Lissa. — Se cercheranno di servirsi di nuovo del pozzo finiranno a brandelli.
— Non riuscivo a capire come mai fosse tanto felice quando parlava di far saltare in aria della gente.
— È un tranello — dissi, sorpreso quanto loro nel sentire quelle parole che mi uscivano dalla bocca. — È una finta. Possono anche avere usato questo pozzo prima, ma adesso probabilmente ne stanno scavando un altro, tra questo e la camera principale della caverna.
— Così ci taglieranno fuori — disse Ogun.
— E sorprenderanno gli altri alle spalle — aggiunse Lissa.
Annuii, poi ricordai che non potevano vedere attraverso la visiera. — Presto, svelti!
Ci affrettammo a tornare nel punto dove giacevano i corpi dei bruti uccisi. Lì, con le luci e i movimenti degli altri soldati alle nostre spalle, mi tolsi il casco e premetti l’orecchio contro la parete di roccia. Sì, sentivo dei tonfi, degli scricchiolii. Qualcuno stava scavando.
Adena ci vide e si avvicinò, chiedendoci come mai non ci trovassimo in fondo alla caverna, come ci aveva ordinato.
Le spiegai: — Stanno scavando un altro passaggio per entrare. Attaccheranno non appena sfondato l’ultimo diaframma di roccia.
Adena sembrava scettica, così la invitai ad ascoltare i rumori dei bruti al lavoro. Dopo di che, annuì.
— Saremo pronti a riceverli — disse, l’espressione feroce.
L’attesa fu la parte più difficile. I sensori all’ingresso continuavano a mostrare 1 ammassamento di animali nonostante il buio notturno. Marek fissò dei sensori sismici alle pareti della caverna, e le loro luci lampeggianti ci indicarono ogni colpo dei bruti contro la roccia. Man mano che il nemico si avvicinava, i sensori cominciarono a triangolare la sua posizione. Ben presto, individuarono il punto in cui i bruti avrebbero sfondato. Però non sapevamo quando.
Restammo con le visiere abbassate, stringendo le armi, aspettando.
I nervi erano tesi. Le dita tamburellavano sui calci o giocherellavano con qualche parte dell’equipaggiamento. Fissai la parete di roccia, cercando di penetrarla con lo sguardo, di vedere il nemico che lavorava pazientemente, accanitamente, per raggiungerci. “Devono odiarci moltissimo”, pensai. “Stanno concentrando su di noi tutta la loro forza e il loro odio… contro sedici persone, tra uomini e donne, persone sole, abbandonate, prigioniere di un’epoca e di luoghi remoti, in attesa di uno scontro che potrà concludersi solo con lo sterminio di una delle due fazioni in lotta.”
Le luci dei sensori si spensero. Avevano smesso di scavare, pensai. Perché?
— Arrivano! — gridò qualcuno all’imboccatura della caverna. Inavvertitamente, mi girai in quella direzione…
La parete di fronte a me esplose, facendoci ruzzolare a terra. Mi drizzai, impugnando ancora il fucile, e vidi una mezza dozzina di bruti che si scagliavano addosso a noi tra il fumo e i detriti. Erano grossi, poderosi, le loro facce larghe dagli occhi rossi erano maschere ringhianti; brandivano le loro aste di cristallo.
Sparai a bruciapelo. Il raggio del fucile falciò i primi due, ma per lo slancio mi finirono addosso; mentre cadevano, mi drizzai ancora su un ginocchio e sparai. Anche Ogun aveva aperto il fuoco, però uno dei bruti lo raggiunse con l’asta di cristallo; gli sfiorò appena il casco, ma si sprigionò una pioggia di scintille, e sentii negli auricolari il grido di Ogun. Il suo corpo ebbe degli spasmi, si inarcò, poi stramazzò senza vita.
Mi chinai per schivare l’asta puntata addosso a me e premetti la canna del fucile contro l’addome del bruto, schiacciando il grilletto. Il suo corpo avvampò, e con urla agghiaccianti l’aggressore rimbalzò indietro, travolgendo quelli alle sue spalle.
Lissa intanto si era riavuta dallo shock e stava sparando sui bruti che si riversavano dal tunnel appena scavato. Persi il conto di quanti fossero; sparavamo e ci scansavamo e riprendevamo a sparare, uccidendoli a destra e a sinistra, finché i loro corpi non ostruirono lo squarcio aperto nella roccia.
Lissa balzò su quella barricata di carne e lanciò una bomba nel tunnel. L’esplosione fece tremare tutta la caverna… dei sassi si staccarono dal soffitto, l’area era piena di fumo.
Indietreggiai barcollando di qualche passo, e mi voltai verso l’ingresso. Un enorme orso bruno ritto sulle zampe posteriori stava cercando di artigliare i soldati che lo circondavano come tanti nani. Una decina di raffiche lo colpirono, ma l’orso continuava ad avanzare, mentre i soldati arretravano. Dietro l’orso, vidi dei lupi e dei grandi felini dai denti a sciabola.
Il cannone scaricò il suo micidiale raggio rosso sul torace della bestia, tagliandolo in due tronconi. Sangue, brandelli di carne e frammenti ossei piovvero sul pavimento già viscido; i soldati allora cominciarono a prendere di mira gli altri animali.
Tornai a girarmi nella direzione che stavamo difendendo. Lissa stava innescando delle cariche, seduta a terra con le spalle rivolte al cumulo di cadaveri.
Mi avvicinai a lei, scrutando nell’oscurità del tunnel.
— Sembra che da qui non stia più arrivando nessuno — dissi.
Intuii che lei annuiva dentro il casco. — Questo sigillerà il cunicolo — annunciò, alzando con entrambe le mani una serie di bombe che aveva collegato assieme. — Poi potremo chiudere anche l’altro buco.
Mi dichiarai d’accordo. Lissa lasciò cadere l’ordigno nel tunnel, poi ci appiattimmo contro la parete mentre lei contava alla rovescia cinque secondi. Per poco lo scoppio non mi gettò a terra, ma quando il fumo si fu diradato Lissa illuminò il tunnel col casco e rise.
— Ci impiegheranno parecchio a scavare là dentro, adesso — disse esultante.
In pochi minuti, bloccò anche l’altro passaggio, e ci unimmo agli altri sull’unico fronte rimasto.
Ondate continue di animali ci attaccarono, e noi continuammo a respingerle. Enormi orsi feroci, lupi e altri canidi più piccoli, puma… Ne uccidemmo decine, centinaia. L’oscurità notturna era illuminata dai bagliori delle nostre armi; perfino le stelle svanirono dal cielo nel chiarore rosso-sangue dei nostri raggi letali. Attraverso l’imbottitura del mio casco e gli auricolari sentivo le urla, gli ululati, i ruggiti di dolore e di rabbia degli animali spinti ad avanzare dai poteri diabolici di Ahriman per poi venire massacrati dai nostri fasci d’energia.
In lontananza, distinguibili a stento in un tremolio di ombre, di tanto in tanto scorgevo qualche bruto muoversi furtivamente tra i poveri animali che comandava. Ma i bruti non si avvicinavano mai abbastanza da rischiare di farsi uccidere; si tenevano a distanza di sicurezza, come se sapessero che avrebbero fatto la stessa fine dei loro compagni che avevano cercato di sorprenderci da dietro.
Nella mente sentivo una voce che li chiamava, li sfidava: Venite ad affrontarci da soli! Lasciate in pace quelle povere bestie, e combattete di persona. Venite anche voi incontro alla morte, invece di mandare gli altri al macello.
Ma loro non si avvicinavano, restavano nell’ombra.
Dopo lunghe ore di lotta, mi accorsi che il cannone taceva. Le luci nella caverna erano spente; ormai combattevamo nel riflesso delle armi e dei faretti dei nostri caschi. A un certo punto, il mio fucile si scaricò, e cominciai a usare la pistola.
Mentre l’alba tingeva il cielo di un rosa smorto, l’attacco cessò. Il terreno di fronte alla caverna, un tempo una distesa immacolata di neve, offriva uno spettacolo raccapricciante di resti anneriti e sanguinolenti, di membra recise, corpi squarciati, brandelli irriconoscibili.
Mi guardai attorno. Quattro soldati erano a terra, i caschi e le corazze a pezzi, i corpi insanguinati. Contando Ogun, avevamo perso cinque soldati. Eravamo rimasti in undici, e c’erano tre feriti, compreso Kedar. Un orso gli aveva spezzato una gamba lanciandosi nella caverna e riuscendo quasi ad arrivare alle batterie.
Lissa e parecchi altri cominciarono a occuparsi dei feriti. Io mi accostai ad Adena, che stava osservando il campo di battaglia con un potente binocolo elettronico.
— Se ne vanno — disse, come se sapesse che ero vicino a lei. — I bruti stanno ripiegando a sud.
— Abbiamo vinto — dissi.
Adena mi porse il binocolo. — No, finché non li avremo uccisi tutti.
Guardai verso sud. Attraverso gli obiettivi vidi otto creature simili ad Ahriman che si muovevano nella neve. Non c’erano animali con loro. C’erano solo le tracce di quegli otto.
— Ci hanno scagliato contro tutto quello che avevano — dissi. — E noi li abbiamo respinti. Abbiamo vinto.
La visiera di Adena era alzata, e il suo volto aveva un’espressione estremamente risoluta. — No. Può darsi che abbiamo vinto questa battaglia, ma la guerra non è ancora finita. Doppiamo sterminarli.
— Quegli otto…
Lei annuì. — Quegli ultimi otto devono essere uccisi. Dobbiamo inseguirli.
— Ordine di Ormazd? — chiesi.
— Sono i miei ordini, Orion — rispose Adena, piegando le labbra in un sorriso incerto. — Non si può fare diversamente.
Kedar e i feriti rimasero nella caverna. Noi altri iniziammo subito l’inseguimento, senza fermarci a riposare. Inghiottimmo delle capsule nutritive mentre arrancavamo nella neve alta seguendo le orme dei bruti sotto un cielo limpido. L’aria era fredda, ma di una purezza deliziosa, e non c’era vento.
— Otto contro otto — dissi, marciando affiancato ad Adena. — Ormazd organizza tutto con la massima accuratezza.
Mi guardò, e i suoi occhi profondamente grigi scintillarono nel riflesso del sole su quella distesa candida.
— Orion, non devi credere che Ormazd stia facendo tutto questo per divertirsi — mi disse. — Stiamo lottando per la sorte dell’universo, per la conservazione del continuum.
— Dando la caccia a un gruppetto di gente…
— La gente di Ahriman — mi corresse Adena. — I nostri nemici.
— Che come arma più potente hanno una specie di asta elettrostatica, mentre noi usiamo laser capaci di abbatterli a un chilometro di distanza.
— Pensi che sarebbe più corretto un combattimento corpo a corpo? — Adena sembrava quasi divertita. — Presto le batterie che ci riscaldano e alimentano le nostre armi si esauriranno. Le batterie generali nella caverna sono completamente scariche. Sì, tra non molto sarà una lotta corpo a corpo, Orion. Sei contento?
Dovevo ammettere che non ero affatto contento. Anzi preoccupato.
— Devono essere sterminati — proseguì Adena, l’espressione di nuovo seria. — Fino all’ultimo, compreso Ahriman. Soprattutto Ahriman. Capisci, vero?
Annuii, riluttante. — Capisco che Ormazd lo vuole. Capisco che Ahriman vuole sterminarci. Però, non mi piace.
Mi lanciò una strana occhiata, quasi di compatimento. — Orion… non siamo qui per fare cose che ci piacciano. Facciamo quello che è necessario. Non abbiamo scelta.
Fui sul punto di ribattere, poi preferii star zitto.
Continuammo a seguire le tracce nemiche. Il sole brillava vivido in un cielo d’un azzurro perfetto, ma non scaldava molto. Adena e io guidavamo la nostra piccola colonna verso sud. Dopo ore di marcia, in cui non feci altro che muovere i piedi meccanicamente e osservare il fiato che mi si condensava davanti agli occhi, vidi all’orizzonte una foresta di pini giganteschi, una striscia di verde intenso che creava un gradito contrasto in quel mondo di bianco ininterrotto.
Le tracce dei bruti portavano proprio là, al che cominciai a chiedermi cosa potesse attenderci nelle ombre di quella foresta a noi completamente ignota.
— È un posto ottimo per un’imboscata — osservai.
Adena annuì. — Ma come hai detto, abbiamo armi più potenti delle loro; le nostre pistole laser colpiscono sempre. Se saranno così sciocchi da attaccarci, ci faranno un favore.
— Ci manderanno addosso altri animali. In quella foresta ci saranno senza dubbio dei lupi e altre bestie feroci.
— Cosa dovremmo fare, secondo te?
— Aggiriamo la foresta. Se sono là dentro che ci aspettano, possiamo farli uscire allo scoperto.
— Però, se non ci sono, perderemo almeno mezza giornata di marcia.
— Ha importanza?
— Non dobbiamo lasciarceli sfuggire.
— Se andiamo in quella foresta cadremo in un’imboscata e probabilmente saremo uccisi.
— Non importa…
— Forse non è importante per te — dissi — e magari neppure per me. Ma loro? — Indicai con un cenno gli altri soldati. — Può darsi che non abbiano tante vite come noi. La morte per loro è qualcosa di reale, e permanente.
Adena parve turbata. — Me n’ero dimenticata.
— Se dobbiamo sterminare il nemico fino all’ultimo individuo, cerchiamo almeno di proteggere la vita dei nostri.
— Oh, ma tu non capisci, Orion…
— Non mi interessa — replicai sottovoce, ma con estrema fermezza. — Questi uomini e queste donne sono stati strappati dalla loro epoca, staccati dalle loro famiglie, e gettati in quest’era remota di gelo e ghiaccio per eseguire gli ordini di Ormazd…
— Per fare quello che era necessario fare — ribatté Adena. — Per salvare l’umanità dal peggiore dei mali, dall’estinzione.
— Be’, indipendentemente dal motivo, queste persone hanno il diritto di uscirne vive se possibile. Non dovrebbero essere buttate via come una manciata di pedine.
— Ma è proprio questo che sono! Non capisci? Sono pedine. Sono state create per essere delle pedine.
— Sono esseri umani, con un’esistenza propria, preziosa per loro, le loro famiglie, gli amici…
— No, Orion, sbagli. Non capisci. — Adena mi fissò con aria triste.
— Allora parla, spiegami.
Per parecchi secondi lei non disse nulla, e continuammo ad avanzare a fatica nella neve, sempre più vicini alla massa cupa e sinistra della foresta.
— Ho paura — disse infine Adena. — Se ti dirò tutta la verità mi odierai.
— Odiarti, io? — eruppi, scioccato. — Come potrei? Ho superato la morte tre volte per trovarti, per stare con te.
Lei abbassò gli occhi. — Orion, siamo tutti pedine di un gioco. Abbiamo tutti un ruolo stabilito.
— E il grande giocatore è Ormazd — dissi.
— No. Non è così semplice. Anche Ormazd ha un ruolo, come me, e te. — Adena esitò, quindi aggiunse mormorando: — E come queste… pedine che marciano con noi.
— Non sei una pedina — dissi.
— Nemmeno tu — ribatté Adena con un sorriso triste, rassegnato. — Tu sei un cavallo. Io un alfiere, forse.
— Una regina.
— Non sono così potente.
— La mia regina — insistei. Poi mi resi conto. — E Ormazd è il re. Se viene ucciso…
— Moriamo tutti. Per sempre. Il gioco finisce.
— Dunque, la situazione è questa…
— Sì.
— E questi uomini e queste donne con noi?
— Come ho detto, sono pedine. Sono stati creati per questo scopo, non ne hanno nessun altro. — Adena, aveva un’aria stanca, abbattuta. — Hai parlato di separazione dalla loro epoca, dalle loro famiglie, dai loro amici. Orion, non hanno famiglia! Non hanno amici! Per loro esiste solo questa epoca. Ormazd li ha creati apposta perché sterminassero la gente di Ahriman, e basta.
Era come se lo avessi saputo fin dall’inizio. La verità non mi sorprese. Provai invece un terribile vuoto interiore, un vuoto profondo come l’abisso dell’inferno.
Mi girai a guardare quei poveracci che marciavano in quel pomeriggio dell’Era Glaciale senza lamentarsi, eseguendo gli ordini di Adena, avvicinandosi sempre più alla morte… la loro morte o quella del nemico. E sembrava che non gli importasse se a morire sarebbero stati loro o gli altri.
Lissa mi sorrise. Sulle spalle aveva uno zaino pieno di bombe e altri congegni esplosivi. Ripensai al suo atteggiamento disinvolto e smanioso appena prima che iniziasse la battaglia nella caverna. Ripensai alla frenesia omicida del clan di Dal la notte dell’attacco. Alla spietata efficienza dei mongoli che spazzavano via l’esercito di Bela. Ripensai perfino alla folla di dimostranti di fronte all’impianto a fusione nel Michigan, così inclini alla violenza.
— Sì — disse Adena, quasi mi avesse letto nel pensiero. — Sono stati programmati con la violenza.
— Sono macchine, allora? Robot?
Scuotendo leggermente la testa, rispose: — Sono fatti di carne e di sangue, come te. Ma sono stati creati da Ormazd e le loro menti sono state programmate per questa missione di sterminio.
— Come me — mi resi conto.
— Adesso sai la verità — sussurrò Adena, gli occhi colmi di rammarico.
— Sono stato creato da Ormazd per uccidere Ahriman… e per nessun’altra ragione.
— Sì.
— Ecco perché non riuscivo a ricordare il passato, nel ventesimo secolo. Non avevo nessun passato. Sono una marionetta, e Ormazd dirige tutti i miei movimenti.
Il vuoto che provavo interiormente si estese, abbracciando tutto l’universo. Ero una macchina! Eravamo tutti macchine, fatte di molecole organiche a DNA, di ossa e nervi… ma sempre macchine, programmate per ubbidire a Ormazd: fantocci, marionette, assassini comandati a distanza.
— Orion. — Percepii in modo vago la voce di Adena che mi chiamava, riportandomi al presente, a quella parte dell’enorme scacchiera che Ormazd controllava.
— Orion… Sei stato creato per servire Ormazd, però ti sei sviluppato andando al di là dello scopo per cui Ormazd ti aveva creato.
— Davvero? — dissi con voce spenta, stanca. — Allora se non sono qui per scattare ogni volta che Ormazd decide di farmi muovere, perché mi trovo qui?
Adena sorrise e il suo bel volto si illuminò. — Ah, credevo che fossi qui per cercarmi. È questo che mi hai detto.
— Adesso mi stai prendendo in giro.
— Niente affatto — ribatté lei, seria. — Sei stato creato per un unico scopo, è vero. Però fin dall’inizio hai agito dimostrando una notevole indipendenza. Sei un essere umano, Orion. Perfettamente umano, come Socrate o Einstein o Ogotai Khan.
— Com’è possibile che lo sia?
— Lo sei. Come potrei amarti, se non lo fossi?
La fissai a lungo, mentre avanzavamo verso la barriera di conifere simile ai bastioni di una fortezza.
— Mi ami davvero — dissi.
— Abbastanza da diventare umana — rispose Adena. — Abbastanza da dividere con te la tua vita, il tuo destino, la tua morte.
— E io ti amo. Ho continuato ad amarti attraverso i millenni, la morte, la resurrezione.
Adena annuì felice, gli occhi di colpo velati.
— Ma dobbiamo affrontare la morte di nuovo, vero? — dissi.
— Sì, ma la affronteremo insieme.
— E questi altri?
Adena si rabbuiò ancora. — Orion, sono pedine. Non hanno un passato. Sono solo capaci di combattere.
— Anche le pedine hanno diritto alla sopravvivenza — insistei.
— Noi dobbiamo pensare a sterminare Ahriman e la sua razza. È il nostro solo obiettivo. Se falliremo, moriremo per sempre. Significherà il nulla e l’oblio per tutti noi.
Sapevo che era la verità, però non potevo accettarla.
Adena si arrestò di colpo e mi prese le spalle. Gli altri si fermarono rispettosamente a qualche passo da noi due.
— Orion, se mi ami, devi essere disposto a sacrificare queste pedine — mormorò Adena risoluta.
Fissai quegli occhi grigi a lungo, poi con uno sforzo distolsi lo sguardo, spostandolo verso la foresta scura che ci aspettava, verso i soldati che ci seguivano. Erano immobili, tranquilli, in attesa del prossimo ordine, le armi a tracolla.
— Non voglio che muoiano — disse Adena, il tono quasi implorante. — Forse non sarà necessario che muoiano. Ma se indugiamo troppo, Ahriman e i suoi compagni fuggiranno.
— Se ci addentriamo tra quegli alberi finiremo in un’imboscata.
— Ma questo non significa che rimarremo uccisi tutti. Le nostre armi sono superiori alle loro.
— Finché durano.
— Dobbiamo essere pronti a questo sacrificio — ribatté Adena. — Tu rischi la tua vita, io la mia. Perché gli altri dovrebbero ricevere un trattamento di favore?
— Perché non capiscono cosa ci sia in gioco.
Adena guardò il sole calante. Gli alberi proiettavano già lunghe ombre verso di noi, simili a dita che volessero afferrarci la gola.
— Controllate le armi — ordinò ai soldati. — Entriamo nella foresta. Probabilmente, i bruti saranno in agguato. Occhi aperti.
I soldati annuirono, cominciando a verificare armi e batterie. Un minuto dopo, avevamo ripreso a marciare, senza che ci fosse stata la minima protesta, la minima esitazione. Anzi, i soldati sembravano contenti di accingersi a scontrarsi col nemico.
Non c’era nulla che potessi fare. Non dovevo far nulla, continuai a ripetermi… a parte proseguire e trovare Ahriman. Ma una voce nella mente mi stava dicendo che la vita non era fatta solo di cacce e uccisioni, che c’era dell’altro, molto di più.
Ma che importanza aveva? Adena aveva ragione, eravamo tutti pezzi di un gioco cosmico, avevamo tutti un ruolo, un compito da svolgere. Restai accanto a lei, stringendo la pistola, scrutando negli spazi scuri tra gli alberi mentre la foresta inghiottiva il nostro sparuto drappello di guerrieri.
Gli uccelli lanciavano i loro richiami. Animaletti pelosi squittivano e si arrampicavano sui rami più alti, quasi avvertissero il pericolo attorno a noi. La luce del sole filtrava debole, a chiazze. Più avanzavamo, più il freddo e il silenzio aumentavano.
Il terreno sotto il folto degli alberi era appena infarinato di neve qui e là, ma le orme dei bruti spiccavano ancora in modo chiaro, come se ci avessero lasciato apposta una pista da seguire.
Uno scoiattolo, lo scoiattolo più grosso che avessi mai visto, ci rivolse degli squittii rabbiosi mentre ci avvicinavamo al suo albero. Poi vedendo che non cambiavamo direzione, risalì svelto il tronco e andò a nascondersi nella sua tana aerea.
Fu allora che scorsi una forma scura muoversi tra i rami, una forma di dimensioni umane.
Toccai il braccio di Adena. — Sono sugli alberi — mormorai.
Fece appena in tempo a guardare prima che attaccassero. Dai rami balzarono dei puma, le zanne enormi e luccicanti. Adena non ebbe nemmeno il tempo di lanciare un ordine, ma i soldati automaticamente formarono un cerchio cominciando a sparare. Un felino atterrò ringhiando in mezzo a noi, e io gli feci esplodere il cranio con una raffica di pistola.
— Lupi! — gridò qualcuno.
Arrivarono a balzi tra gli alberi, gli occhi che sprigionavano bagliori malefici mentre si scagliavano contro di noi. Ne abbattemmo decine e decine.
Mentre lottavamo contro quell’orda di bestie assetate di sangue, io continuai a tener d’occhio i pini. I felini dai denti a sciabola giacevano morti in mezzo a noi, e i corpi dei lupi delimitavano il nostro minuscolo perimetro difensivo. Ma io stavo cercando con ansia Ahriman e i suoi. Erano lassù, tra i rami, ne ero certo, e aspettavano che le nostre armi fossero scariche. Quattro soldati avevano già lasciato cadere i fucili e stavano usando le pistole, che erano alimentate dalle batterie delle nostre corazze.
Chiamai Lissa. — Dammi qualche bomba!
Anche lei stava osservando i rami, pronta a uccidere altri felini. I lupi momentaneamente stavano ritirandosi nell’oscurità della foresta, per prepararsi a tornare alla carica più rabbiosi di prima.
— Che tipo di bomba vuoi? — mi domando Lissa, allegra come sempre. — A onda d’urto, a frammentazione, a gas…
— A onda d’urto — risposi.
Me ne passò quattro, spiegandomi come regolare il congegno a tempo del detonatore. Presi una bomba, regolai il timer su cinque secondi, quindi la scagliai in alto, tra gli alberi di fronte a me.
Non fu un’esplosione forte come mi aspettavo, comunque ci arrivò addosso una pioggia di neve e rami spezzati. Adena drizzò il capo di scatto.
— Cosa stai…
La zittii alzando una mano. Un grido di dolore echeggiò tra i pini, e non era il lamento di un animale.
— Sono lassù! — si rese conto Adena.
Mentre prendevo un’altra bomba, i bruti ci attaccarono, uscendo dai loro nascondigli di rami appesi a lunghe corde sottili e oscillando verso di noi puntando quelle strane lance di cristallo.
Sparammo mentre ci piombavano addosso, ma portavano delle corazze luccicanti di cristallo che deviavano i nostri raggi laser neutralizzandoli. Con la coda dell’occhio, notai che i due soldati che impugnavano ancora il fucile furono i primi a essere sommersi dai bruti. Feci fuoco, ma il raggio della mia pistola non riuscì a penetrare nelle loro corazze.
Le loro lance elettrostatiche invece erano di un’efficacia mortale. I nostri due soldati caddero sotto una pioggia di scintille azzurrognole, dopo di che gli aggressori si rivolsero a noi.
Lissa si gettò contro quattro bruti stringendo in mano delle bombe innescate. Due deflagrazioni ravvicinate li ridussero a brandelli, atterrando anche noi altri. Intontito, mi drizzai in ginocchio, scagliai la mia pistola inutile in faccia al bruto più vicino e lo feci cadere sgambettandolo con un calcio. Afferrai la sua asta e gliela premetti sul collo, dove non era protetto dalla corazza trasparente. Urlò, e morì percorso da una scarica elettrica impressionante.
Adena, appoggiata su un ginocchio, mirò con freddezza centrando un nemico in testa, mentre altri due si precipitavano verso di lei. Si girò leggermente e sparò a uno di loro, che però alzò l’avambraccio corazzato davanti alla faccia deviando il colpo. Poi la pistola di Adena tacque, scarica.
Balzai addosso ai due bruti, facendoli ruzzolare a terra lontano da Adena.
Mi guardarono ringhiando, brandendo le aste. Schivai il primo affondo di quello più vicino, e tramortii l’altro calandogli in testa l’estremità dell’asta. Poi mentre lo uccidevo con una scarica elettrica, qualcuno decapitò il primo aggressore con una raffica di pistola.
Tutt’a un tratto il combattimento terminò. A terra morti, quattro dei nostri, e sette bruti.
— Uno è scappato — disse Adena.
— Ahriman. — Lo sapevo, lo intuivo.
— Dobbiamo trovarlo. Non deve sfuggirci.
— Gli andrò dietro — dissi.
— No — ribatté Adena. — Ci andremo tutti.
Per due giorni seguimmo le tracce di Ahriman in direzione sud, finché un’altra bufera oscurò il cielo e cominciò a sferzarci con raffiche di neve spinte da un vento violentissimo.
Il più in fretta possibile, guidai di nuovo il gruppetto nella foresta di pini che offriva un riparo relativo. Le nostre batterie stavano esaurendosi. Avevamo solo una manciata di capsule nutritive. Se fossimo rimasti in mezzo alla bufera saremmo morti di fame e assiderati.
Insegnai ai superstiti a costruire una tettoia di rami e a fare un falò. Usammo gli ultimi erg di energia delle pistole per tagliare i rami e accendere il fuoco. Quando anche l’ultima batteria fu scarica, il nostro drappello si ritrovò proiettato di colpo nell’Età della Pietra. Gli strumenti e l’equipaggiamento di quegli uomini non avrebbero più funzionato. Dovevamo arrangiarci con quello che ci offriva la terra.
La bufera si allontanò dopo tre giorni, e ci mettemmo in cammino per raggiungere la caverna dove avevamo lasciato Kedar e i feriti. Adena lasciò che diventassi io il capo, e forte della mia esperienza col clan di Dal sapevo fabbricare lance rudimentali e trovare la selvaggina nascosta nella neve. Non morimmo di fame, ma eravamo una misera squadra di soldati laceri, magri, affamati e intirizziti quando arrivammo alla caverna.
Nei giorni successivi fummo costantemente impegnati nelle ore di veglia. Insegnai agli altri a sopravvivere in un mondo selvaggio, ad accendere il fuoco sfregano due bastoncini, a stanare le lepri e gli scoiattoli che si mimetizzavano nella neve, e scuoiarli e cuocerli sul fuoco.
E di notte, quando tutti dormivano, io restavo di guardia… solo coi miei pensieri.
Lo shock delle battaglie e delle loro conseguenze stava passando. Cominciai a sentire quello che la mia mente aveva registrato, ma che non era ancora stato assimilato dal mio animo. Rividi il sorriso di Lissa mentre maneggiava il suo carico mortale di esplosivi, l’innocenza infantile con cui parlava delle bombe e dei loro effetti. E rividi l’espressione esultante del suo volto, gli occhi spalancati e la bocca aperta in un urlo di trionfo, mentre si gettava sul nemico stringendo in mano quelle bombe innescate.
Fissai le stelle, scintille fredde in quella notte dell’Era Glaciale, e cominciai a capire che Ormazd non aveva creato quei soldati pensando alla loro sopravvivenza dopo la lotta. Erano stati messi lì per sconfiggere la gente di Ahriman, per sterminare, e una volta ultimato il loro compito dovevano autodistruggersi, morire in quella gelida oscurità, perché ormai non avevano più nessuno scopo, il loro valore si era ridotto a zero.
— Ormazd — mormorai alle stelle silenziose — dovunque tu sia, chiunque tu sia, ti faccio questo voto… troverò Ahriman, per te, e lo ucciderò se ne sarò capace. Però, in cambio di questo, condurrò queste persone in un posto senza neve, dove potranno vivere decentemente da esseri umani. E lo farò subito, prima di cercare Ahriman.
— Poni delle condizioni al tuo creatore?
Mi girai e vidi Adena che mi sorrideva. — Non posso abbandonare questa gente, lasciarla qui a morire — dissi. — Tu lo faresti?
— Se necessario.
— Ma non è necessario. Possiamo portarli a sud, in una zona più ospitale, e io gli insegnerò a sopravvivere.
Il suo sorriso si allargò. — Gli hai già insegnato molto. I loro figli creeranno delle leggende su di te, Orion. Tu stesso diventerai un dio. È questo che vuoi?
— Io voglio te — risposi. — Voglio stare con te in un posto e in un’epoca dove sia possibile vivere insieme in pace.
— Per quanto tempo?
— Per una vita — risposi.
— E poi?
Mi strinsi nelle spalle. Non mi stava prendendo in giro. Il suo non era un sorriso divertito.
— Orion, quando si può vivere oltre la morte come noi due, bisogna cercare di vedere più in là della durata di una singola vita.
— Ma io non vivrò oltre la mia prossima morte. — Ne ero certo. — Ormazd non mi resusciterà più quando avrò ucciso Ahriman.
I suoi occhi grigi mi fissarono, mi attirarono a lei. — Credi che possa essere capace di affrontare l’eternità senza di te?
— Allora cosa…
— Farò in modo che tu sopravviva alla morte. E se Ormazd me lo impedirà, allora vivrò con te per la durata di una vita, e morirò con te, felice.
— Non posso chiederti di rinunciare…
Mi zittì posandomi un dito sulle labbra. — Non me l’hai chiesto. Non c’era bisogno di chiedermelo. Le mie decisioni le prendo da sola.
La abbracciai e la baciai, come se quella fosse l’ultima notte del mondo, come se le stelle stessero spegnendosi per sempre.
— Ora guidali, Orion — mormorò Adena. — Guidali in una terra dove possano vivere in pace.
Il mattino seguente iniziammo il nostro lungo viaggio verso sud, attraversando lentamente le distese innevate per consentire a Kedar e agli altri due feriti di starci dietro. Non fummo attaccati da nessun animale. Ammesso che si trovasse nei paraggi, Ahriman non tradì la sua presenza in alcun modo.
Diventammo una banda di cacciatori primitivi, uccidendo la selvaggina per la carne e le pelli. Progressivamente ci sbarazzammo del nostro equipaggiamento ormai inservibile, sostituendo le pistole laser con delle lance di legno, le corazze di plastica con pelli di volpe, di lepre, di capra.
Stavamo allontanandoci dalla neve e dal ghiaccio. Dopo una settimana trovammo un torrente che scorreva gorgogliando verso sud, un torrente dalle acque fredde come il vuoto cosmico. Lo seguimmo attraverso un paesaggio collinoso e boscoso. La neve era sempre più rada, il sole più vivido, l’aria più calda.
Un ferito, una donna, morì, e la seppellimmo sulla riva di quel torrente senza nome. Kedar invece stava migliorando, e nonostante zoppicasse potevamo procedere più speditamente.
Finalmente, arrivammo in una regione di dolci alture ondulate, ammantata d’erba e ricca di selvaggina. Gli alberi agitavano i rami in una brezza tiepida. Enormi animali ci lanciavano squilli di proboscide all’orizzonte… mammut, immaginai.
Non avevo idea di dove fossimo, ma trovammo una caverna, ampia e asciutta, e ce ne impossessammo. Ormai noi dieci eravamo diventati abbastanza esperti nell’arte della sopravvivenza. Gli uomini andavano a caccia; le donne cominciarono a raccogliere germogli e bacche dalle piante che crescevano in abbondanza attorno a noi.
— Possiamo fermarci per un po’ — dissi accendendo il fuoco. — Potrebbe essere un posto ottimo dove rimanere.
Adena sedette accanto a me e fissò le fiamme crepitanti. Il sole era basso sull’orizzonte, e il calore del fuoco dava una sensazione piacevole, di intimità.
— Adesso puoi riprendere a cercare Ahriman — mi disse Adena, senza distogliere lo sguardo dalla fiamma.
Annuii.
— Credi che sia lontano da qui? — mi chiese.
— No. È qui vicino, ne sono sicuro. Vuole ancora sterminarci. Non si è ancora arreso.
— Quando partirai?
Osservai il sole socchiudendo gli occhi. Nel cielo si stavano addensando grosse nubi, trasformando il tramonto in uno sfolgorio di riflessi rossi, dorati, viola.
— Domani — risposi. — A meno che non ci sia un temporale.
Adena sorrise e si appoggiò alla mia spalla. — Pregherò che piova.
Cominciò proprio a piovere. Mentre scendeva l’oscurità e gli uomini tornavano alla caverna, si alzò un vento teso e i tuoni rimbombarono in cielo. Kedar, l’ultimo dei cacciatori a tornare, entrò zoppicando nella caverna, bagnato fradicio, i capelli incollati alla testa, borbottando tra sé.
Mentre consumavamo una cena eccellente a base di coniglio e marmotta, gli uomini cominciarono a parlare delle grosse prede che avevano visto a valle… antilopi e bisonti, stando alle loro descrizioni. E, naturalmente, c’erano mammut e cavalli e animali di ogni genere in quel paesaggio dell’Era Glaciale. Diedi loro tutte le informazioni possibili, sapendo che presto li avrei lasciati.
— E ci sono anche lupi, là fuori — disse Kedar. — Ne ho visti un paio mentre tornavo, sotto la Pioggia.
— Devono esserci anche degli orsi.
— Non ci daranno fastidio qui nella caverna finché terremo acceso un bel fuoco — dissi.
— A meno che i bruti non li controllino.
— È rimasto un solo bruto — dissi, mentre sedevamo attorno al fuoco. Le loro facce illuminate dai riflessi erano sudice e unte. — E io gli darò la caccia non appena smetterà di piovere.
Per un attimo nessuno disse una parola. Poi Kedar cominciò a parlare di come catturare le antilopi.
Guardai Adena, e li lasciai ai loro progetti. Ormai si preoccupavano di più delle loro pance che di continuare la guerra.
La tempesta si scatenò durante la notte, le raffiche di vento penetravano fin nella caverna portando scrosci di pioggia che per poco non spensero il nostro fuoco. Prendemmo i tizzoni rimasti e ci ritirammo più all’interno, dove l’acqua non ci avrebbe raggiunto.
I tuoni squassavano il cielo, i lampi esplodevano nell’oscurità. Gli altri provarono ad addormentarsi sul freddo pavimento di roccia, ma qualcosa mi costrinse a fissare lo sguardo nella notte, nella bufera all’esterno.
“Ahriman,” mi resi conto. “È qui. Vuole afferrarci. È opera sua. Questa è la sua bufera.”
Adena era stesa a terra, dormiva profondamente. Le sorrisi, sorrisi alla mia dea addormentata che aveva assunto forma umana. Respirava lentamente, regolarmente, e quando riposava il suo viso era ancor più bello. Mi chiesi come potesse compiere una transizione del genere, diventare umana tramite un mutamento così radicale. Mi chiesi come Ahriman avesse potuto compiere una transizione identica e contraria, diventando un essere dalle caratteristiche sovrumane.
All’inizio doveva essere stato uguale agli altri della sua specie. Anche adesso, nel periodo e nel luogo in cui ci trovavamo, non aveva dimostrato di possedere poteri soprannaturali. In altre ere si era spostato, e mi aveva spostato, nello spazio-tempo con una facilità irrisoria. Come aveva acquisito quei poteri? Quando?
Un lampo illuminò l’esterno per una frazione di secondo, e vidi qualcosa che mi fece sussultare. Successe tutto troppo in fretta perché potessi esserne certo, così chiusi gli occhi un attimo e riproiettai la scena con la memoria.
Immobile nel bagliore accecante del fulmine, la sagoma minacciosa di Ahriman, a un centinaio di metri dall’ingresso della caverna. E accanto a lui, sulle quattro zampe, un orso gigantesco che faceva sembrare piccola anche la figura possente di Ahriman. Ahriman era di fronte all’animale, con un braccio alzato, un dito teso, come se gli stesse impartendo delle istruzioni.
Guidato dalla grande intelligenza di Ahriman, spinto dal suo odio, l’orso avrebbe potuto ucciderci tutti. Mi alzai e presi due rami dal fuoco, affrettandomi verso l’imboccatura della caverna.
Mentre avanzavo, le lingue frastagliate di un lampo guizzarono nel cielo e la forma enorme, terrificante dell’orso si stagliò sull’ingresso bloccando la visuale sull’esterno, mandando un ruggito di rabbia che si fuse con lo scoppio del tuono facendo tremare il terreno.
Mi venne incontro, le zampe anteriori alzate, mostrando artigli grossi come coltelli e denti capaci di spezzare qualsiasi cosa.
Invece di arretrare, gridai con quanto fiato avevo in corpo e gli agitai contro l’estremità accesa delle mie torce. L’orso si arrestò e con una zampata mi strappò di mano un ramo. Feci una finta con l’altra torcia, me la passai dalla sinistra nella destra, e la affondai nell’addome dell’animale. L’orso mugghiò di rabbia e di dolore, indietreggiando di un passo.
Il mio corpo prese a funzionare a ritmo ultraveloce, i sensi acuiti al massimo, i nervi che reagivano molto più rapidi di quelli di una persona normale. Intravidi gli altri che si svegliavano, che si alzavano muovendosi al rallentatore, prendendo dei tizzoni.
Strinsero l’animale su due lati, saltellando avanti e indietro, punzecchiandolo con le loro torce. L’orso ruggiva furioso ma non voleva andarsene dalla caverna. Il controllo che Ahriman esercitava sulla bestia era ferreo.
Capii che eravamo in una posizione di stallo, che poteva sbloccarsi solo quando almeno una vittima umana fosse rimasta sul terreno. Poi un rametto acceso mi sibilò sulla testa e colpì l’orso su una spalla.
— Cacciatelo fuori! — gridò Adena, e capii che era stata lei a lanciare il ramo.
Ma l’orso non era del medesimo avviso. Invece di ritirarsi avanzò verso di me, incurante delle torce che lo colpivano. Si sentiva un tanfo di pelo e di carne bruciata, il manto del povero animale era tutto annerito, eppure l’orso continuava a venire avanti inesorabile.
Fu come un incubo, dove tutto accade con una lentezza esasperante come se il tempo stesse fermandosi, eppure non si riesce a sottrarsi al terrore che ti avvolge soffocante. La torcia che impugnavo sembrava un innocuo fiammifero mentre l’orso mi sovrastava coi suoi due metri e mezzo di altezza, fissandomi con occhi colmi d’odio, ringhiando così forte da coprire le grida dei miei compagni.
Vidi partire il colpo, ma mi ero già spinto troppo indietro e se avessi fatto ancora un passo sarei finito nel fuoco. Sentivo il calore della fiamma che mi strinava già le gambe, e la zampa mostruosa dell’orso calava lentamente su di me. Cercai di schivarla, piegandomi, e per poco non ci riuscii.
La zampa mi centrò la nuca, colpendomi con la forza di un macigno caduto dall’alto. Stramazzai a terra; tutto diventò confuso, e delle macchioline nere mi danzavano davanti agli occhi.
Non so per quanto tempo rimasi intontito, probabilmente solo un paio di secondi. Mi ritrovai disteso sulla schiena, la vista annebbiata. Ma intravidi Adena che si scagliava contro l’animale brandendo due pezzi di legno ardenti.
L’orso l’atterrò, stese altri due, poi si profilò minaccioso su di me. Vidi le sue zanne che si apprestavano ad addentarmi, e non potevo muovermi.
La prima ondata di dolore mi trapassò come una scossa elettrica. Sentii lo scricchiolio delle mie ossa che si spezzavano, mentre l’orso mi mordeva la spalla e mi sollevava violentemente dal pavimento della caverna. Lo colpii debolmente sul muso con la mano libera, e intravidi in modo vago gli altri che continuavano inutilmente a tormentarlo con le torce. L’animale sbatte a terra un altro uomo e uscì nella notte, sotto la pioggia gelida, mentre io penzolavo dalle sue fauci come un pupazzo di pezza.
Attraverso gli occhi appannati dal sangue e dal dolore, scorsi per l’ultima volta la caverna… Adena si era rialzata e stava per inseguire l’orso. Ma Kedar e un altro la fermarono, la bloccarono, e rimasero ad osservare l’orso che mi trascinava via.
L’orso si abbassò sulle zampe anteriori, sotto una pioggia martellante. I lampi si rincorrevano in cielo. L’imboccatura illuminata della caverna divenne un bagliore lontano, una scintilla di calore remota come la stella più remota.
Finalmente, l’orso mi scaricò in una pozzanghera fangosa e si allontanò per leccarsi in pace le ferite. Ero supino, con la pioggia che mi lavava la faccia e il corpo straziato. Il dolore aveva raggiunto lo stadio in cui subentra un intorpidimento generale. Del resto ero troppo sotto shock per tentare di controllarlo. Avevo la spalla destra maciullata, il braccio mi penzolava, attaccato solo a qualche legamento e a brandelli di carne sanguinolenta.
Tossii e rabbrividii. “Dunque è così che Prometeo è stato creato,” pensai delirando. “Il semidio che dà all’umanità il dono del fuoco, per poi essere punito in modo atroce dagli dei. Probabilmente scoppiai a ridere mentre morivo dissanguato. Una fine poco dignitosa per un semidio.
Un altro lampo squarciò l’oscurità, e vidi la forma cupa di Ahriman ritta su di me.
— Ti ho battuto — disse, con la sua solita voce rauca, più simile a un rantolo. Lo udivo a stento mentre il vento continuava a ululare.
— Mi hai ucciso — convenni.
— E anche gli altri sono finiti. Moriranno presto senza le loro armi e i loro generatori di energia.
— No. Vivranno. Gli ho insegnato a sopravvivere. Hanno il fuoco. Conquisteranno questo mondo e popoleranno la Terra.
Nell’oscurità non potevo vedere la sua espressione, ma percepii la rabbia e l’odio che emanavano i suoi occhi.
— Dovrò colpire altrove, allora — borbottò Ahriman. — Dovrò trovare i punti deboli nella struttura del continuum…
Con uno sforzo immane, scossi la testa nel fango. La mia voce era sempre più debole; ogni respiro era sempre più arduo, doloroso.
— Ahriman… è inutile — ansimai. — Ogni volta che provi… ci sono lì io… a fermarti.
Restò a lungo in silenzio, incombendo su di me come un destino funesto. Infine disse: — Allora torneremo proprio all’inizio. Ti ucciderò per sempre, Orion. E con te, ucciderò Ormazd.
Avrei voluto ridergli in faccia, dirgli che era uno sciocco. Non ne avevo più la forza, però. Potevo solo restare steso nel fango mentre il sangue e la vita fluivano dal mio corpo.
Ahriman levò le braccia verso il cielo notturno tempestoso, piegò il capo all’indietro, e lanciò un urlo raccapricciante, come un animale che ululasse alla luna. Gridò due, tre volte, le dita tozze tese verso le nubi nere che nascondevano le stelle.
I lampi cominciarono a guizzare tra quelle nubi, poi crivellarono il terreno attorno a noi. Mentre osservavo ad occhi spalancati, i fulmini continuarono a cadere sfrigolando a pochi metri, restando sospesi nell’aria che crepitava, chiudendoci in una gabbia di elettricità.
Il terreno zuppo di pioggia gorgogliava. Si sentiva un odore acuto e dolciastro di ozono.
Ahriman si stagliava su quello sfondo azzurrognolo, le braccia ancora tese, lanciando urla che si fondevano col crepitare delle scariche elettriche.
Poi un lampo tremendo spaccò il mondo, avvolgendo Ahriman, trasformandolo in un demone ardente di energia pura, riversandosi su di me, scorrendo in tutti i nervi del mio corpo finché in tutto l’universo non ci fu altro che dolore.
E poi, l’oscurità.