PARTE SECONDA Assassino

9

Aprii gli occhi e mi ritrovai in mezzo a una distesa piatta e desolata. Il terreno era sabbioso, con chiazze d’erba sparse qui e là. Il cielo era sereno, anche se una coltre di fumo si levava all’orizzonte sulla mia destra, tenendo le sue dita sudice verso l’azzurro. Bruciava qualcosa. Qualcosa delle dimensioni di una grandissima città, a giudicare dall’enorme massa fumosa.

Il sole mi batteva caldissimo sulle spalle nude. Indossavo solo un gonnellino e un paio di sandali. Non mi meravigliai di essere ancora vivo. Ricordavo di essere morto nel reattore. Non ero scampato a quell’inferno, lo sapevo. Questa era un’altra vita. Mi sentivo forte, completamente padrone di me stesso, anche se mi tremarono le ginocchia al pensiero di quello che avevo passato in quell’ultima manciata di secondi nel ventesimo secolo.

Ventesimo secolo? Non so come, eppure ero certo di trovarmi in un’epoca diversa, precedente. Ahriman aveva detto che stavo muovendomi nel tempo al contrario, dalla Fine verso La Guerra. Era il Re della Menzogna, però in questo gli credevo.

Dov’ero? La distesa arida tutt’intorno non mi forniva alcun indizio. L’unico segno di attività umana era l’immensa pira che ardeva all’orizzonte. Mi incamminai verso la torre di fumo, e il sole alle mie spalle proiettava sul mio percorso un’ombra sempre più lunga col trascorrere penoso delle ore.

Era difficile controllare la sete. Bloccando il sudore, la mia temperatura interna saliva troppo e rischiavo capogiri e svenimenti. Ma lasciando che le ghiandole sudoripare facessero il loro lavoro, il mio corpo cominciava a disidratarsi. In parte potevo attingere umidità dal plasma sanguigno e dall’acqua contenuta nelle cellule degli organi addominali, ma anche questo era un gioco pericoloso che poteva portare fatalmente alla disidratazione. Come qualsiasi essere umano nel caldo implacabile del deserto, anch’io avevo bisogno di acqua. Un bisogno sempre più disperato.

In lontananza, a sinistra, vidi degli uccelli volteggiare in cerchio. Avvoltoi. Qualcosa… qualcuno, morto o moribondo in quella direzione. Animale o umano, forse avrei trovato dell’acqua laggiù… o avrei potuto ricavarla dal cadavere. Non che fossi meno schizzinoso della media. Il deserto non permette di essere schifiltosi. Un uomo che sta morendo di sete rinuncia alla compassione prima che alla propria vita.

Gli avvoltoi si abbassarono, mentre incespicavo su rocce calde come pane appena sfornato. Ero anch’io come loro, una bestia mangiacarogne, nel forno spietato del deserto. Finalmente, vidi quello che gli avvoltoi avevano visto prima di me: una famiglia di profughi, stesi esanimi sul fondo sabbioso; un carro rovesciato a qualche metro, con un avvoltoio appollaiato sul bordo di una ruota intento a fissare il pasto imminente. Gli altri uccelli stavano tuffandosi a terra, spiegando le ali mentre si posavano, emettendo schiamazzi osceni mentre ancheggiavano lenti verso i cadaveri.

Presi un sasso arroventato e lo scagliai all’avvoltoio sulla ruota. Lo centrai in pieno in testa, uccidendolo all’istante. Gli altri uccelli non sembrarono quasi accorgersene, finché non scagliai altri tre sassi, colpendo altri due bersagli e mettendo in fuga il resto degli spazzini alati, che presero il volo rabbiosamente in una nube di polvere.

Gli avvoltoi rimasero a volteggiare sopra di me, aspettando con la pazienza della certezza, mentre barcollavo verso i cadaveri. Non erano morti di sete. L’uomo era pieno di ferite, perlopiù alla schiena. Il sangue si era appena rappreso. Sembrava che fosse stato trafitto da diverse frecce, che poi gli aggressori dovevano aver tolto per riutilizzarle. La moglie e i due bambini avevano la gola squarciata. La donna, che dimostrava poco più di vent’anni, era stata denudata quasi del tutto.

Quello che si trovava a bordo del carro era stato portato via; il mezzo era vuoto. Anche i buoi erano scomparsi. Si vedevano le tracce degli ammali sul terreno. Chiunque avesse assalito quella povera famiglia attribuiva maggior valore alle bestie da soma che agli esseri umani. Non c’era acqua, né oggetti personali tra i quattro cadaveri. E nonostante la mia precedente certezza mi resi conto che non avrei potuto devastare ulteriormente i loro corpi straziati per berne il sangue, anche se c’era in gioco la mia vita.

Socchiusi gli occhi verso il cielo abbagliante e vidi che gli avvoltoi erano ancora lassù, pronti, silenziosi. Purtroppo mi mancavano sia gli attrezzi che la forza per seppellire quegli sconosciuti. Ripresi a trascinarmi in direzione della nube di fumo, mentre gli uccellacci vittoriosi si apprestavano a banchettare.

La giornata sembrava interminabile, il caldo sempre più opprimente. Camminai per molte ore, eppure la colonna di fumo era ancora lontanissima. Una parte della mia mente trovava la situazione così assurda da essere quasi buffa. Sicuramente, era stato Ormazd a mandarmi lì. Sicuramente, in questo luogo e in quest’epoca sarebbe successo qualcosa che avrebbe potuto alterare la storia dell’universo; Ahriman avrebbe tentato di nuovo di lacerare lo spazio-tempo e distruggere i continuum. E stando alle apparenze, sicuramente io sarei morto di sete in modo ignominioso prima di iniziare il compito al quale Ormazd mi aveva destinato.

Fu allora che li vidi.

Cinque… no, sei… sei cavalieri che attraversavano lentamente la piana di fronte a me. I loro pony erano magri, macilenti, e chi li montava sembrava altrettanto scarno. I cavalieri portavano elmi di metallo a punta e lunghe lance. Ognuno di loro aveva anche un piccolo arco doppio e una scimitarra.

Mi videro nel medesimo istante in cui li scorsi, fermarono un attimo i pony, poi puntarono verso di me. Avanzavano lentamente, non per prudenza, ma perché sapevano che un uomo a piedi, disarmato e mezzo nudo, non poteva sfuggirgli.

Mentre si avvicinavano, notai che erano orientali, con zigomi alti e i tipici lineamenti appiattiti asiatici. La loro pelle, quel poco che spuntava dalle loro armature di cuoio e metallo, era di una tinta brunastra, ricordava il colore del tabacco conciato. Avevano occhi stretti, ma non eccessivamente a mandorla. Guerrieri mongoli, pensai, o forse alcuni dei primi turchi che avevano invaso il Medio Oriente dalla loro regione d’origine dell’Asia superiore, vicino al lago Baikal.

Si fermarono a una ventina di metri e mi fissarono con la stessa curiosità con cui io li osservavo. Il loro capo, il secondo cavaliere a sinistra, si rivolse agli altri, e io mi accorsi scioccato di capire la loro lingua.

— È diverso dagli altri.

— Forse era uno dei loro schiavi, preso da una tribù diversa.

— Mai visto uno così. Guardate com’è grande! E ha la pelle rosa… quasi come quella di un maiale.

Il cavaliere a destra del capo scoppiò a ridere. — Forse dovremmo portarlo all’Orkhon. Potrebbe ricompensarci per avere trovato una cosa così insolita.

— Uno scherzo di natura, direi.

— Comunque, sembra umano, a parte il colore della pelle.

— E il suo sangue è rosso, scommetto.

Al che, il cavaliere che aveva parlato, quello alla destra del capo, scalciò i fianchi ossuti del pony e partì al galoppo venendomi addosso, calando la lancia in direzione del mio cuore. Gli altri rimasero tranquillamente in sella, osservando quella scena sportiva, sogghignando.

Anche se il colore della mia pelle ricordava loro la pelle di un maiale, non avevo intenzione di farmi infilzare come un maiale. Rimasi immobile, chiamando a raccolta la poca forza che mi restava in corpo. Sentii l’adrenalina scorrermi nelle vene, sollecitando al massimo i miei sensi. Il cavallo e il cavaliere parvero rallentare, ed ebbi il tempo di notare gli occhi sbarrati della bestia che mi inquadravano intimoriti, le sue narici dilatate. La punta della lancia mirava decisa al mio cuore, l’uomo era piegato in avanti, reggendo le redini nella sinistra, la bocca socchiusa, contratta in una smorfia o in un ghigno avido.

Scegliendo l’attimo giusto, eseguii una schivata da torero, lasciai che la punta affilata mi superasse senza scalfirmi, afferrai l’asta e con uno strattone disarcionai l’orientale allibito. Atterrò su una spalla mentre il cavallo, piegando bruscamente la testa per lo strappo alle redini, ruzzolava sul terreno in una nube di polvere. La lancia si era spezzata, e io mi ritrovai in mano il troncone superiore.

Per un attimo restammo immobili. La polvere si disperse, e il cavallo si drizzò sulle zampe e si allontanò di qualche metro trotterellando, trascinandosi dietro le redini. Gli altri cavalieri, notai, guardarono prima la bestia, e solo dopo essersi assicurati che non fosse ferita spostarono l’attenzione sul compagno che stava alzandosi adagio.

Il braccio sinistro gli penzolava inerte lungo il fianco, però con un ringhio l’uomo estrasse la scimitarra e mi si avventò contro prima che potessi aprir bocca. Parai il fendente con il pezzo di lancia che stringevo, anche se per poco la sua sciabolata violentissima non tranciò il legno. Mentre alzava il braccio per un altro fendente, gli sferrai un calcio nell’addome, facendolo piegare su se stesso. Liberandomi del troncone di lancia inservibile, gli strappai di mano la scimitarra e lasciai che crollasse a terra senza fiato.

Il capo del drappello non perse tempo in chiacchiere. Prese l’arco e incoccò una freccia. Tendendo la corda fino al petto, lasciò partire il colpo. Vidi tutto come in una sequenza al rallentatore, e usai la scimitarra per bloccare a mezz’aria la freccia dalla punta d’acciaio.

Questo gesto li stupì. Ma non a lungo. Erano guerrieri esperti, e non si sarebbero lasciati sfuggire un nemico, per quanto potesse combattere bene. Iniziarono una semplice manovra coi loro pony, circondandomi. Sapevano che non potevo parare frecce scagliate da cinque direzioni diverse.

— Aspettate! — dissi. — Non sono vostro nemico. Sono venuto da lontano per vedere il vostro Khan.

Il guerriero ai miei piedi intanto aveva ripreso fiato, e si sollevò sulle ginocchia, continuando a respirare a bocca spalancata.

— Non ho ucciso il vostro amico, anche se avrei potuto farlo — dissi al loro capo. — Vengo in pace. Non sono un guerriero.

Il capo mi squadro sospettoso. — Ci dici che non sei un guerriero? Dio ci guardi dai guerrieri della tua razza, allora!

— Vengo in pace — ripetei. Ma continuai a impugnare stretta la scimitarra.

— Parli la nostra lingua.

— È vero. Cerco il vostro Khan, il vostro capo.

La sua faccia orientale assunse un’espressione pensierosa. — Il Khan? Il Gran Khan?

— Sì.

— Quest’uomo è un demonio — intervenne uno dei guerrieri. — Uccidiamolo. — E sfilo l’arco.

— No — disse il capo. — Aspetta.

Vedevo che dentro di sé stava lottando accanitamente per decidere che fare. Raramente i guerieri barbari si trovavano di fronte a scelte del genere. Chissà se quei sei cavalieri erano quelli che avevano assalito e ucciso la famiglia che avevo visto prima. Non sembrava che avessero con sé alcun bottino.

— Da dove vieni, straniero? Qual è il tuo nome?

— Mi chiamo Orion — risposi. — E vengo dall’Ovest, da molto lontano.

— Da dietro le montagne dell’Ovest? — domandò un guerriero.

Annuii. — Da più in là dei mari che ci sono dietro quelle montagne.

— Sei un emissario, allora? — chiese il capo.

— Sì. Un emissario di una terra remota. — Speravo che anche i barbari concedessero agli emissari un briciolo di immunità diplomatica.

— E vuoi vedere il Gran Khan. — Non era una domanda.

— Questa è la mia missione — dissi.

Il guerriero ferito si drizzò in piedi, vacillando. Il suo braccio sinistro era inservibile; probabilmente la spalla era rotta. Il calcio che gli avevo dato avrebbe steso un uomo grosso il doppio di lui, lo sapevo. Doveva avere l’addome ammaccato; senz’altro per lui era una sofferenza respirare. Mi fissò un attimo, quindi tese la mano vuota. Riflettei un secondo, poi gli restituii la scimitarra.

Lui la prese, la soppesò, mi sorrise, poi alzò la lama sulla testa, pronto a calarmela sul collo. Lo fissai negli occhi senza batter ciglio. Sapevo che avrei fatto in tempo a parare il colpo se ci avesse provato. Forse era solo una prova, o voleva dimostrarmi che non mi temeva.

Il suo sguardo mi sondò, in cerca della minima traccia di esitazione o paura. Restai immobile. La faccia del guerriero era scarna e dura; una sottile cicatrice bianca gli solcava la guancia sinistra accanto alla mascella.

Il capo del gruppetto, appoggiato con le braccia al pomo della sella, osservava e taceva.

Il guerriero abbassò lentamente la scimitarra. Si voltò e scosse la testa. — È un demonio, non un uomo.

Il capo rise. — È un tipo strano. Lo porteremo all’Orkhon e vedremo che ne farà.

10

Mi fecero camminare, mentre loro erano a cavallo, però furono abbastanza generosi con l’acqua. Bevvi dalla borraccia del capo, poi da quelle di altri due guerrieri, mentre la lunga giornata torrida si trascinava lentamente verso la sua conclusione.

Eravamo in Persia, ne ero certo. E da come parlavano, quei guerrieri irriducibili erano probabilmente mongoli dell’orda devastatrice di Gengis Khan. Eravamo nel dodicesimo o tredicesimo secolo, dunque, e quei barbari stavano devastando il mondo civilizzato dal Catai alle pianure della Polonia.

Provai a rivolgere alcune domande al capo del drappello, ma non mi rispose. Evidentemente aveva deciso di consegnarmi a qualche autorità superiore, e non aveva voglia di discutere. Era un guerriero, non un diplomatico. Però mi aveva risparmiato la vita, e per quella giornata questa era già un’ottima decisione, dal mio punto di vista.

Il sole toccò l’orizzonte del deserto, e in pochi minuti calò la notte. E il freddo. Strinsi i capillari del mio corpo e feci il possibile per mantenermi caldo, ma non avevo l’abbigliamento adatto per una notte nel deserto. I guerrieri non badarono per niente ai miei brividi; continuarono ad avanzare al passo, mentre io arrancavo faticosamente accanto al cavallo del capogruppo.

Era una città, il posto che era bruciato, per ore e ore. Non scoprii mai il suo nome, ma ricordavo che ai mongoli le città non servivano; essendo nomadi, preferivano i pascoli aperti dove brucavano i loro cavalli e il bestiame.

In guerra, se una città si arrendeva a loro, la lasciavano in pace, limitandosi a nominare un governatore mongolo per la riscossione delle tasse. Se la città opponeva resistenza, la assediavano finché capitolava, poi la distruggevano sistematicamente e gli abitanti venivano uccisi o ridotti al rango di schiavi. La gente del ventesimo secolo pensava che le armi nucleari capaci di radere al suolo una città fossero una novità assoluta; i mongoli radevano al suolo le città a mano… le bruciavano o le demolivano pietra dopo pietra, e in certi casi deviavano addirittura il corso dei fiumi sulle fondamenta annerite. E uccidevano gli abitanti a uno a uno, dopo avere violentato le donne e saccheggiato le case. Certo, torturavano anche chiunque sembrasse abbastanza ricco da avere dell’oro o altri tesori nascosti. Rispetto a quel che vidi coi miei occhi delle conquiste barbare, le armi nucleari almeno avevano il pregio di essere rapide e impersonali.

L’accampamento mongolo era enorme, anche nella luce tremula dei falò. Tende e yurte di feltro, simili a tende indiane montate su carri, si estendevano per acri e acri. Migliaia di cavalli sbuffavano e nitrivano in grandi recinti di corda. Il loro odore arrivava a chilometri di distanza. Le donne cucinavano davanti a gran parte delle tende, in pentoloni neri. Del fumo si levava dai buchi aerei di quasi tutte le yurte, indicando una forma primitiva di riscaldamento centrale.

I guerrieri mi guidarono attraverso quelli che sembravano chilometri di campo, in un labirinto di tende e yurte disposte apparentemente a casaccio. Ma sapevano dove erano diretti. D’un tratto vidi un ampio spazio aperto, circondato da guardie armate. I fuochi traevano luccichii dai loro elmi d’acciaio e dall’elsa ingemmata delle scimitarre. I miei catturatori si arrestarono. Il capo smontò e parlò rapidamente a una delle guardie. Questi mi lanciò un’occhiata incredula, ma annuì, e il capo del drappello saltò in sella sorridendo. I sei guerrieri ripartirono al galoppo, felici di essersi liberati della responsabilità del loro strano prigioniero.

La guardia evidentemente era un ufficiale abituato ad impartire ordini eseguiti all’istante.

— Mi hanno detto che parli la lingua del Gobi — esordì. Era anziano, aveva le tempie sfumate di grigio, e come i cavalieri mi arrivava sì e no alla spalla. Anche se la sua faccia non era deturpata, sul dorso della mano destra aveva una cicatrice violacea che scompariva sotto il polsino di cuoio della tunica. Aveva una voce squillante, tenorile.

— Capisco le tue parole — risposi.

— Ti chiami Orion; vieni da dietro le montagne dell’Ovest, e sei un emissario inviato a fare atto di sottomissione al Gran Khan.

— Sono stato inviato qui per vedere il Khan, è vero.

Mi guardò sdegnoso. — Non hai doni per lui.

— I doni che porto sono qui. — Mi battei sulla tempia. Poi notando il sorrisetto che gli arricciava le labbra mi resi conto di trovarmi di fronte a un individuo che prendeva tutto alla lettera, e aggiunsi: — Sono doni di saggezza e conoscenza, non gioielli o perle.

Parve quasi deluso. Probabilmente gli sarebbe piaciuto spaccarmi il cranio in cerca di tesori nascosti.

Scuotendo il capo, disse: — Non puoi presentarti all’Orkhon conciato come un mendicante. Vieni con me.

Mentre mi apprestavo a seguirlo, dissi: — Non mangio da… da parecchi giorni. — Di certo non potevo dire che ero a digiuno da otto secoli.

Era il tipico ufficiale inferiore di qualsiasi esercito: tutto lo contrariava, tranne certe cose importanti che lo facevano arrabbiare. Borbottando, mi portò accanto a un fuoco e ordinò alla donna seduta di darmi da mangiare. Trangugiai una ciotola di stufato bollente dall’aria poco invitante, e lo innaffiai con latte acidulo. Quando ebbi finito, la guardia tornò e scaricò a terra una bracciata di indumenti. Riconoscente, mi infilai un paio di calzoni larghi, una camicia ruvida stretta di spalle e una giubba di pelle.

La donna al paiolo, una vecchia sdentata, mi osservò e rise. — Questi vestiti sono troppo piccoli. E non troverai mai stivali abbastanza grandi per i suoi piedi.

La guardia sbuffò. — È un problema suo, non mio.

Era vero. Ero più alto e più grosso di tutti gli asiatici visti finora. I pantaloni che mi aveva dato erano appartenuti evidentemente a un uomo grasso; erano più che abbondanti, però mi arrivavano di poco sotto al ginocchio. La vecchia aveva ragione; probabilmente nell’accampamento non c’erano stivali della mia misura. Comunque, non m’importava. Avevo i sandali, e i miei nuovi indumenti erano caldi, anche se a giudicare dal prurito e dagli zampettii che sentivo non dovevo essere il loro unico occupante. Inoltre, lo stufato della vecchia mi aveva rimesso in sesto. Ero pronto per affrontare il Khan.

Per oltre un’ora passai da una squadra di guardie alla successiva, venni interrogato brevemente da un nuovo ufficiale ogni volta, prima di ricevere il permesso di proseguire. Ormai mi ero reso conto che l’accampamento era formato da due campi separati, uno all’interno dell’altro. Al centro della caotica città riservata ai guerrieri e alle bestie c’era il campo vero e proprio del capo mongolo: l’ordu, come lo chiamavano loro, una tendopoli dove alloggiavano lo stato maggiore e la guardia reale. E al centro dell’ordu, l’alloggio dell’Orkhon, una tenda enorme di seta bianca ornata di stendardi e illuminata da falò colossali.

Mi avvicinai alla sontuosa tenda centrale stretto tra due ufficiali che portavano sulle uniformi una quantità d’oro pari almeno a tutto l’acciaio che avevano addosso. Alle mie spalle marciava una mezza dozzina di guerrieri. Passammo tra i due grandi fuochi che ardevano nella notte davanti all’ingresso. In seguito venni a sapere che tutti gli stranieri venivano fatti passare tra quei fuochi, in base alla credenza superstiziosa secondo cui il calore avrebbe bruciato i demoni che lo straniero poteva annidare dentro di sé.

All’ingresso ci fermammo, e due guardie mi perquisirono frettolosamente in cerca di armi. Erano alti quasi quanto me, ma snelli e forti come gli altri mongoli. Chi vive in sella e supera deserti e montagne diretto in battaglia non ha il tempo di ingrassare.

Finalmente, mi fecero entrare nella tenda. Mi ero aspettato un’ostentazione di splendore orientale, sete e tappeti persiani, calici d’oro tempestati di gemme, e bellissime schiave che danzassero per il conquistatore del mondo. In effetti, l’Orkhon era seduto su un magnifico tappeto. La tenda era drappeggiata di sete e broccati. Gli uomini all’interno bevevano da calici trapuntati di pietre preziose. Quattro donne sedevano sulla sinistra dell’Orkhon, tutte giovani, snelle, e probabilmente molto belle agli occhi dei mongoli. Eppure quella scena non mi diede un’impressione di magnificenza sibaritica; la tenda aveva un’aria di utilità pragmatica. Drappi e tappeti proteggevano dal freddo. I bicchieri d’oro da cui gli uomini bevevano erano il bottino delle loro battaglie; calici o borracce, per loro doveva essere la stessa cosa. Le donne… be’, anche quelle erano preda di guerra.

Non c’era alcuna aria di decadenza nella corte dell’Orkhon. Quelli erano guerrieri, che per il momento si riposavano. Avevano appena bruciato e saccheggiato una città; domani avrebbero ripreso la marcia, puntando sulla città successiva.

— Ti chiami Orion? — disse un orientale alto e magro, in piedi alla destra dell’Orkhon. Sembrava un cinese, più che un mongolo, e indossava una veste di seta che gli scendeva fino ai piedi.

L’ufficiale al mio fianco mi diede una lieve gomitata. Feci un passo avanti. — Sono Orion — dissi.

— Avanza, perché il mio signore Hulagu possa vederti bene.

Mi mossi lentamente verso l’Orkhon, tranquillamente seduto sulle sete e i cuscini che gli appartenevano per diritto di conquista. Era piccolo, più basso della maggior parte degli altri. Aveva capelli lunghi e nerissimi, un corpo temprato e asciutto da guerriero. Non doveva avere più di trentacinque anni. La sua faccia era impassibile, inespressiva, mentre mi fissava.

Il cinese alzò una mano e io mi fermai.

— Sei un emissario dell’Ovest? — mi chiese, la voce leggermente cantilenante nonostante la lingua mongola.

— È vero — risposi.

— Da che regione dell’Ovest? — chiese il mongolo seduto accanto all’Orkhon. Era più anziano, grigio, ma nonostante fosse seduto su cuscini di seta irradiava energia e slancio.

— Da oltre le montagne occidentali e i mari dietro le montagne — risposi.

— Dalla regione dove il terreno è nero e le messi crescono fitte come capelli? — chiese, gli occhi luccicanti.

Probabilmente si riferiva all’Ucraina, il granaio di quella che un giorno sarebbe stata la Russia.

— Da ancor più lontano, mio signore — risposi, pensando allo spazio e al tempo. — Vengo da una terra che dista da qui quanto questo posto dista da Karakorum. Una terra lontanissima.

Il mongolo sorrise. La distanza era insignificante per lui. — Parlaci della tua terra lontana — disse.

Ma l’Orkhon intervenne. — Basta parlare di terre lontane, Subotai. Il rapporto dice che quest’uomo è un guerriero incredibilmente forte.

Subotai. Il nome di un generale mongolo, ricordai. Invece non riconoscevo il nome che il cinese aveva attribuito all’Orkhon, Hulagu.

Il piccolo generale mi squadrò. — È grande e grosso. Ma pare che sostenga di essere un emissario, non un guerriero.

— Comunque — insisté Hulagu — stando al rapporto, ha battuto un guerriero a cavallo, da terra e disarmato. Poi ha afferrato una freccia con le mani quando il tuman ha cercato di ucciderlo.

Come al solito, il resoconto delle mie imprese era stato gonfiato. Ma evidentemente Hulagu era rimasto colpito e non vedeva l’ora di assistere a una dimostrazione. Ordinò a un arciere di andare all’estremità della tenda, di fronte a me. Gli altri guerrieri e ufficiali sgombrarono l’area alle mie spalle.

— Mio signore — protestai — non ho afferrato una freccia con le mani, l’ho semplicemente deviata…

— Deviala, allora — disse Hulagu, e rivolse un cenno all’arciere.

La freccia si staccò dalla corda, e i miei riflessi entrarono in azione. Il mondo attorno a me rallentò. La freccia volava languida, flettendosi come un delfino che si tuffasse ed emergesse dall’acqua. Sapevo quanta energia cinetica ci fosse in quella freccia; tentare di afferrarla sarebbe stata una pazzia. Così mi scostai leggermente quando mi raggiunse e la allontanai colpendo l’asticella col taglio della mano.

I mongoli restarono a bocca aperta. Subotai sussultò sui cuscini. Hulagu abbozzò un sorrisetto.

Poi fece chiamare un lottatore, un macigno umano dalla testa rasata e il corpo unto. Mi misi a torso nudo, tolsi i sandali, quindi atterrai il mostro con un calcio al ginocchio e un colpo di karaté alla nuca.

Mi inchinai a Hulagu. — Davvero, mio signore, sono un ambasciatore non un guerriero. Combatto solo per difendermi.

L’Orkhon non sembrava soddisfatto. — Non ho mai visto nessuno, guerriero o no, forte e veloce come te.

— Una razza di uomini simili sarebbe un nemico formidabile — commentò assorto Subotai.

Gli altri mongoli mormoravano tra di loro; sembravano d’accordo col generale.

— Sono solo un emissario di una terra remota — dissi, alzando la voce nel chiacchierio. — Cerco il vostro sovrano, Gengis Khan.

Di colpo tutti tacquero. Hulagu mi lancio un’occhiataccia.

— È uno straniero — disse Subotai all’Orkhon. — Non sa che non pronunciamo il nome del Gran Khan.

— Mio nonno è morto da più anni delle dita delle mie mani — fece lentamente Hulagu, minaccioso. — Ora è Ogotai che regna a Karakorum.

— Allora è Ogotai che cerco — replicai.

— Devo mandarti a Karakorum, come emissario di una terra così lontana che non sai nemmeno chi sieda sul trono d’oro? Un uomo capace di arrestare le frecce con le sue mani e di spezzare il collo al campione dei lottatori? Sei un emissario o uno stregone? Cosa vuoi da Ogotai?

“Vorrei saperlo anch’io”, pensai. Dissi a Hulagu: — Le mie istruzioni sono di parlare solo col Gran Khan di Karakorum, mio signore. Sarei infedele al mio sovrano se violassi i miei ordini.

— Secondo me sei uno stregone. O peggio ancora, un assassino.

Abbassai la voce. — Non lo sono, mio signore.

Hulagu tornò a sdraiarsi sui cuscini e tese la destra mentre mi fissava socchiudendo gli occhi. Dalla sua faccia inespressiva era impossibile stabilire se fosse spaventato, preoccupato o arrabbiato. Un uomo dal naso aquilino di un arabo purosangue, e dall’aria nobile e dignitosa, gli porse una coppa d’oro. Hulagu sorseggiò il vino, continuando a scrutarmi con diffidenza.

— Vai — disse infine. — Le guardie ti troveranno un posto per dormire. Per te deciderò domani.

Dal suo tono, avevo la sensazione che invece avesse già deciso.

Ebbi tanta presenza di spirito da inchinarmi. Poi raccolsi la camicia e la giubba e seguii la scorta armata all’esterno della tenda. Diedi un ultimo sguardo a Hulagu; stava fissando la freccia che avevo fatto cadere sul tappeto.

Fu nella fredda oscurità della notte, mentre mi infilavo la camicia piena di pidocchi, che mi assalirono. Erano in sei, come scoprii in seguito. Mi atterrarono, con la camicia aggrovigliata attorno al collo e le braccia, e mi si avventarono addosso. Mi dimenai, scalciai, strappai la camicia, e vidi lo scintillio di una lama di pugnale. Mi difesi accanitamente senza preoccuparmi del fatto che avrei potuto ucciderne qualcuno, mentre gli aggressori mi tempestavano di calci e bastonate. Poi… la fitta lancinante di una lama che mi penetrava ripetutamente nell’addome… il sangue caldo che mi colava sulla pelle. Un ultimo colpo alla testa, e persi i sensi.

Quando mi riebbi, alcuni minuti dopo, gli assalitori erano spanti, e io ero stato trascinato dietro un carro. Vedevo lo spazio libero che circondava il tendone bianco dell’Orkhon, e i due falò davanti all’ingresso. Serrai il più strettamente possibile i vasi sanguigni recisi, e l’emorragia rallentò. Ma non riuscii ad arrestarla del tutto. Ero debolissimo, e sapevo che se fossi svenuto di nuovo avrei perso il controllo dei vasi lacerati morendo dissanguato.

Sentii delle voci nell’oscurità alle mie spalle. Provai a girarmi, ma non appena accennai a voltare la testa fui assalito dalle vertigini e mi accorsi che stavo perdendo conoscenza.

— Qui, mio signore — sussurrò un uomo. — L’hanno trascinato qui.

Sentii un altro uomo che sbuffava. — Dunque, dopo tutto non è un demone. Sanguina come tutti gli uomini.

Fu necessario un atroce sforzo di volontà per girare la testa verso le voci. Intravidi le sagome indistinte di due uomini in piedi contro lo sfondo del cielo illuminato dalla luna.

— Portalo da Agla. Forse la strega riuscirà a strapparlo alla morte.

— Sì, mio signore Subotai.

Le figure si fusero col buio. Le voci si spensero. Mi sembrò di rimanere lì per ore, sforzandomi di non perdere i sensi. Poi arrivarono degli altri uomini che mi sollevarono in modo rude. L’esplosione di dolore mi fece gridare, e sprofondai nel nulla.

In seguito riacquistai un barlume di conoscenza. Avevo caldo, troppo caldo. Mi girava la testa, e i miei occhi si rifiutavano di mettere a fuoco le immagini. Cercai di drizzarmi a sedere, ma non ne avevo la forza.

— No, no… stenditi — intonò sommessa una voce di donna. — Non muoverti.

Sentii il contatto di una mano fresca sulla mia guancia febbricitante. — Dormi… dormi ancora. Agla ti proteggerà dal male. Agla ti guarirà.

La sua voce era ipnotica. Mi rilassai, mi abbandonai a una sensazione di sicurezza cullato dalla forza delle sue parole cantilenanti.

Scoprii successivamente che trascorsero due giorni e due notti prima che riaprissi gli occhi. Ero steso sulla schiena, fissavo le pareti curve di feltro di una yurta. Attraverso il fumaiolo in alto vedevo un cielo azzurro limpido. Avevo il corpo indolenzito e ogni respiro era doloroso, però riuscii a drizzarmi sui gomiti e a esaminarmi l’addome. I pugnali erano penetrati a fondo, ma le ferite stavano già rimarginandosi. Entro qualche giorno non sarebbero rimaste che le cicatrici, e col tempo anche quelle sarebbero scomparse. Arricciai il naso; la tenda puzzava di latte acido e di sudore. I mongoli non erano maniaci della pulizia.

Il lembo di cuoio che copriva l’ingresso della yurta si scostò, e lei entrò.

— Aretha! — esclamai.

Aveva la pelle abbronzata, i capelli intrecciati e raccolti alla mongola. Portava una lunga gonna e un’ampia casacca che mi ricordavano gli indumenti di daino della vecchia frontiera americana. Dal collo le penzolavano collane di conchiglie e ossa, e alla cintura erano appesi amuleti e borse.

Ma riconobbi subito quell’incantevole viso da dea, i suoi lucenti capelli neri, quegli occhi grigi in cui un uomo avrebbe potuto smarrirsi.

— Aretha — ripetei, la voce rotta per l’emozione di trovarla lì, viva.

Lasciò ricadere il lembo della tenda e si avvicinò al pagliericcio su cui giacevo. Inginocchiandosi, mi fisso in silenzio. Il cuore mi batteva forte, impazzito di gioia.

— Sei tornato tra noi — disse infine. Era la voce di Aretha.

— Sei tornata da me — feci io. — Superando tutti questi secoli. Superando la morte stessa.

Aggrottò le sopracciglia. Toccandomi la fronte, disse: — La febbre se n’è andata, eppure parli in modo sconnesso.

— Tu sei Aretha. Ti ho conosciuta in un’epoca e in un posto diversi, lontano da qui…

— Mi chiamo Agla. Mia madre era Agla, e pure sua madre. È il nome che indica una guaritrice, anche se alcuni barbari credono che io sia una strega.

Mi abbandonai sul pagliericcio. Ma quando tesi la mano lei me la prese.

— Sono Orion.

— Sì, lo so. Subotai ti ha portato da me. L’Orkhon, Hulagu, ha cercato di farti uccidere. Ti teme.

— Subotai, no?

Mi sorrise, e di colpo la yurta puzzolente si riempì di sole.

— Gli interessi molto. Mi ha dato ordini precisi. Guarirti o pagare con la vita. Subotai non sa che farsene di quelli che non sono capaci di eseguire i suoi ordini.

— Perché gli interesso?

Invece di rispondere, Agla proseguì. — Quando ti hanno portato nella mia yurta, ero terrorizzata. Ho cercato di nascondere la mia paura a Subotai, ma dalle ferite che ti avevano inferto ero certa che saresti morto prima dell’alba. Sanguinavi tanto!

— Invece sono vivo.

— Non ho mai visto un uomo con simili poteri. Ho potuto fare ben poco per te, a parte lavare le ferite e darti una pozione per alleviare il dolore. Ti sei guarito da solo.

Non riuscivo a togliermi dalla mente che quella fosse Aretha, la donna incontrata di sfuggita nel ventesimo secolo, ricreata lì nel tredicesimo secolo. Ma o non ricordava la sua esistenza precedente (meglio dire successiva) o era davvero una persona diversa, identica in tutto e per tutto a Aretha. Un clone? Possibile? Se Ormazd era capace di farmi passare attraverso l’inferno e la morte con tutti i miei ricordi dell’altra vita intatti, perché Agla non ricordava di essere Aretha?

— Se sapessero che sei guarito da solo, i barbari penserebbero davvero che tu sia uno stregone — proseguì lei.

— Sarebbe un vantaggio per me?

Rabbrividì. — Non direi. Gli stregoni muoiono sul rogo. Vengono bruciati vivi, oppure gli versano argento fuso negli occhi e nelle orecchie.

Fui io ad avere un brivido. — Non conviene farsi la fama di stregone.

— Lo sei?

— No. Non vedi? Sono un uomo, un uomo qualsiasi.

— Non ho mai visto un uomo come te — fece Agla sottovoce.

— Può darsi — ammisi. — Ma quello che faccio non ha nulla di magico né di soprannaturale. Sono semplicemente più forte degli altri uomini.

Agla si rasserenò, felice di convincersi che non ero un essere mostruoso o maligno.

— Quando ho visto la rapidità della tua guarigione, ho detto a Subotai che le tue ferite non erano gravi come pensavo all’inizio.

— Non vuoi assumerti il merito della mia guarigione?

— Dicono che sono una strega, però non lo credono sul serio. Mi sopportano come guaritrice perché hanno bisogno di me. Ma se pensassero che ti ho guarito usando poteri arcani, allora diventerei una strega, e affronterei il fuoco o l’argento fuso.

Restammo un attimo in silenzio, due stranieri nel campo dei barbari. Lei era Aretha, ma non lo sapeva. Come potevo richiamarle alla mente quell’altra vita?

Pensai a Ahriman, e al motivo per cui ero stato portato in quel luogo e in quell’epoca. Forse parlandole di Ahriman avrei smosso la sua memoria assopita.

— C’è un altro uomo, un uomo scuro e pericoloso — iniziai, e le descrissi Ahriman il più dettagliatamente possibile.

Agla scosse il capo, facendo tintinnare le sue collane. — Non ho mai visto un uomo simile.

Doveva essere lì, da qualche parte. Altrimenti, perché Ormazd mi avrebbe mandato? Poi un nuovo pensiero mi colpì… Era stato proprio Ormazd a inviarmi lì? E se fosse stato Ahriman a esiliarmi in quella regione selvaggia, magari a secoli di distanza da dove era necessario il mio intervento?

Ma non ebbi il tempo di riflettere su quell’interrogativo. La tenda si scostò, e il generale mongolo chiamato Subotai fece il suo ingresso.

11

Subotai entrò solo, senza farsi annunciare, senza scorta, e senza alcun timore. Vestito di cuoio consunto, portava un’unica arma, la scimitarra alla cintura. Era snello e vigoroso come gli altri guerrieri; solo il grigio dei suoi capelli intrecciati ne tradiva l’età. È anche se la sua faccia tonda e piatta era impassibile, in quegli occhi scuri scintillavano l’irrequietezza e la smaniosità di un ragazzo.

Agla si inchinò. — Benvenuto nella mia umile yurta, Subotai.

— Sei la guaritrice. Dicono che tu sia una strega.

— Solo perché so guarire mali e ferite che ucciderebbero un guerriero senza il mio aiuto — replicò Agla. Era un po’ più alta del generale, quando si drizzò.

— Ho dei guaritori cinesi che fanno miracoli.

— Non sono miracoli, mio signore. Sono semplicemente il risultato della conoscenza. I tuoi guerrieri sono coraggiosi e molto abili in guerra. Noi guaritori siamo abili in altre arti.

— Compresa la magia? — chiese Subotai. — La divinazione?

Agla sorrise. — No, mio signore. Né magia né profezie. Semplice conoscenza delle erbe e delle pozioni capaci di guarire il corpo.

Subotai sbuffò; lo stesso borbottio che avevo sentito la notte dell’aggressione. Probabilmente significava che lui era soddisfatto che si stesse facendo il possibile in una data situazione.

Rivolgendosi a me, disse: — Pare che tu stia guarendo molto in fretta. Presto sarai di nuovo in piedi.

— Le mie ferite non erano gravi come sembravano — mentii.

— Così pare.

Mi puntellai sui gomiti, e Agla si affrettò a infilarmi un paio di cuscini sotto le reni.

— Qualcuno ha preso gli uomini che mi hanno attaccato?

Subotai si accovacciò sul tappeto accanto al pagliericcio. — No. Si sono dileguati nella notte.

— Dunque sono ancora nell’accampamento, pronti ad aggredirmi ancora.

— Ne dubito. Sei sotto la mia protezione.

Piegai leggermente il capo. — Grazie, signore Subotai. — Stavo per chiedergli come mai avesse deciso di prendermi sotto la sua ala, ma lui parlò per primo.

— A volte un uomo di elevata posizione… diciamo, il capo di un clan guerriero come Hulagu… deve affrontare un problema spinoso. In certe occasioni, questo capo può augurarsi che il problema sparisca. Altri uomini, fedeli a questo capo, possono interpretare erroneamente le parole del capo e arrecare danno a colui che è causa del problema. Capisci?

Corrugai la fronte. — Ma che problema rappresento io per Hulagu?

— Ho detto forse che stavo parlando di Hulagu? O di te?

— No. Non l’hai detto.

Subotai annuì, contento che capissi la delicatezza della situazione. — Comunque, tu stesso sei un ottimo esempio di quello a cui mi riferisco. Appari dal nulla; sei chiaramente uno straniero, eppure parli la nostra lingua. Dici di essere l’emissario di una terra lontana, eppure sei forte come dieci guerrieri. Insisti che devi vedere il Gran Khan a Karakorum. Eppure, Hulagu teme che tu non sia affatto un emissario, ma un assassino inviato ad uccidere suo zio.

— Assassino? — ripetei confuso. — Ma perché…

Il piccolo generale mi zittì con un cenno. — È vero che vieni da una terra lontana a ovest di qui?

— Sì. — Sapevo che per i mongoli la menzogna era il crimine più odioso. Come molti popoli nomadi forgiati dal deserto, la loro esistenza dipendeva dall’ospitalità e dall’onestà reciproca.

Subotai si chinò in avanti. — Anni fa ho condotto i miei uomini a ovest del più grande di due mari interni, in una regione dove la terra è nera come pece e tanto fertile che il grano cresce più alto di un uomo.

— L’Ucraina — dissi, riflettendo a voce alta.

— Là gli uomini avevano la pelle rosa, come la tua.

Guardai Agla, accovacciata immobile e silenziosa ai piedi del pagliericcio.

— È vero — dissi. — Là vivono uomini col mio stesso colore di pelle, e anche in tutti i tenitori che vanno fino al grande mare dell’Ovest.

— Là a ovest ci sono regni che nessun mongolo ha mai visto — disse Subotai, mentre la smania cominciava a incrinare la sua maschera impassibile. — Regni molto ricchi e potenti.

— Ci sono regni all’Ovest — ammisi. — I russi e i polacchi, e ancora più a ovest, gli ungheresi, i germani e i franchi. E al di là di quelle terre, su un’isola vasta come il Gobi, ci sono i britanni.

— Vieni da quel regno?

Scossi il capo. — Da ancora più in là. Dalle rive di un mare grande come la distanza che c’è tra questo posto e Karakorum.

Subotai si drizzò, riflettendo, cercando di immaginare una simile distesa d’acqua. Dalle informazioni frammentarie captate finora sul posto e convinto che fossimo accampati in qualche angolo della Persia, avevo calcolato che ci trovassimo a un paio di migliaia di chilometri dalla capitale mongola, Karakorum, ai margini settentrionali del deserto dei Gobi.

— Ti ho preso sotto la mia protezione — disse infine Subotai — perché credo che tu dica la verità. Voglio sapere tutto quello che sai di quei regni dell’Ovest… le loro città, gli eserciti, la forza e il valore dei loro guerrieri.

Agla mi rivolse un cenno impercettibile, informandomi che sarebbe stato un errore fatale respingere la richiesta di Subotai o mostrare reticenza.

Il generale non pensò nemmeno che potessi oppormi al suo volere e proseguì: — Però prima devi convincermi che i timori di Hulagu sono infondati. Perché vuoi vedere il Gran Khan? Non hai doni con te, simboli di omaggio. Hai detto a Hulagu di non essere stato inviato a far atto di sottomissione al nostro regno. Che messaggio hai per Ogotai?

Esitai. Non avevo nessun messaggio, naturalmente. Avevo solo dichiarato su due piedi di essere un emissario per evitare di essere ucciso all’istante.

Subotai si drizzò ulteriormente, e la sua voce divenne dura come il ferro. — Ho trascorso la mia vita servendo i Gran Khan, Ogotai e suo padre, il Guerriero Perfetto il cui nome tutti i mongoli venerano. Loro si sono fidati di me, e io non li ho mai delusi.

I sottintesi erano chiari. Se Gengis Khan si fidava di quest’uomo, chi ero io per esitare?

Lentamente, lavorando con la mente a pieno ritmo, dissi: — Sono venuto per mettere in guardia Ogotai e avvisarlo di un male che potrebbe distruggere lui e l’intero impero mongolo.

Lo sguardo di Subotai mi trapassò, quasi volesse mettere a nudo la verità. — Di che male si tratta?

— C’è un uomo, un uomo diverso da tutti gli altri, un uomo oscuro con occhi che ardono d’odio…

— Ahriman — disse il generale.

— Lo conosci? — Restai senza fiato.

— È stato lui a profetizzare la nostra vittoria su Jelal-ed-Din, a dire a Hulagu che Hulagu conquisterà Bagdad e schiaccerà definitivamente la potenza del Califfo.

Chiusi gli occhi un istante, ricordando le storie di Haroun al-Raschid e la favolosa Bagdad delle Mille e Una Notte. Tutto cancellato dalla marea mongola, il fiore dell’Islam annientato dalla crudele forza distruttiva dei mongoli. Città bruciate, giardini calpestati dagli zoccoli dei robusti cavalli dei Gobi, milioni di persone massacrate, un’intera civiltà distrutta. Mentre i cavalieri d’Europa combattevano le loro scaramucce contro l’Islam in Spagna e in Terrasanta, gli invasori mongoli stavano radendo al suolo il cuore dell’islamismo, trasformando i giardini irrigati dell’antica pianura di Shinar in un deserto permanente.

— Ahriman è malvagio — dissi a Subotai. — Porterà distruzione ai mongoli.

Il generale non diede segno di panico. Né di credermi. — Ahriman finora ci ha portato fortuna e vittorie.

— È qui al campo, allora? — Forse erano stati gli uomini di Ahriman a cercare di uccidermi, non servi zelanti dell’Orkhon Hulagu.

— No — rispose Subotai. — È partito due settimane fa.

— Dov’è andato? — Temevo di conoscere già la risposta.

Infatti… — Come te, anche lui voleva andare a Karakorum per vedere il Gran Khan.

Un’improvvisa ondata di forza si agitò in me. — Ed è partito due settimane fa? Devo raggiungerlo.

— Perché? — chiese Subotai.

— Te l’ho detto. È pericoloso. Devo avvertire il Gran Khan perché si guardi da lui.

Il generale si tirò la punta dei baffi, l’unico cenno di incertezza che avessi notato in lui. Mi girai verso Agla, che era rimasta immobile durante tutta la conversazione. Stava fissando Subotai, aspettando che prendesse qualche decisione.

— Ti manderò a Karakorum — disse infine Subotai. — Sotto la mia protezione personale.

— Non può ancora viaggiare — intervenne Agla. — Le ferite non si sono ancora rimarginate bene.

— Posso viaggiare — dissi. — Starò benissimo.

Subotai alzò una mano. — Rimarrai al campo finché la nostra guaritrice non dirà che puoi partire. E nel frattempo io verrò da te ogni giorno. Mi dirai tutto quello che sai sui regni dell’Ovest. È necessario che io sappia.

Prima che potessi aprir bocca, si alzò… con una lieve rigidezza. Solo allora mi resi conto che doveva avere una sessantina d’anni, gran parte dei quali passati in sella, a vincere battaglie e distruggere città.

Quando fu uscito, fissai Agla accigliato. — Devo partire subito. Non posso permettere ad Ahriman di arrivare a Karakorum dal Gran Khan.

— Perché?

Non c’era modo di spiegarglielo. — Devo fare così. Ecco tutto.

— Ma come può quest’uomo essere tanto pericoloso?

— Non lo so. Ma è molto pericoloso, e il mio compito è quello di bloccarlo.

Agla scosse la testa. — Subotai non ti lascerà andare finché non gli avrai raccontato tutto quello che vuole sapere. E nemmeno io voglio che tu parta.

— Hai paura che la tua fama di guaritrice ne risenta, se parto?

— No. Io… voglio che tu stia con me.

Tesi le mani, e lei si avvicinò e lasciò che l’abbracciassi. La strinsi piano, e lei mi appoggiò la testa alla spalla. Sentii il profumo dei suoi capelli… pulito, naturale e assolutamente femminile.

— Com’è che mi hai chiamata — sussurrò. — L’altro nome che hai detto che avrei?

— Non importa. È passato.

— Qual era?

— Aretha.

— C’è stata una donna chiamata così? L’amavi?

Respirai a fondo, assaporando il piacere del suo corpo morbido contro il mio. — La conoscevo appena… ma, sì, l’amavo. Quindicimila chilometri da qui, e quasi ottocento anni… l’amavo.

— Mi somigliava molto?

— Sei la stessa donna, Agla. Non so come, o perché, ma tu e lei siete la stessa persona.

— Mi ami, allora?

— Certo — risposi senza esitare. — Ti ho amata attraverso gli spazi del tempo, dall’inizio del mondo, e ti amerò finché il mondo si ridurrà in polvere.

Alzò il viso, e io la baciai.

— Anch’io ti amo, forte guerriero. Ti amo da una vita. Era una vita che ti aspettavo, e adesso che ti ho trovato, non ti lascerò più andare via.

La tenni stretta e sentii il battito dei nostri cuori. Dentro di me, però, sapevo che Ahriman era in marcia diretto a Karakorum, dove dovevo recarmi anch’io, e che aveva vissuto in questo accampamento, anche se Agla aveva detto di non averlo mai visto.

12

Per tre giorni dissi a Subotai tutto quello che sapevo dell’Europa del tredicesimo secolo, e gradualmente mi resi conto che il suo interesse non era né accademico né estetico, bensì strettamente pragmatico. Il generale che aveva guidato gli eserciti del Khan dalle distese ventose del Gobi, attraverso le steppe, fino all’Ucraina, intendeva ora spingersi ancor più a ovest, imperversare in tutta l’Europa e piantare lo stendardo dei mongoli sulle rive del grande oceano che mai aveva visto.

— Perché? — gli chiesi infine. — Appartieni già a un impero che va dal Catai al Mar Caspio. Presto Hulagu conquisterà Bagdad e Gerusalemme. Perché spingersi oltre?

Subotai era un uomo semplice e schietto, incapace di fingere. Potevo immaginare che risposta avrei ottenuto rivolgendo quella domanda a Cesare Augusto, Napoleone, Hitler, o qualsiasi altro conquistatore civilizzato. Ma mentre sedeva nella sua tenda, con il suo corpo snello ma un po’ rigido, in calzoni di pelle, casacca, e panciotto di cuoio borchiato, Subotai mi diede la risposta nuda e cruda di un barbaro.

— Da quando in gioventù ho giurato fedeltà al vecchio Gran Khan, il Guerriero Perfetto, ho guidato eserciti alla conquista, è vero. Ma sempre per lui o per i suoi figli. Ora sono vecchio e non mi restano più molti anni. Ho visto molte regioni del mondo, ma ce ne sono ancora molte che non ho visto. Appartengo all’impero, è vero, pero nessuna parte dell’impero mi appartiene. I figli e i nipoti del Guerriero Perfetto hanno ereditato le terre che io ho aiutato a conquistare. Adesso vorrei avere terre mie, così che i miei figli abbiano un posto all’interno dell’impero uguale a quello di Hulagu e Kubilai e gli altri nipoti del vecchio Gran Khan.

Non c’era traccia di amarezza nelle sue parole, né invidia o rabbia. Stava semplicemente illustrando la situazione con chiarezza, e in maniera più sintetica di quanto non avrebbe fatto qualsiasi politicante.

— Il Gran Khan sul trono attuale, Ogotai, non ti darebbe una parte dell’impero, perché tu possa passarla poi ai tuoi figli?

— Certo, lo farebbe, se glielo chiedessi. Ma non è il sistema migliore, questo. Meglio trovare nuove terre e aggiungerle all’impero.

Credevo di capire. — Così non ci saranno gelosie e conflitti tra gli Orkhon, come Hulagu.

Subotai sospirò pazientemente. — Tra noi non ci sono gelosie e conflitti. Ci atteniamo alla Yassa, la legge del Gran Khan. Non siamo cani, non lottiamo tra noi per un osso.

— Capisco — dissi, piegando la testa per mostrargli che non intendevo offenderlo.

— È necessario aggiungere nuove terre — continuò Subotai, stranamente disposto a spiegare certe cose a un estraneo. — Qui sta la saggezza del vecchio Gran Khan. È per questo che tra noi non ci sono gelosie e conflitti. La Yassa che lui ci ha dato ci dice di assoggettare altri popoli. Finché lo faremo, non lotteremo tra noi.

Cominciavo a capire. L’impero mongolo era una creazione di Gengis Khan, riverito a tal punto che quei guerrieri non osavano pronunciarne il nome. Era un modello di stabilità sociale dinamica: finché fosse continuata l’espansione dell’impero, il suo nucleo sarebbe rimasto stabile. Ecco perché Subotai doveva spingersi verso ovest; l’Est, fino alla costa del Pacifico, era già sotto il dominio dei mongoli.

— E poi — aggiunse Subotai, quasi mi avesse letto nel pensiero — Mi piace vedere nuove terre, strani paesi. Sono impaziente di vedere l’oceano occidentale di cui parli, e le terre al di là dell’oceano.

Era difficile non ammirarlo. — Ma, generale, i regni d’Europa raduneranno grandi eserciti per contrastarti… migliaia di cavalieri e decine di migliaia di soldati…

Subotai rise, un raro allentamento della sua autodisciplina. — Non cercare di spaventarmi, Orion. Non sarebbe la prima volta che vedo degli eserciti contro di me. Non ti ho mai raccontato la storia della Battaglia dei Carri? O della nostra prima battaglia contro l’esercito di Kharesm?

E via di questo passo per tre giorni fino a tarda ora. In modo semplice e diretto, Subotai stava raccogliendo informazioni per la sua prossima campagna. Sentivo la coscienza rimordermi nel fornirgli le informazioni di cui aveva bisogno, ma dai miei ricordi del ventesimo secolo sapevo che i mongoli non avevano conquistato l’Europa.

Mentre il nostro terzo incontro stava concludendosi verso mezzanotte, gli dissi che adesso sapeva tutto quello che io sapevo sull’Europa, e che era inutile trattenermi oltre.

— Ahriman ha un grosso vantaggio su di me, e arriverà a Karakorum a compiere i suoi malefici prima che io possa fermarlo.

Subotai non sembrava convinto delle doti maligne di Ahriman, ma da quel soldato pratico che era, sembrava più che disposto a lasciare che Ahriman e io combattessimo la nostra battaglia privata.

— Ahriman sta raggiungendo Karakorum con una carovana di preziosi — mi disse. — Carovana che è veloce quanto il suo cammello più carico. Sei un bravo cavaliere?

A quanto mi risultava, non ero mai stato in sella. Però avevo visto gli altri cavalcare, e sapevo che avrei potuto imparare tutto in un giorno, forse meno.

— So andare a cavallo — risposi.

— Bene. Possiamo mandarti a Karakorum con lo yam.

Non conoscevo il termine. Subotai mi spiegò che si trattava di un sistema di corrieri postali a cavallo, circa come il Pony Express che sarebbe stato reinventato nell’Ovest americano sei secoli e mezzo più tardi. Nonostante fossero barbari, i mongoli disponevano di un apparato postale che era la più efficiente rete di comunicazioni del mondo. E la più sicura. La legge mongola, la Yassa, reggeva l’impero con una morsa d’acciaio. Si diceva che una vergine con un carico d’oro avrebbe potuto andare da un capo all’altro dell’impero senza essere molestata. Ed era vero, scoprii. Quando tornai nella yurta di Agla e la svegliai per dirle che sarei partito la mattina dopo, lei annuì assonnata e alzò la coperta imbottita.

— Dormi, allora — mi invitò. — Ci attende una giornata molto lunga, domani.

— Ci attende?

— Vengo a Karakorum con te, naturalmente.

— Ma… Hulagu ti lascerà partire?

Se non fosse stata intontita dal sonno probabilmente si sarebbe indignata. — Non sono una schiava. Posso andare dove voglio.

— Sarà un viaggio duro. Useremo il corriere postale. Saremo a cavallo tutto il giorno, per settimane.

Lei sorrise, chiuse gli occhi e mormorò: — Per questo, sono imbottita meglio di te. — E si riaddormentò.

Fu un viaggio estenuante. Nel ventesimo secolo, chi attraversava l’Asia da Mosca a Vladivostok con la Transiberiana si considerava un viaggiatore rotto a tutti i disagi. Agla e io percorremmo la stessa distanza a cavallo, lungo un itinerario più difficile, attraversando deserti e valichi innevati mentre superavamo il Tetto del Mondo e sbucavamo nella distesa sconfinata del Gobi. Da soli, saremmo morti in meno di una settimana. Ma l’intero percorso era segnato da una catena di stazioni mongole, ognuna a un giorno dall’altra, dove trovavamo cibo caldo, acqua, e cavalli freschi. Le stazioni erano affidate a guerrieri vecchi o storpi, aiutati di solito da alcuni giovani del posto che badavano ai recinti. Era un monumento alla potenza dei mongoli il fatto che nessuno attaccasse mai quelle stazioni. Apparentemente, nell’impero non c’erano movimenti di resistenza clandestini. Probabilmente, ricordando i massacri che accompagnavano le armate dei mongoli, la gente preferiva restare passiva. Ma forse erano le leggi della Yassa e la tolleranza dei mongoli nei territori conquistati a garantire la pace interna.

Avevo sperato di raggiungere la carovana di Ahriman, ma generalmente il corriere postale usava un percorso diverso, più diretto. Un cavallo con un uomo esperto in sella poteva affrontare tratti che una carovana di cammelli non avrebbe mai osato superare. Di tanto in tanto incrociavamo la vecchia pista carovaniera. Anche a chilometri di distanza si vedeva il sentiero tracciato nel corso dei secoli da buoi, cammelli e asini. Incontrammo due carovane, lunghe file di bestie da soma cariche di tesori sottratti all’Ovest, che avanzavano pazientemente verso Karakorum. La scorta era formata solo da un manipolo di guardie. Nessuno lucido di mente attaccava una carovana mongola; intere tribù avrebbero potuto essere sterminate per un crimine simile.

Domandai, cercai Ahriman, ma non era in nessuna delle due carovane. Il che significava che purtroppo aveva un vantaggio più grande di quanto avevo temuto.

Una notte, dopo essere scesi dai valichi del Tien Shan ed esserci sistemati nella capanna che fungeva da alloggio forestieri di una stazione postale, chiesi ad Agla come mai avesse negato di aver visto Ahriman nell’accampamento di Hulagu.

— Non l’ho visto — disse lei.

— Però sapevi che c’era, vero? Anche in un campo grande come quello di Hulagu, la presenza di un individuo del genere deve essere nota a tutti.

— Sì — ammise. — Sapevo che c’era.

— Allora perché mi hai mentito?

Agla drizzò il mento. — Non ti ho mentito. Tu mi hai chiesto se l’avessi visto, e io ti ho detto la verità: non l’ho mai visto. Il Tenebroso stava nella tenda di Subotai. Non l’ho mai visto, io.

— Ma sapevi che c’era.

— E sapevo che aveva predetto a Hulagu che saresti arrivato al campo, che eri un demone e sarebbe stato meglio ucciderti — disse Agla, senza vergognarsi, senza sentirsi in colpa. — Sapevo che per poco non ti avevano ucciso, infatti. E sapevo che finché fossi rimasto sotto la protezione, di Subotai non ti avrebbero più fatto del male. Secondo te, chi ti ha trovato, agonizzante nella polvere dietro il letamaio? Chi ha portato da te Subotai, convincendolo che eri troppo prezioso per morire?

— Tu?

— Sì.

— Perché? Non sapevi chi fossi, né perché fossi venuto…

— Sapevo abbastanza — disse Agla, gli occhi grigi che brillavano nel riflesso del fuoco che crepitava. — Avevo sentito che uno straniero molto potente era stato al campo, che Hulagu era tanto intimorito da dar retta agli avvertimenti del Tenebroso. Sapevo che eri l’uomo che aspettavo da una vita.

— Così mi hai salvato e mi hai protetto finché non mi sono rimesso.

— E ti proteggerò con tutte le mie forze quando raggiungeremo la corte di Ogotai.

— Ci sarà Ahriman, là — dissi.

— Sì. E cercherà nuovamente di ucciderti.

13

Karakorum era uno strano miscuglio di squallore e splendore, di semplicità barbara e di complessità bizantina.

Durante l’epoca di Gengis Khan quella città di tende e yurte era diventata la capitale del mondo, il luogo in cui la nobiltà assoggettata della Cina e dell’Islam veniva a servire in schiavitù, in cui i tesori di tutta l’Asia si riversavano nelle mani di uomini che avevano iniziato la loro esistenza come nomadi.

Finché era rimasto in vita, Gengis Khan aveva proibito la costruzione di strutture permanenti nella sua capitale. Le tende, i carri e le yurte andavano più che bene per lui, in quel campo vicino a un fiume limpido, dove cresceva della buona erba che sostentava il suo tesoro più prezioso… le mandrie di cavalli che portavano i suoi guerrieri negli angoli più remoti del mondo.

Erano i cavalli a segnare i confini di Karakorum. La capitale mongola era attorniata da enormi recinti contenenti decine di migliaia di piccoli, robusti cavalli del Gobi. I loro nitriti arrivavano a chilometri di distanza. I loro scalpitii sollevavano nubi di polvere che oscuravano l’orizzonte. Mentre ci avvicinavamo alla capitale in una gelida mattina, quella polvere mi ricordò il fumo e lo smog che caratterizzavano le città industriali del ventesimo secolo.

Ogotai era il Gran Khan, e amministrava aiutato da mandarini cinesi pratici di scrittura e di documenti. Avanzando, Agla e io vedemmo che edifici di fango secco e perfino di pietra stavano sorgendo attorno all’ordu, il padiglione di tende che ospitava il quartier generale del Gran Khan. La maggior parte di quelle nuove costruzioni, appresi quasi subito, erano chiese e templi. I mongoli erano tolleranti verso le religioni, e i sacerdoti d’ogni genere affollavano la città: monaci buddisti nelle loro tuniche color zafferano, iman mussulmani inturbantati, preti cristiani nestoriani, taoisti cinesi vestiti di seta e broccato, e molti altri che non riconobbi.

Fummo fermati dalle guardie di pattuglia nel punto in cui la strada si addentrava nel labirinto di costruzioni della periferia di Karakorum. Un cinese esaminò il documento consegnatomi da Subotai, documento scritto da uno degli aiutanti cinesi del generale, e ordinò a un guerriero di trovarci un alloggio. Il guerriero montò a cavallo e ci guidò in silenzio nel guazzabuglio brulicante della capitale. Carovane di preziosi che scaricavano; uomini e donne che si accalcavano ovunque. Non c’era alcun criterio d’ordine nella disposizione degli edifici, non c’erano strade degne di quel nome, solo sentieri tortuosi di terra battuta. Lì si sentivano parlare tutte le lingue del mondo, e spesso le si sentivano gridare, urlare, mentre i mercanti discutevano il prezzo di generi che andavano da melograni della Cina a lame di Damasco flessibilissime.

Ci diedero una casetta di mattoni a un piano. La porta si affacciava sulla fascia vuota che delimitava l’ordu del Gran Khan. Dalla finestra anteriore si vedevano le tende bianche decorate e i guerrieri che sorvegliavano gli ingressi. Come nell’accampamento di Hulagu, c’erano due falò accesi davanti all’entrata della tenda del Gran Khan. Per tenere lontani gli spiriti maligni.

C’era già uno spinto maligno nella città, ne ero sicuro. Ahriman doveva essere arrivato prima di noi. Chissà se aveva trovato ascolto presso il Gran Khan? Sarei rimasto vittima di un altro tentativo di assassinio, una volta presentatomi a Ogotai?

Nemmeno questi timori riuscirono a tenermi sveglio. Dopo tante settimane di duro cavalcare, Agla e io crollammo sul letto di piume e dormimmo per quasi ventiquattr’ore.

Mi svegliai avvertendo un senso di pericolo.

Aprii gli occhi, nervi e muscoli tesi. Agla dormiva appoggiando la testa alla mia spalla. Senza girarmi, osservai la stanzetta. Non aveva finestre; c’era un’unica porta con una tenda di grani a sinistra del letto, a meno di un metro. Era stato il lieve frusciare di quei grani a svegliarmi.

Trattenni il respiro, ascoltando. Volgevo le spalle alla porta, e non potevo vederla a meno di non voltarmi, e non volevo farlo per paura di mettere in guardia chiunque si trovasse dietro la tenda.

La tenda frusciò ancora e, nel chiarore fioco del mattino, vidi un’ombra grigia scivolare lungo la parete opposta della camera. Poi, un’altra ombra. Due uomini, con l’elmo conico dei guerrieri mongoli. La prima ombra alzò il braccio, e scorsi la lama sottile di un pugnale.

Rotolai sul letto e li colpii contemporaneamente, mandandoli a sbattere contro la parete. Alzandomi dal pavimento prima che potessero riaversi, torsi il polso del primo uomo, disarmandolo. Mentre il pugnale cadeva a terra, colpii violentemente il collo del secondo assassino col taglio della mano. Dietro di me, sentii Agla urlare. Il primo guerriero stava drizzandosi in piedi, estraendo la scimitarra alla cintura. Gli sferrai un pugno al torace e sentii le costole che si spezzavano. Mentre si piegava in avanti, gli mollai una ginocchiata in faccia. Il mongolo rimbalzò contro la parete e scivolò sul pavimento.

Voltandomi, vidi Agla in piedi sul lato opposto del letto, nuda, un pugnale in mano, le labbra contratte in un ringhio selvaggio.

— Stai bene? — domandammo tutti e due all’unisono. Poi lei rise, scossa, e io respirai a fondo per calmare il battito del cuore.

Agla si avvolse nella trapunta, mentre mi chinavo a esaminare gli aggressori. Morti entrambi. Una scheggia d’osso del naso doveva essere penetrata nel cervello del primo; l’altro aveva il collo rotto.

Agla venne a inginocchiarsi accanto a me. Aveva gli occhi sbarrati.

— Li hai uccisi tutti e due, con le tue sole mani!

Annuii. — Non volevo. Volevo scoprire chi li ha mandati.

— Posso dirtelo io. È stato il Tenebroso.

— Già, lo credo anch’io. Però sarebbe meglio esserne certi.

Un guerriero irruppe nella stanza, la spada sguainata. — Ho sentito un grido! — Poi vide i due cadaveri. Mi guardò, poi tornò a guardare i morti.

Mi aspettavo che si arrabbiasse scoprendo che due suoi compagni mongoli erano stati uccisi da uno straniero, e mi preparai a un altro attacco. Invece, mi fissò meravigliato.

— Sei stato tu?

Annuii.

— Solo? Senza armi?

— Sì — risposi sgarbato. — Adesso toglimeli dai piedi.

Agla intervenne. — Aspetta. Volevi sapere con certezza chi ha mandato questi assassini, no?

Prima che potessi rispondere, si piegò e sollevò una palpebra a una vittima. Fissò l’interno, assorta, rabbrividì leggermente, e richiuse l’occhio del morto. Quindi ripeté la stessa operazione con l’altro uomo. Mentre la osservavo, mi resi conto di essere nudo. Il calore della lotta e della rabbia stava scemando; avevo freddo.

Agla si alzò, stringendosi nella coperta. — È stato il Tenebroso. L’ho visto nei loro occhi.

— Puoi vederlo negli occhi di due morti? — Mi sembrava assurdo.

Ma lei disse solennemente: — Posso vedere tutta la loro vita nei loro occhi. È un dono degli dei.

Non ci credevo. Agla vedeva quello che voleva vedere. Se avesse creduto che gli assassini fossero stati inviati da Hulagu, o dal Gran Khan, o dalla Faccia della Luna, avrebbe dato la colpa a uno dei tre personaggi.

Ma il guerriero le credeva. Strabiliato per le mie doti di combattente e per i poteri di Agla, trascinò i due corpi all’esterno e chiuse la porta, dopo averci ordinato di restare lì in attesa dell’arrivo di un ufficiale.

Barbari che fossero, i mongoli si attenevano rigorosamente alle leggi, e disponevano di un apparato poliziesco uguale a quello di qualsiasi città civilizzata. Anzi, più rapido ed efficiente di molti. Avevamo appena finito di vestirci, quando un ufficiale bussò alla porta ed entrò senza aspettare il nostro permesso.

Mi interrogò, ignorando Agla. Gli raccontai quanto era successo, tralasciando l’esame oculare di Agla.

— Chi può averti mandato degli assassini? — mi chiese. Era preoccupato. Fatti del genere erano rari nella capitale mongola.

Tenni per me la mia opinione. — Non posso saperlo. Siamo arrivati solo ieri.

— Chi sono i tuoi nemici?

Scossi il capo. — Sono uno straniero, vengo da molto lontano. Non pensavo di avere dei nemici qui. Forse mi hanno confuso con un altro.

L’ufficiale non sembrava molto convinto, ma disse: — Forse. Restate qui fino a nuovo ordine. Sarete sorvegliati dai miei uomini.

In pratica eravamo agli arresti domiciliari. Ai mongoli non piacevano certi guai in casa, e intendevano andare in fondo al caso. Due guerrieri si piazzarono davanti alla nostra porta. Dei servi ci portarono cibo e indumenti puliti. Come al solito, non riuscirono a trovare stivali della mia misura. Tenni i sandali. Mi erano stati utili in quelle settimane, anche quando avevo dovuto avvolgerli in pelli e pellicce attraversando i passi del Tien Shan.

— È il Tenebroso — rifletté Agla quando fummo soli. — Cerca la tua morte.

Volle assaggiare il cibo che ci avevano portato, prima di lasciarmelo mangiare. Esaminò addirittura i vestiti in cerca di incantesimi o pozioni nascoste.

— Si può avvelenare un uomo attraverso la pelle — mi avvisò. — So di un impiastro capace di uccidere un guerriero, basta che tocchi per pochi attimi la sua pelle.

Veleni nervini nel tredicesimo secolo? Mi affidai alla sua maggiore conoscenza dell’epoca. La mia attenzione era centrata su un altro argomento. Ero d’accordo con Agla sul fatto che solo Ahriman poteva volermi morto. Ma, perché? Perché ci trovavamo tutti e due lì? La mia missione era quella di ucciderlo, certo. Anche lui era spinto dal medesimo impulso? Eravamo destinati a rincorrerci nel tempo, a giocare una partita eterna preda-predatore per il divertimento di Ormazd e di qualsiasi altro essere divino possibile?

Mi rifiutavo di credere di essere solamente un giocattolo raffinato. Ahriman voleva uccidermi non solo perché gli piaceva farlo, ma anche per impedirmi di sventare i suoi piani. Mirava alla distruzione totale della razza umana, anche se comportava la distruzione della struttura del continuum e il disgregamento dell’intero universo spazio-temporale. Il mio compito era impedirgli di farlo, e per riuscirci definitivamente dovevo per forza uccidere Ahriman.

“Non sono un sicario, non sono un assassino”, mi dissi. “Sono un soldato, che si batte per la vita del genere umano contro un alieno spietato che vorrebbe annientarci. Devo uccidere Ahriman perché solo la sua morte può garantire la sopravvivenza dell’umanità”.

Eppure ero turbato. Per quanto mi sforzassi di convincermi, il nocciolo della questione era sempre quello che Ormazd mi aveva detto nel remoto futuro: trovare Ahriman e ucciderlo.

“Quante volte?” mi chiesi all’improvviso. “Quand’è che un uomo è definitivamente, innegabilmente morto?” Ahriman aveva ucciso Aretha nel ventesimo secolo, eppure Agla era lì al mio fianco, viva. Io stesso ero morto, eppure respiravo ancora, mi muovevo, amavo. Un ciclo senza fine?

Mi abbandonai sul morbido materasso, l’animo troppo stanco per contemplare una caccia eterna, un susseguirsi di morti e assassinii. Agla, avvertendo la mia disperazione, provò a consolarmi.

Poi bussarono alla porta. Colpi educati ma decisi. Tre colpetti distinti.

Andai ad aprire. Era notte, e l’ordu era illuminato dalle fiamme crepitanti dei due falò. La tenda di seta di Ogotai ondeggiava in una brezza che per centinaia di chilometri non incontrava né colline né alberi.

Di fronte a me, un cinese anziano, magro, in una splendida tunica blu e argento. Col suo cappello a punta, era alto quasi quanto me. Aveva i fuochi alle spalle, ed era difficile distinguere i suoi lineamenti.

— Sono Ye Liu Chutsai, consigliere del Gran Khan — disse, con la voce sommessa e acuta di un vecchio. — Posso entrare?

14

Il mandarino rimase pazientemente sulla soglia. Le due guardie mongole erano accovacciate a terra a qualche metro dalla porta, trangugiando la cena da ciotole di legno dopo avere appoggiato lance e archi accanto a se.

— Sì, certo — risposi. — Prego, entra pure.

Il mandarino camminava con tanta scioltezza e leggerezza che sembrava quasi scivolare sul pavimento, sopra un carrello nascosto sotto le sue vesti. Lo presentai ad Agla, che si inchinò e andò ad attizzare il fuoco nel camino.

Ye Liu Chutsai era più vecchio di tutti gli uomini incontrati tra i mongoli. Barba e baffi erano candidi, come il lungo codino che gli scendeva sulla schiena. Si fermò al centro della stanza spoglia, le mani infilate nelle ampie maniche.

Gli indicai l’unica sedia della camera, un oggetto di legno, massiccio e scomodo. — Prego, siediti, signore.

Si sedette. Agla prese due cuscini in camera da letto e li offrì al mandarino. Rifiutò, scuotendo il capo con un sorrisetto, così Agla e io sedemmo ai piedi dell’anziano cinese.

— Dovrei cominciare spiegando chi sono — esordì, a voce talmente bassa che dovetti compiere un piccolo sforzo per capirlo tra il crepitare del fuoco.

Agla disse: — Il tuo nome è noto come quello del braccio destro del Gran Khan.

Il mandarino piegò il capo educatamente.

— Servo i mongoli da quando il primo Gran Khan era ancora chiamato col suo nome di nascita, Temucin. Ero solo un giovane quando i mongoli si sono riversati oltre la Grande Muraglia saccheggiando Yan-King, la mia città natale. Sono stato preso come schiavo perché ero scriba. Sapevo leggere e scrivere. Anche se i guerrieri mongoli non apprezzavano questo fatto, Temucin lo apprezzava.

— È lui l’uomo diventato poi Gengis Khan? — chiesi.

— Sì, ma usare questi nomi di fronte ai mongoli non è saggio. È chiamato il Gran Khan. Era il padre di Ogotai, l’attuale Gran Khan. Era l’uomo che ha guidato i mongoli alla conquista della Cina, dell’Alta Asia, dell’Islam. L’uomo più grande che il mondo abbia conosciuto.

Non stava a me contraddirlo. L’anziano mandarino non sembrava il tipo da tessere lodi in modo sciocco o insincero. Credeva in quel che diceva, e per quel che ne sapevo io forse aveva ragione.

— Oggi l’impero dei mongoli si estende dal Mar della Cina alla Persia. Hulagu sta per conquistare Bagdad. Subotai è già in marcia contro i russi e i polacchi. Kubilai, a Yan-King, sogna di sottomettere i giapponesi sulle loro isole.

— Dovrebbe rinunciare a quel sogno — dissi, ricordando che la flotta d’invasione di Kubilai era stata affondata da una tempesta che i giapponesi chiamano Vento Divino, Kamikaze.

Ye Liu Chutsai mi fissò. — Perché dici questo? Cosa profetizzi?

Agla mi lanciò un’occhiata ammomtrice. I profeti rischiavano grosso tra quella gente.

— Nulla — risposi sbrigativo. — Un semplice commento. Dopo tutto, i mongoli sono cavalieri, non marinai. Il mare non è il loro elemento.

Il mandarino mi studiò a lungo. Infine disse: — I mongoli sono davvero i più feroci guerrieri del mondo. Non sono marinai, è vero. Ma non sono nemmeno amministratori, o scribi, o artigiani. Usano i prigionieri per tutti questi compiti. Troveranno marinai a sufficienza tra i cinesi.

Piegai il capo alla sua saggezza superiore.

— L’impero deve continuare a espandersi — proseguì. — È stato questo il genio del primo Gran Khan. Aveva capito che queste tribù barbare devono continuare a muoversi, a trovare nemici da assoggettare, altrimenti il loro impero crollerà. Questi guerrieri a cavallo sono enormemente coraggiosi, vivono per la guerra. Se non ci fossero nemici oltre i loro confini, tornerebbero alle vecchie consuetudini e comincerebbero a combattere tra loro. Vivevano in questo modo prima che Temucin unisse le tribù guerriere del Gobi nell’esercito più potente che il mondo abbia mai visto.

— Ecco perché l’impero continua a espandersi — dissi.

Deve espandersi. O crollare. Non c’è via di mezzo. Non ancora.

— E mentre l’impero si espande, i mongoli massacrano decine di migliaia di persone indifese e radono al suolo città.

Il mandarino annuì.

— E tu li aiuti a far questo. Perché? Sei un uomo civile. Perché aiuti quelli che hanno invaso la tua terra?

Ye Liu Chutsai chiuse gli occhi un attimo, e la sua faccia rugosa sembrò una maschera di morte nel chiarore tremulo del fuoco.

Quando riaprì gli occhi, disse: — Non c’è che un’unica vera civiltà al mondo, la civiltà della terra chiamata Catai o Cina. Io sono figlio di quella terra, un cinese. Servo il Gran Khan mongolo perché la civiltà si estenda ai quattro angoli del mondo. Ero confuso. — Ma i mongoli hanno conquistato il Catai. Kubilai regna a Yan-King, ora.

Il vecchio sorrise. — Sì, e Kubilai, nato in una yurta sulle praterie non lontano da qui, è già più cinese che mongolo. Porta vesti di seta, dipinge splendidi paesaggi, e affronta gli intrighi di corte con la delicatezza di un mandarino.

Cominciavo a intuire cosa volesse dire. — I mongoli sarebbero i guerrieri, ma i cinesi saranno i veri conquistatori.

— Esatto — confermò Ye Liu Chutsai. — I mongoli sono il braccio armato dell’impero, ma il cervello è la civiltà cinese.

Agla intervenne. — Dunque, sono i mongoli che vi servono, vero?

— Oh, no, per i miei sacri antenati, niente affatto! — Il vecchio sembrava turbato da una simile idea. — Siamo tutti al servizio del Gran Khan, Ogotai. Io sono il suo schiavo… volentieri.

— Ma solo perché il Gran Khan sta spianando la strada all’avvento di un impero cinese che abbracci il mondo — insisté Agla.

Ye Liu Chutsai tacque, e io mi resi conto che stava riordinando i pensieri per poterceli esporre nel modo più chiaro possibile.

— Temucin — disse sottovoce, quasi temesse che qualcuno lo sentisse pronunciare quel nome venerato — considerava la conquista come un mezzo per impedire alle tribù del Gobi di annientarsi a vicenda. Un colpo di genio. Ma questo comporta una continua espansione dell’impero mongolo.

— Sì, ce l’hai già detto — fece Agla.

— Ma a che servono tutti questi spargimenti di sangue, queste sofferenze? — chiese il mandarino. — A che servono, se non a far sì che questi guerrieri nomadi non si azzannino l’un l’altro?

Agla e io sapevamo rispondere.

— D’altro canto — proseguì il vecchio — ecco che abbiamo la civiltà della Cina, la civiltà più elevata mai vista al mondo. Non è guerresca, quindi non ha il modo di diffondere in altre terre i frutti della sua cultura.

— I mongoli invadono il Catai, ma alla fine è la civiltà cinese a conquistarli — osservai.

— Tempo un paio di generazioni. Forse, di più — annuì Ye Liu Chutsai.

— Dunque il tuo compito è quello di favorire la crescita dell’impero mongolo, per impedirgli di crollare per un periodo di tempo sufficiente a permettergli di trasformarsi in un impero cinese, retto da mandarini civili che controlleranno il mondo intero.

— Sì. Un grande impero unificato che comprenda il mondo intero, da mare a mare. Pensate a cosa significherebbe! La fine degli spargimenti di sangue. Un mondo di pace, governato dalla legge, non dalla spada. È la meta a cui ho dedicato tutta la mia vita.

Un impero cinese, costruito con la forza dai guerrieri mongoli, diretto da mandarini ammantati di seta. Ye Liu Chutsai vedeva la più grande civiltà della storia che creava un mondo di pace. Io vedevo un’autocrazia che avrebbe soffocato la libertà individuale, pur con segni di civiltà.

— Vi dico tutto questo perché desidero che capiate il problema che rappresentate per me — disse il mandarino.

— Problema? — chiesi. Sospirò, — Ogotai non è come suo padre. È troppo affabile per essere un buon sovrano, troppo soddisfatto delle ricchezze che ha oggi per capire la necessità di spingersi costantemente in avanti.

— Ma hai detto che…

— Fortunatamente — proseguì, zittendomi con l’indice alzato — la forza interiore dell’impero è ancora ben viva, Hulagu, Subotai, Kubilai e gli altri orkhon e principi puntano oltre ai confini dell’impero mongolo. Ogotai se ne sta qui a Karakorum, accontentandosi che siano gli altri a combattere, mentre lui si gode i frutti delle loro conquiste. Non è una situazione salutare.

— Ma questo che c’entra con noi? — chiese Agla.

— Ogotai è superstizioso — rispose Ye Liu Chutsai. — E i suoi indovini ultimamente gli hanno detto di guardarsi da uno straniero venuto dall’Ovest… perché costui tenterà di uccidere il Gran Khan.

Intervenni deciso. — Anch’io devo metterlo in guardia.

— Tu vieni dall’Ovest — disse Ye Liu Chutsai. — Come pure l’uomo che si chiama Ahriman.

— È qui! — esclamai.

— Lo conosci?

— Sì. È da lui che Ogotai deve guardarsi.

Il mandarino sorrise. — Ahriman ha già avvertito Ogotai di guardarsi da te, l’uomo dalla carnagione chiara e dalla gran forza proveniente da oltre il mare occidentale.

La mia parola contro quella di Ahriman, riflettei. Come sarei riuscito a convincere il…

— C’è dell’altro — aggiunse Ye Liu Chutsai. — Qualcosa che complica il problema.

— Cosa?

— È sorta una minaccia per l’impero.

— Una minaccia? — ripetei.

— Cosa può minacciare un impero che ha conquistato mezzo mondo? — fece Agla.

— Oggi parlando con le guardie hai usato la parola assassino.

— Sì, dopo che quei due uomini hanno cercato di uccidermi.

Assassino è una parola nuova, qui. Proviene dalla Persia, dove è nato un culto… religioso, forse. È un culto omicida, e i suoi membri sono chiamati assassini. Pare che la parola derivi dal nome persiano di una droga usata da questi uomini: l’hascisc.

— Non capisco cosa c’entri questo con me — dissi.

— L’uomo che dirige questa setta è astuto come mille demoni. Recluta i giovani e promette loro il paradiso, se eseguiranno i suoi ordini. Con l’hascisc, e senza dubbio con altre droghe, mostra loro una visione del paradiso che raggiungeranno una volta liberatisi delle loro spoglie mortali. Non c’è di che stupirsi se i giovani sono pronti a rinunciare alla vita per obbedire ai voleri del loro maestro.

— So di queste droghe — disse Agla. — Sono così potenti che un uomo è disposto a tutto pur di averle.

Ye Liu Chutsai chinò il capo in segno affermativo. — A questi schiavi della droga viene ordinato di uccidere. Anche se sanno che a loro volta saranno uccisi, obbediscono volentieri, convinti di svegliarsi poi in un paradiso eterno.

Non dissi nulla, pur sapendo che solo in apparenza la morte era la fine dell’esistenza.

— In Persia, migliaia di mercanti, di nobili, persino di iman e di principi sono stati… assassinati. Basta che la setta avverta un uomo che la sua ora è scoccata… Il terrore della probabile vittima è così grande da indurla a pagare qualsiasi prezzo pur di placare gli assassini. In questo modo, il culto diventa sempre più ricco e potente.

— In Persia — dissi. La terra di Ahriman e di Ormazd, e del loro antico profeta Zoroastro.

— Il culto si è esteso oltre i confini della Persia — precisò il mandarino. — Tutto l’Islam è in una morsa di terrore. E temo che gli assassini siano giunti fin qui, a Karakorum, per uccidere il Gran Khan.

— Ahriman viene dalla Persia — dissi.

— Lo ammette in tutta sincerità. Però sostiene che anche tu vieni da là. Cosa che tu neghi.

— Per poco, degli assassini non mi hanno ucciso oggi.

Il mandarino si strinse nelle spalle. — Poteva trattarsi di uno stratagemma ingegnoso per sviarci. Quei due non erano mongoli, nonostante il loro abbigliamento. Può darsi che tu li abbia uccisi per allontanare da te i sospetti.

— Non è vero. Loro hanno cercato di uccidermi.

La faccia rugosa del vecchio aveva un’espressione preoccupata. — Voglio crederti, Orion. Però non posso agire ingenuamente. Tu o Ahriman… Sono convinto che uno di voi sia un assassino, forse addirittura il capo stesso della setta, l’uomo noto ai persiani solo come il Veglio delle Montagne.

— Come posso convincerti…?

Ye Liu Chutsai scosse il capo. — Dinanzi a un problema del genere, i mongoli agirebbero con semplicità stupefacente… Ucciderebbero sia te sia Ahriman, forse anche te, mia bella signora, e risolverebbero tutto. Io, con la mia coscienza di persona civile, cercherò di stabilire chi di voi sia l’assassino, e chi l’innocente.

— Dunque non ho nulla da temere — dissi, tutt’altro che tranquillo.

— Non da parte mia. Non ancora. — Il mandarino esitò, quindi aggiunse: — Ma Ogotai non è un uomo paziente. Forse deciderà di ricorrere al sistema mongolo per sbarazzarsi definitivamente del problema.

15

Agla e io non eravamo esattamente prigionieri, però in qualsiasi parte di Karakorum andassimo, i due guerrieri mongoli ci seguivano. Ye Liu Chutsai diceva che erano una scorta per proteggerci, ma mi facevano sentire a disagio. Giorno e notte, erano sempre a pochi passi da noi. Scoprii che la disciplina mongola era inflessibile: quegli uomini ci avrebbero sorvegliato finché non avessero ricevuto l’ordine di smettere. Se gli fossimo sfuggiti di vista, sarebbero stati uccisi. Se uno di loro fosse morto durante la sorveglianza, il figlio avrebbe preso il suo posto, ammesso che fosse abbastanza cresciuto da essere un guerriero. In caso contrario, sarebbe subentrato il parente maschio più prossimo.

Potevamo muoverci liberamente nella città, fatta eccezione per l’unico posto dove volevo andare… il padiglione del Gran Khan, l’ordu di tende che vedevo ogni mattina dalla porta del nostro alloggio. Ye Liu Chutsai non mi permetteva di vedere il Khan né di superare la fascia spoglia che delimitava l’ordu. Il mandarino temeva che potessi essere un assassino, o addirittura il capo della setta di assassini. Così per me non c’era verso di incontrare il Gran Khan, mentre gli intrighi di corte cinesi si insinuavano nel cuore dell’impero mongolo.

Però, nulla mi impediva di cercare Ahriman. Per giorni interi Agla e io vagammo nei viottoli rumorosi che serpeggiavano tra yurte ed edifici di pietra e di fango, alla ricerca del Tenebroso. Karakorum era una metropoli costruita a casaccio, senza piani precisi, senza servizi. I mongoli la consideravano soltanto un accampamento come tanti, solamente più grande di quelli abituali. Non capivano le differenze derivanti da un cambiamento di dimensioni. Un campo di nomadi di mille famiglie, con tende, cavalli e bestiame, poteva vivere accanto a un fiume per settimane prima di doversi trasferire. Ma una città di diecimila famiglie, o centomila, che rimanesse fissa in un posto era al di là delle capacità dei mongoli.

L’igiene era inesistente. Per quei nomadi che si ungevano di grasso animale per proteggersi dal gelo invernale, il bagno era una pratica quasi sconosciuta. L’immondizia e i rifiuti corporei venivano semplicemente scaricati sul terreno, di solito dietro le tende. L’acqua che gli schiavi portavano in città proveniva dallo stesso fiume in cui riversavano i rigagnoli di liquame. Un sistema che poteva anche funzionare per un campo temporaneo; per un insediamento permanente, però significava inevitabilmente malattie. Mi chiesi tra quanto tempo Karakorum sarebbe stata spazzata via da un’epidemia di tifo. Forse era quella la fine predestinata dell’impero mongolo.

Il rumore di quei viottoli faceva concorrenza con la Manhattan del ventesimo secolo. Tutti come minimo sbraitavano. I carri scricchiolavano e gemevano sotto carichi pesantissimi. I cavalieri passavano scalpitando, mettendo in fuga mercanti, donne, bambini… chiunque sbarrasse loro la strada. Pioveva di rado, ma quando pioveva, diluviava. Ogni bufera abbatteva una quantità enorme dei fragili edifici di fango, anche se le yurte di feltro e le grandi tende dell’ordu resistevano al vento e alla pioggia meglio delle strutture permanenti. Dopo ogni temporale, c’erano pozzanghere ovunque, in cui si moltiplicavano zanzare grosse come passeri.

Nessuno di quelli con cui parlai ammise di sapere della presenza di Ahriman. Ye Liu Chutsai l’aveva visto prima d’incontrarmi, e mi aveva detto che Ahriman aveva perfino parlato con Ogotai prima del mio arrivo. Però il mandarino non voleva fornirmi alcun indizio che mi aiutasse a trovarlo.

Così, giorno dopo giorno, Agla ed io con la nostra fedele scorta ci aggirammo nella capitale mongola, avanzando a spintoni tra la ressa, cercando un uomo in una città che doveva contare quasi un milione di abitanti. Provai tutte le chiese, dalla capanna fetida di alcuni eremiti cristiani all’aurea magnificenza di un tempio buddista.

Dopo quasi una settimana di ricerche, finalmente individuai quello che cercavo: un piccolo, tozzo edificio senza finestre, di pietra grigia, sul limitare della città, vicino ai recinti, dove il tanfo degli animali e il ronzio delle mosche erano insopportabili.

Il viso di Agla mostrò il disgusto che provava per quel posto. — Qui non c’è nulla… solo puzza e sporcizia.

— E Ahriman. — Indicai la costruzione grigia.

— Là?

— Ne sono sicuro. — Rivolgendomi alle guardie, chiesi:— Che edificio è, quello?

Si guardarono in faccia prima di scrollare le spalle fingendo di non sapere. Forse avevano l’ordine di tenermi lontano da Ahriman. Forse per paura non volevano entrare nel territorio del Tenebroso. Non aveva importanza. Mi incamminai verso la porta, l’unica apertura visibile dell’edificio.

— È meglio non entrare là dentro — disse una guardia. Era la frase più lunga che avessi mai sentito dalla sua bocca.

— Potete aspettare fuori — replicai senza fermarmi.

— Aspetta. — La guardia si affrettò a pararmisi di fronte.

— Io entro. Non cercate di fermarmi.

Chiaramente, l’idea non gli piaceva, però non aveva neppure intenzione di sfidarmi. Mandò il compagno sul retro, a controllare che non ci fossero altri ingressi. Non ce n’erano. Soddisfatto di poter sorvegliare quell’unica porta, si fece da parte.

— Devi chiamare se c’è pericolo — disse.

Rispose Agla. — Non temere, io chiamerò. — Ma il guerriero non prestò attenzione a una donna.

Dovetti chinarmi per varcare la soglia bassa. All’interno, una camera buia, tetra. Agla si strinse a me.

— Non vedo nulla — mormorò.

Io vedevo. La mia vista si adattò subito all’oscurità, e anche se le ombre sinistre non si diradarono, riuscii a scorgere un altare di pietra su una piattaforma, con strani simboli intagliati.

— Ti aspettavo — echeggiò la voce aspra di Ahriman.

Mi girai nella direzione della voce e lo vidi, una presenza più scura dell’oscurità, all’estremità opposta della stanza.

— Vieni avanti — disse. — Alla ragazza non accadrà assolutamente nulla. Puoi lasciarla lì.

Agla sembrava pietrificata. Mi stringeva le braccia, immobile, lo sguardo fisso nel vuoto.

— Non vedrà né sentirà nulla — disse Ahriman. — Lasciala e vieni da me.

Mi liberai dalla stretta di Agla. Era ancora calda e viva, però non le sentivo il respiro né il battito del cuore.

— Ho solamente accelerato il tempo per noi due — mi spiegò Ahriman mentre la studiavo. — Così potremo parlare senza che qualcuno ci spii o ci disturbi.

Attraversai il pavimento di pietra. Le pietre sembravano reali, solide. Ahriman era come lo ricordavo… una mole possente, scura, minacciosa, e un paio di occhi rossi simili a braci. Agla restò bella e immobile come una statua fatta di carne.

— Quando tornerai da lei, non saprà del tempo trascorso. E per lei non sarà trascorso un solo istante.

— Sei bravo a manipolare il tempo — osservai.

Era ritto, le gambe divaricate, i pugni sui fianchi. Indossava una tunica bordata di pelo e stivali di cuoio. Sembrava disarmato, del resto le armi non servivano a un uomo della sua potenza.

— Tu stesso ti sposti nel tempo con grande facilità — sibilò Ahriman. — Nel tempo, e nello spazio. È stato lungo il viaggio dall’accampamento di Hulagu.

— Non hai mai viaggiato con la carovana di cammelli, vero?

Poco mancò che la sua faccia accigliata sorridesse. — No. Ho usato un sistema di trasporto diverso. Sono qui a Karakorum da tre mesi. — Sono molto rispettato come un sacerdote di una nuova religione, una religione per guerrieri.

— Quei due assassini, li hai mandati tu.

— Sì — ammise. — Dubitavo che potessero concludere qualcosa, ma dovevo vedere se possedevi ancora i poteri che avevi l’ultima volta che ci siamo incontrati.

— Nel reattore a fusione.

Per un attimo aggrottò la fronte, perplesso. — Reattore a… — Poi inspirò a fondo. — Ah, sì, certo. Tu stai muovendoti all’indietro, verso la Guerra. Io non ho ancora raggiunto quell’epoca.

Ci spostavamo in direzioni temporali opposte, ricordai. Ci eravamo già incontrati, e ci saremmo incontrati di nuovo.

— Mi hai… ucciso, dunque? — Il tono di Ahriman tradiva una lieve preoccupazione.

— No. Tu mi hai ucciso.

— Ah, allora posso ancora riuscire nel mio intento.

— Distruggere la razza umana.

Mi fissò minaccioso. — Umana. Guarda le meraviglie fatte da questi mongoli. Guarda come massacrano i loro simili a centinaia di migliaia, e il modo in cui altri che si ritengono gente civile approvano queste stragi e ne traggono beneficio. Davvero un comportamento umano.

— Ti consideri migliore, visto che intendi massacrarci a milioni?

— Intendo correggere un errore commesso cinquantamila anni fa — ringhiò Ahriman. — Ogni vita soffocata significherà il guadagno di una vita. La mia gente vivrà, la tua morirà. E morrà anche il tuo creatore… quello che si fa chiamare Ormazd.

— La guerra si è svolta cinquantamila anni fa?

— Lo scoprirai. Mi incontrerai, allora. Vedrai. Perché altro Ormazd ti avrebbe fatto arretrare dalla Fine verso La Guerra? Per nasconderti la verità.

Chiusi gli occhi, sforzandomi di respingere le sue bugie. Mi formai un’immagine mentale di Ormazd, splendente nel buio dell’eternità. Il Radioso, il dispensatore della vita e della verità. Ahriman sosteneva che fosse il mio creatore, e che ci avrebbe uccisi entrambi.

Aprendo gli occhi, dissi: — La mia missione è quella di ucciderti.

— Lo so. Io stesso sarei felice di ucciderti, con la stessa facilità con cui si schiaccia un insetto.

— Con la stessa facilità con cui hai ucciso lei?

— La ragazza?

— Si chiamava Aretha, nel ventesimo secolo.

— Non sono ancora stato là.

— Ci sarai. E la ucciderai. Se non ce ne fossero altre, mi basterebbe questa ragione per odiarti.

Si strinse nelle spalle massicce. — Puoi odiare, puoi anche amare. Ormazd ti ha programmato con estrema flessibilità.

Ero abbastanza vicino da afferrarlo per la gola. Ma avevo già assaggiato la forza di quelle braccia, e sapevo che avrebbe potuto spezzarmi come un fuscello.

— I mongoli non facilitano il nostro scontro — disse Ahriman, interrompendo i miei pensieri. — Hanno le loro leggi, e faranno tutto quanto sarà loro possibile perché noi le osserviamo.

— Chiederò udienza a Ogotai e lo metterò in guardia contro di te. Non avrai successo qui.

La sua bocca sottile si piegò in un sorriso agghiacciante. — Successo? Ho già vinto. E tu mi hai aiutato!

— Cosa vorresti dire?

Scosse la testa. — Cosa ti aspetti da me? Pensi che sia qui per assassinare Ogotai?

— Sei il capo del culto degli assassini, vero?

Il sorriso degenerò in un ghigno di scherno. — No, mio antico avversario. Non sono il Veglio delle Montagne. Solo un vero essere umano può pensare di uccidere i suoi fratelli per profitto. Il capo degli assassini è un persiano, un umano come te. Era un amico di gioventù di qualcuno di cui forse hai sentito parlare… Omar Khayyam, l’astronomo.

— Credevo fosse un poeta.

— Sì, scribacchiava versi di tanto in tanto. Ma per quanto riguarda gli assassini, Hulagu li schiaccerà… dopo aver preso Bagdad e distrutto il fiore della cultura islamica.

— Hai detto che hai già vinto qui… e che io ti ho aiutato.

— Sì — annuì serio Ahriman. — Vieni. Ti faccio vedere.

Si voltò e attraversò la parete alle sue spalle. Ricordando lo scherzo che mi aveva giocato nel ventesimo secolo, ebbi un attimo di esitazione, poi lo seguii.

Penetrai nel muro, avvertendo nuovamente per un istante il gelo dello spazio profondo. Poi sbucammo in una foresta, tra piante alte che stormivano nel vento notturno. In silenzio, Ahriman mi guidò lungo i meandri di un sentiero nel sottobosco. In alto, tra il fogliame, si scorgeva uno spicchio di luna che affiorava dalle nubi in corsa. Un gufo chiurlò nell’oscurità; i grilli frinivano in continuazione.

Ci fermammo all’estremità del bosco, dove il terreno digradava verso un’ampia pianura erbosa. C’erano tende, laggiù; e lunghe file di cavalli che dormivano. Ma erano tende alte e quadrate, diverse da quelle dei mongoli. I carri che si vedevano erano più grandi e massicci di quelli di Karakorum. E anche i cavalli sembravano diversi dai pony del Gobi; questi erano più grossi, più lenti.

— Il fior fiore del cavalierato dell’Europa orientale — mormorò Ahriman. — Guidato da Bela, re d’Ungheria. Ci sono centomila uomini accampati laggiù… cavalieri della Croazia, della Germania, dell’Ungheria naturalmente, e perfino i Templari di Francia.

— Dove siamo?

— Quella è la piana del Mohi. Oltre il fiume c’è il Tokaj, la terra del vino. È là che Subotai e i suoi mongoli stanno passando la notte… almeno, così crede Bela.

Nel tenue chiarore lunare, vidi delle guardie attorno al perimetro dell’immenso accampamento, e altre tende piantate sulla sponda opposta del fiume ai piedi di un ponte di pietra che lo attraversava. Non si notava nulla di strano mentre i primi tentacoli grigi dell’alba striavano il cielo.

Poi Ahriman mi fece accovacciare tra la vegetazione.

Accennai una protesta, ma lui mi zittì calcandomi una mano poderosa sulla spalla.

D’un tratto sentii il fiato di un cavallo. Girandomi, vidi nel fitto del sottobosco un paio di guerrieri mongoli che avanzavano lenti e silenziosi sui loro pony. Dietro di loro, altri cavalieri, tutti silenziosi come fantasmi. Si fermarono, gli archi in mano, le frecce già incoccate. Aspettavano un segnale.

Una grandinata di fuoco solcò il cielo grigio. Sul campo degli europei piovvero dardi incendiari, appiccando il fuoco alle tende, terrorizzando i cavalli legati. Un urlo allucinante si levò da migliaia di guerrieri mentre i mongoli spronavano le loro bestie e si lanciavano nel campo addormentato da tre lati. Alcuni cavalieri ci passarono accanto, coprendoci di zolle di terra, lanciando terribili grida di guerra, tendendo i piccoli archi doppi e trafiggendo gli europei che barcollavano ancora intontiti dal sonno.

La carneficina fu totale. Per tutta la mattina i due eserciti lottarono, migliaia e migliaia di uomini impazziti che cercavano di uccidersi a vicenda. Gli europei si battevano con la forza della disperazione; erano circondati, e non avevano alcuna speranza di fuggire o di essere risparmiati. I mongoli, nonostante la notevole inferiorità numerica, abbattevano spietati gli avversari con frecce, lance e scimitarre che non facevano distinzione tra sangue nobile e sangue plebeo. Gli europei non ebbero nemmeno il tempo di montare in sella o di indossare le armature. Furono massacrati nei loro indumenti da notte. Gli uomini sul lato opposto del ponte combatterono coraggiosamente, ma ben presto i mongoli li decimarono e si riversarono attraverso il ponte per completare l’accerchiamento.

Il sole brillava alto nel cielo, mentre fissavo inorridito il sangue che colava nella polvere. Uomini agonizzanti, cavalli che gemevano, terrore e confusione ovunque.

— Ecco il genere umano nella sua migliore espressione — commentò godendo Ahriman. — Osserva con quanta energia e passione i tuoi simili si ammazzano.

Non dissi nulla. Che potevo dire? L’odore del sangue, la vista dei corpi squarciati, smembrati, mi dava il voltastomaco.

— Ho già vinto — disse calmo Ahriman. — Grazie alle informazioni che hai dato a Subotai, i mongoli hanno sgominato l’esercito europeo. Adesso tra loro e il Reno non c’è più nessun ostacolo. Si spingeranno a ovest, distruggendo città e massacrando intere nazioni. I francesi cercheranno di opporsi all’invasione, come contro i mori sotto Carlo Martello. Ma il momento della gloria definitiva arriverà per Subotai. Annienterà l’esercito francese, come oggi ha annientato Bela e i suoi alleati. Tutta l’Europa sarà dominata dai mongoli… tutta l’Eurasia, dal Pacifico all’Atlantico.

— Ed è questo che cerchi? — chiesi, distogliendo lo sguardo dalla scena del massacro.

La sua mano d’acciaio mi strinse il braccio. — Sì, Orion. E nulla può impedire che accada. Né tu né Ormazd potete fermarmi adesso. Non potete più fermarmi.

Chiusi gli occhi un istante. La stretta di Ahriman si allentò, e il rumore e il tanfo della battaglia sembrarono svanire.

Aprii gli occhi… ed era Agla che mi stringeva il braccio, non Ahriman. Eravamo di nuovo nel tempietto di pietra a Karakorum. Ahriman mi scoccò un sorriso di commiato, una smorfia più che altro, e tornò a scomparire nell’oscurità.

Agla si mosse, respirò, come una statua che di colpo si animasse. — Non vedo nulla, qui — disse.

— Io ho già visto abbastanza. Più che abbastanza. — La condussi fuori, nella luce del giorno.

Entro poche settimane, un corriere sarebbe giunto al galoppo a Karakorum per annunciare la vittoria di Subotai. I mongoli avrebbero esultato, ma Subotai non sarebbe stato richiamato nella capitale per ricevere congratulazioni o ricompense. Lui e il suo esercito avrebbero continuato l’avanzata, come aveva detto Ahriman, per schiacciare il cuore dell’Europa come avevano distrutto il cuore del mondo musulmano.

Prima dell’arrivo dei Mongoli, la Persia e la terra tra il Tigri e l’Eufrate erano state le regioni più popolose e ricche della Terra. I canali di irrigazione scavati nei tempi remotissimi di Gilgamesh avevano fatto di Babilonia, e in seguito di Bagdad, il centro della civiltà… qualunque cosa pensassero i cinesi. Ma i mongoli avevano devastato quella parte del mondo in maniera tale che solo a distanza di secoli quell’area avrebbe riacquistato una pallidissima traccia dello splendore precedente.

Ora l’Europa era indifesa di fronte a Subotai. I suoi guerrieri avrebbero fatto alla Polonia, alla Germania e ai Balcani quello che avevano fatto al Medio Oriente. Forse l’Italia si sarebbe salvata, protetta dalle Alpi. Ma ne dubitavo. Quei guerrieri che avevano superato il Tetto del Mondo non si sarebbero arrestati dinanzi a montagne che non erano riuscite a fermare Annibale. L’Italia, la Grecia… il fiore della civiltà mediterranea sarebbe stato annientato come tutto il resto.

E io avevo aiutato Subotai a ottenere simili risultati. Ahriman aveva davvero motivo di rallegrarsi.

16

Cercai di spiegare tutto quanto ad Agla, ma sembrava proprio che lei non riuscisse ad afferrare la situazione nelle sue molteplici sfaccettature. Per lunghe ore rimasi seduto nella nostra squallida casupola, parlandole di Ahriman e delle nostre altre vite, di Ormazd e della lotta titanica che abbracciava i secoli.

— Ahriman mira a distruggere l’unità, la continuità dello spazio-tempo — dissi alzando la voce, quasi sperassi di renderle tutto più chiaro.

Agla ascoltò pazientemente. Si sforzava di capire. Però, nonostante fosse già vissuta nel ventesimo secolo e in altre epoche, comprendeva pochissimo di quello che le dicevo. In questa incarnazione era totalmente una figlia del tredicesimo secolo.

— Ahriman è un mago delle tenebre — disse infine, illustrandomi il suo punto di vista. — E i suoi poteri gli permettono di mostrarti il passato e il futuro.

— Ma quello che mi ha mostrato è successo oggi — insistetti. — E non me l’ha solo mostrato. Eravamo proprio là, a migliaia di chilometri da qui.

— Non ti sei mai allontanato da me — sorrise Agla.

— Sì, invece. Ma mi sono mosso in una sfera temporale diversa. Per te non è trascorso neppure un attimo. Io invece sono rimasto nella pianura del Mohi per quasi dodici ore.

— Ti sembra. Ahriman è un mago molto potente, questo è certo.

Decisi di dichiararmi d’accordo con lei, e lasciai perdere. Quella notte facemmo l’amore appassionatamente, quasi temessimo di non avere altre notti per noi. Era ormai l’alba quando finalmente mi addormentai. Sognai Ormazd, in armatura d’oro, in sella a un destriero arabo dorato… Avanzava lungo un sentiero, in una specie di parco, sotto un cielo limpido. Poi il bosco si faceva più fitto, più buio, finché il sole spariva dietro un intrico di rami e fogliame. Sapevo cosa sarebbe successo, e gridai per avvertire Ormazd, ma dalla gola non uscì nessun suono. Ero paralizzato, impotente, mentre piccole serpi scure strisciavano sul sentiero e si mutavano in agili guerrieri mongoli che circondavano il destriero e tiravano Ormazd sul terreno zuppo di sangue, colpendolo, lacerandolo, trafiggendolo ripetutamente, squarciandogli la gola e il ventre, strappandogli le viscere.

— Orion, aiuto! — gridava ad alta voce Ormazd nonostante le tremende ferite. — Dove sei? Aiutami! Aiutami!

Tutto il mondo diventava buio e freddo, e io rimanevo paralizzato, gelato nello spazio profondo privo di stelle mentre il pianeta Terra rimpiccioliva e scompariva nelle tenebre.

Mi svegliai, drizzandomi a sedere. Agla al mio fianco dormiva tranquilla.

“Pensa, Orion!” mi imposi. “Come puoi sconfiggere Ahriman se non capisci nemmeno cosa stia tramando?”

Chiusi gli occhi, esaminando i fatti che conoscevo. Ahriman voleva distruggere la struttura dello spazio-tempo, sconvolgere il continuum a tal punto da disgregare l’universo intero. Sosteneva che noi umani avevamo annientato la sua razza e cercava la vendetta completa… cancellare per sempre il genere umano. Il che significava che doveva distruggere Ormazd, che lui definiva il nostro creatore.

C’erano molte, troppe cose che non sapevo, molte cose che non capivo. Scossi la testa, chiedendomi in che modo potessi raggiungere Ormazd e chiedergli altre informazioni. Ma evidentemente secondo lui possedevo già tutti i dati necessari. Mi aveva inviato lì, in quel luogo, in quell’epoca, con tutti i miei poteri mentali e fisici, addirittura con la comprensione della lingua mongola impressa nel cervello. Aveva anche inviato Agla, come una specie di guida indigena, un barometro degli atteggiamenti e dei comportamenti della gente dell’epoca. Era questo il suo ruolo, come il ruolo di Aretha nel ventesimo secolo era stato quello di risvegliarmi alla mia missione di caccia.

In qualche modo, Ogotai era la chiave di tutto. Quando mi aveva catturato, avevo dichiarato subito di essere un emissario per il Gran Khan. Era stato Ormazd a imprimermi nella mente quelle parole. Non sapevo perché, però ero convintissimo che tutto dipendesse da un mio incontro diretto col Gran Khan.

Mentre il sole filtrava dall’unica finestra, riempendo la stanza polverosa di pulviscolo danzante, decisi di farmi ricevere da Ogotai tramite Ye Liu Chutsai.

Agla mi seguì mentre cercavo il mandarino. Mi serviva da rivelatore, sensibile alle sfumature di quello strano mondo che io non sarei mai riuscito a captare. E poi era anche la donna che amavo, e la volevo accanto a me per proteggerla.

Impiegammo buona parte della mattina per superare a furia di discussioni la barriera di guardie torve e di affabili amministratori cinesi dell’ordu. Finalmente ci trovammo in una tenda di fianco al padiglione centrale di Ogotai. L’interno della tenda era rivestito di tappeti, e arredato con mobiletti e cassapanche piene di volute ornamentali e intarsi d’oro e avorio raffiguranti draghi e pagode che ne indicavano la provenienza… Catai.

Liu apparve da dietro un paravento di ebano, muovendosi coi soliti passettini che parevano sfiorare il terreno, e raggiunse una sedia imbottita accanto a un lungo tavolo coperto di mappe e pergamene. Ci rivolse un cenno e sorrise, indicando con un gesto le sedie più piccole vicino alla sua.

Dopo uno scambio educato di saluti, il mandarino mi chiese il motivo di quella visita.

— Per pregarti di farmi ricevere dal Gran Khan — risposi. — Devo assolutamente vedere Ogotai.

Per alcuni attimi giocherellò in silenzio con la barbetta candida. Misi a fuoco ogni atomo del mio essere, ogni sinapsi lungo le miriadi di neuroni del cervello, concentrandomi sulla mente del vecchio. Liu parve avvertire la cosa; si irrigidì leggermente e mi fissò. Vidi confusione nei suoi occhi marrone, poi graduale comprensione.

— Ti ho protetto da eventuali pericoli — disse, in tono quasi di scusa. — Se incontrerai Ogotai e lui deciderà che rappresenti davvero la minaccia profetizzata da Ahriman, allora ti farà uccidere.

— C’è un pericolo più grande in agguato — ribattei. — Devo vederlo subito.

— Bene — annuì Liu. — Combinerò un incontro. Aspetta qui.

Si alzò dalla sedia come un sonnambulo e scomparve dietro il paravento. Mi girai verso Agla e sorrisi.

Mi stava guardando con un’espressione strana. — Lo hai costretto a piegarsi al tuo volere — disse.

— L’ho convinto che era una cosa assolutamente necessaria.

Agla alzò la mano per scostare una ciocca di capelli dagli occhi, e una scarica di elettricità statica le crepitò tra le dita. — Anche tu sei un mago — mormorò, intimorita. — Perché non me l’hai detto?

— Non sono un mago.

— Sì. Come Ahriman. Un uomo dagli enormi poteri. Avrei dovuto capirlo quando hai guarito tanto in fretta le tue ferite…

— I miei poteri sono benigni, non maligni — dissi. — Comunque, non sono un mago.

— Non hai idea della tua forza — insisté Agla. — Quello che hai fatto a Chutsai… l’ho sentito!

Cercai di minimizzare le mie doti ipnotiche istintive, ma Agla sapeva meglio di me cosa ci fosse in gioco. — Non lasciare che Ogotai o le sue guardie vedano i tuoi poteri. Sono superstiziosi, e ti ucciderebbero per paura.

— Però lasciano in vita il tenebroso Ahriman — dissi.

— Sì, perché lui profetizza per loro vittorie in battaglia. Ho ascoltato quello che le donne dicono di Ahriman. È temuto per i suoi oscuri poteri, ma i guerrieri preferiscono non contrariarlo perché non vogliono che profetizzi sconfitte. Questi sciocchi credono che le profezie di Ahriman creino la vittoria o la sconfitta.

— Proprio per questo dovrebbe trovarsi in grave pericolo. E se i mongoli decidessero una notte di tagliargli la gola e farla finita?

Agla scosse la testa, e tornò a scostarsi dagli occhi una ciocca di capelli.

— Ahriman è stato molto astuto. A quanto ho sentito, è venuto a Karakorum come sacerdote di una nuova religione. Una religione guerresca. I mongoli rispettano i sacerdoti, tollerano qualsiasi religione. Così, anche se i poteri di Ahriman suscitano grande paura, il Gran Khan non permetterà che gli venga fatto del male… finché le sue profezie di vittoria continueranno ad avverarsi.

Era astuto, pensai. Più astuto di me, per capire così a fondo quella gente.

— E poi — proseguì Agla un po’ più rilassata — i mongoli non spargono il sangue dei personaggi importanti.

— Oh? Allora come…

— Li strangolano, o li soffocano sotto dei tappeti. La Yassa proibisce lo spargimento di sangue tra i mongoli, ma non tralascia la necessità di uccidere.

Immobile sulla scomoda sedia, riflettei su quanto Agla mi aveva detto. Non potei fare a meno di vedere la faccia di Ahriman, e il suo sorriso agghiacciante, mentre meditavo sul fatto che nemmeno il codice di leggi di Gengis Khan riusciva a impedire agli esseri umani di uccidersi a vicenda.

Finalmente, Ye Liu Chutsai ritornò, l’aria leggermente perplessa, come se non ricordasse bene perché stesse facendo certe cose.

— Fatto — annunciò. — Sarai ricevuto dal Gran Khan questa sera, prima del pasto. Verrai solo.

Guardai Agla.

— Il Gran Khan non rispetterebbe un uomo accompagnato da una donna — spiego Liu. — Senza offesa per te, giovane signora.

— Non mi sento offesa — disse Agla. — Temo soltanto che Orion possa non capire tutto quello che accadrà nella corte di Ogotai.

— Ci sarò io a guidarlo — disse Liu. — Dopo la profezia contraria di Ahriman è già abbastanza in pericolo, senza presentarsi al Gran Khan con una donna al suo fianco… soprattutto una donna che a detta di molti è una guaritrice… e forse una specie di strega…

— Capisco — annuii. Poi, ricordando quel che era successo a Aretha, aggiunsi: — Mentre sarò assente, vorrei che le guardie proteggessero Agla, però. Ahriman, o magari qualcun altro, potrebbe cercare di colpirmi tramite lei.

Il mandarino piegò il capo. — Sarà fatto. Siete entrambi sotto la mia protezione, per quel che può valere. E tu, Orion, sei sempre protetto dalla raccomandazione di Subotai.

Gli sorrisi. — Apprezzo la generosità di Subotai, e stimo enormemente la tua, Chutsai.

Liu parve compiaciuto, ma ammonì: — Uno scudo è forte solo quanto il braccio che lo regge. Hai un nemico potente qui a Karakorum. Sii prudente.

— Grazie. Lo sarò.


Nel tardo pomeriggio, mentre Agla girava nervosa nel nostro alloggio e io cercavo di concentrarmi sui dati in mio possesso per intuire il futuro e decidere cosa dire a Ogotai, un servo mi portò abiti nuovi da indossare per l’udienza. Un dono di Ye Liu Chutsai.

Agla osservò stupita gli indumenti di cuoio e di stoffa pregiata.

— Sembri un principe! Un principe bello e potente!

Le sorrisi, anche se la faccia appena rasata mi bruciava. Sbarbarsi con l’acqua fredda e un coltello affilato è una vera prova di coraggio.

Agla mi guardava raggiante, cercando di nascondere quanto fosse preoccupata. Sapevamo entrambi che i visitatori della tenda del Gran Khan a volte ne uscivamo con dei doni… oro, schiavi, perfino cavalli. Però certe volte ne uscivano con argento fuso nelle orecchie.

— Devi essere molto prudente — mi disse Agla, fissandomi ansiosa.

— Certo.

— Lasciati guidare dal mandarino. Nascondi a tutti i tuoi poteri, o si spaventerebbero come Hulagu.

— Pensi, Agla, che ci sarà anche Ahriman là?

Gli occhi grigi di Agla si spalancarono ancor di più. — Non lo so. Può darsi.

Bussarono alla porta.

— Be’, ci sia o meno, queste devono essere le guardie che mi scorteranno fino al padiglione — dissi.

Agla mi gettò le braccia al collo. — Oh, se potessi venire con te!

— Non mi accadrà nulla. — Le diedi un bacio, poi andai ad aprire. Fuori c’erano quattro guerrieri in armatura lucente che facevano sfigurare le nostre due guardie.

Mi voltai verso Agla e le rivolsi un ultimo sorriso, poi chiusi la porta. Io e la scorta marciammo verso il padiglione; un breve sguardo alle mie spalle, e scorsi Agla ferma sulla soglia che mi osservava, mentre le due guardie fissavano ora lei ora me.

Superammo i due falò, e attesi che la sentinella all’ingresso mi perquisisse. Non fu una perquisizione pro forma; certe visite mediche erano meno meticolose.

Finalmente entrai nella tenda, due guerrieri davanti a me, due dietro. Ero un ospite importante o un prigioniero pericoloso; probabilmente Ogotai e i suoi aiutanti dovevano ancora decidere quale delle due ipotesi scegliere.

La tenda era molto più grande di quella di Hulagu. Tappeti cinesi e persiani coprivano il terreno. Alle pareti di feltro erano appesi drappi di seta e arazzi. Su un lato, un tavolo che sembrava d’argento massiccio imbandito di latte di cavalla, frutta, carne e sale: un simbolo della generosità nomade verso gli ospiti. Alle estremità del tavolo erano appostati alcuni guerrieri, e altri guerrieri occupavano i vari ingressi della tenda. Di fronte a me, su una piattaforma, sedeva Ogotai, il Gran Khan. Alla sua sinistra, una mezza dozzina di donne bellissime; a destra, una ventina di mongoli che potevano essere solo generali, e altri guerrieri. Ye Liu Chutsai, in una splendida veste blu e oro, se ne stava alle spalle del sovrano.

Ogotai non aveva trono, era sdraiato su dei cuscini. Era un uomo massiccio, robusto, che dimostrava poco più di cinquant’anni, con un’espressione aperta e curiosa sulla faccia tondeggiante. Stava ingrassando, ma a quanto pareva non gli importava. In una mano stringeva un calice d’oro tempestato di gemme. Dietro di lui, a debita distanza, c’era un ragazzo cinese che reggeva una brocca d’oro: il coppiere del Khan.

Mentre seguivo a passo di marcia i miei quattro custodi verso la piattaforma, mi guardai attorno svelto. Nessuna traccia di Ahriman. “Be’, meglio così”, pensai.

I guerrieri mi fecero fermare a tre passi dal Gran Khan. Mi inchinai leggermente, drizzandomi subito. Non avevo intenzioni di prostrarmi in segno di sottomissione completa. Ero un emissario, non uno schiavo.

— Grandissimo Khan — disse Ye Liu Chutsai — questo è Orion, un emissario delle lontane terre dell’Ovest, al di là delle montagne, delle pianure e del grande mare.

Ogotai lanciò un’occhiata dietro di sé e il coppiere si affrettò a riempirgli il calice. Il Gran Khan bevve una sorsata, schioccò le labbra, e mi studiò attentamente squadrandomi da capo a piedi. Poi all’improvviso scoppiò a ridere.

— Guardate! — esclamò indicandomi. — Non ha scarpe!

17

Nella tenda si levò un coro di risate e schiamazzi. Solo Ye Liu Chutsai tacque, ma il suo volto solitamente impassibile aveva un’espressione turbata e imbarazzata.

Portavo ancora i miei sandali logori. Una nota appariscente e stonata, agli occhi dei mongoli, come complemento dei magnifici indumenti che il mandarino mi aveva mandato. Liu aveva incluso un paio di stivali, ma come al solito erano troppo piccoli per me. La camicia e la giubba mi stringevano di spalle ed erano corte di maniche, ma ero riuscito a infilarle. Le scarpe si erano rivelate invece un’impresa impossibile.

Ogotai rideva in maniera isterica, e gli altri mongoli lo imitavano senza farsi pregare. Forse il Gran Khan era già piuttosto alticcio prima del mio ingresso; io non trovavo nulla di tanto divertente nella condizione delle mie calzature.

— Non ho mai visto un mago andare in giro con le dita dei piedi che saltano fuori! — commentò Ogotai, scatenando un altro scroscio di ilarità.

Ero imbarazzato, ma sollevato. Almeno, sembrava che Ogotai non fosse tanto preoccupato per la mia presenza. Di fronte a un sospetto assassino o a un pericolo soprannaturale un uomo non ride a crepapelle.

Finalmente, Ogotai si calmò e nella tenda tornò il silenzio. Le guardie che si erano sbellicate si drizzarono, di nuovo serie. Ye Liu Chutsai aveva lo sguardo fisso nel vuoto. Ogotai alzo il calice e il coppiere si precipitò a riempirglielo.

— Baibars — chiamò il Gran Khan dopo aver bevuto.

Un giovanotto si alzò dai cuscini e si inchinò.

— Baibars, trova un calzolaio e fa in modo che il nostro ospite abbia un paio di stivali adatto.

— Sì, Zio.

— Bene, uomo dell’Ovest, vieni a bere un po’ del mio vino. La tua gente beve vino, vero?

Una decina di schiavi sbucarono da dietro la piattaforma e sistemarono grossi cuscini multicolori perché mi sedessi alla destra del Khan. Mi porsero un calice, prezioso guanto quello di Ogotai. Mi sedetti, presi il calice, lo alzai in segno di ringraziamento, e sorseggiai il vino rosso scuro.

— Vino di Shiraz — disse Ogotai. — Una terra non lontana da dove hai incontrato mio nipote Hulagu.

— È un piacere raro — dissi. — Anche nella mia terra lontana il vino di Shiraz è famoso. — Dalle mie letture del ventesimo secolo, sapevo che quello era il vino decantato da Omar Khayyam nel suo Rubaiyat.

L’aria quasi indifferente, Ogotai disse: — Sono stato messo in guardia contro di te. Mi è stato riferito che sei un mago potente… e un assassino.

Guardai Liu, in piedi immobile alle spalle del sovrano.

— Sono un uomo, mio Grande Khan, non un mago. Un emissario di una terra remota, non un assassino. Non porto armi…

— Ma non ne hai bisogno — m’interruppe Ogotai. — Hai ucciso dei guerrieri armati con le tue sole mani. Prendi le frecce al volo coi denti. — Sogghignò. — Almeno, così mi hanno detto.

— Mi difendo come meglio posso, mio signore. Ma se un guerriero mi scaglia una freccia è molto probabile che la fermi con la mia carne e il mio sangue, come qualsiasi altro uomo.

— A me hanno detto diversamente.

Respirai a fondo. — Gran Khan, mio signore, sicuramente avrai sentito più storie favolose di qualsiasi altro uomo. Sai che la verità si ingigantisce passando di bocca in bocca.

Ogotai rise. — Sì, sì. La mia bravura in battaglia cresce di giorno in giorno mentre io me ne sto seduto qui! Gli eserciti che sconfiggo sono sempre più grandi, i nemici che ho ucciso sono sempre più numerosi, crescono come una colonna di fumo all’orizzonte.

— Mio Khan — disse uno dei mongoli seduti accanto a noi — non fidiamoci della parola di questo straniero. Mettiamolo alla prova.

Aveva l’aria arcigna di un poliziotto; probabilmente si trattava dell’ufficiale responsabile della sicurezza del sovrano.

— Cosa suggerisci, Kassar? — chiese Ogotai.

— Facciamolo alzare — il mongolo indicò l’area vuota al centro della tenda — e le guardie gli lanceranno delle frecce. Così sapremo se le storie che abbiamo sentito sono vere o false.

Ogotai mi guardò prima di rispondere. — Se sono false, avremo ucciso un emissario.

— Meglio un emissario morto che un mago vivo — borbottò Kassar.

— O diamogli una spada e facciamogli sfidare Chamuka! — propose un altro mongolo. — Sarebbe uno scontro interessante.

— Un incontro di lotta! — Intervenne un altro.

Ogotai ascoltò, sorseggiando il vino. Ye Liu Chutsai ci sovrastava impassibile, grave, silenzioso.

Sapevo che se avessero cercato di infilzarmi con delle frecce o di farmi attaccare da un campione di scimitarra avrei dovuto difendermi. Così avrebbero scoperto che le storie sul mio conto non erano poi tanto esagerate. Dopo di che, cosa sarebbe successo? Un incontro di lotta sarebbe stato il male minore, però, se ben ricordavo, in un incontro amichevole alla mongola era facile che uno dei contendenti finisse col collo rotto o la spina dorsale spezzata.

Ogotai mi studiò al di sopra dell’orlo del suo calice. Forse il bere continuo era una specie di facciata dietro cui si nascondeva per studiare con calma una determinata situazione e riflettere.

Depose il bicchiere sul tappeto e, mentre il giovane coppiere si affrettava a riempirlo, zittì la tenda con un cenno imperioso della mano.

— La Yassa ci impone di essere ospitali con gli stranieri che entrano nel nostro campo — disse, con voce improvvisamente ferma e squillante. — Quest’uomo è un emissario di una terra lontana. Non bisogna metterlo alla prova come un cavallo appena domato o una lama appena forgiata.

Kassar non era soddisfatto. — Ma Ahriman ci ha avvertito…

— Ho parlato — disse il Gran Khan.

Al che la discussione era terminata. Ogotai si sdraiò sui cuscini, guardò il calice colmo ma non lo toccò. Indicando col capo le donne alla sua sinistra, disse: — Ho saputo che hai una donna con te, una guaritrice. Ti soddisfa? Ne vorresti un’altra? Hai abbastanza servi che si occupino di te?

— Ricevo un trattamento soddisfacente, grazie, generoso Khan — risposi.

Ogotai chiuse gli occhi un attimo, quasi assalito da una fitta di dolore improvvisa. Quando li riaprì, disse: — Sei un emissario delle terre dell’Ovest. Il messaggio di Subotai dice che sai molte cose sulle terre oltre la regione dove il suolo è nero. Qual è la tua missione, qui? Perché sei venuto da me?

Già, perché? Sapevo che sarebbe stato inutile metterlo in guardia contro Ahriman iniziando un gioco di accuse reciproche. Ye Liu mi aveva spiegato che, nel dubbio, i mongoli sceglievano la soluzione più semplice… tagliando la testa a entrambe le parti in causa…

A mia volta, fissai Ogotai negli occhi. Vidi del dolore, e comprensione, e qualcosa che non mi aspettavo di trovare negli occhi di un imperatore barbaro: amicizia.

Quell’uomo che poteva decretare la distruzione di intere popolazioni e il massacro di intere persone aveva deciso, basandosi sulle mie misere calzature, che non costituivo una minaccia per lui. Mi diventò simpatico. Era disposto a fidarsi di me, e non era il molle ubriacone che Ye Liu mi aveva dipinto.

Cosa potevo dirgli, se non la verità?

Abbassando la voce, mormorai: — Mio signore, non potremmo parlare dove gli altri non possano sentirci? Quello che devo dirti è riservato solo a te.

Rifletté in silenzio, quindi annuì. — Più tardi. Ti manderò a chiamare. — Poi ad alta voce perché tutti lo udissero aggiunse: — Come sei riuscito ad attraversare il Tien Shan con quei ridicoli sandali?

I mongoli risero e scherzarono tra loro mentre io mi lanciavo in una descrizione del viaggio dalla Persia. Poi mi chiesero della mia terra e del mare che la separava dall’Europa. Parlai dell’Atlantico come di un mare infido e tempestoso, di un abisso insuperabile… il che era vero, per quei cavalieri.

— Allora come hai fatto ad attraversarlo? — domandò a bruciapelo Kassar. — Con la magia?

Nella tenda calò il silenzio. Anche il Gran Khan mi lanciò un’occhiata penetrante. Mi ero teso una trappola con le mie chiacchiere.

— Non con la magia — risposi, annaspando disperato in cerca di qualcosa di convincente. — Avete visto le imbarcazioni del Catai, vero?

Alcuni mongoli annuirono. Kassar, no.

— Navi come quelle potrebbero attraversare l’oceano, se fossero abbastanza fortunate da non essere sorprese dalle tempeste. — Pensai ai vichinghi, che erano approdati in Islanda, Groenlandia, e perfino in Labrador, a bordo dei loro barconi scoperti.

— Allora perché non possiamo compiere la traversata su imbarcazioni del genere? — incalzò Kassar.

— Un numero esiguo di uomini potrebbe — dissi. — Ma per trasportare un esercito sarebbero necessarie centinaia di navi. Molte sarebbero distrutte dalle tempeste, dai gorghi e dai mostri che salgono dagli abissi. — Pregai in silenzio che le mie parole non arrivassero un giorno fino in Spagna ritardando la partenza di Colombo. — Un esercito non riuscirebbe mai a compiere la traversata senza perdere più uomini che in molte battaglie.

Ogotai corrugò la fronte. — Mio nipote Kubilai sogna di inviare un esercito oltremare e conquistare il Giappone. Tu cosa profetizzi?

— Non faccio profezie, mio Khan. Sono un emissario, non un profeta.

Ogotai sbuffò deluso. Gli sarebbe piaciuto sentire una predizione, ma io non intendevo immischiarmi nella politica di corte.

La discussione proseguì per ore. Verso l’alba, quando anche l’imperturbabile Ye Liu cominciò a dare segni di stanchezza, Ogotai batté le mani annunciando che sarebbe andato a letto. Noi altri ci alzammo e ci inchinammo, uscendo, mentre il sovrano si ritirava accompagnato da tre donne.

Non avevo ancora compiuto metà del tragitto verso il mio alloggio, quando un guerriero mi raggiunse e mi comunicò che il Gran Khan voleva vedermi. La mia scorta e io facemmo dietrofront e seguimmo il guerriero alla tenda privata di Ogotai.

Sedeva su un letto, le gambe che penzolavano oltre il bordo. La tenda era illuminata solo da qualche candela. Delle donne, nemmeno l’ombra.

Il guerriero si fermò appena oltre la soglia e si inchinò. Feci altrettanto.

— Uomo dell’Ovest — disse Ogotai — voglio che tu sappia che ci sono sei guardie armate in questa tenda.

Guardai nella semioscurità, e in effetti notai i riflessi delle candele sull’acciaio degli elmi e le else ingemmate.

— Sono le mie guardie personali — proseguì Ogotai. — Uomini fidatissimi. Sono sordi e muti. Non sentono né parlano. Però, al minimo segno di pericolo per me, ti piomberanno addosso e ti uccideranno senza esitare, senza pietà.

— Mio Khan, la tua saggezza è pari all’elevatezza della tua posizione tra gli uomini.

— Parole degne di un vero emissario — sorrise Ogotai. Congedò il mio accompagnatore e mi indicò uno sgabello accanto al letto.

— Bene, qual è dunque il messaggio dall’Ovest che solo le mie orecchie devono sentire?

— Mio signore, la verità è che sono stato inviato qui per uccidere un uomo… l’uomo noto col nome di Ahriman.

— Allora non sei un emissario?

— Oh, sono un emissario. Gran Khan. Ti porto un messaggio dalla mia terra lontana, un messaggio che spiega la mia presenza qui. Questo messaggio racchiude la chiave del futuro del grande impero che tu e tuo padre avete creato.

— E i miei fratelli — mormorò Ogotai. — Hanno fatto tutti la loro parte. Più di me, a dire il vero.

— Gran Khan, vengo da una terra lontana non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Ho attraversato molti secoli per raggiungerti. Tra settecento anni, il nome del primo Gran Khan sarà noto e stimato in tutto il mondo. L’impero mongolo sarà considerato il più grande impero mai esistito.

Notai che Ogotai aveva assorbito l’idea del viaggio temporale senza batter ciglio. — Ed esisterà ancora l’impero in quell’epoca remota?

— In un certo senso, sì. Avrà fatto sorgere nuove nazioni. La Cina sarà forte perché voi avrete unificato i regni del nord e del sud del Catai. La Russia sarà potente… le terre che voi conoscete come le regioni dei moscoviti e dei cosacchi, la regione dove il terreno è nero, e gran parte di quello che un tempo era il Karesm… tutto quanto si salderà assieme in una nazione chiamata Russia.

— E i mongoli? Che ne sarà dei mongoli?

Come potevo dirgli che i suoi discendenti sarebbero diventati uno stato satellite minore dell’Unione Sovietica?

— I mongoli vivranno qui, nel Gobi, nelle pianure che sono sempre state la loro casa. E vivranno in pace, senza nemici.

Ogotai piegò il capo, sospirando. — I mongoli vivranno in pace — sussurrò, assorto. — Finalmente.

Intuendo cosa desiderasse sentire, proseguii: — Non ci sarà più guerra tra le tribù del Gobi, nessuna lotta sanguinosa tra le famiglie. La legge del Gran Khan, la Yassa, sarà rispettata.

Ogotai annuì contento. — Bene. Mi fa piacere.

Mi chiesi cosa dirgli adesso, per tornare ad Ahriman e alla mia missione.

— Ti domandi perché sia felice al pensiero della pace? — fece Ogotai. — Come mai il capo supremo di una razza di guerrieri non insegua nuove conquiste?

— I tuoi fratelli e i tuoi figli…

— Sì, loro continuano ad avanzare. Finché ci sarà terra su cui spingere i cavalli, loro combatteranno per possederla. — Sospirò nuovamente. — La mia vita è stata un susseguirsi di guerre. Perché credi che ti abbia risparmiato una prova della tua forza, questa sera?

Gli sorrisi. — Perché non avevo scarpe?

Accennando a un sorrisetto, Ogotai disse: — No, Orion. Ho già visto abbastanza frecce attraversare l’aria, abbastanza duelli. Desidero la pace, voglio che le sofferenze e le battaglie finiscano.

— I saggi preferiscono la pace alla guerra.

— Allora i saggi sono più rari degli alberi nel Gobi.

— La pace arriverà, col tempo, Gran Khan.

— Dopo che sarò tornato dai miei antenati — disse Ogotai senza la minima amarezza. Era una semplice dichiarazione.

— Mio signore… — iniziai, poi esitai.

— Vuoi parlare del tuo nemico, di Ahriman. Cosa corre tra voi? Si tratta di una faida? Una disputa familiare?

— In un certo senso sì. È un individuo malvagio, Gran Khan. È malintenzionato nei tuoi confronti.

— Nel breve periodo da che si trova qui a Karakorum, mi è stato utile. I guerrieri lo temono, ma apprezzano le sue profezie di vittoria.

— Gran Khan, chiunque può predire ai mongoli la vittoria. Quando mai siete stati sconfitti?

Il volto stanco del sovrano si illuminò. Ridendo, disse: — È vero. Eppure, perfino i miei generali vogliono udire profezie di successo. Li fa sentire molto meglio. E Ahriman ha aiutato anche me a sentirmi meglio —. Sta venendo qui, e dovrebbe arrivare tra poco.

— Qui? Nella tua tenda?

— Lo chiamo quasi ogni notte. Ha una pozione che mi aiuta a dormire. È meglio del vino di Shiraz.

La mente mi ribolliva, cercando di assimilare quella nuova informazione.

— Sarà opportuno che voi due non vi incontriate — disse Ogotai. — Alla minima mossa minacciosa, le mie guardie vi ucciderebbero.

Era un ordine. Inchinandomi, mi congedai dal Gran Khan.

18

Non riuscii a dormire quella notte. Per essere precisi, non era notte. Il cielo era già grigio perla quando rientrai al mio alloggio.

Agla era sveglia, mi aspettava. Parlammo, mentre il cielo si rischiarava. Poi lei non riuscì più a tenere gli occhi aperti e si appisolò con la testa sulla mia spalla. E io le restai accanto, chiedendomi in che modo agire.

Non ero stato messo lì per sbaglio. C’era anche Ahriman a tessere le sue trame per la distruzione dell’umanità. Vedeva Ogotai di notte e gli dava una bevanda che aiutava il Gran Khan a dormire. Una medicina? Un liquore? Un veleno a effetto cumulativo?

Perché Ogotai stentava a dormire? Gli rimordeva la coscienza? Diceva di essere stanco delle guerre e dei massacri, eppure reggeva un impero che doveva continuare a espandersi per non sgretolarsi in tante lotte tribali. Così mi aveva detto Ye Liu Chutsai.

Scossi la testa. Il senso mi sfuggiva. Ogotai si godeva le ricchezze di tutta l’Asia, desiderando la pace, mentre i suoi fratelli e nipoti imperversavano in Medio Oriente, in Europa e in Cina. Com’era possibile che quello fosse un punto di transizione decisivo del continuum spazio-temporale? Quali erano i piani di Ahriman? Come sarei riuscito a bloccarlo se ignoravo a cosa mirasse?

Certo, un sistema c’era. Uccidere Ahriman. Aspettarlo nel suo tempio di pietra e tagliargli la gola. Ucciderlo come lui aveva ucciso Aretha, con crudeltà e decisione.

Ma un’idea opposta mi colpì. Forse Ahriman voleva proprio quello! Non aveva nascosto la sua presenza lì. Non aveva cercato di fare del male né a me né ad Agla. Non aveva fatto nulla per impedirmi di scoprire che andava ogni notte nella tenda di Ogotai. Forse la sua uccisione avrebbe innescato una sequenza di eventi che avrebbero portato alla realizzazione del suo piano.

Mi sentivo sospeso a mezz’aria, in bilico nel nulla mentre due grandi forze mi attiravano in direzioni opposte. Ero lacerato, eppure non potevo fare nulla. Ero paralizzato. Non potevo muovermi, non potevo agire, finché non avessi saputo qualcosa di più circa i piani di Ahriman.

Le mie riflessioni, e il sonno di Agla, furono bruscamente interrotte da un battito insistente alla porta.

— Che c’è? — chiese Agla, subito sveglia.

Chiunque fosse là fuori, sembrava intenzionato ad abbattere la porta.

Mi alzai, infilando la tunica, mentre Agla si raggomitolava sotto le coperte, spaventata.

Non esistevano serrature a Karakorum. Aprii e vidi un vecchio tozzo, raggrinzito, con la pelle che sembrava la corteccia di un albero e pugni grossi quasi quanto la sua testa rasata. Portava abiti logori, sudici, e una borsa di cuoio appesa a una spalla.

— Così sei sveglio! — esordì ringhioso.

Lo fissai malamente. — Già, adesso sì.

Il vecchio sbuffò. — Lo so quanto durano quelle gare di bevute nell’ordu. E quando il Gran Khan è brillo la gente si fa promettere da lui tante cose.

— Chi sei? — chiesi.

— Il calzolaio, e chi se no? — rispose entrando in casa. — Un messaggero del Gran Khan mi ha ordinato di venire da te e di farti un paio di stivali. Come se non avessi già abbastanza da fare! Ma loro se ne infischiano! Fai un bel paio di stivali a questo straniero dell’Ovest! Lo ha ordinato il Gran Khan in persona! E sbrigati, altrimenti ci rimetteremo tutti la testa! Così eccomi qua, che ti piaccia o no. Ti avrò rovinato il sonno, ma per gli dei avrai un paio di stivali che soddisfino il Gran Khan, e li avrai prima che stasera ricomincino le bevute.

Si sedette sul pavimento e cominciò a vuotare la sua borsa. Prima di sera, avevo i miei stivali, belli e comodi. Ma quel calzolaio era il peggior tiranno che avessi mai incontrato.

Ogotai mi aveva preso in simpatia, e mi invitava spesso nel padiglione. Un giorno mi portò a cavalcare, fuori dal caos e dalla sporcizia della città, lontano dai recinti e dalle stalle, nella sterminata prateria ondeggiante.

— Questa è la vera casa dei mongoli — mi disse, girandosi sulla sella per contemplare la distesa senz’alberi, e respirò a fondo l’aria limpida e pura.

Gli dissi: — All’Ovest, in una terra chiamata Grecia, la prima volta che videro degli uomini a cavallo secoli e secoli addietro, gli indigeni credevano che uomo e cavallo fossero un’unica creatura. Li chiamarono centauri.

Ogotai sorrise. — Davvero, un mongolo senza un cavallo non e un uomo completo.

Cavalcavamo spesso assieme. All’inizio Ogotai portava con sé una scorta di guerrieri, ben presto però cominciammo a cavalcare da soli. Gli piaceva la mia compagnia e si fidava di me. Gli parlai delle terre e dei popoli dell’Europa, dei grandi re futuri e delle glorie degli antichi imperi. Gli interessava in modo particolare Roma, e fu deluso quando gli dissi della corruzione e della decadenza dell’impero romano.

— Noi non avremo mai Gran Khan come Tiberio o Caligola… possono esistere solo quando gli orkhon sono senza carattere. I mongoli non sono fatti così.

Agla diffidava dell’amicizia di Ogotai. — Stai scherzando col fuoco. Prima o poi il Tenebroso getterà un incantesimo su Ogotai, oppure il Gran Khan si ubriacherà e litigherà con te.

— È un uomo diverso da quello che credi.

Lei mi fissò coi suoi occhi grigi profondi come l’oceano. — È il Gran Khan, un uomo che ha il potere di distruggere città e nazioni. La tua vita o la mia non contano molto per un uomo del genere.

Feci per ribattere che si sbagliava, invece mormorai: — Non credo.

L’estate passava, e io ero ancora a un punto morto, non sapevo che fare né cosa stesse tramando Ahriman. Dei messaggeri arrivarono al galoppo dall’Ovest, annunciando trafelati la vittoria di Subotai su Bela. Alcune settimane dopo, arrivarono lunghe carovane di cammelli e muli, cariche di armature, armi e gioielli. Il bottino raccolto da Subotai in Ungheria e Polonia.

Non vedevo mai Ahriman. Era come se operassimo in due strutture temporali diverse, in due dimensioni separate. Era lì a Karakorum, lo sapevo. E lui sapeva che io ero lì. Entrambi vedevamo Ogotai quasi ogni giorno… o notte. Eppure, o per l’accortezza del sovrano o per quella di Ahriman, in tutte quelle settimane non ci incontrammo mai.

Il vento del Nord cominciava a farsi gelido. L’erba era ancora verde, ma tra poco sarebbero iniziate le tempeste autunnali, poi sarebbe arrivata la neve. Un tempo i mongoli avrebbero spostato l’accampamento a sud, scontrandosi con altre tribù che rivendicavano l’uso degli stessi pascoli lungo il margine del Gobi. Ora, dato che Karakorum era in pratica un insediamento fisso, il Gran Khan si preparava a restare e a sfidare i venti e le bufere invernali.

I mongoli organizzavano una caccia ogni autunno, e Ye Liu Chutsai mi convocò nella sua tenda per dirmi che il Gran Khan mi invitava a partecipare alla caccia.

La tenda del mandarino era un piccolo angolo di Cina trasferito nelle steppe mongole. Mobili massicci di tek e di ebano, cassapanche intarsiate, un’atmosfera di quiete e armonia… così diversa dall’energia esuberante, quasi infantile, dei mongoli. Era la tenda in cui gli avevo chiesto di combinare il mio primo incontro con Ogotai. Non mi ero reso conto allora che Ye Liu vivesse lì. Adesso avvertivo attorno a me lo stoicismo del filosofo: Ye Liu dormiva lì, probabilmente su quella panca di ciliegio coperta di seta, ma quella tenda era davvero una casa per i libri e le pergamene e gli strumenti di osservazione celeste del mandarino… tutte cose più rare e preziose del corpo di un vecchio amministratore cinese.

— Il Gran Khan ha dimostrato una grande simpatia per te — disse Ye Liu, dopo avermi fatto sedere al suo tavolo ingombro e avermi offerto del tè.

— Anch’io ho una grande simpatia per lui — ammisi. — Per essere l’imperatore del mondo, è un uomo stranamente gentile.

Liu sorseggiò dalla minuscola tazza prima ai rispondere: — Governa saggiamente… permettendo ai suoi generali di ampliare l’impero mentre lui fa rispettare la Yassa all’interno.

— Col tuo aiuto — dissi.

— Dietro ogni grande sovrano ci sono amministratori saggi. La grandezza di un sovrano si determina osservando chi ha scelto come collaboratori.

Mi venne in mente il cardinale Richelieu.

— Eppure, nonostante la tua amicizia — proseguì Ye Liu parlando lentamente — l’uomo di nome Ahriman è anch’esso molto vicino al Gran Khan.

— Il Gran Khan ha molti amici.

Il mandarino posò adagio la tazza sul vassoio laccato. — Non direi che Ahriman sia suo amico. Piuttosto, pare che sia diventato una specie di medico per il Gran Khan.

Rimasi sorpreso. — Medico? Il Gran Khan è ammalato?

— Solo nel cuore — rispose Ye Liu. — È stanco della sua vita di ozii e di lusso. Eppure, l’alternativa è quella di scendere in campo con un esercito e conquistare nuove terre.

— Non lo farà — dissi, ricordando che Ogotai mi aveva confidato di essere stanco di scontri e spargimenti di sangue.

— Sono d’accordo. Non può farlo. Hulagu, Subotai, Kubilai… sono loro a guidare gli eserciti. Il compito di Ogotai è restare a Karakorum ed essere il Gran Khan. Se cominciasse a radunare un esercito, cosa penserebbero gli orkhon? Per lui non ci sono più terre da conquistare se non quelle già invase dai suoi generali.

Cominciai a capire. Ogotai non aveva proprio più spazio per conquiste personali. L’Europa, la Cina, il Medio Oriente stavano già subendo l’attacco dei mongoli, in qualsiasi direzione si fosse mosso, Ogotai avrebbe scatenato una guerra civile. Poi però pensai all’India.

— E la terra a sud delle grandi montagne, a sud del Tetto del Mondo?

— L’Industan? — Nonostante il suo autocontrollo, Ye Liu accennò a una smorfia di derisione. — È una terra che brulica di accattoni infetti e di maharajah incredibilmente ricchi. Il caldo là uccide uomini e cavalli. I mongoli non ci andranno mai.

Ye Liu sbadigliava. Mi sembrava di ricordare che i mongoli infine avessero conquistato l’India, o almeno una parte dell’India. Gli indigeni li chiamavano mogol, un nome che evocava potenza e splendore, rispolverato poi cinicamente nel ventesimo secolo per indicare certi pezzi grossi di Hollywood.

Il mandarino interruppe le mie considerazioni dicendo: — Per fortuna è arrivata la stagione della caccia. Forse questo curerà il dolore che tormenta l’animo del Gran Khan, e per un po’ non avrà bisogno delle pozioni soporifere di Ahriman.

19

La caccia per i mongoli era una specie di campagna militare diretta contro prede animali invece che umane. I mongoli non conoscevano il significato di sportività o ecologia. Quando cacciavano, lo facevano per rifornire di cibo il clan in vista dei tremendi rigori invernali. La loro organizzazione era meticolosa ed efficiente.

Squadre di giovani ufficiali esploravano fette di territorio di centinaia di chilometri quadrati e tornavano a riferire all’ordu, in modo che gli anziani potessero scegliere la zona migliore. Una volta stabilito il posto, i mongoli montavano sui loro pony e partivano in formazione militare. Formavano un cerchio immenso, forse addirittura un centinaio di chilometri. Tutti gli animali all’interno di quella circonferenza dovevano essere uccisi. Senza eccezioni. Senza pietà.

La battuta richiedeva più di una settimana. Non si uccideva nulla prima del segnale del Gran Khan, e il sovrano aspettava che il cappio di cavalieri armati si fosse stretto il più possibile attorno agli animali braccati.

Tra i cavalieri camminavano i battitori, percuotendo gli scudi con le spade, urlando, agitando i cespugli, spingendo continuamente gli animali verso il centro del cerchio. Di notte si accendevano falò per impedire agli animali di sfuggire alla trappola.

Dapprima non riuscii a vedere altri animali a parte i nostri cavalli. Solo una distesa lievemente ondulata con cespugli sparsi qui e là. Il terzo giorno, però, cominciai a scorgere cervi, conigli, lupi che correvano tra l’erba alta. Tra le bestie stava diffondendosi il panico, e predatori e prede fuggivano fianco a fianco dai rumori terrificanti e dall’odore degli esseri umani.

Io cavalcavo alla sinistra del Gran Khan, separato da lui da due suoi nipoti. Ye Liu non era stato invitato alla caccia, né si sarebbe sentito a proprio agio lì nella steppa. Ogotai si divertiva, anche se lo sforzo fisico per lui non era indifferente. Montava in sella all’alba, come tutti gli altri, ma verso mezzogiorno era già stravolto, taciturno, e si ritirava nelle retrovie e passava il pomeriggio riposandosi. Di notte si coricava presto, senza bere come faceva a Karakorum. Ma anche se il suo corpo era rigido per l’età e la sofferenza, il morale di Ogotai era alle stelle. Era libero dagli agi e dalle preoccupazioni di corte, respirava aria pura lontano dalle decisioni che gravavano su di lui nella capitale.

Anch’io mi sentivo libero. Infatti Ahriman non occupava più la mia mente come un’ossessione. Pensavo ad Agla, specialmente di notte prima di appisolarmi sul terreno duro avvolto in una coperta puzzolente. Tutte cose che potevano aspettare, comunque. Al mio ritorno, avrei ritrovato tutti i miei problemi a Karakorum, forse più grossi di prima. Per ora mi stavo divertendo moltissimo, e ricordai che la parola persiana paradiso in origine significava territorio di caccia.

La fuga degli animali dal cerchio sempre più stretto dei cavalieri avrebbe rovinato la strategia della caccia. Per i primi giorni, gli animali si limitarono a confluire verso il centro, però via via che la morsa si stringeva alcune bestie terrorizzate cercavano di spezzare l’accerchiamento. Non restava che ucciderle. Nemmeno una doveva mettersi in salvo, sarebbe stato un disonore per i cacciatori.

L’arcigno Kassar era alla mia sinistra la mattina in cui un lupo, schiumante di paura e odio, si lanciò nello spazio tra noi. Kassar lo infilzò con la lancia mentre io esitando mi lasciavo precedere. Ululando agonizzante il lupo cercò di girarsi e addentare la lancia, ma tre battitori lo finirono a mazzate.

Kassar rise e agitò l’arma sporca di sangue. Io stavo invece riflettendo sul mio strano comportamento… Ero capace di uccidere un uomo senza la minima esitazione, eppure avevo permesso a Kassar di intervenire per primo e uccidere quell’animale.

Più tardi mi ritrovai a cavalcare affiancato al Gran Khan. I suoi nipoti si erano fermati per mangiare un boccone e cambiare pony. Il sole del pomeriggio era caldo anche se spirava una brezza tesa.

— Ti piace la caccia, uomo dell’Ovest? — mi chiese Ogotai.

— Non ho mai visto niente di simile prima d’ora. È come una campagna militare.

Ogotai annuì. — È vero. I guerrieri più giovani hanno un’opportunità per dimostrare il loro coraggio e la loro abilità nell’eseguire gli ordini. Parecchi generali si sono formati addestrandosi così contro gli animali.

Dunque, quella era la versione mongola dei campi di Eton.

Un servo si avvicinò con carne e frutta secca in una bisaccia, e una fiasca d’argento di vino. Ogotai divise il pasto con me mentre continuavamo a cavalcare. Di fronte a noi gli animali correvano, saltavano, sfrecciavano nell’erba rada, sempre più confusi e spaventati.

Ogotai stava scolando l’ultima goccia di vino, alzando la fiasca e piegandosi all’indietro, quando un cinghiale sbucò da una macchia di cespugli e si proiettò a rotta di collo verso di noi. Il Gran Khan non lo vide. Il suo cavallo sì; nitrendo, s’impennò.

Solo un mongolo poteva riuscire a restare in sella. Ogotai perse le redini che teneva mollemente con la sinistra, si lasciò sfuggire la fiasca, però strinse la criniera del pony e non fu disarcionato.

Notai questi particolari con la coda dell’occhio, perché la mia attenzione era fissa sul cinghiale. I suoi occhi rossi erano pieni d’odio, dalla bocca aperta gli schizzavano gocce di saliva. Le zanne scintillavano come lame, sorrette da un collo muscoloso e un corpo massiccio, compatto, fremente di furia.

Il mio cavallo aveva scartato di lato nel tentativo di sottrarsi all’affondo del cinghiale, così non sarei riuscito a spostare la mia lancia in tempo per arrestare la carica della bestia. E il cinghiale puntava dritto in direzione del cavallo di Ogotai.

Senza nemmeno riflettere, saltai dalla sella, sguainando la scimitarra mentre colpivo il fianco del cinghiale come un terzino di football che tentasse di placcare un avversario. Rotolammo a terra, e il cinghiale grugniva e si dimenava mentre gli stringevo la gola col braccio sinistro conficcandogli ripetutamente la lama nel corpo. Sentivo un calpestio di zoccoli attorno a me… il mio cavallo o quello di Ogotai. Sarebbe stato sciocco farsi uccidere dal calcio di un cavallo mentre lottavo con un cinghiale infuriato, pensai.

Finalmente il cinghiale fu scosso da un tremito e restò immobile. Estrassi la scimitarra dal fianco e mi drizzai, barcollando leggermente.

Una dozzina di guerrieri mongoli mi circondarono, le armi in pugno, pronti ad aggredire l’animale ormai morto. Altri guerrieri in sella tendevano gli archi. Tra di essi, Ogotai.

Per diversi secondi nessuno parlò. Sputai un miscuglio di erba e terriccio. Avevo una spalla indolenzita, ma per il resto mi sembrava di essere a posto.

— Uomo dell’Ovest — esclamò Ogotai — è così che cacciate i cinghiali nel tuo paese?

La tensione si allentò e tutti risero. Anch’io risi, sentendomi improvvisamente sciocco. Se fossi stato un cavaliere più in gamba avrei potuto infilzare il cinghiale e sistemare tutto in pochi attimi. Ogotai aveva ragione: avevo scelto il sistema più complicato.

Un servo mi riportò il mio pony, e montai in sella. Kassar mi rivolse un ghigno truce; il lupo che aveva ucciso era legato dietro di lui. Vidi che i nipoti di Ogotai erano tornati, e feci per schierarmi nella mia solita posizione, tra i nipoti e Kassar.

— No — disse Ogotai. — Rimani qui al mio fianco. — Si protese e mi strinse il braccio. — Cavalcherai accanto a me adesso… nel caso dovessimo incontrare altri cinghiali.

Mi inchinai a quel complimento, poi mi voltai e fissai Kassar con un sorrisetto compiaciuto. Lui mi fulminò con lo sguardo.

Come l’amicizia forgiata nella foga della battaglia, il legame tra Ogotai e me divenne saldo e duraturo quel giorno. Restammo assieme per il prosieguo della caccia, e durante il giorno della strage finale, quando uccidemmo in continuazione come forsennati presi dalla smania del sangue.

Eravamo ancora affiancati in testa alla spedizione durante il viaggio di ritorno. Alle nostre spalle, una colonna lunga un paio di chilometri di guerrieri e di carri carichi di animali morti… selvaggina di ogni tipo, dagli scoiattoli ai cervi, dai cinghiali ai lupi.

Ero ansioso di vedere Agla, di raccontarle dell’avventura della caccia, di abbracciarla e sentire di nuovo il suo corpo contro il mio.

Man mano che ci avvicinavamo a Karakorum, Ogotai era sempre più taciturno, più imbronciato. Sembrava quasi che stesse soffrendo, e quando avvistammo le nubi di polvere dei recinti che delimitavano la città il sovrano era chiaramente demoralizzato e depresso.

Ahriman entrò nei miei pensieri, e mi ritrovai abbattuto come il Gran Khan. Avevamo accantonato i nostri problemi, fuggendo per oltre una settimana, come ragazzini che marinassero la scuola, la i problemi erano là ad attenderci a Karakorum.

— Mio signore — dissi, accostandomi fino a sfiorare il suo cavallo — è giunto il momento che io affronti Ahriman.

— Cosa vuoi fare? Ucciderlo?

— Se sarà necessario.

Ogotai scosse il capo. — No. Niente spargimenti di sangue. Non lo permetto neppure a te, mio amico dell’Ovest. Ahriman ha il suo posto a Karakorum, come tutti gli uomini.

— Come tuo medico.

Ogotai non parve sorpreso dal fatto che fossi al corrente del ruolo di Ahriman. — Mi dà una pozione che mi aiuta a dormire, nient’altro.

— Non hai pensato che forse intende aiutarti a dormire per sempre?

— Veleno? — Ogotai si voltò, spalancando gli occhi sorpreso. Poi rise. Non rispose alla mia domanda; si limitò a ridere come se gli avessi raccontato la storia più buffa di questo mondo.

La sua reazione mi lasciò perplesso, così cercai di insistere sull’argomento, ma Ogotai non aveva più intenzione di discuterne. Aveva deciso che Ahriman e io non dovessimo scontrarci; ci aveva concesso la sua protezione, creando tra noi una situazione di stallo.

Almeno, era quello che pensavo mentre entravamo a Karakorum.

Era quasi notte quando smontammo nella fascia sgombra che circondava l’ordu per scaricare le tonnellate di carne dai carri. Si era radunata una folla enorme, che accolse con grida ed esclamazioni stupefatte il bottino impressionante che avevamo portato in città. Ye Liu Chutsai apparve al fianco di Ogotai e gli lesse una pergamena. Gli affari di stato stavano già assillando il sovrano prima ancora che avesse avuto il tempo di scrollarsi di dosso la polvere.

Scrutai tra la folla ma non riuscii a vedere Agla. Mi aspettava a casa, dissi tra me. Ogotai mi aveva donato il cinghiale che avevo ucciso, e adesso dei servi stavano prendendolo per scuoiarlo e conservarlo. Agla e io avremmo mangiato cinghiale per parecchie settimane.

Di Ahriman, nemmeno l’ombra, del resto non mi aspettavo che si mescolasse con la folla. Era una creatura che prediligeva l’oscurità e il silenzio; sarebbe andato da Ogotai più tardi, quando la città dormiva.

Infine il Gran Khan congedò i compagni di caccia, e io mi precipitai verso casa. Aprii la porta, immaginando che Agla stesse aspettandomi sulla soglia.

Invece… Non c’era. Guardai inutilmente nelle due stanze. Agla era scomparsa.

20

Non esitai un solo istante. Sapevo cosa era successo, quasi avessi assistito alla scena coi miei occhi. Uscii di corsa lungo i viottoli bui, verso il tempio di Ahriman. Il tuono rimbombava su di me, il cielo era solcato da lampi. La gente si stava affrettando a ripararsi prima che cominciasse a piovere. Continuai a correre, stringendo l’elsa del pugnale, rivivendo mentalmente la raccapricciante uccisione di Aretha.

Nonostante l’oscurità trovai il tempio di Ahriman, come se a guidarmi ci fosse stato un faro invisibile. L’aria era satura di umidità e crepitava di elettricità statica, mentre mi lanciavo verso la porticina scura. Un lampo squarciò il cielo a metà, illuminando per una frazione di secondo la costruzione di pietra, seguito dal brontolio minaccioso del tuono.

Irruppi all’interno, nelle tenebre del covo di Ahriman. Era accanto all’altare, le mani alzate come in preghiera, mi volgeva le spalle. Non esitai un istante; mi scagliai addosso a lui.

Ahriman si girò, con la stessa rapidità con cui lo stavo aggredendo, e mi respinse facilmente, quasi fossi un moscerino molesto.

Il colpo mi fece barcollare sul pavimento. Sbattei contro la parete e il pugnale mi sfuggì di mano.

— Sei uno sciocco — sibilò minaccioso Ahriman.

— Dov’è? Cosa le hai fatto? Sospirò e mi fissò, calmo. — È fuori, nella steppa, e ti sta cercando. Qualcuno le ha detto che non eri tornato con Ogotai e gli altri.

— È una bugia!

— Ma lei ci ha creduto. Adesso è là fuori, al buio, che ti cerca.

— Non ti credo.

Ahriman scrollò le spalle poderose. — È sola. I coraggiosi guerrieri della sua scorta hanno terrore dei temporali e l’hanno abbandonata. Sai, temono i fulmini. In sella a un pony in una distesa senz’alberi con un elmo d’acciaio in testa si diventa una specie di parafulmini naturale.

Avevo sentito parlare di guerrieri che si gettavano nei fiumi o nei laghi durante i temporali. E annegavano.

— Non le ho torto un capello — disse Ahriman, volgendo le spalle all’altare e ai simboli incisi nella pietra. — Non ce n’è bisogno.

Mi alzai lentamente. — No, ti sei accontentato di mandarla in mezzo alla bufera, sola.

— Allora perché non prendi un cavallo e vai a cercarla? Sarà felicissima di rivederti.

— È questo che vuoi, vero? Vuoi che lasci la città, così potrai andare da Ogotai a finire il tuo lavoro.

Non rispose.

— Lo stai avvelenando. E vuoi togliermi di torno così potrai ucciderlo.

Ahriman non mostrò alcuna reazione. Poi di colpo alzò il capo al soffitto e comincio a ridere, una risata aspra, un suono più simile a un rantolo, stridulo, offensivo.

— Avevo proprio ragione — disse infine, ansimando. — Anzi, sei ancor più sciocco di quel che pensavo… Uccidere Ogotai? Ucciderlo? — Rise di nuovo, e mi sembrò di sentire delle unghie che raschiavano della pietra.

Poi tornò serio e indicò la porta. — Vai, trova la tua donna. Io non le ho fatto nulla. Però con questa tempesta può succederle di tutto.

Non avevo scelta. Non potevo sfidarlo; era troppo forte per me. E anche se diffidavo delle sue parole, il pensiero di Agla sola nella notte mi spinse fuori dal tempio, verso i recinti dei cavalli ai margini della città.

Cominciò a piovere forte mentre chiedevo un cavallo al vecchio che badava al recinto più vicino. Il mio abbigliamento non lasciava dubbi sul mio rango elevato, e nel bagliore dei lampi il custode vide senz’altro la mia mole e il colore della pelle, capendo che ero lo straniero, l’emissario dell’Ovest. Il furto in pratica era qualcosa di sconosciuto tra i mongoli. Se non avessi riportato il cavallo entro un lasso di tempo ragionevole, dei guerrieri si sarebbero messi sulle mie tracce. E in nessun angolo del mondo sarei riuscito a sottrarmi alla loro giustizia implacabile.

— Non è il momento di uscire a cavallo allo scoperto — insisté il vecchio mentre sellavo il pony. — La tempesta può uccidere…

Lo ignorai e montai. Adesso stava diluviando, eravamo già fradici. Le dita dei lampi guizzavano in cielo in cerca di preda, e i tuoni squassavano assordanti la notte.

— Ucciderai il cavallo! — gridò il vecchio. Da autentico mongolo aveva riservato per ultimo il suo argomento più convincente.

Troppo tardi. Spronai i fianchi del pony che parti al galoppo in quell’inferno.

Era una pazzia, lo sapevo. Avventurarmi nella bufera in cerca di Agla era come sperare di trovare un fiore particolare in una giungla sterminata… con gli occhi bendati. Eppure dovevo farlo. Dovevo trovarla prima che un lampo la fulminasse… Strano, io invece non avevo paura di essere colpito da un fulmine.

Il mio cavallo era ombroso, spaventato, e per poco non si imbizzarrì quando un lampo crepitò più vicino. I tuoni però non lo infastidivano; probabilmente era stato addestrato a sopportare il frastuono delle battaglie. La pioggia divenne torrenziale, e la visuale era praticamente nulla. Strizzando le palpebre nell’oscurità, ingobbito per ripararmi dal vento gelido, spronai l’animale a proseguire, addentrandomi sempre più nella notte e nella tempesta.

Una parte della mia mente, intanto, stava vagliando informazioni, assimilando dati. Al di sopra di tutto, la priorità della mia missione: bloccare Ahriman. Già, ma come, se non sapevo cosa stesse cercando di fare?

Provai a mettere insieme tutti i pezzi del, mosaico. Ahriman mi era sembrato davvero sorpreso quando l’avevo accusato di voler assassinare Ogotai. Eppure sapevo che dava al Gran Khan una misteriosa pozione quasi ogni notte. Se non era un veleno lento, cosa poteva essere?

Il cavallo rallentò, passò al trotto, poi rallentò ancora di fronte alla cortina di acqua e di vento. Nemmeno il guerriero mongolo più coraggioso si sarebbe azzardato ad affrontare una bufera del genere. Io dovevo farlo. Dovevo.

A cosa mirava Ahriman? Se voleva uccidermi, avrebbe potuto uccidermi subito nel suo tempio. Perché spingermi in quell’inferno? Perché a uccidermi fosse un fulmine, invece che le sue mani? Un po’ stiracchiata come ipotesi.

Per tenermi lontano dalla città? Sì, questo era più logico. Per tenermi lontano da Ogotai. Ma perché, se Ahriman non aveva alcuna intenzione di assassinarlo?

Chiusi gli occhi, più che altro per concentrare al massimo la memoria su quanto avevo letto riguardo l’impero mongolo nel ventesimo secolo. Con una visione mnemonica perfetta, mi si presentarono intere pagine di storia. Potevo leggere le parole come se avessi un libro aperto in mano. Sì, ma non potevo ricordare quello che non avevo letto! Quanta storia avevo studiato nella mia esistenza precedente? Sapevo che i mongoli non avevano mai conquistato l’Europa; Subotai aveva sgominato le forze raccolte da Bela, d’accordo, però non si era mai spinto oltre in territorio europeo. Perché?

La risposta esplose davanti ai miei occhi come uno dei lampi che laceravano l’oscurità. Vidi il brano di un libro letto nel ventesimo secolo:

“Non fu una vittoria in battaglia a salvare l’Europa occidentale dal disastro inevitabile. I suoi eserciti, guidati da sovrani incapaci quali Bela o Luigi il Santo di Francia, non erano in grado di opporsi alle rapide manovre dei mongoli guidati da Subotai. Ma la guerra non si concluse com’era lecito aspettarsi. Un corriere proveniente da Karakorum arrestò la marcia vittoriosa di Subotai, che ripiegò e tornò nel Gobi. Il messaggero portava notizia della morte di Ogotai.”

La morte di Ogotai! Quando il Gran Khan moriva, gli orkhon e i generali tornavano a Karakorum per eleggere un nuovo sovrano. La morte di Gengis Khan aveva arrestato l’espansione dei mongoli per circa un anno. La morte di Ogotai avrebbe bloccato l’invasione mongola dell’Europa… per sempre!

Ahriman non voleva uccidere Ogotai; era a Karakorum per proteggerlo, per tenerlo in vita, per consentire a Subotai di completare la conquista dell’Europa. Perché dopo Subotai sarebbero giunti i mandarini di Ye Liu Chutsai, a portare pace, ordine e le leggi della Yassa ai popoli assoggettati. A portare all’Europa lo stesso immobilismo e ristagno che la loro burocrazia aveva introdotto in Cina e Medio Oriente.

L’Europa sarebbe stata resa omogenea dai mandarini, sotto il braccio armato dei conquistatori mongoli. Gli esuberanti staterelli europei sarebbero stati cancellati, fusi nel ferreo dispotismo dell’est. Le grandi città avrebbero languito, o sarebbero state distrutte. Il Rinascimento non sarebbe mai fiorito. Gli europei non avrebbero mai scoperto la scienza, non avrebbero mai costruito le alte tecnologie necessarie allo sviluppo della democrazia e della libertà. L’America sarebbe stata scoperta da navigatori cinesi, nella migliore delle ipotesi.

Finalmente il piano di Ahriman mi appariva chiaro. Permettendo ai mongoli di conquistare tutta l’Eurasia, Ahriman, avrebbe fatto in modo che il genere umano ristagnasse e si spegnesse lentamente, schiacciato dall’immutabilità della tirannia orientale. Quella che Ye Liu Chutsai considerava la più grande civiltà del mondo era in realtà una trappola in cui l’umanità si sarebbe estinta.

Se fosse riuscito nel suo intento, Ahriman avrebbe alterato il continuum a tal punto da lacerarne la struttura. Il continuum si sarebbe spaccato. Ormazd sarebbe stato rovesciato. L’umanità sarebbe morta. Le forze delle tenebre avrebbero vinto la lunga, eterna lotta.

Tutto questo, a patto che Ogotai vivesse. Era questo l’obiettivo di Ahriman. Era questo che io dovevo impedire. La mia missione non consisteva nell’uccidere Ahriman. Era Ogotai che dovevo uccidere.

Imprecando, urlando nella notte tempestosa, girai il cavallo in direzione della caotica capitale mongola, lasciando Agla sola e indifesa, tornando a Karakorum per uccidere l’uomo che mi era diventato amico.

21

Legai il cavallo sotto il cornicione della casa che i mongoli ci avevano dato come alloggio. Violenti scrosci di pioggia continuavano a spazzare lo spazio perimetrale dell’ordu. I due falò erano spenti. Non si vedeva nessuno in giro. La tenda di Ogotai oscillava sotto le raffiche di vento. Le corde scricchiolavano.

La parte conscia della mia mente mi sollecitava a tornare nella steppa in cerca di Agla. Lei era là fuori che mi cercava, che rischiava la vita per salvare la mia, e io l’avevo abbandonata per compiere una missione omicida.

Ma qualcosa più forte della mia volontà mi stava guidando, adesso. Come un guerriero che avanza insensibile in battaglia anche se ogni fibra del suo essere vuole fuggire verso la salvezza, mi incamminai verso la tenda dove Ogotai dormiva, intirizzito dal freddo, piegato contro il vento e la pioggia.

Ero un bravo assassino. Invece di puntare direttamente sulla tenda privata, attraversai il corridoio di terreno attorno all’ordu sul lato opposto della tenda principale del Gran Khan, lontano dalle ceneri dei falò, per evitare che qualche guardia mi notasse. Entrai nella tenda principale. Era buia, deserta. Il tavolo d’argento era stato sgomberato. I cuscini sui quali i mongoli si sdraiavano per essere serviti dagli schiavi erano stati tolti.

Attraversai svelto la tenda, strisciai nell’ombra lungo gli arazzi di seta che nascondevano l’ingresso che collegava la tenda principale all’altra. L’entrata era sorvegliata da due guerrieri, svegli e armati. Scivolai dietro i drappi e cercai di riflettere.

Sveglio o addormentato che fosse, nella tenda di Ogotai c’erano senza dubbio quelle sei guardie sordomute. Per ucciderlo dovevo fare irruzione all’interno e colpirlo prima che le guardie avessero il tempo di reagire. Quello che sarebbe successo dopo, non aveva importanza, mi dissi più volte, fino a sentirmi pronto. Però una parte della mente mi supplicava di fuggire, di trovare Agla e allontanarmi da lì, di cercare un posto dove la morte e l’omicidio fossero sconosciuti, un posto dove poter vivere insieme per sempre, in pace, amandoci.

Già, mentre i mongoli conquistavano il resto del mondo e spegnevano inesorabili le scintille della conoscenza e del progresso, ribatté una voce nel mio intimo… Mentre l’umanità sprofondava nella decadenza, nel dispotismo, nella disperazione. Mentre il tenebroso Ahriman vinceva la sua battaglia eonica e assisteva all’estinzione del genere umano.

Mi scossi, come un cane bagnato. — Agla — mormorai a voce bassa, così bassa che non sentii le mie parole — forse ci incontreremo ancora, chissà quando, non so dove.

Sguainando il pugnale, tagliai adagio il tessuto spesso della parete e sgattaiolai attraverso la fenditura, penetrando nella tenda privata di Ogotai. Un altro drappo di seta era appeso alla parete interna, così riuscii a insinuarmi senza che nessuno mi vedesse.

La tenda era debolmente illuminata. Attraverso il tessuto non scorgevo che ombre sfocate. Però sentivo delle voci. La prima era quella di Ahriman. Rimasi immobile come una statua; non osavo neppure respirare per paura di muovere il drappo e tradirmi.

— Il sonno arriverà presto, mio Gran Khan — disse la voce tormentata di Ahriman.

— Il dolore è forte, questa notte — disse Ogotai.

— È l’umidità. Il tempo umido aggrava il dolore.

— E tu prepari una pozione più forte.

— È necessario, per scacciare il dolore.

— Ma il dolore sta vincendo, persiano. Ogni notte è sempre più intenso. Lo sento, nonostante le tue pozioni.

— Hai sofferto molto durante la caccia, mio signore?

— Abbastanza. Tiravo avanti grazie alla tua medicina. Ma se non fosse stato per Orion, adesso sarei morto.

Sentii che Ahriman si lasciava sfuggire un sospiro rauco.

— Predici ancora che cercherà di uccidermi? — chiese Ogotai.

— È un assassino, Gran Khan. È stato inviato qui per ucciderti.

— Non posso crederci.

La voce aspra di Ahriman assunse un tono di certezza assoluta. — La prossima volta che lo vedrai, Gran Khan, lui tenterà di assassinarti. Stai in guardia.

— Basta! — scatto Ogotai. — Se avesse voluto uccidermi, avrebbe potuto lasciare che fosse quel cinghiale a farlo. Mi ha salvato la vita, mago.

— E si è conquistato la tua fiducia.

Ogotai non rispose. Per lunghi attimi non sentii che il lamento del vento e il cigolio delle corde della tenda.

— Mio Gran Khan — sibilò Ahriman — tra un mese Subotai radunerà di nuovo le sue forze e riprenderà l’avanzata verso ovest, attraverso le terre dei principi di Germania, oltre il fiume chiamato Reno, entrando nel territorio dei franchi. Questi franchi sono validi guerrieri. Sono stati loro a respingere i saraceni molti anni fa. Sono loro che ancor oggi si battono contro gli ottomani vicino a Gerusalemme. Ma Subotai li schiaccerà e distruggerà le loro città. Raggiungerà il grande mare e pianterà il vessillo mongolo sulla riva. Dominerai su tutte le terre comprese tra i due oceani. L’Europa e l’Asia saranno interamente tue.

— Hai già fatto queste profezie — disse Ogotai, la voce stanca, spenta, assonnata.

— Certo — ammise Ahriman. — Ma non si avvereranno se il Gran Khan morirà e gli orkhon e i generali dovranno tornare a Karakorum per eleggere un nuovo imperatore. Orion lo sa. È per questo che deve eliminarti presto, entro pochi giorni, se vuole salvare l’Europa dalla conquista di Subotai.

— Capisco le tue parole, mago. Però non ci credo.

— Le mie profezie non ti hanno mai deluso, Gran Khan.

— Lasciami, mago. Lasciami dormire in pace.

— Io…

Vattene — ordinò Ogotai.

Sentii i lunghi passi pesanti di Ahriman attraversare la tenda e scomparire nella notte. Restai dietro il drappo per parecchi minuti, mentre le lampade della tenda venivano spente una alla volta. Infine rimase accesa solo una lucina tremula.

Uscii dal mio nascondiglio. Il Gran Khan era steso sulle trapunte del letto; indossava una veste di lana grezza. Aveva il volto disfatto. Sudava. Ma era ancora sveglio, e mi vide.

Anche le guardie mi videro. Sei scimitarre guizzarono dalle guaine.

Ogotai fece un cenno con le mani. Le guardie si fermarono, stringendo le scimitarre.

— Vedono il pugnale che hai in mano, Orion — disse Ogotai — e temono che tu sia qui per uccidermi.

Solo allora mi resi conto di impugnare ancora l’arma. Aprii le dita, lasciandola cadere sul tappeto. Ogotai rivolse un nuovo cenno alle guardie, che riposero le scimitarre e uscirono dalla tenda.

Eravamo soli.

Ogotai sembrava svuotato di qualsiasi energia. Mi fissò, e lessi nei suoi occhi una sofferenza atroce.

— Sei venuto a compiere la profezia di Ahriman? Sei venuto a uccidermi?

— Se dovrò farlo.

Ogotai quasi sorrise. — Non è bene che un guerriero mongolo si tolga la vita. Ma ho un demonio nel corpo, Orion. Brucia come un tizzone rovente. Mi sta uccidendo lentamente, a poco a poco.

Un cancro. Per questa ragione Ahriman gli dava degli analgesici. Ma nemmeno le capacità di Ahriman potevano guarire un cancro a uno stadio troppo avanzato.

— Mio Gran Khan…

— Orion, amico mio, non posso cadere in battaglia. Sono troppo vecchio. Ho retto a malapena agli sforzi della caccia. Però puoi abbattermi tu. Puoi darmi una morte pulita, invece di questa lunga fine immonda.

Il respiro mi si bloccò in gola. — Come posso uccidere un uomo che mi considera suo amico?

— La morte vince sempre, alla fine. Si è presa mio padre, no? Prenderà anche me. L’unica domanda è quando… e quanto dolore mi attende ancora. Non sono un vigliacco… — Ogotai deglutì, e chiuse gli occhi per un istante — … ma credo di avere già sofferto abbastanza.

Rimasi lì accanto al letto, incapace di muovermi.

— Sei un amico fedele — disse Ogotai. — Esiti perché sai che se mi ucciderai non si avvererà la profezia di Ahriman: i mongoli non regneranno sul mondo intero.

Come potevo dirgli che era proprio per questo che dovevo ucciderlo?

— Preferisco la tua profezia, Orion. Meglio che i mongoli vivano in pace. Meglio che siano le altre nazioni a battersi e a lottare tra loro. Purché noi troviamo la pace… e la serenità…

Ogotai strinse ancora le palpebre e il suo corpo si inarcò come quello di un uomo sottoposto alla tortura della ruota.

Quando li riaprì, i suoi occhi erano umidi di lacrime. — Nemmeno la pozione di Ahriman serve a qualcosa, questa notte. Piango come una donna.

Portai la mano al fodero vuoto appeso alla cintura.

Ora il respiro di Ogotai era affannoso. — È meglio che gli altri non mi vedano così debole. Il Gran Khan non dovrebbe mostrarsi con le lacrime agli occhi.

Ricordai che tra i mongoli era proibito lo spargimento di sangue. Mi voltai e presi un cuscino dalla sedia accanto al letto.

Ogotai mi sorrise. — Addio, amico dell’Ovest.

Gli coprii la faccia col cuscino. Quando lo sollevai, anch’io avevo le lacrime agli occhi.

Uscii lentamente dalla tenda, oltrepassando le guardie ferme all’ingresso. La bufera era finita. L’alba stava tingendo di rosa il cielo. Tornai alla casa, montai a cavallo e abbandonai la città. Agla era ancora là nella steppa. Forse sarei riuscito a raggiungerla prima che i mongoli scoprissero cosa avevo fatto.

Vagai per due giorni e due notti, chiedendomi se Agla fosse sopravvissuta alla bufera, chiedendomi se i mongoli mi avrebbero dato la caccia, chiedendomi cosa stesse facendo Ahriman per vendicarsi di me.

La mattina del terzo giorno vidi un cavallo… le redini penzolavano nell’erba, la sella era storta, vuota. Stavo procedendo a piedi, e saltai in sella spronando i fianchi del mio pony, partendo al galoppo all’inseguimento del cavallo di Agla col cuore che mi batteva all’impazzata.

Poi vidi una figura stesa sul terreno… caduta accidentalmente o per la stanchezza. Mi piegai ancor di più sul collo del mio pony e mi lanciai in quella direzione.

Ma all’improvviso sembrò che la terra sprofondasse. Cadevo… precipitavo in una folle spirale… dibattendomi nel vuoto mentre un caleidoscopio di colori abbaglianti mi violentava i sensi. E una frazione di secondo più tardi, ecco che galleggiavo, nell’oscurità più completa, in una dimensione incorporea, senza tempo, senza peso.

— Agla! — urlai. Ma non udii alcun suono.

Non so per quanto tempo rimasi sospeso in quell’abisso. Lentamente, mi resi conto che quella era opera di Ahriman, la sua vendetta: ero condannato a un nulla eterno.

Poi però scorsi una scintilla di luce, una stella remota in quel vuoto incommensurabile, ed ebbi un tuffo al cuore. La stella crebbe, si trasformò in una sfera lucente, quindi in una creatura dorata.

Ormazd.

Sei stato bravo, Orion. Non potevo sentire le sue parole, perché in quella dimensione il suono non esisteva. Però capivo cosa stesse dicendo. Era opera sua, non di Ahriman. Ormazd mi aveva portato via da Agla, mi aveva strappato al tempo non appena avevo eseguito i suoi ordini. Era quella la mia ricompensa per avere bloccato di nuovo Ahriman.

Ma la tua missione è tutt’altro che terminata, mi stava dicendo. Ahriman minaccia ancora il continuum. Lo hai battuto solo provvisoriamente.

Ricominciai a precipitare; sentivo il vento che mi sibilava attorno. Aprii la bocca in un lungo urlo primitivo di rabbia… rabbia rivolta non ad Ahriman, il mio nemico, bensì rivolta a Ormazd, il mio creatore.

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