Non sapevo neanche cosa cavolo ci facessi, laggiù.
Stavo forse cercando di tornare nel mio annebbiamento da zombie? Ero diventata masochista e mi piaceva la tortura? Avrei dovuto proseguire dritto fino a La Push. Mi sentivo molto, molto più sana in compagnia di Jacob. Questa, invece, era un’idea tutt’altro che sana.
Eppure, procedevo lentamente sul sentiero invaso dalla vegetazione, passando tra gli alberi inarcati come sotto un tunnel verde e vivo. Le mani mi tremavano ed ero costretta ad afferrare il volante con tutte le mie forze.
Sapevo che, in parte, la ragione di tutto ciò era l’incubo: da sveglia, la sensazione di vuoto che sentivo nel sonno si accaniva sui miei nervi come un cane che mastica l’osso. C’era qualcosa da cercare. Irraggiungibile e impraticabile, indifferente e distratto... ma era lontano, chissà dove. Dovevo crederci.
Il resto aveva a che fare con la strana sensazione di ripetizione che avevo provato a scuola e con la coincidenza delle date. L’idea che stessi ricominciando da capo, che il mio primo giorno sarebbe andato così, se davvero, quel pomeriggio lontano, fossi stata la presenza più bizzarra nella mensa.
Le parole correvano nella mia testa, inerti, come se le stessi leggendo anziché sentendo pronunciare:
Sarà come se non fossi mai esistito.
Avevo mentito a me stessa, dividendo in due parti la ragione del mio ritorno laggiù. Non volevo confessare il motivo più vero e importante. Perché era una pazzia.
In verità volevo sentire di nuovo la sua voce, com’era accaduto il venerdì precedente, quando avevo avuto quella incredibile allucinazione. Durante quei pochi istanti, quando la voce era sorta da chissà quale zona remota della mia memoria, l’avevo trovata perfetta, dolce come il miele; niente a che vedere con la pallida eco che conservavo nella mia testa, ed ero riuscita a ricordarla senza soffrire. Ma non per molto: il dolore era tornato e di sicuro non mi avrebbe abbandonata lungo quel tragitto folle. Eppure, i momenti preziosi in cui riuscivo a sentirlo erano un richiamo irresistibile. Dovevo trovare il modo di ripetere quell’esperienza... o forse era meglio considerarlo un episodio isolato.
Speravo che la chiave stesse nel déjà-vu. Perciò avevo deciso di visitare casa sua, dove non tornavo dal giorno della mia disgraziata festa di compleanno, tanti mesi prima.
La vegetazione densa, simile a quella di una giungla, grattava i finestrini del pick-up. Il sentiero tortuoso non finiva più. Iniziai a innervosirmi e ad accelerare. Da quanto guidavo? Non avrei già dovuto arrivare alla casa? La strada era talmente nascosta nella foresta da non sembrare nemmeno la stessa.
E se non l’avessi trovata? Sentii un brivido. E se non ne fosse rimasto alcun segno tangibile?
Ma poi, tra gli alberi, notai la breccia che cercavo, con i contorni che sembravano meno netti di un tempo. Da quelle parti la vegetazione non aspettava a riprendersi il terreno incustodito. Le alte felci erano penetrate nel giardino attorno alla casa, si erano addensate ai piedi dei cedri, persino sotto il grande portico. Il prato pareva allagato di onde sottili, alte e verdi.
La casa era ancora là, ma non sembrava la stessa. La facciata era rimasta identica, ma da dietro le finestre spoglie incombeva il vuoto. Metteva paura. Per la prima volta, quella casa bellissima aveva l’aria di una vera dimora di vampiri.
Fermai il pick-up e guardai altrove. Avevo paura di proseguire. Non accadde nulla. Niente voci nella mia testa.
Lasciai il motore acceso e mi tuffai nel mare di felci. Forse, come il venerdì precedente, se avessi proseguito a piedi...
Mi avvicinai lentamente alla facciata nuda e vuota, confortata dal rombo del pick-up. Mi fermai davanti ai gradini del portico, non sentivo niente. Niente che rievocasse la loro presenza... la sua presenza. La casa era lì, grande e solida, ma significava poco, per me. La sua presenza concreta non riusciva a neutralizzare il senso di vuoto dei miei incubi.
Non osai avvicinarmi. Non volevo sbirciare dalle finestre. Qualunque visione sarebbe stata insopportabile. Se ci avessi scoperto stanze deserte in cui echeggiava l’abbandono, mi sarei sentita male. Come al funerale di mia nonna, quando mia madre aveva insistito perché non partecipassi alla veglia. Aveva detto che non c’era bisogno che vedessi la nonna così, che era meglio mi ricordassi di lei da viva anziché da morta.
Ma non sarebbe stato peggio se non avessi osservato alcun cambiamento? Se avessi rivisto i divani esattamente dove li ricordavo, i quadri alle pareti e, peggio ancora, il pianoforte sul rialzo? Soltanto la sparizione della casa, tutta intera, mi avrebbe fatta sentire peggio della constatazione che non c’era nessun legame materiale capace di trattenerli. Che avevano saputo lasciarsi tutto alle spalle, intatto e dimenticato.
Come me.
Cercai di non badare al vuoto e alla vertigine e tornai al pick-up. Quasi di corsa. Non vedevo l’ora di andarmene, di tornare nel mondo degli umani. Mi sentivo orrendamente vuota, volevo rivedere Jacob. Forse stavo sviluppando una nuova malattia, un’altra dipendenza. Come quella dall’annebbiamento. Ma non importava. Alla velocità massima consentita dal pick-up, sfrecciai verso la mia dose giornaliera.
Jacob mi stava aspettando. Mi rilassai non appena lo vidi e respirare fu più facile.
«Ciao, Bella», disse.
Sorrisi, rincuorata. «Ciao, Jacob». Salutai con la mano Billy che guardava dalla finestra.
«Al lavoro», disse Jacob impaziente e a bassa voce.
Chissà come, riuscii a ridere: «Davvero non ti sei ancora stufato di me?». Forse iniziava a chiedersi il perché del mio disperato desiderio di compagnia.
Jacob fece strada, dietro casa, verso il garage.
«Nah... non ancora».
«Per favore, se inizio a darti sui nervi dimmelo. Non voglio essere un peso».
«D’accordo», disse con la sua risata rauca. «Fossi in te, però, non mi farei prendere dal panico».
Quando entrai nel garage, restai sbalordita alla visione della due ruote rossa, ora molto più simile a una motocicletta che a un ferrovecchio smembrato.
«Jake, sei incredibile», sussurrai.
Lui rise di nuovo. «Quando mi butto in un progetto, diventa un’ossessione». Si strinse nelle spalle. «Se avessi un po’ di cervello in più non andrei tanto di fretta».
«Perché?».
Abbassò lo sguardo e fece una pausa tanto lunga da farmi temere che non avesse sentito la domanda. Infine chiese: «Bella, se ti dicessi che non sono capace di riparare le moto, come reagiresti?».
Neanche io risposi subito e lui alzò lo sguardo per scrutare la mia espressione.
«Ti direi... che è un peccato, ma che potremmo cercare qualcos’altro di interessante da fare. Se fossimo con l’acqua alla gola potremmo persino metterci a fare i compiti».
Jacob sorrise, le spalle si rilassarono. Si sedette accanto alla moto e raccolse una chiave inglese. «Quindi, può darsi che verrai a trovarmi anche quando avremo finito?».
«È questo che intendevi?». Scossi la testa. «Ora come ora, sto sfruttando a un prezzo vantaggioso le tue capacità di meccanico. Ma se tu mi dai il permesso, certo che verrò ancora».
«Vuoi rivedere Quil?», disse scherzando.
«Mi hai smascherata».
Ridacchiò. «Davvero ti piace passare il tempo con me?», chiese meravigliato.
«Sì, molto. E te ne darò una prova. Domani lavoro, ma mercoledì, niente motori».
«Cioè?».
«Non so... possiamo stare a casa mia, così non ci sarà niente a ossessionarti. Potresti portarti i compiti: temo che tu sia rimasto un po’ indietro, come me».
«I compiti non sono una cattiva idea». Fece una smorfia, chissà quanti ne aveva trascurati per stare con me.
«D’accordo. Di tanto in tanto ci dobbiamo comportare da persone responsabili, oppure Charlie e Billy non vedranno più di buon occhio la cosa». Feci un gesto, indicando entrambi come fossimo un’entità sola, e lui si illuminò di entusiasmo.
«Compiti una volta alla settimana?», propose.
«Forse è meglio se facciamo due volte», suggerii, ripensando alla montagna di lavoro che mi era stata assegnata quella mattina.
Dopo un sospiro profondo, si allungò verso la cassetta degli attrezzi e ne estrasse la busta di carta di un fruttivendolo. Sfoderò due bibite in lattina, ne aprì una e me la offrì. Aprì la seconda e la alzò al cielo, con un gesto solenne.
«Brindiamo al senso di responsabilità», disse. «Due giorni alla settimana».
«E all’incoscienza, negli altri cinque», aggiunsi.
Sorrise e toccò la mia lattina con la sua.
Tornai a casa più tardi di quanto pensassi e scoprii che Charlie, anziché aspettarmi, aveva ordinato una pizza. E non gli interessavano le mie scuse.
«Non preoccuparti», chiarì. «Cucini sempre tu, avrai pur bisogno di una pausa».
Ovviamente si sentiva rincuorato nel vedermi vivere come una persona normale e non aveva la minima intenzione di mettermi i bastoni tra le ruote.
Prima di fare i compiti controllai la posta elettronica, e trovai una lunga e-mail di Renée. Era entusiasta delle mie notizie tanto dettagliate, perciò le mandai un’altra descrizione esauriente delle mie ultime giornate. Le parlai di tutto, escluse le moto. L’argomento rischiava di mettere in agitazione persino la spensierata Renée.
A scuola fu un martedì di alti e bassi. Angela e Mike sembravano pronti ad accogliermi a braccia aperte, sorvolando di cuore sui miei mesi di comportamento assurdo. Jess opponeva resistenza. Chissà, forse aveva bisogno di un documento formale di scuse per l’episodio di Port Angeles.
Al lavoro, Mike era allegro e loquace. Come se le chiacchiere tenute in serbo per sei mesi fossero traboccate tutte in quel momento. Scoprii di riuscire a ridere e scherzare anche con lui, benché non mi ci trovassi a mio agio come con Jacob. Fino all’orario di chiusura, però, il tutto mi parve innocuo.
Mike applicò il cartello «CHIUSO» alla porta, mentre ripiegavo la divisa e la sistemavo sotto il bancone.
«È stato divertente, stasera», disse Mike allegro.
«Si», risposi, anche se in cuor mio avrei preferito passare il pomeriggio al garage.
«Mi dispiace che tu sia fuggita dal cinema, venerdì scorso».
Mi sentii un po’ spiazzata dal discorso. Feci spallucce. «Probabilmente è perché sono una pappamolla».
«Voglio dire, secondo me dovresti andare a vedere un film più bello, qualcosa di divertente», chiarì lui.
«Ah», mormorai ancora confusa.
«Questo venerdì, per esempio. Con me. Potremmo andare a vedere qualcosa che non ti metta paura».
Non sapevo come rispondere.
Non volevo rovinare l’amicizia con Mike, a maggior ragione dopo che si era dimostrato una delle poche persone pronte a perdonare la mia pazzia. Ma anche quella situazione mi sembrava troppo familiare. Come se nell’ultimo anno non fosse accaduto nulla. Mi sarebbe piaciuto avere di nuovo la scusa di Jessica.
«Mi stai chiedendo di uscire con te?», chiesi. A quel punto, l’onestà era probabilmente la tattica migliore. Prendere il toro per le corna.
Valutò il mio tono di voce. «In un certo senso. Ma non è per forza così».
«Io non esco con nessuno», dissi piano, rendendomi conto di quanto ciò fosse vero. Era un mondo lontano, irraggiungibile.
«Nemmeno con un amico?», propose. Un po’ di entusiasmo era svanito dai suoi occhi azzurri. Speravo intendesse davvero che potevamo essere amici.
«Quella sarebbe una buona idea. Ma, a dire la verità, venerdì sono già impegnata, perciò, che ne dici della settimana prossima?».
«Che fai di bello?», chiese, con meno indifferenza di quanta volesse probabilmente mostrarne.
«Compiti. Ho fissato una... giornata di ripasso assieme a degli amici».
«Ah. Allora, vada per la prossima settimana».
Mi accompagnò al pick-up, con meno baldanza di prima. Rividi con chiarezza i miei primi mesi a Forks. Il cerchio si era chiuso e tutto mi sembrava un’eco; un’eco sorda, priva dell’attrattiva di un tempo.
Poco dopo, Charlie non restò affatto sorpreso di vedere me e Jacob spaparanzati sul pavimento del salotto, in mezzo ai libri, e la cosa mi fece pensare che lui e Billy la sapessero lunga.
«Ciao, ragazzi», disse voltandosi verso la cucina. Il profumo delle lasagne che avevo cucinato durante il pomeriggio—sotto gli occhi di Jacob che di tanto in tanto le assaggiava—riempiva il corridoio; ero stata brava, per farmi perdonare la pizza.
Jacob restò a cena e portò a casa un po’ di lasagne per Billy. Di malavoglia, fu costretto ad aggiungere un anno alla mia età, dato che ero una cuoca così brava.
Venerdì era giorno di garage e il sabato, dopo il turno dai Newton, di nuovo compiti. Charlie si sentiva abbastanza sicuro della mia sanità mentale da passare la giornata a pesca con Harry. Quando rientrò, avevamo già finito—la cosa ci fece sentire molto responsabili e maturi—e stavamo guardando Monster Garage su Discovery Channel.
«Forse è meglio che vada», sospirò Jacob. «Pensavo fosse più presto».
«Non c’è problema», mormorai. «Ti accompagno».
Rise della mia espressione svogliata, ne sembrava soddisfatto.
«Domani ci rimettiamo al lavoro», dissi non appena fummo al sicuro, sul pick-up. «A che ora preferisci che venga?».
Nel sorriso con cui rispose c’era uno strano entusiasmo. «Ti chiamo io, okay?».
«Va bene», risposi perplessa. Il sorriso si allargò.
Il mattino dopo feci le pulizie di casa; aspettavo che Jacob chiamasse e cercavo di scrollarmi di dosso l’ultimo incubo. Lo scenario era cambiato. La notte precedente avevo vagato in un ampio mare di felci, punteggiato di grandi tronchi di abete. Non c’era nient’altro e mi sentivo persa, alla deriva, sola e senza meta. Avrei voluto prendermi a schiaffi per la stupida gita di pochi giorni prima. Cercai di rimuovere il sogno dalla memoria, sperando di poterlo rinchiudere in una prigione inespugnabile.
Charlie era fuori a lavare l’auto della polizia, perciò, quando suonò il telefono, lasciai cadere lo scopettone e corsi al piano di sotto a rispondere.
«Pronto?», dissi, senza fiato.
«Bella». Il tono di voce di Jacob era strano e formale.
«Ciao, Jake».
«Penso proprio che... abbiamo un appuntamento».
Mi bastò un secondo per capire. «Sono pronte? Non posso crederci!». Che tempismo perfetto. Avevo bisogno di qualcosa che mi distraesse dagli incubi e dal senso di vuoto.
«Sì, funzionano, da cima a fondo».
«Jacob, tu sei senza dubbio, assolutamente, la persona più talentuosa e splendida che conosca. Questo ti fa guadagnare dieci anni».
«Fico! Ho raggiunto la mezza età».
Scoppiai a ridere. «Arrivo subito!».
Gettai gli attrezzi per le pulizie sotto il mobile del bagno e afferrai il giubbotto.
«Vai a trovare Jake», disse Charlie, quando gli sfrecciai davanti. Non era una domanda.
«Esatto», risposi, saltando sul pick-up.
«Se mi cerchi, più tardi sono alla centrale».
«D’accordo», risposi e girai la chiave.
Charlie disse qualcos’altro, ma non riuscii a sentirlo a causa del rombo del motore. Una frase simile a «Sempre di fretta, eh?».
Parcheggiai di fianco alla casa dei Black, vicino agli alberi, così che fosse più facile sgattaiolare fuori con le moto. Quando scesi dal pick-up, fui sorpresa da una macchia di colore: due motociclette tirate a lucido, una nera e una rossa, erano nascoste dietro un cespuglio, invisibili dalle finestre di casa. Jacob era pronto.
Sul manubrio di entrambe spiccava un nastrino blu annodato a mo’ di fiocco. Iniziai a ridere e Jacob uscì di casa, correndo.
«Pronta?», chiese sottovoce, con gli occhi sfavillanti.
Diedi un’occhiata alle sue spalle, non c’era traccia di Billy.
«Sì», risposi, ma non mi sentivo più tanto entusiasta: era difficile immaginarmi davvero a cavallo di una motocicletta.
Jacob caricò le moto sul cassone del pick-up con facilità, adagiandole con cura sul fianco per nasconderle.
«Andiamo», disse con voce più alta ed elettrizzata del solito. «Conosco un posto perfetto dove nessuno si accorgerà di noi».
Ci dirigemmo verso sud. La strada sterrata serpeggiava dentro e fuori dalla foresta. In certi tratti non si vedevano altro che alberi e poi, all’improvviso, ecco uno scorcio mozzafiato di oceano Pacifico, che si estendeva all’orizzonte, grigio scuro sotto le nuvole. Eravamo al di sopra della costa, in cima agli scogli che correvano lungo la spiaggia, e il panorama si perdeva a vista d’occhio.
Andavo piano, in modo da poter dare ogni tanto un’occhiata all’oceano quando la strada si avvicinava alla costa. Jacob mi stava spiegando come aveva finito di sistemare le moto, ma le sue descrizioni erano troppo tecniche e non riuscivo a seguirle.
In quel momento mi accorsi di quattro sagome su uno spuntone di roccia, un po’ troppo vicine allo strapiombo. Da lontano non capivo quanti anni potessero avere, ma diedi per scontato che fossero uomini. Malgrado l’aria gelata, indossavano soltanto bermuda.
Mentre li osservavo, il più alto si avvicinò all’orlo del precipizio. Rallentai automaticamente, incapace di affondare sull’acceleratore.
Poi si lanciò giù.
«NO!», urlai inchiodando.
«Che c’è?», gridò Jacob, allarmato.
«Quel tizio si è appena tuffato dallo scoglio! Perché non l’hanno fermato? Dobbiamo chiamare un’ambulanza!». Aprii la portiera e feci per scendere, ma era tutto inutile: il telefono più vicino era a casa di Billy. Però non potevo credere a ciò che avevo appena visto. Forse, inconsciamente, speravo che senza il filtro del parabrezza la scena sarebbe cambiata.
Jacob rise e lo trafissi con lo sguardo. Come faceva a essere così cinico e indifferente?
«Si stanno soltanto tuffando, Bella. Per divertimento. Sai com’è, a La Push non ci sono centri commerciali». Mi stava prendendo in giro, ma dalla sua voce trapelava un velo di irritazione.
«Si tuffano dagli scogli?», chiesi sbalordita. Vidi un’altra sagoma avvicinarsi allo strapiombo, fermarsi e lanciarsi con grazia nel vuoto. La caduta sembrò durare un’eternità e si concluse dolcemente nel grigio scuro delle onde, più in basso.
«Accidenti. È davvero alto». Tornai sul sedile, senza staccare gli occhi dai due che ancora non si erano tuffati. «Saranno almeno trenta metri».
«Be’, sì, di solito noi andiamo a tuffarci più in basso, su quella roccia che spunta più o meno a metà scogliera». La indicò. L’altezza sembrava più ragionevole. «Quelli sono davvero pazzi. Probabilmente vogliono mostrare quanto sono tosti. Voglio dire, oggi fa un freddo cane. In acqua non si sta affatto bene». Sembrava irritato, come se l’impresa dei quattro fosse un affronto personale. Un po’ mi sorprese. Pensavo fosse quasi impossibile fare innervosire Jacob.
«Anche tu ti tuffi dagli scogli?». Il “noi” non mi era sfuggito.
«Certo, certo». Fece spallucce e sorrise. «Ci divertiamo. Un po’ fa paura, un po’ è eccitante».
Diedi un’altra occhiata allo scoglio, verso la terza sagoma che ne misurava il margine. Non avevo mai assistito a un gesto così azzardato in vita mia. Il mio sguardo si accese e sorrisi. «Jake, una volta o l’altra dobbiamo provarci anche noi».
Aggrottò le sopracciglia in segno di disapprovazione. «Bella, un minuto fa volevi chiamare un’ambulanza per Sam», rispose. Era incredibile che da quella distanza fosse riuscito a riconoscerlo.
«Voglio tuffarmi», dissi e feci per scendere di nuovo dal pick-up.
Jacob mi afferrò un polso. «Oggi no, d’accordo? Possiamo almeno aspettare che faccia più caldo?».
«Va bene...». Con la portiera aperta, l’aria gelida mi aveva fatto venire la pelle d’oca. «Ma voglio andarci presto».
«Presto». Alzò gli occhi al cielo. «A volte sei un po’ strana, Bella. Lo sai?».
Feci un sospiro. «Sì».
«E noi non salteremo dalla cima».
Guardai affascinata il terzo ragazzo che prendeva la rincorsa e saltava, tuffandosi, più in alto degli altri due. A mezz’aria, scuoteva le braccia e scalciava, come un paracadutista acrobatico. Sembrava totalmente libero: senza pensieri, assolutamente irresponsabile.
«Bene. La prima volta no di certo».
A quel punto fu Jacob a sospirare.
«Andiamo o no a provare le moto?», chiese.
«Va bene, va bene», risposi, cercando di non guardare l’ultimo rimasto sullo scoglio. Riallacciai la cintura e chiusi la portiera. Il motore era ancora acceso, ruggiva al minimo. Ripartimmo.
«Ma quelli, i pazzi, chi erano?», chiesi.
Jacob fece una smorfia di disgusto. «La banda di La Push».
«Una banda di teppisti?», chiesi. Ero proprio sorpresa.
Rise della mia reazione. «Non è così, te lo giuro, anzi, sono come dei capoclasse degenerati. Non scatenano le guerre, mantengono la pace». Ridacchiò. «C’era un tizio che veniva dalla riserva di Makah, uno grosso, che metteva paura. Be’, girava voce che il tizio spacciasse anfetamina ai ragazzi, così Sam Uley e i suoi lo hanno cacciato via. Non parlano che della “nostra terra”, di “orgoglio tribale”... è ridicolo. Il peggio è che il consiglio della riserva li prende sul serio. Embry dice che Sam partecipa addirittura alle riunioni». Scosse il capo, sdegnato. «Embry ha anche saputo da Leah Clearwater che tra di loro si chiamano i “protettori”, o qualcosa del genere».
Mentre parlava, stringeva i pugni, come se stesse per colpire qualcosa. Non conoscevo quel lato della sua personalità.
Fui sorpresa di sentire il nome di Sam Uley. Non volevo rievocare le immagini del mio incubo, perciò mi distrassi buttando là un commento: «Sembra che non ti piacciano tanto».
«Si vede?», chiese sarcastico.
«Be’... però non sembra che facciano niente di male». Cercavo di tranquillizzarlo, di fargli tornare il buonumore. «Sono fin troppo buoni e pedanti, per essere una banda di teppisti».
«Ecco. “Pedanti” è la parola giusta. Fanno di tutto per farsi notare, con i tuffi eccetera. Si comportano da... non so, da duri. Lo scorso semestre io, Embry e Quil ce ne stavamo al negozio a farci gli affari nostri, e arriva Sam, assieme ai suoi “seguaci”, Jared e Paul. Quil dice qualcosa, sai com’è fatto, ha la lingua lunga, e fa incazzare Paul. Quello lo trapassa con lo sguardo, fa una specie di sorriso—anzi, gli mostra proprio i denti—e sembra così fuori di testa che comincia a tremare. Ma Sam gli mette una mano sul petto e gli fa cenno di no. Paul lo guarda per qualche momento e si calma. Sinceramente, sembrava che Sam lo avesse tenuto a bada, che se non lo avesse fermato, ci avrebbe fatti a pezzi». Fece un grugnito. «Come in un brutto film western. Sai com’è, Sam è grande, ha vent’anni. Ma Paul ne ha soltanto sedici, è più basso di me e meno muscoloso di Quil. Avremmo potuto tenergli testa entrambi».
«Sono proprio dei duri», risposi. Immaginai la scena, mentre raccontava, e mi ricordò qualcosa... un terzetto di sagome alte e scure, strette accanto al divano, nel salotto di casa mia. Un’immagine capovolta, perché tenevo la testa sul cuscino mentre il dottor Gerandy e Charlie erano chini sopra di me... Era quella la banda di Sam?
Scossi la testa e ripresi subito il discorso. «Ma Sam non è un po’ troppo grande per questo genere di cose?».
«Certo. Pensavamo che andasse al college, invece è rimasto qui. E a nessuno è fregato niente. Ai membri del consiglio, nessuno escluso, è venuto quasi un colpo quando mia sorella ha rifiutato una borsa di studio parziale e si è sposata. Invece con Sam Uley nessun problema, ci mancherebbe».
Sul suo volto si leggeva chiaro lo sdegno. Sdegno e qualcos’altro che non riconobbi subito.
«Sembra davvero una situazione fastidiosa e... strana. Ma non capisco perché te la prendi così tanto». Sbirciai verso di lui, sperando di non averlo offeso. D’un tratto si rilassò e guardò fuori dal finestrino.
«Hai appena passato la deviazione», disse, tranquillo.
Feci un’inversione a U troppo larga e quasi mi schiantai contro un albero uscendo parzialmente dalla carreggiata.
«Grazie per l’avvertimento», mormorai, mentre m’immettevo nella laterale.
«Scusa, non ero attento».
Per qualche momento restammo in silenzio.
«Parcheggia dove vuoi, ci siamo», disse piano.
Accostai e spensi il motore. Il silenzio era tale che mi fischiavano le orecchie. Scendemmo dal pick-up, Jacob gli girò attorno per scaricare le moto. Cercai di leggere la sua espressione. Qualcos’altro lo preoccupava. Avevo toccato il tasto sbagliato.
Abbozzò un sorriso e spinse la moto rossa fermandosi accanto a me. «Buon compleanno in ritardo. Sei pronta?».
«Penso di sì». All’istante, fui intimidita dalla moto, il solo pensiero che presto l’avrei cavalcata mi faceva paura.
«Ci andremo piano», promise Jacob. Con cautela, appoggiai la moto al paraurti del pick-up, mentre lui scaricava la sua.
«Jake...», azzardai, mentre spuntava dal retro del veicolo.
«Sì?».
«Cos’è che ti preoccupa davvero nella storia di Sam? C’è dietro qualcos’altro?». Osservai la sua espressione. Fece una smorfia, ma non sembrava arrabbiato. Guardò a terra, scalciando la ruota anteriore della sua moto, senza fermarsi, come se tenesse il tempo.
Sospirò. «È soltanto... il modo in cui mi trattano. Mi terrorizza». Pian piano, le parole iniziarono a sgorgare. «Sai com’è, i membri del consiglio dovrebbero avere tutti pari dignità ma, se ci fosse un capo, quello sarebbe mio padre. Non ho mai capito perché la gente lo riverisca in quel modo. Né perché la sua opinione conti più delle altre. C’entra con suo padre, e il padre di suo padre. Il mio bisnonno, Ephraim Black, è stato l’ultimo capo della tribù, perciò la parola di Billy ha ancora un’importanza speciale.
Io, invece, sono come tutti gli altri. Nessuno mi ha mai trattato in maniera tanto speciale... finora».
Mi prese alla sprovvista. «Sam ti tratta in modo speciale?».
«Sì», rispose e mi fissò con uno sguardo tormentato. «Mi guarda come se aspettasse qualcosa... come se fosse sicuro che un giorno mi unirò alla sua stupida banda. Dedica più attenzioni a me che agli altri. Lo odio».
«Non sei obbligato a unirti a niente». Ero arrabbiata. Ciò che infastidiva Jacob mi faceva infuriare. Chi credevano di essere, questi “protettori”?
«Già». Con il piede continuava a battere il ritmo contro la gomma.
«Che c’è?». Sentivo che non era finita.
Si rabbuiò e alzò le sopracciglia in un’espressione più triste e preoccupata che arrabbiata. «Embry. Ultimamente mi evita».
Non era stato granché chiaro, ma mi chiesi se i problemi con il suo amico fossero colpa mia. «Stai passando parecchio tempo con me», precisai, e mi sentii un’egoista. Lo avevo monopolizzato.
«No, non è quello il problema. Non evita solo me... anche Quil, e tutti gli altri. Ha perso una settimana di scuola, ma quando andavamo a cercarlo non era mai a casa. E dopo che è tornato sembrava... fuori di testa. Terrorizzato. Quil e io abbiamo cercato di farci spiegare cosa fosse successo, ma non voleva saperne di parlare».
Fissavo Jacob ammutolita dall’ansia: aveva davvero paura. E non osava guardarmi. Osservava il proprio piede scalciare la gomma come se non gli appartenesse. Il ritmo si fece più frenetico.
«Poi, questa settimana, di punto in bianco, Embry inizia a uscire con Sam e gli altri. Era sullo scoglio, prima». Il suo tono di voce era cupo e nervoso.
Infine mi guardò. «Bella, lui li poteva soffrire ancora meno di me. Non voleva avere niente a che fare con loro. E adesso sta appiccicato a Sam come fosse entrato in una setta.
A Paul è accaduta la stessa cosa. Uguale. Non era affatto amico di Sam. Poi è rimasto lontano da scuola per qualche settimana e quando è tornato era come diventato una sua proprietà privata. Non so cosa significhi. Non riesco a immaginarlo, ma sento di doverci capire qualcosa, perché Embry è mio amico e... Sam mi guarda strano... e...». La sua voce si spense.
«Ne hai parlato con Billy?», chiesi. Il terrore mi stava contagiando. Sentivo i brividi sulla nuca.
A quel punto, era davvero arrabbiato. «Sì», sbottò. «Mi è servito».
«Cosa ti ha detto?».
Aveva risposto con sarcasmo e riprese a parlare imitando il tono profondo della voce paterna. «Stai tranquillo e non preoccuparti, Jacob. Tra qualche anno, se non... be’, te lo spiegherò poi». Quindi tornò alla propria voce. «Secondo te, cosa ci ho capito? Ha cercato di dirmi che è una stupida crisi di passaggio tra adolescenza e maturità? C’è dell’altro. E non è niente di buono».
Si mordeva il labbro inferiore e teneva una mano stretta nell’altra. Sembrava sul punto di piangere.
Istintivamente, lo abbracciai, stringendolo e premendo il volto contro il suo petto. Era talmente grosso che mi sentivo una bambina che abbraccia un adulto.
«Oh, Jake, andrà tutto bene», lo incoraggiai. «Se le cose si mettono male, puoi sempre rifugiarti da me e Charlie. Non avere paura, a qualcosa penseremo!».
Per pochi istanti rimase impietrito, poi mi strinse, goffo, con le lunghe braccia. «Grazie, Bella». La voce era più roca del solito.
Per un po’ restammo immobili e la cosa non mi sorprese. Anzi, il contatto con lui mi dava sollievo. Niente a che vedere con l’ultima volta che qualcuno mi aveva abbracciata in quel modo. Questa era amicizia. E Jacob era molto caldo.
Era strano, per me, essere così vicina—emotivamente, più che fisicamente, malgrado le sensazioni fisiche fossero strane—a un essere umano. Di solito non ero così. Era difficile che comunicassi con quella facilità e a un livello tanto profondo. Non con gli esseri umani, almeno.
«Se questa è la tua reazione, finirà che andrò davvero fuori di testa». La voce di Jacob era tranquilla, di nuovo normale, e sentii la sua risata vibrare sul mio orecchio. Con le dita, delicate e timide, mi sfiorò i capelli.
Be’, per me era amicizia.
Sciolsi l’abbraccio in fretta, ridendo insieme a lui, decisa a tornare subito con i piedi per terra.
«È difficile credere che io sia due anni più vecchia», dissi enfatizzando la parola “vecchia”. «Accanto a te mi sento una nana». Così vicino, per guardarlo in faccia dovevo davvero allungare il collo.
«Ovviamente, dimentichi che sono un quarantenne».
«Ah già, è vero».
Mi diede un buffetto sulla testa. «Sei una bambolina», scherzò. «Una bambola di porcellana».
Alzai gli occhi al cielo e feci un altro passo indietro. «Adesso non cominciare con le battute sugli albini».
«Sul serio, Bella, sei sicura di non essere albina?». Avvicinò il braccio bronzeo al mio. La differenza non mi faceva onore. «Non ho mai visto nessuno più pallido di te... be’, a parte...». S’interruppe e io guardai altrove, cercando di non badare a ciò che stava per aggiungere.
«E allora, si comincia o no?».
«Cominciamo», risposi, più entusiasta di quanto fossi trenta secondi prima. Le sue parole balbettate mi avevano ricordato lo scopo della gita.