Mi sembrava di aver dormito per un’eternità. Il mio corpo era rigido, come se per tutto quel tempo fosse rimasto immobilizzato, e i miei pensieri confusi e lenti. Nella testa si muoveva un groviglio di sogni—sogni e incubi—strani e variopinti. Vividissimi. Il terrore e il paradiso congiunti in una mescolanza bizzarra. Impazienza pungente e paura riempivano il solito sogno frustrante in cui non riuscivo a correre abbastanza veloce... E c’erano tantissimi mostri, nemici dagli occhi rossi composti, educati, per questo ancora più spaventosi, e di cui ricordavo persino tutti i nomi. Ma l’emozione più nitida e potente del sogno non era l’orrore, perché colui che vedevo meglio di tutti era l’angelo.
Fu difficile abbandonarlo e svegliarmi. Era un sogno che non chiedeva di essere sepolto nella cripta onirica che mi rifiutavo di visitare. Mi sforzai di emergerne, mentre recuperavo lucidità e mi concentravo sul mondo reale. Non ricordavo che giorno della settimana fosse, ma ero sicura che ad aspettarmi ci fossero Jacob, il lavoro o qualcosa del genere. Respirai a fondo, chiedendomi come avrei affrontato la giornata.
Qualcosa di freddo mi sfiorò la fronte con delicatezza.
Con tutte le forze cercai di non riaprire gli occhi. Evidentemente stavo ancora sognando e il sogno era straordinariamente verosimile. Ma ormai stavo per svegliarmi, e sapevo che tra pochi secondi sarebbe sparito.
Mi resi anche conto che sembrava troppo reale, troppo vero per gioirne. Le braccia solide che pensavo mi avvolgessero erano fin troppo concrete. Se non mi fossi decisa a riaprire gli occhi, me ne sarei pentita. Con un sospiro di rassegnazione, spalancai le palpebre per spezzare l’illusione.
«Ah!», esclamai e mi coprii gli occhi con i pugni.
Già, avevo proprio esagerato. Era stato un errore lasciar correre l’immaginazione a briglia sciolta. Be’, forse “lasciare” era il termine sbagliato. L’avevo costretta a correre a briglia sciolta all’inseguimento delle mie allucinazioni e avevo perso il controllo.
Mi bastò meno di mezzo secondo per decidere che, visto che ero impazzita del tutto, mi sarei goduta le illusioni, fintanto che fossero piacevoli.
Riaprii gli occhi: Edward era sempre lì, il volto perfetto a pochi centimetri dal mio.
«Ti ho spaventata?». C’era un filo d’ansia nel suo sussurro.
Per essere un’illusione, era splendidamente reale. Il viso, la voce, il profumo, tutto era molto meglio di quando ero annegata. Il bellissimo prodotto della mia immaginazione scrutava allarmato le mie mutevoli espressioni. L’iride dei suoi occhi era nerissima, cerchiata da occhiaie che sembravano ustioni. Ciò mi sorprese: di solito, l’Edward delle mie allucinazioni era meglio nutrito.
Sbattei le palpebre due volte, nel tentativo disperato di ricordare l’ultima cosa senz’altro vera che avessi visto. Alice faceva parte del sogno, forse non era mai ritornata. Pensavo fosse venuta a trovarmi il giorno in cui avevo rischiato di morire annegata...
«Oh, merda», gracchiai. Avevo ancora la gola secca per il sonno.
«Che c’è che non va, Bella?».
Lo guardai, torva e infelice. Il suo volto sembrava ancora più ansioso di prima.
«Sono morta, vero?», mi lamentai. «Sono annegata. Merda, merda, merda! Charlie ci resterà secco».
Anche Edward si accigliò. «Non sei morta».
«E allora perché non mi sveglio?», chiesi, sfidandolo con un’occhiata.
«Sei già sveglia, Bella».
Scossi la testa. «Certo, certo. È ciò che vuoi che io pensi. E poi, quando mi sveglierò, sarà il peggio del peggio. Se mi sveglierò, il che non avverrà, perché sono morta. Orribile. Povero Charlie. E Renée, e Jake...». Restai senza parole, terrorizzata da ciò che avevo combinato.
«Mi rendo conto che tu possa avermi scambiato per un incubo», sorrise in modo fugace e triste, «ma non riesco a immaginare cosa potresti aver fatto di tanto brutto da finire all’inferno. Ne hai ammazzati molti, in mia assenza?».
Risposi con una smorfia. «Certo che no. Se fossi all’inferno, tu non saresti con me».
Sospirò.
Mi stavo riprendendo. Senza volerlo fare realmente, allontanai lo sguardo dal suo viso per un secondo, guardai la finestra aperta e scura, poi tornai a lui. Iniziai a ricordare i dettagli... e sentii un rossore debole e poco familiare invadermi le guance, assieme alla certezza che Edward fosse davvero accanto a me e che stessi sprecando il mio tempo comportandomi da idiota.
«Perciò... è successo davvero?». Era quasi impossibile ridefinire il mio sogno come realtà. Non riuscivo a capacitarmene.
«Dipende». Il sorriso di Edward era ancora trattenuto. «Se ti riferisci al fatto che abbiamo rischiato di farci massacrare in Italia, la risposta è sì».
«Strano», commentai. «Sono stata in Italia davvero. Sai che non ero mai andata più a est di Albuquerque?».
Alzò gli occhi al cielo. «Forse è meglio che torni a dormire. Stai delirando».
«Non sono più stanca». Ormai tutto era chiaro. «Che ore sono? Quanto ho dormito?».
«È l’una di notte passata. Direi che dormi da quattordici ore».
Mi stiracchiai. Ero tutta intorpidita.
«E Charlie?», domandai.
Edward aggrottò la fronte. «Dorme. Devo farti presente che in questo momento sto infrangendo le regole. Be’, tecnicamente no, perché mi ha vietato di oltrepassare la porta di casa tua e io sono entrato dalla finestra, ma... be’, ecco, l’intenzione era quella».
«Charlie ti ha bandito da qui?», chiesi, e l’incredulità si trasformò in ira.
Il suo sguardo era triste. «Cosa ti aspettavi?».
Il mio, di sguardo, era folle di rabbia. Dovevo fare due chiacchiere con mio padre e cogliere l’occasione per ricordargli che ormai ero maggiorenne. Certo, non me ne importava granché, ma era una questione di principio. Presto non ci sarebbe più stata ragione di imporre un simile divieto. Indirizzai i pensieri su strade meno accidentate.
«Qual è la versione?», chiesi curiosa nel tentativo disperato di parlare sinceramente restando allo stesso tempo padrona di me stessa, in modo da non spaventarlo con il desiderio frenetico e lacerante che infuriava dentro di me.
«In che senso?».
«Cosa racconto a Charlie? Con quale scusa giustifico un’assenza di... quanto tempo sono stata lontana da casa?». Cercai di fare il conto delle ore.
«Soltanto tre giorni». Abbassò lo sguardo e sorrise, più spontaneo. «A dire la verità, speravo che potessi avere tu una buona idea. A me non è venuto in mente nulla».
«Favoloso», borbottai.
«Be’, magari Alice si inventerà qualcosa», aggiunse, cercando di confortarmi.
E ci riuscì. Cosa importava ciò che avrei dovuto affrontare? Non dovevo sprecare nessuno dei preziosi momenti che lui trascorreva con me così vicino, con il volto perfetto illuminato dalla fioca luce del display della radiosveglia.
«Allora», dissi, e scelsi come prima domanda la meno importante e tuttavia per me vitale. Mi aveva riportata a casa sana e salva, perciò poteva decidere di andarsene in qualsiasi momento. Dovevo farlo parlare. Inoltre, senza il suono della sua voce quel paradiso temporaneo non era completo. «Cos’hai fatto di bello fino a tre giorni fa?».
La sua espressione si fece all’istante preoccupata. «Niente di così eccitante».
«Certo che no», mormorai.
«Perché fai quella faccia?».
«Be’...». Corrugai le labbra, pensierosa. «È proprio ciò che risponderesti se, in fin dei conti, fossi un sogno. La mia immaginazione dev’essere un po’ a secco».
Sospirò. «Se te lo dico, ti convincerai che questo non è un incubo?».
«Un incubo!», ripetei sdegnata. Restò in attesa di una risposta. «Forse», dissi dopo averci pensato qualche secondo, «a patto che tu me lo dica».
«Sono stato... a caccia».
«Non sai dire di meglio? Questo non basta affatto a dimostrare che sono sveglia».
Dopo un breve silenzio, scelse le parole con cura. «Non ero a caccia per nutrirmi... A dire la verità mi stavo allenando a... seguire le tracce. Non sono molto bravo».
«E cos’hai inseguito?», chiesi incuriosita.
«Niente di rilevante». Le sue parole stonavano con l’espressione del viso. Sembrava nervoso, a disagio.
«Non capisco».
Restò in silenzio, con un’espressione combattuta, illuminata dallo strano bagliore verde della sveglia.
«Io...», fece un respiro profondo, «ti devo delle scuse. No, certo, ti devo molto, molto di più. Ma devi sapere», le parole iniziarono a scorrere veloci, come quando era agitato, e fui costretta a concentrarmi per capirle tutte, «che non avevo idea. Non mi sono reso conto del disastro che mi ero lasciato alle spalle. Pensavo che qui fossi al sicuro. Non avevo dubbi. E non immaginavo che Victoria», mostrò i denti, pronunciando il suo nome, «sarebbe tornata. Devo ammettere di aver badato molto di più ai pensieri di James che ai suoi, il giorno del nostro incontro. Non ho intuito che avremmo scatenato una reazione simile. Che fossero così legati. E ora capisco perché: si fidava di lui e il pensiero che avrebbe fallito non l’ha mai sfiorata. L’eccesso di sicurezza le offuscava i pensieri e mi ha impedito di percepire quanto fosse profondo il legame tra loro.
Non che ci siano scuse per ciò che ti ho inflitto. Quando ho sentito ciò che hai detto ad Alice—ciò che lei stessa ha visto—e quando mi sono reso conto di averti costretta a mettere la tua vita nelle mani di licantropi immaturi e volubili, la cosa peggiore al mondo, esclusa Victoria...». Trasalì e per un secondo gli mancarono le parole. «Sappi che non avevo idea che sarebbe andata così. Sono amareggiato nel profondo, anche oggi che ti vedo al sicuro tra le mie braccia. Non c’è modo più miserabile di scusarmi per...».
«Smettila», dissi. Di fronte al suo sguardo sofferente, cercai le parole giuste, quelle che lo avrebbero liberato dall’obbligo inesistente che tanto dolore gli aveva causato. Erano difficili da pronunciare. Forse non sarei stata in grado di tirarle fuori senza crollare. Ma dovevo cercare di fare le cose per bene. Non potevo diventare un’eterna fonte di senso di colpa e rimorso. Volevo che Edward fosse felice, a qualsiasi costo.
Avevo sperato di arrivare a quel punto un po’ più tardi. Così, rischiavo di anticipare la fine di tutto.
Allenata com’ero a mantenere un atteggiamento normale di fronte a Charlie, riuscii a conservare un’espressione neutra.
«Edward», dissi con la gola che mi ardeva. Sentivo il fantasma della voragine che attendeva di aprirsi un’altra volta, non appena se ne fosse andato. Non sapevo come sarei sopravvissuta. «Smettila, una volta per tutte. Non puoi ostinarti a vederla così. E non puoi lasciare che sia... il senso di colpa... a condizionarti la vita. Non puoi considerarti responsabile di tutto ciò che mi accade. Non è colpa tua, fa soltanto parte della mia vita attuale. Perciò, se inciampo e finisco sotto un autobus, o qualunque cosa mi capiti, devi renderti conto che non sei obbligato a provare alcun rimorso. Non puoi scappare in Italia perché non sei riuscito a salvarmi. Anche se mi fossi lanciata da quello scoglio per morire, sarebbe stata una scelta mia, non colpa tua. So che è nella tua... natura sentirti responsabile di tutto, ma davvero non puoi permetterti di esagerare in questo modo! È un atteggiamento sconsiderato. Pensa a Esme, a Carlisle e...».
Stavo per perdere il controllo. Mi fermai per riprendere fiato e cercare di calmarmi. Dovevo lasciarlo andare. Dovevo assicurarmi che quella situazione non si ripetesse mai più.
«Isabella Marie Swan», sussurrò, sul viso un’espressione strana, quasi da pazzo, «credi davvero che io abbia chiesto ai Volturi di uccidermi perché mi sentivo in colpa?».
Mi si leggeva in faccia che non capivo. «Non è così?».
«Certo che mi sentivo in colpa. Molto. Più di quanto tu possa immaginare».
«Ma... cosa stai dicendo? Non capisco».
«Bella, sono andato dai Volturi perché credevo fossi morta», disse, la voce vellutata, lo sguardo fiero. «Sarei andato in Italia anche se non fossi stato il responsabile della tua morte», pronunciò la parola con un sussulto, «anche se non fosse stata colpa mia. Certo, avrei dovuto agire con più cautela e parlarne prima con Alice, anziché prendere per buona la versione di Rose. Ma, sinceramente, cos’altro avrei potuto pensare, quando il ragazzo mi ha risposto che Charlie era al funerale? Quante probabilità c’erano? Probabilità...», mormorò, distratto. La sua voce era talmente bassa che non ero certa di avere capito. «Le probabilità sono sempre contro di noi. Un errore dopo l’altro. Non criticherò mai più Romeo».
«Continuo a non capire», dissi. «Anch’io ne sono convinta. E allora?».
«E allora cosa?».
«Se anche fossi morta davvero?».
Mi fissò a lungo, dubbioso, prima di rispondere. «Non ricordi cosa ti ho detto una volta?».
«Ricordo tutto quel che mi hai detto». Comprese le parole con cui aveva cancellato tutto.
Mi sfiorò il labbro inferiore con la fredda punta del dito. «Bella, temo che tu sia vittima di un equivoco». Chiuse gli occhi, scosse la testa avanti e indietro e accennò un sorriso. Ma non sembrava allegro. «Pensavo di avertelo già spiegato chiaramente. Non sono in grado di vivere se al mondo non ci sei tu, Bella».
«Sono...», mi girava la testa, in cerca dell’aggettivo migliore, «confusa». Ecco. Non capivo il senso delle sue parole.
Mi fissò dritto negli occhi con il suo sguardo spontaneo, sincero. «Sono un bravo bugiardo, Bella. Devo esserlo».
Restai impietrita, con i muscoli contratti, pronti all’impatto. La faglia che mi attraversava il petto si squarciò e il dolore mi mozzò il respiro.
Edward mi diede uno strattone, nel tentativo di sciogliere la mia posa rigida. «Lasciami finire! Sono un bravo bugiardo, ma tu mi hai creduto troppo in fretta». Trasalì. «È stato... atroce».
Restai in silenzio, senza battere ciglio.
«Quando ti ho detto addio, nella foresta...».
Non osavo ricordare. Mi sforzavo di restare attaccata al presente.
«Non ti saresti arresa», sussurrò, «lo sapevo bene. E non volevo farlo perché sapevo che sarei morto anch’io, ma temevo che, se non ti avessi convinta che non ti amavo più, avresti impiegato ancora più tempo a riprendere una vita normale. Speravo che, dimostrandoti di averti dimenticata, tu potessi fare altrettanto».
«Un taglio netto», mormorai quasi senza muovere le labbra.
«Esatto. Ma non avrei mai immaginato che sarebbe stato così facile! La consideravo un’impresa quasi impossibile. Ero sicuro che intuissi la verità e mi aspettavo di dover mentire a denti stretti per ore prima di insinuare l’ombra del dubbio dentro di te. Ti ho mentito e ti chiedo scusa... scusa per averti ferita, scusa perché è stato un tentativo inutile. Scusa se non ti ho protetta da ciò che sono. Ho mentito perché volevo salvarti e non ha funzionato. Scusami.
Ma come hai potuto credermi? Dopo che ti ho ripetuto migliaia di volte che ti amavo, com’è stato possibile che una sola parola frantumasse la tua fiducia in me?».
Non risposi. Ero troppo sbalordita per elaborare una frase razionale.
«Lo vedevo nel tuo sguardo, sembravi sinceramente convinta che non ti volessi più. L’idea più assurda e ridicola... come se io potessi mai trovare il modo di esistere senza aver bisogno di te!».
Ero ancora impietrita. Le sue parole erano incomprensibili, perché impossibili.
Mi diede un altro strattone, quel poco che bastava a farmi tremare i denti.
«Bella», sospirò. «Davvero, cosa pensavi?».
A quel punto scoppiai a piangere. Le lacrime di tristezza si addensarono e iniziarono a rigarmi le guance.
«Lo sapevo», singhiozzai. «Sapevo che era un sogno».
«Sei incredibile», disse e fece una risata nervosa, irritata. «Cosa devo fare per convincerti? Non stai dormendo e non sei nemmeno morta. Sono qui e ti amo. Ti ho amata sempre e sempre ti amerò. Ho pensato a te, visto il tuo volto nei ricordi, durante ogni minuto di lontananza. Dirti che non ti volevo più è stata una terribile bestemmia».
Scossi la testa, le lacrime non si fermavano.
«Non mi credi, eh?», sussurrò, ancora più pallido del solito, tanto che riuscivo a vederlo malgrado la luce fioca. «Come fai a credere a una bugia e non alla verità?».
«Amarmi non ha mai avuto senso per te», risposi con voce spezzata. «L’ho sempre saputo».
Serrò le mascelle e mi fissò.
«Ora ti dimostro che sei sveglia».
Mi strinse forte il viso tra le mani d’acciaio, ignorando i miei sforzi di sfuggire alla presa.
«No, ti prego», sussurrai.
Si fermò con le labbra a mezzo centimetro dalle mie.
«E perché no?», chiese. Il suo respiro mi dava le vertigini.
«Quando mi risveglierò». Aprì la bocca, pronto a protestare, e allora mi corressi: «D’accordo, lasciamo perdere. Ora che te ne andrai di nuovo sarà dura da sopportare, anche senza questo bacio».
Si allontanò di un centimetro per fissarmi negli occhi.
«Ieri, quando ti toccavo, sembravi... incerta, prudente, sebbene sempre la stessa. Ho bisogno di sapere perché. È troppo tardi? Ti ho ferita irreparabilmente? O ti sei davvero lasciata tutto alle spalle, come desideravo? Tutto sommato sarebbe... giusto. Non contesterò la tua decisione. Perciò non temere la mia reazione, ti prego. Dimmi solo se dopo tutto ciò che ti ho fatto puoi ancora amarmi o no. Puoi?», sussurrò.
«Ma che razza di domanda scema è questa?».
«Ti prego, rispondi. Per favore».
Lo guardai cupa, per un istante interminabile. «Ciò che provo per te non cambierà mai. Certo che ti amo... e tu non puoi farci niente!».
«Non avevo bisogno di sentire altro».
A quel punto sentii la sua bocca sulla mia e mi arresi. E non perché fosse mille volte più forte di me. La mia volontà si sbriciolò nell’istante preciso del contatto. Il bacio non fu affatto prudente come quelli che ricordavo, ma andava benissimo così. Se proprio dovevo perdere un altro brandello di me stessa, meglio esagerare.
Perciò restituii il bacio, mentre il cuore scandiva un ritmo spezzato e disordinato, il respiro si trasformava in affanno e le dita cercavano ingorde il suo viso. Sentivo il suo corpo marmoreo aderire al mio ed ero felice che non mi avesse ascoltata: non c’era dolore al mondo per cui valesse la pena di rinunciare a quell’istante. Le nostre mani riprendevano confidenza con il viso dell’altro e, nei brevi istanti in cui le labbra si separavano, lui sussurrava il mio nome.
Quando iniziai a sentire i brividi, si allontanò per posare un orecchio sul mio cuore.
Restai immobile, sbalordita, in attesa che il respiro rallentasse e si calmasse.
«Tra l’altro», disse come se niente fosse, «non ho intenzione di lasciarti».
Non risposi nulla e lui colse dello scetticismo nel mio silenzio.
Alzò la testa per incrociare il mio sguardo. «Non vado da nessuna parte. Non senza di te», aggiunse più serio. «Ti ho lasciata soltanto perché desideravo darti la possibilità di vivere una vita normale, felice, da essere umano. Mi rendevo conto di cosa significasse starti accanto: farti vivere sempre sul filo del rasoio, allontanarti dal tuo mondo, costringerti a rischiare la vita in ogni istante che passavo con te. Perciò ho deciso di provare. Dovevo fare qualcosa e la fuga mi sembrava l’unica possibilità. Se non avessi creduto che era meglio per te, non mi sarei mai imposto di andarmene. Sono fin troppo egoista. Soltanto tu eri più importante dei miei capricci... e dei miei desideri. Ciò che desidero, ciò che voglio, è stare con te e so che non avrò mai più la forza di lasciarti. Ho troppe scuse per rimanere... grazie al cielo, sembra proprio che tu non riesca a non cacciarti nei pasticci, neanche se ci sono i chilometri a separarci».
«Non fare promesse», sussurrai. Se mi fossi concessa una speranza e quella non si fosse avverata... sarei morta. La speranza rischiava di compiere quanto non era riuscito a tutti quei vampiri spietati.
La rabbia luccicò metallica nei suoi occhi neri. «Pensi che ti stia mentendo, adesso?».
«No... non lo penso». Scossi la testa, cercando di dare una forma coerente ai miei pensieri. Di valutare con razionalità e occhio clinico l’ipotesi che mi amasse davvero, per non cadere nella trappola della speranza. «Potresti essere sincero... adesso. Ma domani, quando ripenserai a tutti i motivi che già una volta ti hanno convinto ad andartene? O tra un mese, la prossima volta che Jasper cercherà di mordermi?».
Trasalì.
Ripensai agli ultimi giorni della mia vita prima che mi lasciasse, e cercai di rileggerli filtrandoli attraverso queste sue nuove parole. Da questa prospettiva, la possibilità che mi avesse lasciata senza smettere di amarmi, che lo avesse fatto per il mio bene, dava ai suoi silenzi e alla sua aria cupa un significato diverso. «Non mi pare che tu abbia meditato molto sulla tua vecchia decisione, no?», aggiunsi. «Finirai per fare ciò che ritieni giusto».
«Non ho tutta la forza che mi attribuisci», mi rispose. «Non m’importa più di capire cosa è giusto e cosa sbagliato; sarei tornato comunque. Prima che Rosalie mi desse la notizia, avevo già rinunciato a vivere alla giornata. Una settimana era un’eternità, un’ora una sofferenza. Era soltanto questione di tempo, molto poco tempo, e mi sarei ripresentato alla tua finestra per implorarti di accettarmi di nuovo. Se non ti dispiace, vorrei provarci ora».
Feci una smorfia. «Non scherzare, per favore».
«Dico sul serio», insistette, guardandomi torvo. «Vuoi, per cortesia, sforzarti di ascoltare ciò che dico? Mi lasci spiegare quanto sei importante per me?».
Restò in silenzio e studiò la mia espressione per assicurarsi che fossi attenta.
«Prima di te, Bella, la mia vita era una notte senza luna. Molto buia, ma con qualche stella: punti di luce e razionalità... Poi hai attraversato il cielo come una meteora. All’improvviso, tutto ha preso fuoco: c’era luce, c’era bellezza. Quando sei sparita, la meteora è scomparsa dietro l’orizzonte e il buio è tornato. Non era cambiato nulla, ma i miei occhi erano rimasti accecati. Non vedevo più le stelle. Niente aveva più senso».
Desideravo credergli. Ma stava descrivendo la mia vita senza di lui, non il contrario.
«Gli occhi si abitueranno», mormorai.
«Questo è il problema: non ci riescono».
«E le tue distrazioni?».
Rise, ma senza la minima traccia di buonumore. «Faceva parte della bugia, amore mio. Non sono mai riuscito a cancellare... l’agonia. Il mio cuore non batteva da quasi novant’anni, ma stavolta è andata diversamente. Non lo sentivo più, al suo posto c’era un vuoto. Come se ti fossi portata via tutto ciò che avevo dentro».
«Curioso», borbottai.
Inarcò una delle sopracciglia perfette. «Curioso?».
«Volevo dire “strano”... pensavo fosse successo soltanto a me. Anch’io ho perso parecchi pezzi. Ho passato chissà quanto tempo senza respirare davvero». Riempii con gioia i polmoni. «Anche il mio cuore. Sparito nel nulla».
Chiuse gli occhi e posò di nuovo la testa sul mio petto. Io gli sfiorai i capelli con la guancia e ne sentii la consistenza sulla pelle, assieme al suo profumo delizioso.
«Non ti sei distratto nemmeno con la caccia?», chiesi curiosa e desiderosa di distrarmi a mia volta. Correvo il rischio di iniziare a sperare. Non mi restava molto. Il mio cuore pulsava e cantava.
«No», sospirò, «quella non è mai stata una distrazione, ma un dovere».
«In che senso?».
«Ecco, benché non considerassi affatto pericolosa Victoria, non intendevo fargliela passare liscia... Te l’ho detto, sono stato un vero incapace. L’ho inseguita fino al Texas, ma poi mi sono lasciato ingannare da una pista falsa che portava in Brasile. In realtà, lei era tornata qui», disse contrariato. «E io stavo in un altro continente! E nel frattempo, peggio del mio incubo peggiore...».
«Eri sulle tracce di Victoria?». Soffocai il grido in gola, alzando di due ottave il poco di voce che mi restava.
Il ronfo lontano di Charlie s’interruppe, ma riprese subito a ritmo regolare.
«Non le ho seguite bene», rispose Edward, che studiava la mia espressione sbalordita con uno sguardo confuso. «Ma stavolta farò di meglio. Presto la smetterà di insozzare l’aria con il suo respiro».
«Questo è... fuori discussione», dissi d’un fiato. Era una pazzia. Anche se avesse chiesto rinforzi a Emmett o Jasper. Anche se Emmett e Jasper lo avessero aiutato. Peggio ancora di quell’altra visione: Jacob Black a poca distanza dalla sagoma feroce e felina di Victoria. Non potevo tollerare di aggiungere anche Edward, benché fosse molto più resistente del mio migliore amico mezzo umano.
«È troppo tardi per lei. L’altra volta ho perso un’occasione, ma ora basta, non dopo che...».
Lo interruppi un’altra volta, cercando di apparire calma. «Ricorda che hai appena promesso di non andartene», dissi combattendo contro le mie stesse parole, per non lasciarle conficcare nel cuore. «Non credo che ciò sia davvero compatibile con una battuta di caccia in piena regola, sbaglio?».
Si fece scuro in volto. Dal suo petto sorse un ringhio soffocato. «Manterrò la promessa, Bella. Ma Victoria», e il ringhio si fece più pronunciato, «morirà. Presto».
«Non lasciamoci prendere dalla fretta», lo incalzai, cercando di nascondere il panico. «Forse non tornerà. Probabilmente il branco di Jake le ha messo paura. Non c’è motivo di andare a cercarla. E poi, ora come ora ho problemi più urgenti».
Edward mi fissò torvo, ma annuì. «Hai ragione. I licantropi sono un problema».
Sbuffai. «Non mi riferisco a Jacob. Ho problemi ben peggiori di un gruppetto di lupi adolescenti pronti a cacciarsi nei pasticci».
Mi guardò come per dire qualcosa, ma poi ci ripensò. Strinse i denti e ricominciò a parlare. «Davvero?», chiese. «E quale sarebbe il problema più urgente? Cos’è che rende tanto trascurabile ai tuoi occhi la prospettiva del ritorno di Victoria?».
«Parliamo del secondo in ordine di urgenza?».
«D’accordo», rispose sospettoso.
Restai in silenzio. Non ero sicura di riuscire a pronunciare quel nome. «C’è qualcun altro che verrà a cercarmi», gli ricordai in un tenue sussurro.
Lui sospirò, ma la reazione non fu decisa come immaginavo dopo averlo sentito parlare in quel modo di Victoria.
«I Volturi sono soltanto secondi?».
«Non mi sembri così sconvolto».
«Be’, abbiamo un sacco di tempo per pensarci. La loro percezione del tempo è molto particolare, diversissima dalla tua, e anche dalla mia. Un loro anno pesa quanto un tuo giorno. Non mi sorprenderei se si rifacessero vivi per il tuo trentesimo compleanno», aggiunse scherzando.
Annegai nel terrore.
Trent’anni.
Perciò, in fin dei conti, le sue promesse non valevano niente. Se dava per scontato che sarei arrivata ai trenta, non poteva avere intenzione di restare con me a lungo. Ferita da tale certezza, capii di avere iniziato a sperare senza potermelo concedere.
«Non devi avere paura», disse, ansioso, mentre guardava le lacrime gonfiarmi gli occhi. «Non permetterò che ti facciano del male».
«Finché ci sei». Non che m’importasse granché di cosa sarebbe accaduto dopo.
Prese la mia testa tra le mani d’acciaio e la strinse, mentre i suoi occhi fondi come la notte attirarono i miei con la forza gravitazionale di un buco nero. «Non ti lascerò mai più».
«Ma hai detto trentesimo», sussurrai. Le lacrime iniziarono a sgorgare. «Perciò... vuoi restare e lasciare che io invecchi? Va bene».
Il suo sguardo si ammorbidì, ma le labbra si fecero rigide. «Proprio così. Quali alternative ho? Non posso fare a meno di te, ma non distruggerò la tua anima».
«Ma sei davvero...». Cercai di non perdere il controllo della voce, ma la domanda era troppo difficile. Ricordai la sua espressione quando Aro lo aveva quasi implorato di considerare la possibilità di rendermi immortale: uno sguardo amareggiato. Si ostinava a volermi conservare umana per via della mia anima o perché non era sicuro di volermi accanto così a lungo?
«Sì?», chiese, in attesa della mia domanda.
Ne feci un’altra. Soltanto un po’ meno dura.
«E quando sarò tanto vecchia che tutti mi scambieranno per tua madre? O tua nonna?». L’amarezza mi svuotava la voce: rivedevo il volto di mia nonna riflesso dallo specchio.
La sua espressione si era rilassata. Asciugò con le labbra le lacrime che mi rigavano il viso. «Per me non significa nulla», disse, respirando sulla mia pelle. «Ai miei occhi resterai la cosa più bella di tutte. Ovviamente...», ebbe un leggero fremito, «se tu diventassi troppo grande, se tu desiderassi qualcosa di più... lo capirei, Bella. Prometto che non ti sarò mai di intralcio se deciderai di lasciarmi».
I suoi occhi erano di onice liquida, totalmente sinceri. Parlava come se la sua testardaggine fosse il risultato di lunghe meditazioni.
«Ti rendi conto che un giorno o l’altro morirò, vero?», chiesi.
Anche a questo aveva già pensato. «Ti seguirò appena possibile».
«Questa è davvero...», cercai la parola giusta, «un’assurdità».
«Bella, è l’unica via che mi è rimasta...».
«Facciamo un piccolo passo indietro», dissi. La rabbia mi faceva guadagnare in lucidità e decisione. «Ricordi i Volturi, vero? Non resterò umana per sempre. Mi uccideranno. Anche se non dovessero più pensare a me fino al mio trentesimo compleanno», la mia voce era ormai un sibilo, «pensi davvero che possano dimenticare?»,
«No», rispose lentamente, scuotendo la testa. «Non dimenticheranno. Però...».
«Però?».
Sorrideva di fronte alla mia preoccupazione. Forse la pazza non ero soltanto io.
«Ho un piano».
«E questo piano», dissi acida, «questo piano parte dal presupposto che resterò umana».
Il mio atteggiamento irrigidì la sua espressione. «Naturalmente». Rispose brusco, un velo di arroganza sul suo viso divino.
Per un minuto interminabile restammo a guardarci in cagnesco.
Poi ripresi fiato, alzai le spalle, mi tolsi di dosso le sue braccia e mi sedetti.
«Vuoi che me ne vada?», chiese e il mio cuore si fermò, perché era chiaro che lui soffriva al solo pensiero di abbandonarmi.
«No», risposi. «Sono io che me ne vado».
Sospettoso, mi guardò scivolare giù dal letto e avanzare a tentoni nell’oscurità, in cerca delle scarpe.
«E potrei sapere dove?».
«A casa tua», risposi, tastando il pavimento buio.
Si alzò e mi raggiunse. «Eccoti le scarpe. Come pensi di andarci?».
«Con il pick-up».
«Finirai per svegliare Charlie», disse per scoraggiarmi.
«Lo so. Ma, sinceramente, dopo quel che ho combinato mi terrà sotto chiave per settimane. In quali altri guai posso cacciarmi?».
«Nessuno. Ma darà la colpa a me, non a te».
«Se hai un’idea migliore, sono tutta orecchi».
«Resta qui», propose, ma non c’era speranza nei suoi occhi.
«Nemmeno per idea. Se vuoi, precedimi, fai come fossi a casa tua», lo incoraggiai, ironica, e mi avvicinai alla porta.
Mi precedette e mi sbarrò la strada.
Allora puntai verso la finestra. Non era poi tanto in alto e atterrando avrei trovato soprattutto erba...
«Va bene», sospirò. «Ti do un passaggio».
Mi strinsi nelle spalle. «Fai come credi. Ma ti consiglio di essere presente».
«E perché mai?».
«Perché sei straordinariamente testardo e sono sicura che ti sentirai in dovere di esporre la tua opinione».
«A proposito di cosa?», chiese a denti stretti.
«La questione non riguarda più soltanto te. Sai, non sei il centro dell’universo». Ovviamente non parlavo del mio universo privato. «Se la tua stupida ostinazione a non volermi trasformare finirà per metterci contro i Volturi, è giusto che a decidere sia la tua famiglia al completo».
«A decidere cosa?». Scandì le parole una a una.
«Della mia mortalità. Voglio metterla ai voti».