20 Volterra

Imboccammo la salita ripida e il traffico si fece denso. Più in alto diminuiva lo spazio per le folli manovre di Alice. Rallentammo fin quasi a fermarci dietro una piccola Peugeot scura.

«Alice», implorai. L’orologio sul cruscotto sembrava accelerare.

«È l’unico accesso alla città», disse come per tranquillizzarmi. Ma la sua voce era troppo nervosa.

La colonna procedeva a singhiozzo, pochi metri alla volta. Il sole splendeva raggiante, sembrava al culmine del proprio cammino.

Le auto strisciavano in fila verso la città. A mano a mano che ci avvicinavamo, le vedevo parcheggiare sul ciglio della strada, abbandonate dai visitatori che preferivano proseguire a piedi. Sulle prime pensai fosse soltanto impazienza, una sensazione che capivo benissimo. Ma a un certo punto incontrammo un’interruzione e notai il parcheggio sotto le mura della città affollato dai turisti che entravano a piedi. L’accesso alle auto era vietato.

«Alice», la incalzai.

«Lo so», rispose. Il suo viso sembrava scolpito nel ghiaccio.

Ora che guardavo fuori e che viaggiavamo lentamente, notai il forte vento. I visitatori si tenevano le mani in testa per non perdere il cappello o farsi spettinare. L’aria gonfiava i vestiti. Mi accorsi anche che il colore rosso predominava: magliette rosse, cappelli rossi, bandiere rosse frustate dal vento come nastrini. Sotto il mio sguardo, la sciarpa rosso vivo che una donna si era annodata in testa fu scagliata via da una raffica improvvisa, impennandosi in aria sopra di lei, contorcendosi come fosse viva. La donna cercò di afferrarla con un salto, ma quella non smetteva di svolazzare, sempre più in alto, uno squarcio di sangue sullo sfondo opaco delle mura antiche.

«Bella». Alice parlò in fretta, a bassa voce, senza tentennare. «In questo momento non riesco a prevedere le decisioni delle guardie. Se non funziona, ti toccherà entrare da sola. Dovrai correre. Continua a chiedere la direzione per Palazzo dei Priori e corri verso il punto che ti indicano. Non perderti».

«Palazzo dei Priori, Palazzo dei Priori...», mi ripetei per fissarmelo nella mente.

«O chiedi della torre campanaria. Io farò il giro attorno alla città, in cerca di un posto non troppo in vista dove scavalcare le mura».

Annuii. «Palazzo dei Priori...».

«Troverai Edward ai piedi della torre, sul lato settentrionale della piazza. Si è nascosto nell’ombra di un vicoletto, all’angolo destro. Cerca di attirare la sua attenzione prima che si esponga alla luce».

Alice era arrivata quasi in fondo alla coda. Un uomo in uniforme blu dirigeva il traffico e allontanava le auto dal parcheggio pieno. Quelle invertivano la marcia e andavano a cercarsi posto sul ciglio della strada. Infine, fu il turno di Alice.

L’uomo in uniforme faceva cenni pigri, senza badare troppo ai guidatori. Alice accelerò, passò oltre e puntò verso la porta delle mura. Il vigile urlò qualcosa ma restò dov’era, sbracciandosi frenetico per impedire che la macchina che ci seguiva imitasse il cattivo esempio.

La porta era custodita da un altro uomo in uniforme. Ci avvicinavamo tra due ali di turisti, che sbirciavano curiosi verso la Porsche appariscente e pacchiana.

Il secondo vigile si piazzò in mezzo alla strada. Alice scartò per evitarlo e frenò di colpo. Il sole batteva sul mio finestrino, mentre lei stava all’ombra. Allungò una mano dietro il sedile ed estrasse qualcosa dalla borsa.

Il vigile si avvicinò all’auto, irritato, e picchiettò furioso sul finestrino.

Alice lo abbassò per metà e non appena furono faccia a faccia vidi l’uomo prepararsi a una sfuriata.

«Mi dispiace, ma oggi entrano soltanto gli autobus turistici», disse, in inglese con pesante accento italiano. Sembrava quasi volesse scusarsi per non poter dare notizie migliori a quella donna straordinariamente bella.

«È una visita privata», disse Alice sfoderando un sorriso malizioso. Allungò la mano fuori dal finestrino, sotto il sole. Restai impietrita finché non mi accorsi che indossava un guanto scuro, lungo fino al gomito. Strinse la mano al vigile, rimasta a mezz’aria dopo aver bussato sul finestrino, e la tirò verso di sé. Gli ficcò qualcosa nel palmo e strinse le dita.

L’uomo ritirò il braccio, sbalordito di fronte alla ricca mazzetta appena ricevuta. L’unica banconota che riuscii a scorgere era da mille dollari.

«È uno scherzo?», mormorò lui.

Il sorriso di Alice fu accecante: «Solo se lo trovi divertente».

Lui restò a guardarla, sbalordito. Io lanciavo occhiate nervose all’orologio sul cruscotto. Se Edward intendeva rispettare i suoi piani, ci restavano solo cinque minuti.

«Sono un po’ di fretta», abbozzò Alice, sorridente.

La guardia, confusa, finì per infilarsi i soldi in tasca. Fece un passo indietro e ci diede il via libera. Nessun turista parve accorgersi dello scambio. Alice entrò in città ed entrambe sospirammo di sollievo.

La strada era strettissima, lastricata di pietre dello stesso color ocra scuro dei palazzi che la nascondevano nell’ombra. Sembrava un vicolo. Sulle mura, separate da una breccia di pochi metri, spiccavano tante bandiere rosse, sbattute dal vento che soffiava per la via.

La folla di pedoni ci rallentava la marcia.

«È poco più avanti», disse Alice per incoraggiarmi. Mi tenevo stretta alla maniglia della portiera, pronta a lanciarmi in strada non appena ricevuto il segnale.

Guidava a singhiozzi e frenate repentine; i passanti si sbracciavano e ci urlavano improperi che ero lieta di non capire. Svoltò in una stradina poco adatta alle auto; spaventò i pedoni, costretti a rifugiarsi sulle porte delle case mentre gli sfrecciavamo davanti. Sbucammo su un’altra strada. I palazzi erano più alti: svettavano vicinissimi e facevano da schermo alla luce del sole, mentre le bandiere rosse che garrivano sulle facciate quasi si toccavano. La folla era ormai una calca. Alice frenò. Aprii la portiera ancora prima che ci fermassimo.

Mi indicò il punto in cui la strada si allargava e sfociava in uno spiazzo illuminato. «Ecco il lato meridionale della piazza. Attraversala, vai dritta fino alla destra della torre campanaria. Io cerco un’altra strada...».

S’interruppe di colpo e riprese a parlare con un sibilo. «Sono dappertutto!».

Restai impietrita, ma lei mi spinse giù dall’auto. «Non pensare a loro. Hai due minuti. Corri, Bella, corri!», urlò uscendo dall’auto.

Non mi fermai a chiudere la portiera, né a guardare Alice mentre svaniva nell’ombra. Scansai una donna grossa e pesante e iniziai a correre, a testa bassa, concentrandomi soltanto sul selciato irregolare sotto i miei piedi.

Uscii dalla strada buia e fui accecata dal sole che ardeva sulla piazza principale. Il vento mi schiacciava i capelli sugli occhi accecandomi. Mi accorsi del muro di persone soltanto quando mi ci scontrai. Nella massa di corpi non c’erano strade né pertugi. Spingevo furiosa, lottando contro le mani che mi cacciavano via. Mentre mi affannavo per avanzare, udivo esclamazioni irritate e infastidite, ma nessuna in una lingua comprensibile. I volti erano una girandola di rabbia e sorpresa, contornata dall’onnipresente rosso. Una bionda mi lanciò un’occhiataccia; la sciarpa rossa che portava al collo somigliava a una ferita disgustosa. Un bambino, sulle spalle del padre, mi sorrise e scoprì una finta dentatura da vampiro.

La calca mi trascinava nella direzione sbagliata. Per fortuna, la torre con l’orologio era ben visibile e non rischiavo di perdermi. Ormai le lancette puntavano verso il sole spietato e, malgrado mi facessi largo con ostinazione, sapevo che era troppo tardi. Non ero neanche a metà strada. Non ce l’avrei mai fatta. Ero stupida, lenta e umana, e per questo saremmo morti tutti.

Speravo che Alice riuscisse a fuggire. Speravo che potesse vedermi, capire che avevo fallito e tornare da Jasper.

Tra un insulto e l’altro, drizzai le orecchie in attesa che esplodesse lo stupore: le esclamazioni, forse anche le urla, di chi si fosse trovato di fronte Edward.

A un tratto, vidi una breccia tra la folla, una bolla di spazio libero. Mi ci gettai all’istante, ma soltanto quando mi sbucciai le ginocchia contro i mattoni capii che al centro della piazza c’era una grande fontana quadrata.

Quasi scoppiai a piangere di sollievo, dopo averne scavalcato il bordo per correre nell’acqua che mi arrivava al ginocchio. La spruzzavo dappertutto, mentre mi affannavo ad attraversare la vasca. Malgrado il sole, il vento era ghiacciato e l’umidità lo trasformava in una frustata di dolore. Ma la fontana era molto ampia e raggiunsi il centro della piazza in pochi secondi. Giunta all’altro lato della vasca non mi fermai e sfruttai il bordo come trampolino per lanciarmi tra la folla.

A quel punto, la gente si allontanava per evitare l’acqua gelata che schizzavo dai vestiti mentre correvo. Guardai un’altra volta l’orologio.

Il rintocco cupo e pesante di una campana risuonò nella piazza, facendo tremare persino le pietre. I bambini strillavano e si coprivano le orecchie. Mentre correvo, iniziai a chiamarlo.

«Edward!», urlavo, ma sapevo che era inutile. Il vociare della folla era troppo forte, lo sforzo mi aveva tolto il fiato. Ma non mi diedi per vinta.

Un altro rintocco. Sfrecciai davanti a un bambino in braccio alla madre: i suoi capelli sembravano bianchi, sotto quel sole sfavillante. Da un drappello di uomini in cerchio, vestiti in giacca rossa, sentii arrivare lamentele furiose dopo il mio passaggio a tutta velocità. La campana suonò una terza volta.

Sull’altro lato, rispetto a quegli uomini, c’era uno spiraglio aperto tra la calca di turisti che ciondolavano ai piedi della torre. Cercai con lo sguardo il vicolo a destra dell’ampia facciata del palazzo. Ancora non vedevo la strada per le troppe persone. Sentii un altro rintocco.

Avevo la visuale coperta. Senza la folla a fare da schermo, il vento mi frustava in faccia e mi bruciava gli occhi. Le lacrime nascevano da lì, oppure il mio era un pianto di sconfitta, mentre l’orologio batteva l’ennesimo rintocco?

Una famigliola, padre, madre e due figlie, era ferma all’imbocco del vicolo. Le bambine indossavano vestiti rosso vivo, con fiocchi dello stesso colore a raccogliere i capelli scuri. Il padre non era alto. Mi pareva di vedere qualcosa brillare nell’ombra alle sue spalle. Mi gettai verso di loro cercando di mettere a fuoco l’immagine offuscata dalle lacrime. La campana suonò e la bambina più piccola si tappò le orecchie con le mani.

L’altra, che arrivava ai fianchi della madre, le si attaccò alla gamba e restò a fissare l’ombra alle loro spalle. La vidi strattonare la mamma e indicare l’oscurità. Un altro rintocco, ero quasi arrivata.

Ero abbastanza vicina da sentire la voce squillante della ragazzina. Suo padre mi guardò sorpreso mentre mi facevo largo urlando rauca il nome di Edward.

La bambina più grande fece un risolino e disse qualcosa alla madre, mentre indicava impaziente il vicolo in ombra.

Sfrecciai a un palmo dal padre—che tolse subito di mezzo la figlia—e corsi verso la breccia scura alle loro spalle, mentre sopra di me il campanile continuava a battere i suoi tocchi.

«Edward, no!», urlai, ma la mia voce si perse, coperta dal baccano delle campane.

Riuscivo a vederlo. Ma lui non poteva vedere me.

Era proprio Edward, niente allucinazioni stavolta. Mi resi conto che le mie illusioni erano tutte imperfette: nessuna mai gli aveva reso giustizia.

Edward, immobile come una statua a pochi metri dall’imbocco della via, teneva chiusi gli occhi cerchiati da occhiaie livide, le braccia rilassate sui fianchi, il palmo delle mani rivolto all’insù. La sua espressione era pacifica, come durante un sogno piacevole. Il suo petto marmoreo era nudo e ai suoi piedi era appallottolata una maglietta o una camicia bianca. La luce riflessa dal suolo della piazza brillava fioca sulla sua pelle.

Non avevo mai visto niente di più bello. Me ne rendevo conto anche mentre correvo e urlavo senza fiato. Le sue parole nella foresta non significavano più nulla. Poco importava che non mi volesse più. Non avrei desiderato altro che lui, per il resto dei miei giorni.

La campana suonò un’altra volta e lui fece un lungo passo avanti verso la luce.

«No!», gridai. «Edward, sono qui!».

Non mi badò. Sorrideva beato. Un altro passo lo avrebbe esposto direttamente alla luce del sole.

Mi gettai contro di lui con tanta forza da rischiare di rimbalzargli addosso, se non ci fossero state le sue braccia a stringermi e trattenermi. Il contraccolpo mi tolse il respiro e mi piegò la testa all’indietro.

All’ennesimo rintocco aprì piano gli occhi scuri.

Mi guardò, sorpreso ma composto.

«Straordinario», disse. La sua voce squisita era piena di meraviglia, quasi compiaciuta. «Carlisle aveva ragione».

«Edward», cercai di esclamare, ma avevo perso la voce. «Torna subito all’ombra! Muoviti!».

Sembrava perplesso. Mi sfiorò piano una guancia con le dita. Non si era nemmeno accorto del mio tentativo di riportarlo indietro. Era come spingere contro le mura di cinta. La campana suonava, ma lui non reagì.

Ci trovavamo entrambi in pericolo di morte. Eppure, in quell’istante, mi sentii bene. Intera. Finalmente sentivo il cuore pompare nel petto, il sangue scorrere caldo e veloce nelle vene. I miei polmoni si riempirono del dolce profumo della sua pelle. La voragine si era chiusa senza lasciare traccia. Mi sentivo perfetta, come se la ferita non si fosse mai spalancata.

«È incredibile, sono stati velocissimi. Non ho sentito niente... che bravi», mormorò chiudendo gli occhi e baciandomi i capelli. La sua voce era velluto e miele. «“La morte che ha libato il miele del tuo respiro, nulla ha potuto ancora sulla tua bellezza”», mormorò e riconobbi i versi pronunciati da Romeo sulla tomba di Giulietta. La campana suonò per l’ultima volta. «Hai lo stesso profumo di sempre», aggiunse. «Quindi, forse questo è davvero l’inferno. Non importa. Resisterò».

«Non sono morta», sbottai. «E nemmeno tu! Ti prego, Edward, dobbiamo muoverci. Ci prenderanno!».

Mi dibattevo tra le sue braccia, mentre lui s’accigliava, confuso. «Puoi ripetere?», disse, educato.

«Non siamo morti, non ancora! Ma dobbiamo andarcene prima che i Volturi...».

Sul suo viso apparve un lampo di lucidità. Senza lasciarmi il tempo di parlare, mi trascinò con forza lontano dal limite dell’ombra, mettendomi senza sforzo con le spalle al muro, mentre lui si voltava verso l’interno del vicolo. Aprì le braccia, come per farmi scudo. Sbirciai di fronte a lui e vidi due sagome uscire dalla penombra.

«Buongiorno, signori». La voce di Edward sembrava calma e gentile. «Non credo che oggi avrò bisogno dei vostri servigi. Vi prego soltanto, per piacere, di portare i miei ringraziamenti ai vostri padroni».

«Vogliamo continuare la conversazione in un luogo più consono?», sussurrò minacciosa una voce.

«Non credo sarà necessario». Edward era più teso. «Conosco le vostre istruzioni, Felix. Non ho infranto alcuna regola».

«Felix allude alla vicinanza del sole», disse l’altra ombra, più suadente. Entrambe le sagome erano nascoste sotto mantelle grigio fumo che toccavano terra e ondeggiavano al vento. «Cerchiamo un riparo migliore».

«Vi seguo», replicò secco Edward. «Bella, perché non torni in piazza a goderti la festa?».

«No, la ragazza viene con noi», sussurrò la prima ombra con un velo di malizia.

«Puoi scordartelo». Le buone maniere svanirono. La voce di Edward fu secca e tagliente. Il suo corpo teso si preparava allo scontro.

«No», bisbigliai.

«Sssh», mormorò, e lo sentii soltanto io.

«Felix», disse la seconda ombra in tono più ragionevole, frapponendosi ai due. «Non qui». Si rivolse a Edward. «Aro desidera soltanto conversare di nuovo con te, se infine hai deciso davvero di non sfidarci».

«Certamente», rispose Edward, «ma lasciate libera la ragazza».

«Mi dispiace, temo non sia possibile», ribatté l’ombra più cortese. «Dobbiamo obbedire alle regole».

«Allora temo che non potrò accettare l’invito di Aro, Demetri».

«D’accordo», commentò soddisfatto Felix. I miei occhi si stavano abituando al buio e mi accorsi di quanto Felix fosse grosso, alto e largo di spalle. Mi ricordava Emmett.

«Aro sarà molto deluso», sospirò Demetri.

«Sono certo che sopravviverà al dispiacere», ribatté Edward.

Felix e Demetri si avvicinarono all’imbocco del vicolo, allargandosi leggermente in modo da chiudere ogni sbocco a Edward e costringerlo a entrare nella via per evitare scandali. Al riparo delle mantelle la loro pelle non rischiava il contatto con il sole.

Edward non si mosse di un centimetro. Andava incontro a quel destino per proteggere me.

Poi si voltò di scatto, assieme a Demetri e Felix, verso il buio della stradina tortuosa, in risposta a un suono o a un movimento impercettibile per i miei sensi.

«Vogliamo darci un contegno?», chiese una voce cristallina. «Non ci si comporta così di fronte a delle signore».

Alice raggiunse leggera Edward, senza tradire alcuna emozione o nervosismo. Sembrava minuta e fragile. Lasciava penzolare le braccia snelle come una bambina.

Invece Demetri e Felix si raddrizzarono, con le mantelle sfiorate da un colpo di vento che attraversò il vicolo. L’espressione di Felix s’irrigidì. A quanto pareva, non gradivano gli scontri ad armi pari.

«Non siamo soli», disse Alice.

Demetri si guardò alle spalle. A pochi metri di distanza, verso la piazza, la famigliola ci stava osservando. La madre parlava nervosa con il marito, gli occhi fissi su noi cinque. Lo sguardo di Demetri la fece voltare. L’uomo raggiunse uno degli uomini in giacca rossa nella piazza e gli picchiettò sulla spalla.

Demetri scosse la testa: «Ti prego Edward, ragioniamo».

«D’accordo. Ce ne andiamo subito, pari e patta».

Demetri sospirò, nervoso. «Almeno lascia che ne parliamo in privato».

Sei uomini in rosso si unirono alla famiglia e ci fissarono nervosi. Sapevo quanto fosse protettivo Edward nei miei confronti ed ero sicura che fosse stato lui a metterli in allarme. Avrei voluto gridare loro di fuggire.

Edward strinse i denti con uno scatto. «No».

Felix sorrise.

«Piantatela».

Era una voce acuta, melodiosa, che veniva da dietro di noi.

Sbirciai oltre il braccio di Edward e scorsi una piccola sagoma scura venirci incontro. A giudicare dalle movenze, doveva essere un altro di loro. Ma chi?

Sulle prime pensai fosse un ragazzino. Il nuovo arrivato era minuto come Alice e portava i capelli corti, castano chiaro. Il corpo nascosto dalla mantella—più scura delle altre, quasi nera—era snello, androgino. Ma il viso era troppo bello per appartenere a un ragazzo. Al confronto delle sue labbra piene e degli occhi grandi, gli angeli del Botticelli sfiguravano. Malgrado le pupille di un rosso opaco.

Fui stupita dalla reazione per l’arrivo di una figura così poco appariscente. Felix e Demetri si calmarono all’istante e abbandonando la posizione di attacco tornarono a mescolarsi alla penombra.

Anche Edward ruppe la tensione con atteggiamento sottomesso.

«Jane», sospirò rassegnato.

Alice incrociò le braccia al petto, impassibile.

«Seguitemi», disse Jane con voce infantile e monocorde. Ci voltò le spalle e sparì silenziosa nell’oscurità.

Con un sorrisetto, Felix ci indicò di precederlo.

Alice si portò subito dietro la piccola Jane. Edward mi cinse i fianchi con il braccio per trascinarmi accanto a lei. Il vicolo, sempre più stretto, era in discesa. Gli lanciai uno sguardo inquieto e pieno di interrogativi, ma lui rispose scuotendo la testa. Non sentivo nessuno alle nostre spalle, ma ero sicura che gli altri ci seguissero.

«Be’, Alice», disse Edward spezzando il silenzio, mentre camminavamo. «Immagino che non dovrei essere sorpreso di trovarti qui».

«È stata colpa mia», rispose lei, con lo stesso tono di voce. «Toccava a me cercare di rimediare».

«Cos’era successo?». Edward parlava senza tradire emozioni, come se la cosa lo interessasse a malapena. Probabilmente non voleva suggerire niente alle orecchie che ci ascoltavano da vicino.

«È una storia lunga». Alice mi lanciò un’occhiata fulminea. «Per farla breve, si è tuffata da uno scoglio, ma non voleva suicidarsi. Bella si è data allo sport estremo, di recente».

Arrossii e abbassai lo sguardo, verso l’ombra scura che non vedevo quasi più. Chissà cosa gli stavano dicendo i pensieri di Alice. Un mancato annegamento, vampiri a caccia, amici licantropi...

«Mmm», accennò Edward e dalla sua voce sparì ogni traccia di disinvoltura.

Giungemmo a una curva stretta, in discesa, perciò mi accorsi soltanto all’ultimo momento che il vicolo terminava di fronte a un piatto muro di mattoni, privo di finestre. La piccoletta di nome Jane era sparita.

Alice, senza indugiare, camminò dritta verso il muro. Poi, con grazia spontanea, scivolò dentro un buco che si apriva nella strada.

Sembrava un tombino, nascosto nel punto più basso della pavimentazione. Soltanto quando Alice sparì al suo interno, notai che qualcuno ne aveva rimosso la grata. L’apertura era piccola e oscura.

Trasalii.

«Stai tranquilla, Bella», disse Edward a bassa voce. «Ti prenderà Alice».

Osservai il tombino, dubbiosa. Probabilmente ci si sarebbe infilato per primo lui se alle nostre spalle, silenziosi e inquietanti, non ci fossero stati Demetri e Felix.

Mi chinai e infilai le gambe nel varco stretto.

«Alice?», sussurrai con voce tremante.

«Sono qui, Bella». La sua voce veniva troppo dal basso per rassicurarmi.

Edward mi afferrò i polsi—le sue mani sembravano pietre d’inverno—e mi aiutò a scendere nell’oscurità.

«Pronta?», chiese.

«Mollala», disse Alice.

Serrai terrorizzata gli occhi per non vedere e mi sforzai di non aprir bocca per non urlare. Edward mi lasciò cadere.

Fu breve e silenzioso. L’aria mi sfilò addosso per mezzo secondo e poi, al suono del mio respiro, le braccia di Alice mi accolsero.

Ero certa di essermi procurata delle sbucciature sulle sue braccia durissime. Mi aiutò a rialzarmi in piedi.

Il fondo non era buio, c’era una luce fioca provocata dal tenue bagliore dell’entrata che si rifletteva sulla pietra umida ai miei piedi. La luce svanì per un secondo, poi Edward mi apparve accanto come una debole radiosità bianca. Mi cinse di nuovo a sé con il braccio e pian piano mi spinse a camminare. Mi aggrappai ai suoi fianchi freddi, inciampando di continuo sulla superficie irregolare delle pietre. Il rumore della grata pesante che scivolava alle nostre spalle e richiudeva il tombino riecheggiò, metallico e definitivo.

La luce debole della strada fu subito inghiottita dall’oscurità. Il rumore dei miei passi incerti risuonò nel vuoto di uno spazio ignoto che mi sembrava molto ampio. Non sentii altro che il battito frenetico del mio cuore e i miei piedi che strisciavano sulle pietre umide, finché qualcuno alle mie spalle non sbuffò di impazienza.

Edward mi teneva stretta. La sua mano libera mi sfiorò il viso, carezzandomi il contorno delle labbra con il suo pollice vellutato. Di tanto in tanto lo sentivo premere il viso sui miei capelli. Capii che sarebbe stata l’unica occasione di ritrovarci insieme, e mi strinsi a lui ancora più forte.

Per il momento, sentivo che mi desiderava e questo bastava a oscurare l’orrore del tunnel sotterraneo e dei vampiri che ci minacciavano alle spalle. Probabilmente era il senso di colpa, lo stesso che lo aveva indotto a cercare la morte, convinto che mi fossi suicidata per causa sua. Ma sentivo le sue labbra chiuse sfiorarmi la fronte e delle motivazioni non m’importava nulla. Se non altro, prima di morire avrei passato del tempo assieme a lui. Meglio che vivere a lungo senza.

Avrei voluto chiedergli cosa sarebbe successo. Avevo il disperato desiderio di sapere in che modo saremmo morti... come se ciò potesse migliorare le cose. Ma non riuscivo a parlare, nemmeno a sussurrare, perché eravamo circondati. Gli altri udivano tutto: ogni respiro, ogni battito del cuore.

Il sentiero che percorrevamo scendeva ripido, sempre più a fondo, e mi rese claustrofobica. Soltanto la mano di Edward e le sue carezze sul viso m’impedivano di urlare forte.

Non capivo da dove venisse, ma a un certo punto vidi una luce che trasformò lo spazio davanti a me da nero in grigio scuro. Procedevamo sotto le basse arcate di una galleria. Dalle pietre affioravano lunghe scie di umidità nerastra, come se le pareti sanguinassero inchiostro.

Tremavo, forse di paura. Quando iniziai a battere i denti, capii che era per il freddo. Avevo i vestiti ancora umidi, e la temperatura nel cuore della città era invernale. Come la pelle di Edward. Anche lui se ne accorse, e mi lasciò andare, tenendomi soltanto per mano.

«N-n-no», balbettai e lo strinsi in un abbraccio. Non m’importava di congelare. Chi poteva sapere quanto tempo ci restava?

Con le mani fredde mi sfregò le braccia, nel tentativo di darmi sollievo.

Procedevamo celeri nel tunnel, o così mi sembrava: la mia andatura irritava qualcuno—Felix, probabilmente—che sentivo sbuffare di tanto in tanto.

Alla fine della galleria c’era una grata con sbarre di ferro arrugginite e grosse come il mio braccio. Un’altra porticina, fatta di sbarre più sottili e intrecciate, era aperta. Edward la attraversò a testa bassa ed entrò in una stanza di pietra più ampia e luminosa. La porta si richiuse con un clangore seguito dallo scatto di una serratura. Ero troppo terrorizzata per guardare indietro.

All’altro capo del salone era spalancata una bassa porta di legno, massiccia e molto spessa.

Ne varcammo la soglia e mi guardai attorno, sorpresa ma anche più rilassata. Di fianco a me, Edward serrava le mascelle, teso.

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