Spalancai gli occhi impaurita e poco importava che fossi talmente sfinita e rintronata da non rendermi neanche conto se stessi dormendo o no.
Qualcosa grattò di nuovo contro il vetro, con quello stesso rumore sottile e stridulo.
Confusa e imbambolata dal sonno, mi trascinai giù dal letto per avvicinarmi alla finestra, asciugandomi gli occhi pesti e gonfi di lacrime.
Una sagoma enorme e scura dondolava scomposta dall’altra parte del vetro e incombeva come fosse sul punto di sfondarlo. Arretrai di un passo, incerta e terrorizzata, e soffocai un grido.
Victoria.
Era venuta a prendermi.
Stavo per morire.
No, Charlie no!
Strangolai l’urlo che cresceva pian piano. Dovevo restare in silenzio. In un modo o nell’altro. Dovevo fare in modo che Charlie non venisse a indagare...
E poi dalla sagoma scura giunse una voce roca che conoscevo bene. «Bella!», sibilò. «Ahi! Dannazione, apri la finestra! AHI!».
Prima di potermi muovere dovetti aspettare qualche secondo per scrollarmi di dosso la paura, ma alla fine corsi verso la finestra e la aprii di scatto. Le nuvole erano illuminate da una luce fioca, quel poco che bastava a distinguere i contorni delle cose.
«Cosa stai combinando?», chiesi d’un fiato.
Jacob penzolava pericolosamente dalla cima dell’abete che svettava nel giardinetto di fronte a casa di Charlie. Con il suo peso aveva inclinato l’albero verso il muro e ora si dondolava—con le gambe ciondolanti a più di sei metri da terra—a un palmo dal mio naso. I rami sottili, sulla punta, grattarono e scricchiolarono di nuovo contro la parete.
«Sto cercando di mantenere», ansimò, penzolando su e giù assieme all’albero, «...la promessa!».
Sbattei gli occhi umidi e annebbiati, sicura che fosse un sogno.
«E quando mai hai promesso di suicidarti buttandoti dall’albero di Charlie?».
Sbuffò, niente affatto divertito, scalciando nel vuoto per non perdere l’equilibrio. «Togliti di mezzo», ordinò.
«Cosa?».
Un altro dondolio delle gambe, all’indietro e in avanti, per prendere lo slancio. In quel momento capii cosa volesse fare.
«No, Jake!».
Ma fui costretta a farmi da parte, perché era troppo tardi. Con un grugnito, si lanciò verso la finestra aperta.
Sentii nascere un altro grido, temendo che si ammazzasse nella caduta, o si facesse male dopo lo schianto contro i pannelli di legno che ricoprivano la parete. Con mia gran sorpresa, s’infilò agile nella stanza, atterrando sui talloni con un tonfo sordo.
Entrambi controllammo subito la porta, trattenendo il respiro, nel timore che il rumore avesse svegliato Charlie. Pochi istanti di silenzio e sentimmo mio padre russare.
Sul volto di Jacob comparve a poco a poco un ampio sorriso; sembrava molto soddisfatto di sé. Non era il ghigno che conoscevo e amavo: era nuovo, un’amara caricatura della sua vecchia sincerità, sopra un volto che ormai apparteneva a Sam.
Era davvero un po’ troppo.
Per colpa sua ero andata a dormire in lacrime. Il suo rifiuto spietato aveva aperto una nuova e dolorosa voragine in ciò che restava del mio petto. Se n’era andato lasciandosi alle spalle un incubo nuovo, come l’infezione in una piaga. La beffa dopo il danno. E ora, eccolo spuntare nella mia stanza e ridere sotto i baffi come se non fosse successo niente. Per giunta, malgrado tanta goffaggine e chiasso, non potei non ripensare a quando Edward s’intrufolava dalla finestra di notte e il ricordo stuzzicò crudele le ferite non ancora rimarginate.
Tutto questo, sommato alla stanchezza enorme che sentivo addosso, non mi rendeva esattamente che affabile.
«Vattene!», sibilai, tentando di metterci tutto il veleno che potevo.
Lui rimase interdetto, preso in contropiede.
«Ma no», ribatté, «ti porto le mie scuse».
«Non le accetto!».
Cercai di spingerlo fuori dalla finestra: in fin dei conti, se era un sogno, non si sarebbe fatto male. Tentativo inutile. Non lo spostai di un centimetro. Gli tolsi le mani di dosso e mi allontanai svelta.
Era a torso nudo, malgrado l’aria gelata che soffiava dalla finestra e mi faceva tremare di freddo, e toccare il suo petto mi fece sentire a disagio. La pelle era bollente, come la sua fronte l’ultima volta che l’avevo sfiorata. Come se avesse ancora la febbre. Ma non sembrava ammalato. Sembrava enorme. Si chinò verso di me, tanto ingombrante da oscurare l’intera finestra, zittito dalla mia reazione infuriata.
All’improvviso sentii di aver perso il controllo, come se venissi sepolta da una valanga di notti insonni. Ero incredibilmente esausta e spossata, tanto da rischiare il crollo. Malferma e incerta, mi sforzavo di tenere gli occhi aperti.
«Bella?», sussurrò Jacob, ansioso. Mi prese per un gomito per mantenermi in equilibrio e mi guidò verso il letto. Quando lo raggiunsi, le ginocchia cedettero e caddi a peso morto sul materasso.
«Ehi, tutto bene?», chiese, la fronte corrugata dalla preoccupazione.
Alzai lo sguardo verso di lui, le guance ancora rigate di lacrime. «Come fai a pensare che io stia bene, Jacob?».
Sul suo volto, il tormento rimpiazzò la preoccupazione. «Già», disse e riprese fiato. «Merda. Be’... Mi... Mi dispiace, Bella». Erano scuse sincere, senza dubbio, ma nell’espressione di Jacob c’era ancora un velo di rabbia.
«Perché sei venuto? Non voglio scuse da te, Jake».
«Lo so», sussurrò. «Ma non potevo lasciare tutto com’era oggi pomeriggio. È stato orribile. Mi dispiace».
Scossi la testa, esasperata. «Non ci capisco niente».
«Lo so. Voglio spiegarti...». S’interruppe all’istante, restò a bocca aperta come se qualcosa gli avesse tolto il respiro. Poi riprese fiato. «Ma non posso», aggiunse arrabbiato. «Non sai quanto mi piacerebbe».
Affondai la testa tra le mani. Dalla mia bocca uscì una domanda smorzata. «Perché?».
Tacque per un istante. Mi voltai—troppo stanca per alzare la testa—a osservare la sua espressione. Mi sorprese. Gli occhi sbarrati, le mascelle serrate, la fronte corrugata dallo sforzo.
«Cosa c’è che non va?», chiesi.
Rispose con uno sbuffo pesante, dopo aver trattenuto il fiato come me. «Non posso», mormorò frustrato.
«Non puoi cosa?».
Non badò alla domanda. «Senti, Bella, a te è mai capitato di custodire un segreto che non potevi svelare a nessuno?».
Mi lanciò uno sguardo d’intesa e i miei pensieri volarono immediatamente ai Cullen. Sperai di non avere un’aria colpevole.
«Qualcosa che sentivi di dover nascondere a Charlie, a tua madre...», insistette. «Qualcosa di cui non parleresti neanche con me? Neppure ora?».
Sentivo gli occhi socchiudersi. Non risposi alla domanda, ma sapevo che l’avrebbe interpretato come una conferma.
«Riesci a capire che io potrei trovarmi nello stesso tipo di... situazione?». Si sforzava, una volta di più, di trovare le parole giuste. «A volte, la lealtà è una zavorra pesante. Ci sono segreti che non si possono svelare, per nessun motivo».
Non lo mettevo in dubbio. Aveva ragione da vendere: io stessa avevo un segreto che non potevo condividere, che mi sentivo in dovere di proteggere. Un segreto di cui, all’improvviso, Jacob sembrava sapere tutto.
Ancora non capivo cosa c’entrasse con lui, con Sam o con Billy. Cosa gli importava, ora che i Cullen se n’erano andati?
«Non capisco perché sei venuto, Jacob, dato che mi offri enigmi anziché risposte».
«Scusa», sussurrò. «È davvero frustrante».
Per un istante incrociammo i nostri sguardi, entrambi pieni d’angoscia, nella penombra della stanza.
«La cosa che mi fa impazzire», sbottò, «è che tu sai tutto. Te l’ho già raccontato!».
«Cosa stai dicendo?».
Respirò a fondo, nervoso, e mi si avvicinò, mentre la disperazione sul suo volto cedeva a un’intensità ardente. Mi guardò negli occhi, deciso, e il suo discorso fu veloce ed energico. Pronunciò le parole a un palmo dal mio viso. Il suo respiro era caldo quanto la sua pelle.
«Forse ho capito come fare—perché tu sai già tutto, Bella! Non posso dirtelo, ma se tu indovinassi... risolverei il dilemma!».
«Vuoi che indovini... cosa?».
«Qual è il mio segreto! Puoi farcela... conosci la risposta!».
Sbattei le palpebre per riordinare le idee. Ero troppo stanca. Le sue parole non avevano senso.
Osservò la mia espressione vuota e i suoi lineamenti si contrassero in un altro tentativo. «Aspetta, vediamo se riesco ad aiutarti», disse. Qualunque fosse il suo intento, la concentrazione gli mozzava il respiro.
«Aiutarmi?», chiesi, cercando di non perdere il filo. Gli occhi lottavano per chiudersi, ma li costrinsi a restare spalancati.
«Già», disse d’un fiato. «Ti do qualche indizio».
Prese la mia testa tra le mani enormi e troppo calde, e la avvicinò a pochi centimetri dalla sua. Sussurrava guardandomi negli occhi, come se cercasse di comunicare qualcosa in più, oltre le parole.
«Ricordi di quando ci siamo conosciuti: sulla spiaggia, a La Push?».
«Certo che sì».
«Racconta».
Presi fiato e cercai di concentrarmi. «Mi hai chiesto del pick-up...».
Con un cenno mi fece segno di continuare.
«Abbiamo parlato della Golf...».
«Prosegui».
«Abbiamo passeggiato sulla spiaggia...». Le mie guance arrossivano sotto il palmo delle sue mani, tanto era calda la sua pelle, ma lui non se ne accorgeva. Gli avevo chiesto di fare una passeggiata con me, nel mio goffo ma efficace tentativo di fare la smorfiosa per spillargli qualche informazione.
Annuì, in attesa che riprendessi il discorso.
La mia voce era quasi un sussurro. «Mi hai raccontato certe storie del terrore... le leggende dei Quileute».
Chiuse gli occhi per un istante. «Sì», disse energicamente, come se ci trovassimo a un passo da qualcosa di importantissimo. Parlò piano, scandì le parole una dopo l’altra. «Ricordi cosa ti ho detto?».
Forse, malgrado l’oscurità, notò il cambiamento di colore sul mio viso. Come avrei potuto dimenticare? Involontariamente, Jacob mi aveva svelato la verità che cercavo quel giorno: Edward era un vampiro.
Mi fissò ancor più intensamente. «Pensaci bene», disse.
«Sì, ricordo», mormorai.
Riprese fiato, nervoso. «Ricordi tutto il mio...». Non riuscì a terminare la domanda. Restò a bocca aperta come se gli fosse andato qualcosa di traverso.
«...racconto?», chiesi io.
Annuì in silenzio.
Brancolavo nel buio. Uno solo dei suoi racconti era importante. Sapevo che per arrivarci era partito da lontano, ma non ricordavo tutto ciò che aveva detto prima, annebbiata com’ero dalla stanchezza. Scossi la testa.
Jacob grugnì e si alzò dal letto. Aveva le mani strette a pugno sulla fronte e il respiro affannoso e violento. «Lo sai, lo sai», mormorò.
«Jake? Per favore, Jake. Sono esausta. Non sono in grado, in questo momento. Magari domattina...».
Riprese fiato e annuì. «Forse ti tornerà in mente. Penso di capire perché ricordi una storia soltanto», aggiunse in tono amaro e sarcastico. Si accomodò con un balzo sul letto, accanto a me. «A proposito, posso farti una domanda?», chiese. «Muoio dalla curiosità».
«Una domanda su cosa?», dissi preoccupata.
«Sulla storia di vampiri che ti ho raccontato».
Rimasi a fissarlo dubbiosa, incapace di rispondere. Lui proseguì imperterrito.
«Davvero non lo sapevi?», disse con voce roca. «Sono stato io a rivelarti chi fosse?».
Come faceva a saperlo? Perché aveva deciso di crederci, perché proprio in quel momento? Serrai le mascelle. Lo fissai negli occhi, decisa a non parlare. E lui ne accorse.
«Capisci cosa intendo, a proposito della lealtà?», mormorò, sempre più rauco. «Per me è la stessa cosa, anzi, peggio. Ho le mani legate e non puoi immaginare quanto...».
Non mi andava. Non mi andava che mi parlasse a occhi chiusi, addolorato al pensiero di ciò che lo legava. Anzi, peggio: capii di non poter sopportare ciò che scatenava il suo dolore. Qualunque cosa fosse, la odiavo con tutte le mie forze.
Il volto di Sam invase i miei pensieri.
Il mio era stato un gesto volontario. Avevo protetto il segreto dei Cullen per amore; non corrisposto, ma sincero. La situazione di Jacob mi sembrava piuttosto diversa.
«Non esiste un modo per liberarti?», sussurrai, sfiorando la superficie ruvida dei suoi capelli cortissimi sulla nuca.
Gli tremavano le mani, non riaprì gli occhi. «No. Sono condannato all’ergastolo. Resterò dentro a vita». Una risata cinica. «Forse anche oltre».
«No, Jake», protestai. «Che ne dici se fuggiamo? Solo io e te. Se ce ne andassimo per sfuggire a Sam?».
«Da tutto questo non mi è concesso fuggire, Bella», sussurrò. «Se ci fosse, scapperei con te anche adesso». A quel punto gli tremavano anche le spalle. Riprese fiato. «Senti, ora devo andare».
«Perché?».
«Prima di tutto, temo che tu possa addormentarti da un momento all’altro. Hai bisogno di dormire, di tornare a girare al massimo. Vedrai che risolverai il dilemma, ce la farai».
«E poi?».
Si rabbuiò. «Perché ho dovuto allontanarmi di nascosto... non mi è permesso vederti. Si staranno chiedendo dove sia finito». Fece una smorfia. «Credo sia il momento di avvertirli».
«Non sei obbligato a raccontargli tutto», sibilai.
«Non importa, lo farò».
Provai un impeto di rabbia. «Li odio!».
Jacob strabuzzò gli occhi e mi guardò, sorpreso. «No, Bella. Non odiarli. Non è colpa né di Sam né degli altri. Te l’ho già detto: è colpa mia. In realtà Sam è... be’, davvero fico. Anche Jared e Paul sono dei bei tipi, per quanto Paul... ed Embry è amico mio da sempre. Con lui non è cambiato niente. È l’unica cosa rimasta uguale a prima. Mi sento molto in colpa per quel che pensavo di Sam...».
Sam davvero fico? Lo guardai incredula, ma lasciai correre.
«Ma allora, perché non hai il permesso di vedermi?».
«Troppo pericoloso», sussurrò e abbassò lo sguardo.
Le sue parole innescarono un brivido di paura.
Come faceva a sapere tutto? Nessuno ne era al corrente, tranne me.
Ma aveva ragione: il cuore della notte era il momento migliore per cacciare. Meglio che non indugiasse nella mia stanza. Se qualcuno fosse venuto a prendermi, doveva trovarmi sola.
«Se pensassi che è troppo... rischioso», sussurrò, «non sarei venuto. Però, Bella», incrociò di nuovo il mio sguardo, «ti ho fatto una promessa. Non immaginavo che sarebbe stato così difficile mantenerla, ma questo non significa che non ci voglia provare».
Vide l’incertezza sul mio volto. «Dopo quello stupido film», aggiunse, «ti ho promesso che non ti avrei mai fatto del male... Invece, oggi pomeriggio...».
«So che non l’hai fatto apposta, Jake. Va bene così».
«Grazie, Bella». Mi prese la mano. «Farò il possibile per esserti vicino, come ho promesso». Sfoderò un sorriso. Non era il mio né quello di Sam, ma una strana combinazione dei due. «Sarebbe davvero utile che ci capissi qualcosa da sola, Bella. Te ne prego, fai uno sforzo».
Accennai una smorfia. «Lo farò».
«E io cercherò di venire a trovarti presto», sospirò. «Ovviamente loro cercheranno di convincermi a non farlo».
«Non ascoltarli».
«Ci provo». Scosse la testa, poco convinto. «Appena capisci, vieni a dirmelo». In quell’istante accadde qualcosa e le sue mani ricominciarono a tremare. «Se... se vorrai».
«Per quale motivo non dovrei?».
La sua espressione si fece accigliata e cupa, ora apparteneva al cento per cento a Sam. «Be’, una ragione c’è», rispose brusco. «Senti, è davvero ora di andare. Mi faresti un favore?».
Annuii, spaventata dal suo cambiamento repentino.
«Se per caso decidi di non volermi vedere mai più, fammi almeno una telefonata. Per avvertirmi».
«Non accadrà...».
Con un cenno della mano m’interruppe. «Tu fammi sapere».
Si alzò e si avvicinò alla finestra.
«Non fare idiozie, Jake. Rischi di spezzarti la gamba. Usa la porta. Charlie non si accorgerà di niente».
«Stai tranquilla», borbottò e uscì dalla porta. Passandomi accanto indugiò per un istante e mi fissò con l’espressione sofferente di un accoltellato. Mi offrì una mano, implorante.
La strinsi e lui mi avvicinò a sé—con troppa energia—sbalzandomi dal materasso e facendomi scontrare con il suo petto.
«Non si sa mai», mi sussurrò tra i capelli, stringendomi in un abbraccio da orso che quasi mi sbriciolò le costole.
«Non riesco... a respirare!», farfugliai.
Mi lasciò andare all’istante, cingendomi un fianco per impedire che cadessi. Con gentilezza, mi spinse verso il letto.
«Dormi, Bells. Devi rimettere in moto il cervello. So che puoi farcela. Ho bisogno che tu capisca. Non ti perderò, Bella. Non per questa storia».
Raggiunse la porta con un balzo, la aprì piano e sparì. Restai in attesa che pestasse il gradino cigolante della scala, ma non sentii nulla.
Tornai a letto, con la testa che girava. Ero troppo confusa, troppo esasperata. Chiusi gli occhi, cercai di dare un senso alla situazione, ma persi lucidità tanto in fretta da restare disorientata.
Non fu il sonno pacifico e privo di sogni che tanto desideravo, niente affatto. Ero di nuovo nella foresta, vagavo come sempre.
Mi accorsi alla svelta che non era il solito sogno. Prima di tutto, non mi sentivo in dovere di perdermi né di cercare; a guidarmi era l’abitudine, l’azione che compivo ogni volta che mi trovavo laggiù. Neppure la foresta era la stessa. C’era un altro odore, una luce diversa. Al posto dell’aroma umido boschivo, sentivo l’aria salmastra dell’oceano. Il cielo era invisibile, eppure avevo la sensazione che il sole splendesse; le foglie più in alto erano di un brillante verde giada.
Era la foresta che circondava La Push, quella vicina alla spiaggia, ne ero sicura. Sapevo che se fossi riuscita a ritrovare l’oceano avrei rivisto il sole, perciò mi precipitai a testa bassa verso il rumore debole delle onde in lontananza.
A un tratto spuntò Jacob, che mi prese per mano e mi trascinò nell’angolo più buio della foresta.
«Jacob, c’è qualcosa che non va?», chiesi. Il suo volto era quello di un ragazzino spaventato e i capelli di nuovo bellissimi, raccolti in una coda sulla nuca. Mi tirava a sé con tutte le sue forze, ma io resistevo: non volevo entrare nell’oscurità.
«Corri, Bella, devi correre!», sussurrò spaventatissimo.
Fui quasi risvegliata dalla sensazione improvvisa di déjà-vu che mi travolse.
Sapevo perché quel posto mi era familiare. Ci ero già stata, in un altro sogno. Un milione di anni prima, in una vita totalmente diversa. Era il sogno che avevo fatto dopo il pomeriggio della passeggiata sulla spiaggia con Jacob, nella prima notte in cui fui consapevole che Edward fosse un vampiro. Rievocare quella giornata, probabilmente, aveva fatto riemergere il sogno dalle secche della memoria.
A quel punto, con un briciolo di lucidità in più, attesi che tutto si svolgesse come doveva. Una luce veniva verso di me dalla spiaggia. Entro pochi istanti, Edward sarebbe spuntato dalla vegetazione, la pelle che irradiava un bagliore fioco, gli occhi neri e minacciosi. Mi si sarebbe avvicinato sorridendo. L’avrei trovato bello come un angelo, con i canini lunghi e affilati...
Ma stavo andando troppo avanti. Prima doveva accadere qualcos’altro.
Jacob lasciò la mia mano con un gemito. Tra spasmi e tremori, si accasciò ai miei piedi.
«Jacob!», urlai, ma lui non c’era più.
Al suo posto era apparso un enorme lupo dal mantello rossiccio, con lo sguardo scuro e intelligente.
Il sognò deragliò come un treno fuori dai binari.
Non era lo stesso lupo che avevo sognato nella mia vita precedente. Era quello che mi ero ritrovata sotto il naso, nella radura, una settimana prima. Gigantesco, mostruoso, più grosso di un orso.
Mi guardava con intensità, cercando di suggerirmi qualcosa di importante con i suoi occhi intelligenti. Gli occhi familiari, castano scuro, di Jacob Black.
Mi risvegliai urlando a pieni polmoni.
Temevo che stavolta Charlie sarebbe venuto a controllare. Non era il solito grido. Nascosi la testa sotto il cuscino per tentare di soffocare la reazione isterica. Schiacciavo il cotone morbido contro la faccia, forse per scacciare via anche la conclusione a cui ero appena giunta.
Charlie non entrò e alla fine riuscii a zittire il lamento assurdo che mi usciva dalla gola.
Ricordavo, parola per parola, tutto il discorso di Jacob, quel giorno sulla spiaggia, compreso ciò che aveva detto prima di parlarmi dei “freddi”. Soprattutto ciò che aveva detto prima.
«Conosci le nostre vecchie storie, quelle sulle origini dei Quileute?».
«Non tanto».
«Be’, ci sono un sacco di leggende, alcune sembra risalgano al Diluvio Universale. A quanto pare, gli antichi Quileute legarono le loro canoe alla cima degli alberi più alti, per sopravvivere, come Noè e la sua arca». Sorrise, per dimostrarmi la sua scarsa fiducia in quei racconti. «Secondo un’altra leggenda, la nostra gente discende dai lupi, e i lupi sono nostri fratelli da sempre. Le leggi tribali vietano ancora oggi di ucciderli. E poi ci sono le storie che parlano dei freddi».
«I freddi?».
«Sì. Alcune storie che parlano dei freddi sono antiche come quella dei lupi, ma ce ne sono anche di recenti. Secondo la leggenda, il mio bisnonno aveva conosciuto dei freddi. Fu lui a stipulare il patto che vietò loro di entrare nella nostra terra».
«Il tuo bisnonno?».
«Era uno degli anziani della tribù, come mio padre. Vedi, i freddi sono nemici naturali dei lupi... Be’, non proprio dei lupi in sé, solo di quelli che si trasformano in uomini, come i nostri antenati. Quelli che chiamate licantropi».
«I licantropi hanno nemici?».
«Solo uno».
Mi sentii soffocare da un nodo alla gola. Cercai di deglutire, ma restava lì, incastrato. Tentai di sputarlo.
«Licantropo», esclamai.
Ecco la parola che mi faceva soffocare.
Il mondo intero traballò e iniziò a girare al contrario.
In che razza di posto abitavo? Possibile che esistesse un mondo in cui le antiche leggende prosperavano indisturbate alla periferia di insignificanti cittadine e generavano mostri fantastici? Era il segno che tutte le favole, persino quelle più incredibili, erano radicate in qualche verità? “Sano” e “normale” erano parole sensate, o era tutta questione di magia e racconti del terrore?
Mi strinsi tra le mani la testa che rischiava di esplodere.
Una vocetta stridula chiese quale fosse il problema. Non ero già riuscita, in passato, ad accettare l’esistenza dei vampiri senza diventare così isterica?
«Esatto», avrei voluto strillare alla vocetta. Come se nella vita una favola sola non fosse più che sufficiente.
Per giunta, non avevo mai dubitato, neanche per un istante, della superiorità e della diversità di Edward rispetto alla norma. Scoprire la sua natura non era stata una sorpresa... era ovvio che in lui ci fosse qualcosa.
Ma Jacob, che era soltanto Jacob e niente di più? Jacob il mio amico? Jacob, l’unico essere umano con cui fossi riuscita a instaurare un rapporto...
Nemmeno lui era un essere umano.
Mi sforzai di non ricominciare a urlare.
Cosa significava tutto questo?
Risposta ovvia. Significava che nella mia vita c’era qualcosa che non andava. Per quale altra ragione era affollata di personaggi da film dell’orrore? Per quale altro motivo finivo per affezionarmi a loro, tanto da lasciarmi ridurre il cuore a brandelli ogni volta che tornavano nel loro mondo fatato?
Tutto girava e fuggiva, nella mia testa, e il significato di tante cose mutava inesorabilmente.
Non c’era nessuna setta. Non c’era mai stata, non c’erano mai state bande. No, era molto peggio. Era un branco.
Un branco di cinque licantropi, di dimensioni assurde, dal pelo multicolore, gli stessi che avevo visto davanti a me nella radura di Edward...
Improvvisamente, decisi che non potevo più stare lì, chiusa in camera, senza far niente. Lanciai un’occhiata all’orologio. Era troppo presto, ma non m’importava. Dovevo tornare subito a La Push. Avevo bisogno di sentirmi dire da Jacob che non ero del tutto impazzita.
M’infilai i primi vestiti puliti che trovai, senza preoccuparmi dell’abbinamento, e scesi le scale due gradini alla volta. Mentre sfrecciavo in corridoio, diretta verso la porta, quasi mi scontrai con Charlie.
«Dove stai andando?», chiese, sorpreso. «Sai che ore sono?».
«Sì. Devo andare a trovare Jacob».
«Scusa, ma quel che è successo con Sam...».
«Non importa. Devo parlargli subito».
«È prestissimo». Aggrottò le sopracciglia quando si accorse che ero rimasta impassibile. «Non fai colazione?».
«Non ho fame». Charlie bloccava l’accesso all’uscita. Per qualche istante pensai di schivarlo e fuggire, ma sapevo che poi avrei dovuto rendergliene conto. «Torno presto, d’accordo?».
Lui si rabbuiò. «Dritta a casa di Jacob, d’accordo? Niente soste».
«Certo che no, dove vuoi che mi fermi?». Avevo così fretta che anche le parole andavano di corsa.
«Non so», rispose. «È soltanto che... be’, c’è stato un altro attacco: di nuovo i lupi. Non lontano dal rifugio, nella zona delle sorgenti calde... e stavolta abbiamo un testimone. La vittima è scomparsa a una decina di metri dalla strada. Sua moglie qualche minuto dopo ha avvistato un lupo grigio, enorme, e ha chiamato aiuto».
Sentii lo stomaco in gola, come in un doppio giro della morte sulle montagne russe. «È stato assalito da un lupo?».
«Non ci sono tracce: solo un po’ di sangue, come l’ultima volta». Gli leggevo in faccia lo spavento. «I ranger escono armati, assieme a una squadra armata di volontari. Ci sono un sacco di cacciatori impazienti di partecipare. C’è una ricompensa per chi uccide il lupo. Ciò significa che la foresta si riempirà di spari e ciò mi preoccupa». Scosse la testa. «Quando la gente si fa prendere la mano, capitano sempre degli incidenti...».
«Vogliono sparare ai lupi?». Il tono della mia voce si alzò di tre ottave.
«Che altro possiamo fare? E poi che c’è di male?», chiese Charlie, studiando la mia espressione. Mi sentivo debolissima, probabilmente ero più pallida del solito. «Non mi starai diventando un’animalista, vero?».
Restai senza parole. Se non ci fosse stato lui a guardarmi, avrei nascosto la testa tra le ginocchia. Avevo dimenticato gli escursionisti dispersi, le impronte di zampe insanguinate... Non avevo collegato i fatti alla mia prima deduzione.
«Senti, piccola, non farti prendere dalla paura. L’importante è che resti in città o in autostrada. Non fermarti lungo la strada, d’accordo?».
«D’accordo», ribadii, con un filo di voce. «Devo andare».
Lo guardai da vicino e solo in quel momento mi accorsi che portava la pistola alla cintura e gli scarponi da trekking.
«Non stai andando a caccia di lupi, vero, papà?».
«Devo dare una mano, Bells. Troppi escursionisti sono scomparsi».
La mia voce schizzò di nuovo alle stelle, quasi isterica. «No! No, non andare. È troppo pericoloso!».
«È il mio lavoro, figlia mia. Non essere pessimista. Andrà tutto bene». Si avvicinò alla porta e l’aprì. «Tu esci?».
Non risposi, il mio stomaco continuava a rotolare senza sosta. Cosa potevo dire a Charlie per fermarlo? Ero troppo scossa per trovare una soluzione.
«Bells?».
«Forse è troppo presto per andare a La Push», sussurrai.
«Sono d’accordo», rispose e uscì sotto la pioggia, chiudendosi la porta alle spalle.
Non appena si fu allontanato, mi accasciai a terra, rannicchiata con la testa tra le ginocchia.
Dovevo inseguirlo? Per dirgli cosa?
E Jacob? Era il mio migliore amico e dovevo avvertirlo. Se davvero era—mi sforzai e mi costrinsi a pensare a quella parola—un licantropo (sapevo che lo era, lo sentivo), rischiava che qualcuno gli sparasse! Dovevo dire a lui e ai suoi amici che rischiavano di essere uccisi. Dovevo scongiurarli di fermarsi. Dovevano! Charlie era nella foresta. Se ne sarebbero preoccupati? Chissà... Fino a quel momento erano scomparse soltanto persone che non conoscevo. Aveva senso, o era un caso?
Dovevo convincermi che Jacob, se non altro, avrebbe fatto attenzione.
A ogni modo, dovevo avvertirlo.
Oppure no?
Era il mio migliore amico, ma era anche un mostro? Un mostro vero? Cattivo? Era giusto avvertire lui e i suoi amici, anche se erano... degli assassini? Anche se si aggiravano ammazzando a sangue freddo innocenti escursionisti? Se davvero erano creature da film dell’orrore, non era sbagliato proteggerli?
Fu inevitabile paragonare Jacob e i suoi amici ai Cullen. Mi strinsi le braccia al petto e rabbrividii.
Ovviamente non sapevo nulla dei licantropi. Se mai ci avessi pensato mi sarei aspettata personaggi simili a quelli dei film: creature antropomorfe pelose o qualcosa del genere. Perciò non sapevo se cacciassero per fame, per sete o per semplice desiderio di uccidere. Era difficile decidere che fare senza avere un’idea chiara.
Però non era peggio di ciò che sopportavano i Cullen nella loro volontà di essere buoni. Ripensai a Esme—l’immagine del suo viso gentile e delizioso scatenò altre lacrime—e a quando, malgrado l’indole affettuosa e materna, era stata costretta a tapparsi il naso, piena di vergogna, e a fuggire da me che sanguinavo. Non poteva esserci sofferenza più grande. Ripensai a Carlisle, ai secoli di tormento trascorsi prima di diventare insensibile al sangue per salvare la vita ai suoi pazienti. Non poteva esistere impresa più difficile.
I licantropi avevano deciso di percorrere un’altra strada.
E io, quale dovevo scegliere?