«Bella, se vuoi, vai pure», mi propose Mike, guardandomi di sbieco senza mettermi davvero a fuoco. Chissà da quanto tempo andava avanti così, senza che me ne fossi accorta.
Dai Newton era un pomeriggio pigro. Al momento, in negozio c’erano soltanto due clienti, a giudicare dalla loro conversazione si trattava di escursionisti. Con loro Mike aveva trascorso un’ora a valutare i pregi e i difetti di due marche di zaini leggeri. Ma a un certo punto i due erano passati dalla discussione sui prezzi a una specie di gara di aneddoti tra esploratori. Mike sfruttò il momento di distrazione per defilarsi.
«Ma no, resto volentieri», risposi. Non ero ancora riuscita ad affondare nel mio guscio protettivo di annebbiamento e tutto, quel giorno, mi sembrava stranamente vicino e rumoroso, come se mi fossi tolta dei tappi di cotone dalle orecchie. Cercavo di non badare alle risate degli escursionisti, ma non ci riuscivo.
«Dico sul serio», sbottò l’uomo tarchiato con la barba rossastra, che spiccava curiosamente rispetto ai capelli castano scuro. «A Yellowstone ho visto i grizzly piuttosto da vicino, ma erano niente in confronto a quella bestia». Aveva i capelli arruffati e sembrava indossare gli stessi abiti da almeno qualche giorno. Era appena sceso dalle montagne.
«Impossibile. Orsi neri così grossi non se ne trovano. I grizzly che hai visto tu saranno stati dei cuccioli». Il secondo escursionista era alto e magro, con il viso abbronzato, cotto e seccato dal sole e dal vento. La sua pelle sembrava di cuoio.
«Davvero, Bella, appena questi due se ne vanno, io chiudo», bisbigliò Mike.
«Se vuoi che me ne vada...». Mi strinsi nelle spalle.
«A quattro zampe, era più alto di te», insisteva il barbuto, mentre raccoglievo le mie cose. «Grosso come una casa e nero come la pece. Andrò ad avvertire il ranger. Meglio spargere la voce: bada bene, non era su in montagna. Stava a pochi chilometri dall’inizio del sentiero».
Faccia di cuoio rise e alzò gli occhi al cielo. «Lasciami indovinare: stavi tornando a casa? Non mangiavi cibo decente e non dormivi su un vero letto da giorni, vero?».
«Ehm, scusa, come ti chiami... Mike?», disse il barbuto, guardando verso di noi.
«Ci vediamo lunedì», farfugliai.
«Mi dica», rispose Mike allontanandosi.
«Dimmi, ultimamente hai sentito parlare di orsi neri, qui in giro? Un avviso, o qualcosa del genere?».
«No, signore. Ma è sempre meglio tenersi a distanza e conservare bene il cibo. Le ho mostrato i nuovi recipienti anti-orso? Pesano meno di un chilo...».
Le porte scorrevoli si aprirono e io uscii sotto la pioggia. Rannicchiata nella giacca a vento, corsi verso il pick-up. Anche la pioggia che martellava sul cofano faceva più rumore del solito, ma il ruggito del motore soffocò subito tutto il resto.
Non volevo tornare a casa di Charlie, ancora deserta. La sera precedente era stata particolarmente pesante e non desideravo affatto rivisitare la scena delle mie sofferenze. Non era finita neanche dopo che il dolore si era placato abbastanza da lasciarmi dormire. Come avevo detto a Jessica dopo il film, era sicuro che avrei avuto degli incubi.
Tutte le mie notti erano popolate da incubi. Anzi, dall’incubo, sempre lo stesso. In teoria, dopo tanti mesi avrei dovuto esserne annoiata, se non immune. Invece, ogni volta mi terrorizzava e terminava solo quando mi svegliavo urlando. Charlie non entrava neanche più in camera per controllare cosa fosse accaduto, terrorizzato che qualcuno si fosse intrufolato per strangolarmi o qualcosa del genere. Ormai ci si era abituato.
Probabilmente nessun altro si sarebbe lasciato spaventare da un incubo del genere. Non c’erano presenze che spuntavano dal buio a urlare «Buh!», non c’erano zombie, né fantasmi, né maniaci. Non c’era proprio niente. Era il niente. Soltanto il labirinto infinito di alberi coperti di muschio, avvolti in un silenzio così profondo e insopportabile da schiacciarmi i timpani. L’oscurità era quella del tramonto in un giorno nuvoloso e la poca luce che filtrava confermava che non c’era niente da vedere. Mi affannavo nella penombra senza una direzione, cercando, cercando, cercando sempre più freneticamente, e più tentavo di correre veloce, più la mia goffaggine aumentava... Poi arrivava il momento—sentivo che si avvicinava ma non riuscivo mai a svegliarmi in anticipo—in cui non ricordavo più cosa stessi cercando. In cui capivo che non c’era niente né da cercare né da trovare. Che non c’era mai stato nient’altro che quel bosco vuoto e tetro, e niente ci sarebbe stato mai, per me... nient’altro che niente...
Più o meno in quel momento iniziavano le urla.
Guidavo senza pensare a dove andassi—vagando per strade secondarie, evitando il percorso verso casa—perché non avevo una meta.
Desideravo potermi sentire di nuovo annebbiata, ma non ricordavo come ci fossi riuscita. L’incubo punzecchiava la mia mente, scatenando pensieri dolorosi. Non volevo ricordare la foresta. Malgrado i tentativi di scrollarmi di dosso quell’immagine, sentii le lacrime riempirmi gli occhi e le fitte di dolore bruciare attorno alla voragine che mi squarciava il petto. Levai una mano dal volante, incrociai le braccia e mi strinsi forte per non cadere a pezzi.
Sarà come se non fossi mai esistito. Le parole mi scorrevano nella mente, ma senza la chiarezza perfetta dell’allucinazione della sera precedente. Erano soltanto parole mute, stampate su una pagina immaginaria. Solo parole, ma riaprirono lo squarcio e fui costretta ad affondare il piede sul freno. Non potevo guidare in quello stato.
Mi raggomitolai con la faccia contro il volante e cercai di calmarmi, ma mi mancava l’aria.
Mi chiesi quanto sarebbe durata. Forse, un giorno, dopo tanti anni—se il dolore fosse diminuito fino a poterlo sopportare—sarei riuscita a ripensare a quella manciata di mesi, i più belli della mia vita. E, se la sofferenza mi avesse mai dato tregua, ero certa che gli sarei stata riconoscente del tempo che mi aveva concesso. Era più di quanto chiedessi, più di quanto meritassi. Forse, un giorno, sarei riuscita a vederla così.
Ma se lo squarcio non si fosse mai richiuso? Se le ferite non fossero guarite? Se il danno si fosse dimostrato permanente e irreversibile?
Mi strinsi forte tra le braccia. Come se non fosse mai esistito, pensai, angosciata. Che promessa stupida e impossibile! Poteva rubare le foto e riprendersi i regali, ma ciò non riportava affatto la situazione a prima che ci conoscessimo. Le prove materiali erano l’elemento più insignificante di quel periodo. Io ero cambiata: ciò che ero dentro, ormai, era diverso, quasi irriconoscibile. Persino il mio aspetto esteriore era un altro: il viso giallastro o pallido, eccezion fatta per le occhiaie violacee, eredità degli incubi. Il contrasto tra gli occhi scuri e il pallore della pelle era tale che—se fossi stata bellissima, e guardandomi da lontano—avrei persino potuto passare per un vampiro. Ma non ero bellissima, perciò probabilmente somigliavo a uno zombie.
Come se non fosse mai esistito? Roba da pazzi. Una promessa che non sarebbe mai stato capace di mantenere, una promessa che aveva infranto subito dopo averla fatta.
Battei la testa contro il volante, cercando di contrastare le fitte di dolore.
Mi sentii una sciocca per essermi preoccupata di mantenere la mia promessa. Dove stava la logica nell’ostinarsi a rispettare un accordo già violato dall’altra parte? A chi interessava se mi comportavo da incosciente o da stupida? Niente m’impediva di essere incosciente, niente mi proibiva di fare la stupida.
Risi tra me e me, sinistramente, boccheggiando. Vita spericolata a Forks... che immagine assurda.
Ma così riuscii a distrarmi e la distrazione attenuò il dolore. Il respiro si fece regolare e potei allungarmi sul sedile. Faceva freddo, ma avevo la fronte madida di sudore.
Mi concentrai su quell’idea assurda per tenere a bada lo strazio dei ricordi. Una vita spericolata a Forks richiedeva un sacco di creatività, forse più di quanta ne avessi. Ma come mi sarebbe piaciuto trovare il modo... Forse mi sarei sentita meglio se avessi smesso di aggrapparmi a una promessa infranta. Se anch’io avessi rinnegato il giuramento. Ma in che modo avrei potuto imbrogliare, in quella cittadina innocua? Certo, Forks non era stata sempre innocua, ma a quel punto le sue apparenze non ingannavano più. Era ottusa, era sicura.
Per un minuto interminabile guardai fuori dal parabrezza, rapita da pensieri lenti e pesanti che non riuscivo a dirigere da nessuna parte. Tolsi la chiave dal quadro fermando il cigolio del motore, che chiedeva pietà dopo aver girato a vuoto così a lungo, e scesi sotto la pioggia fine.
Rivoli d’acqua fredda scorrevano tra i miei capelli e mi colavano sulle guance come lacrime. Servì a schiarirmi le idee. Battevo le palpebre per riparare gli occhi dalla pioggia, con lo sguardo perso sulla strada.
Dopo un minuto, capii dove mi trovavo. Avevo parcheggiato a metà del tratto settentrionale di Russell Avenue. Ero ferma di fronte a casa Cheney—il pick-up sbarrava l’ingresso del vialetto—mentre dall’altra parte della via vivevano i Mark. La cosa più sensata sarebbe stata spostare il veicolo e tornare a casa. Non c’era motivo di vagabondare in quel modo, distratta e debole com’ero, una vera minaccia per le strade di Forks. Inoltre, prima o poi qualcuno mi avrebbe notato e lo avrebbe riferito a Charlie.
Mentre prendevo fiato, pronta a tornare indietro, un cartello nel giardino dei Mark catturò la mia attenzione: era un pezzo di cartone appeso alla cassetta delle lettere, su cui appariva una scritta in nero, scarabocchiata a lettere maiuscole.
A volte il destino gioca scherzi piacevoli.
Una coincidenza? O era scritto? Non lo sapevo, ma sembrava un po’ sciocco pensare che il fato avesse assegnato alle motociclette scalcagnate lasciate ad arrugginire nel prato dei Mark, accanto al cartello VENDESI COME SONO, un ruolo particolare, soltanto perché si trovavano esattamente dove mi serviva che fossero.
Forse, in fondo, non era il destino. Forse c’erano molte cose insensate ed era soltanto questione di aprire gli occhi per coglierle.
Insensate e stupide. I due aggettivi preferiti di Charlie se si parlava di moto.
Il lavoro di Charlie non era frenetico come sarebbe stato in una grande città, ma quando si verificava un incidente stradale lui si recava sempre sul posto. A quel genere di impegno era abituato, grazie ai lunghi rettilinei autostradali dal fondo umido che svoltavano di colpo nella foresta, curva cieca dopo curva cieca. Gli automobilisti, compresi i conducenti dei grandi camion del trasporto legna, se la cavavano quasi sempre senza problemi. L’eccezione alla regola erano i motociclisti e Charlie ne aveva già visti parecchi, spesso e volentieri ragazzi, spalmati sull’asfalto. Prima del mio decimo compleanno mi aveva fatto promettere che non avrei mai accettato un passaggio in moto. Già a quell’età, per rispondere di sì non avevo dovuto pensarci due volte. Chi era così matto da guidare una moto nella piovosa Forks? Era come fare un bagno a cento all’ora.
Avevo mantenuto tante promesse...
In quel momento si accese la scintilla. Volevo essere stupida e incosciente, volevo infrangere le promesse. Perché accontentarsi?
Queste furono le mie riflessioni. Sotto la pioggia scrosciante, mi avvicinai alla porta di casa dei Mark e suonai il campanello.
Ad aprire fu uno dei figli, il più giovane, che frequentava il primo anno. Non ne ricordavo il nome. Aveva i capelli biondicci e mi arrivava alle spalle.
Ricordò all’istante come mi chiamavo. «Bella Swan?», esclamò sorpreso.
«Quanto vuoi per una moto?», chiesi d’un fiato, indicando con il pollice la merce in vendita alle mie spalle.
«Dici sul serio?».
«Certo che sì».
«Non partono nemmeno».
Sbuffai, impaziente: questo l’avevo già capito. «Quanto vuoi?».
«Se ne vuoi una, prendila pure. Mia madre ha costretto mio padre a spostarle in strada per farle portare via assieme alla spazzatura».
Diedi un’altra occhiata alle moto e mi accorsi che erano in cima a un mucchio di rami morti e di resti di piante tagliate. «Sei sicuro?».
«Certo. Vuoi chiederlo a lei?».
Probabilmente era meglio non coinvolgere adulti che avrebbero potuto spifferare tutto a Charlie.
«No, ti credo».
«Vuoi che ti aiuti?», chiese. «Non sono leggere».
«Sì, grazie. Comunque me ne serve soltanto una».
«Meglio se te le prendi tutte e due», insistette il ragazzo. «Potrebbero esserti buone per i ricambi».
Mi seguì sotto l’acquazzone e mi aiutò a caricare entrambe le moto sul cassone del pick-up. Sembrava ansioso di liberarsene, perciò lo lasciai fare.
«Scusa, ma cosa vuoi farci?», chiese. «Sono ferme da anni».
«Lo immaginavo», dissi e feci spallucce. Il mio capriccio momentaneo non si era risolto in un piano concreto. «Magari le faccio riparare da Dowling».
Ridacchiò. «Con la cifra che ti chiederebbe per ripararle potresti comprarne due nuove».
Aveva ragione. I prezzi alti di John Dowling erano noti a Forks: nessuno si rivolgeva a lui, se non in caso di emergenza. I più preferivano andare fino a Port Angeles, se l’auto poteva arrivarci. Io ero stata molto fortunata: quando Charlie mi aveva regalato il pick-up, temevo che non mi sarei potuta permettere le spese di manutenzione. Invece non mi aveva mai dato un problema, se si escludono il rumore assordante del motore e il limite di velocità di novanta chilometri all’ora. Jacob Black l’aveva mantenuto in forma smagliante, finché era appartenuto a suo padre Billy...
L’idea mi arrivò improvvisa come un lampo. «Sai una cosa? Non c’è problema. Conosco una persona che ripara moto».
«Ah, bene». Sorrise, soddisfatto.
Mentre me ne andavo mi salutò con la mano, sempre sorridente. Che caro ragazzo.
La mia guida si era fatta più veloce e concentrata, ora che avevo una meta e intendevo tornare a casa prima di Charlie, anche nell’improbabile eventualità che uscisse in anticipo dal lavoro. Entrai in casa alla svelta e corsi al telefono, con le chiavi del pick-up in mano.
«L’ispettore Swan, per favore», chiesi al suo vice quando mi rispose. «Sono Bella».
«Ehi, ciao, Bella», disse Steve, sempre affabile. «Lo chiamo subito».
Attesi.
«Cos’è successo?», chiese Charlie, appena alzata la cornetta.
«Se ti chiamo al lavoro non è obbligatorio che sia per un’emergenza».
Fece una lunga pausa. «Non è mai capitato prima. È un’emergenza?».
«No. Volevo soltanto chiederti la strada per arrivare dai Black. Non sono sicura di ricordarla bene. Vorrei andare a trovare Jacob. Non lo vedo da mesi».
Charlie rispose con un tono di voce più allegro. «Ottima idea, Bells. Hai da scrivere?».
Le indicazioni erano molto semplici. Gli assicurai che sarei tornata per cena, nonostante i suoi inviti a prendermela con calma. Voleva raggiungermi a La Push, ma non ero affatto d’accordo.
Perciò, con un occhio all’orario, sfrecciai fin troppo velocemente lungo le strade oscurate dal temporale che portavano fuori città. Speravo di poter trovare Jacob da solo. Se Billy avesse scoperto le mie intenzioni, probabilmente avrebbe raccontato tutto a Charlie.
La casa dei Black mi era vagamente familiare, una piccola costruzione in legno con finestre strette, verniciata in un rosso opaco che la faceva somigliare a un fienile in miniatura. Prima ancora che scendessi dal pick-up, la testa di Jacob spuntò da una finestra. Di certo, il rombo familiare del motore l’aveva avvertito del mio arrivo. Jacob era stato felice che Charlie avesse comprato il pick-up di Billy per me, evitando a lui la condanna di doverlo guidare, una volta raggiunta l’età giusta. A me il pick-up piaceva molto, ma per Jacob la velocità ridotta era una disgrazia.
Uscì di casa per venirmi incontro e salutarmi.
«Bella!». Sul suo volto era stampato un grande sorriso, il bianco dei denti contrastava vivacemente con il colorito rossastro della pelle. Non lo avevo mai visto con i capelli sciolti. Cadevano come piccole tende di seta ai lati della sua faccia larga.
Negli otto mesi precedenti, Jacob aveva sviluppato molto del suo potenziale. Aveva superato il momento in cui la muscolatura tenue dell’infanzia si trasforma nella struttura fisica più solida e slanciata dell’adolescente, e sotto la pelle rosso-bruna delle braccia e delle mani spiccavano i tendini e le vene. Il volto era ancora dolce come lo ricordavo, ma i lineamenti erano un po’ più marcati, le guance più aguzze, la mascella quadrata, niente più rotondità da bambino.
«Ciao, Jacob!». Il suo sorriso mi scatenò un impeto di entusiasmo ormai molto poco familiare. Capii che vederlo mi faceva piacere. E ne restai sorpresa.
Gli sorrisi e silenziosamente qualcosa andò al posto giusto, come la tessera di un puzzle. Avevo dimenticato quanto volessi bene a Jacob.
Si arrestò a meno di un metro da me e lo guardai, alzando la testa malgrado gli schiaffi della pioggia.
«Sei cresciuto ancora!», esclamai meravigliata.
Una risata, e di nuovo quel sorriso immenso. «Più di un metro e novanta», annunciò fiero di sé. La voce era più profonda, ma aveva conservato il tono rauco che ricordavo.
«Ti fermerai mai?». Scossi la testa, incredula. «Sei enorme».
«Ma magro come un chiodo». Fece una smorfia. «Entra! Ti stai inzuppando».
Mi fece strada, raccogliendosi i capelli con le grandi mani mentre camminava. Dalla tasca tirò fuori un elastico per fissare la coda.
«Ehi, papà», esclamò, abbassandosi per passare dalla porta. «Guarda chi è venuto a trovarci».
Billy era nel piccolo salotto quadrato, con un libro in mano. Quando mi vide lo chiuse e, tenendoselo in grembo, spinse la sedia a rotelle verso di me.
«Ma tu guarda! Che piacere rivederti, Bella!».
Mi strinse la mano, quasi nascondendola nel suo grosso palmo.
«Qual buon vento? Charlie sta bene?».
«Sì, tutto a posto. Volevo soltanto passare a salutare Jacob, non ci vediamo da una vita».
Alle mie parole, gli occhi del ragazzo si illuminarono. Sorrideva così tanto da rischiare una paralisi facciale.
«Resti a cena?». Anche Billy era su di giri.
«No, sai com’è, devo cucinare per Charlie».
«Lo chiamo subito», suggerì Billy. «È sempre il benvenuto».
Cercai di nascondere il disagio con una risata. «Non passerà un’eternità prima che mi rifaccia viva. Prometto che tornerò... talmente spesso che vi stuferete di me». Dopotutto, se Jacob fosse riuscito a riparare la moto, avrei avuto anche bisogno di qualcuno che mi insegnasse a guidarla.
Billy rispose con una risatina. «Va bene, facciamo la prossima volta».
«Allora, Bella, che vuoi fare?», domandò Jacob.
«Decidi tu. Cosa stavi facendo prima che ti interrompessi?». Mi sentivo stranamente a mio agio. Era un luogo familiare, in un certo senso. Non c’era nessun fastidioso contatto con il passato recente.
Jacob tentennò. «Stavo per andare a lavorare un po’ alla mia macchina, ma possiamo fare qualcos’altro...».
«No, è un’ottima idea! Mi piacerebbe vederla».
«Va bene», rispose poco convinto. «È nel garage sul retro».
Meglio ancora, mi dissi. Salutai Billy. «Ci vediamo dopo».
Un fitto muro di alberi e cespugli nascondeva il garage dalla casa. La rimessa era stata ricavata da due grossi casotti prefabbricati, adiacenti e privi di pareti divisorie. Protetta dalla struttura, e issata sopra quattro blocchi di cemento, vidi quella che mi sembrava un’automobile fatta e finita. Se non altro, riconobbi il simbolo sul radiatore.
«Che modello di Volkswagen è?», chiesi.
«Una vecchia Golf: del 1986, un classico».
«Come procede?».
«Quasi finita!», disse allegro. Poi si fece più serio. «Papà ha mantenuto la promessa, la scorsa primavera».
«Ah», risposi.
Probabilmente capì che preferivo non toccare l’argomento. Cercai di non ripensare al ballo di fine anno, il maggio precedente. Jacob aveva chiesto a suo padre soldi e pezzi di ricambio, come ricompensa per il messaggio da recapitarmi proprio al ballo. Billy voleva che mi mantenessi a distanza di sicurezza dalla persona più importante della mia vita. La sua preoccupazione, alla fine, si era dimostrata superflua. Ormai ero fin troppo al sicuro.
Ma intendevo fare il possibile affinché la situazione cambiasse.
«Jacob, sai qualcosa di motociclette?», chiesi.
Lui si strinse nelle spalle. «Qualcosina. Il mio amico Embry ha una moto da cross. Ogni tanto ci lavoriamo. Perché?».
«Be’...». Ci pensai su, arricciando le labbra. Non ero sicura che sapesse mantenere il segreto, ma del resto non avevo molte alternative. «Ho appena recuperato un paio di moto, che non sono esattamente in forma. Pensi di riuscire a rimetterle in sesto?».
«Fico». Sembrava davvero lusingato dalla sfida. Il suo viso si illuminò. «Ci provo».
Alzai un dito in segno di avvertimento. «Il fatto è», spiegai, «che Charlie non vuole sentir parlare di moto. Sinceramente, se sapesse di questa faccenda gli verrebbe una sincope. Perciò... vietato parlarne con Billy».
«Certo, certo», disse Jacob sorridendo. «Capisco».
«Ti pago», continuai.
Si sentì offeso. «No. Voglio aiutarti, non puoi pagarmi».
«Be’... allora che ne dici di uno scambio?». Stavo improvvisando, ma ne venne fuori una proposta ragionevole. «A me serve una moto sola—e ho anche bisogno di lezioni di guida. Quindi, che ne dici se una moto rimane a te, e tu mi insegni?».
«Bel-lo». Scandì le due sillabe.
«Un attimo... hai l’età? Quando compi gli anni?».
«L’hai dimenticato», disse, con una scherzosa occhiataccia di rimprovero. «Ho già sedici anni».
«Non che l’età ti abbia mai fermato», mormorai. «Scusa per il tuo compleanno».
«Non preoccuparti. Anch’io ho dimenticato il tuo. Quanti ne hai, quaranta?».
Arricciai il naso. «Quasi».
«Dobbiamo festeggiarli tutti e due assieme, per rimediare».
«Mi stai invitando a uscire?».
A quelle parole, i suoi occhi si accesero.
Dovevo tenere a bada l’entusiasmo per non dargli l’impressione sbagliata, però era passata una vita dall’ultima volta in cui mi ero sentita così leggera e di buonumore. Era difficile gestire una sensazione tanto insolita.
«Quando le moto saranno finite, magari. Saranno il nostro regalo», aggiunsi.
«Affare fatto. Quando le porti?».
Balbettai qualcosa, imbarazzata. «A dire la verità, sono già sul pick-up».
«Grande!». Sembrava davvero entusiasta.
«Se le scarichiamo, Billy ci vedrà?».
Fece l’occhiolino. «Basta stare attenti».
Girammo attorno al lato destro della casa, riparandoci tra gli alberi e fingendo di passeggiare disinvolti per evitare sorprese. Jacob scaricò alla svelta le moto dal cassone del pick-up, trascinandole una dopo l’altra tra i cespugli in cui mi ero nascosta. Sembrava fin troppo facile per lui. A me le moto erano sembrate molto, molto più pesanti.
«Non sono niente male», sentenziò Jacob, mentre le mettevamo al sicuro tra gli alberi. «Questa, una volta sistemata, potrebbe anche valere qualcosa: è una vecchia Harley Sprint».
«Allora è tua».
«Sei sicura?».
«Assolutamente».
«Però ci vorranno un po’ di soldi», disse, osservando cupo il metallo annerito. «Prima di tutto dobbiamo procurarci dei ricambi».
«Dobbiamo un bel niente. Se vuoi lavorare gratis, i pezzi li pagherò io».
«Non so...», borbottò.
«Ho qualche soldo da parte. Per il college, hai presente». Il college, il college, ripetei tra me e me. Non avevo abbastanza denaro per andare chissà dove e, oltretutto, non ero nemmeno così impaziente di lasciare Forks. Sarebbe cambiato qualcosa, se avessi sottratto qualcosina ai miei fondi?
Jacob si limitò ad annuire. Per lui era una decisione sensata.
Mentre tornavamo furtivi verso il garage improvvisato, meditai sulla mia fortuna. Solo un adolescente avrebbe potuto farmi da complice in un’avventura simile: mentire ai nostri genitori e riparare due veicoli pericolosi utilizzando i soldi che avrebbero dovuto finanziare i miei studi. Ma lui non ci vedeva niente di strano. Jacob era un dono del cielo.