Soltanto un sogno terrestre
che per noi è finito,
il lampo di una cometa
sul fiume della terra.
Un sogno due volte lontano,
una confusione spettrale
sulla temuta illusione della terra.
La lingua del «volpino» ciondolò, mentre svolazzava agilmente attraverso la foresta, con le gambe protese verso l'esterno per mantener tese le membrane delle sue ali, cogliendo le correnti trasversali dall'aria mentre si librava sospeso alla ricerca di preda.
LeGrand Cavern era un'autentica orgia di colori, una selva di ampie foglie delicate e di verdi rampicanti. A intervalli, lungo le pareti rivestite di verde, gli sfiatatoi facevano sgocciolare una condensa che si disperdeva in una soffice nebbia, stendendo un velo di luccicanti goccioline sopra il fogliame che ondeggiava lentamente. Frutti d'un vivido purpureo, d'un arancio e d'un giallo brillanti, enormi e succosi, erano appesi a steli sottili, simili a fili.
Viticci fibrosi tessevano un delicato ricamo attraverso il cuore della cavità, passando da un albero-colonna a una radice di chiavepietra, all'albero-colonna successivo, creando una fitta giungla tridimensionale in quella che un tempo era stata una vuota cattedrale di ghiaccio.
Saul osservò il volpino che annusava l'aria, svolazzando sempre più vicino a una folta macchia di foglie di demicasava, ficcandoci dentro il naso per stanare qualunque cosa vi fosse nascosta.
Con quella che parve un'improvvisa esplosione, una gallina pelle-di-pollo schizzò fuori dalla macchia, sbatacchiando furiosamente le ali prive di penne a pochi centimetri dalle fauci scattanti del volpino. L'uccello si tuffò dentro l'incavo d'una radice di chiavepietra, lasciando il volpino tutto uggiolante per la delusione, all'affannosa ricerca di un'apertura più ampia che non c'era.
La vita continua pensò Saul, sorridendo. Un gioco giocato con serietà da pezzi che soltanto vagamente percepiscono il loro ruolo in questo insieme.
Si riempì i polmoni di quei ricchi odori di vita. Quante cose sono state fatte dai giorni della guerra dell'afelio! Ma devono ben essere tante, visto che sono passati trent'anni. Uomo e ambiente si sono adattati l'un all'altro.
LeGrand Cavern era una delle tre cavità «naturali» nelle quali venivano provati i nuovi adattamenti all'ecosistema sempre più complicato di Halley. In altre cavità, gli umani e i mech badavano a mescolanze più ordinate e meno ribelli di forme di vita… frutteti e fattorie e coltivazioni di aragoste. Ma questo canyon era uno dei luoghi favoriti di Saul, dove diversi esperimenti si sdipanavano da soli, e dove comparivano delle soluzioni nuove e sorprendenti.
Il volpino (un artefatto basato su geni di volpe, ma modificati in maniera così estesa da essere, ormai, quasi irriconoscibile) annusò un altro odore e lanciò un acutissimo yip! Svolazzò intorno ad uno dei giganteschi alberi-colonna, che attraversavano la grande sala con ogni angolazione, come raggi o massicci sostegni.
Gli alberi assolvevano ad altre funzioni, non soltanto a quella di sorreggere le pareti di LeGrand Cavern, ma quel ruolo sarebbe diventato cruciale nei prossimi mesi, quando la cometa di Halley avrebbe zoomato verso il Sole per incontrare il suo più pericoloso, e forse ultimo, passaggio al perielio.
Toccò il tronco dell'albero più vicino, un fusto di un metro di diametro che splendeva luminoso, irradiando una luce fredda dalle strisce sottili di corteccia bioluminescente. L'energia proveniente dalla pila a fusione della colonia scorreva direttamente dentro quei giganti geneticamente progettati. Parte dell'elettricità veniva impiegata per alimentare le funzioni vitali di quegli alberi. Il resto dell'energia emergeva sotto forma d'un morbido chiarore che permeava la grande cavità da tutte le direzioni, stimolando la fotosintesi.
Gli alberi erano stati una deliziosa sorpresa quando Saul si era svegliato, un anno prima, da un sonno lungo un decennio. Era chiaro che i coloni si erano dati da fare. L'arte della progettazione della vita e della gestione dell'ecosistema era stata portata molto più oltre, dai due turni di guardia dal tempo dell'afelio.
Naturalmente, in tutti i momenti erano sempre stati presenti due o tre dei quasi-duplicati di Saul, per prestare il proprio aiuto. In un certo senso, Saul aveva messo direttamente mano nella maggior parte delle meraviglie presenti in quella cavità, tramite le sue versioni più giovani che condividevano tanti dei suoi ricordi e delle sue capacità. In effetti si poteva dire che era stato lui ad inventare gli alberi-colonna…
Eppure c'era dentro di lui un impenitente individualista che respingeva quell'idea senza pensarci due volte. Non importa quanto metafisico diventi, so chi è me. Osservò il volpino e ispezionò quel radiante albero-colonna con una traccia d'invidia. Era bellissima.
Aveva appaludito alla fuga della gallina: la pelle-di-pollo era stata una delle sue creazioni.
Una sorda vibrazione si diffuse lungo il tronco dell'albero-colonna fino alla sua mano. Già Halley tremava a causa di un numero sempre maggiore di terremoti a mano a mano che il calore del Sole, sempre più prossimo, filtrava verso il basso dentro la crosta ghiacciata. Boati lontani rivelavano che tratti di ghiaccio amorfo cambiavano improvvisamente stato, esplodendo via dalla superficie, soffiando via polvere, rocce, macigni nello spazio sotto forma di grandi nubi di vapore. Ogni giorno i rombi diventavano più forti.
Già le nubi ionizzata e nebulosa della cometa si erano formate, interrompendo la ricezione radio dal resto del sistema solare. Le spettacolari code gemelle ondeggiavano, diventando sempre più luminose, agghindandosi per il grande spettacolo del perielio.
Gli alberi-colonna, le radici a chiavepietra, e tutti gli altri preparativi fatti sarebbero stati messi a dura prova durante le prossime settimane. Carl pensa che non abbiamo molte possibilità si disse Saul, ma d'altronde Carl è sempre stato un heymisheh depresso.
Saul sorrise, inspirando a fondo il ricco, denso profumo della vita.
In qualche modo, anche se il Caldo ci farà a pezzi e ci sparpaglierà in balìa dell'abbraccio del vuoto, non sarei disposto a scommettere contro di noi neppure in un simile caso.
Una piccola creatura purpurea gli passò accanto, ronzandogli all'orecchio, e atterrò sul bordo di un'orchidea. Il fiore era quasi immutato rispetto ad una varietà che cresceva nelle dense foreste della Terra, ma quell'impollinatore d'un colore lavanda vivo non assomigliava a niente che fosse mai stato visto su quel massiccio mondo verde. Era un lontano cugino di quelle temibili forme native che avevano terrorizzato gli umani nei primissimi tempi, adesso completamente alterate così da inserirsi in un'innocua e utile nicchia ecologica.
Saul prese un appunto mentale: Lavora alla fissazione del sapore del miele prodotto da questi esseri. Aveva provato quella roba, di recente. Era troppo dolce. Ora una variante acida, quella sì, sarebbe stata popolare…
Un fruscio tra le foglie… Saul sollevò lo sguardo e vide una piccola forma che correva lungo l'orlo luminoso d'un albero-colonna lì vicino. La piccola forma sollevò un occhio ardente all'estremità di un peduncolo, lo contemplò brevemente, poi squittì e si avvicinò in fretta zampettando, per fermarsi tutta fremente davanti a lui.
— Saulie — pigolò la sua minuscola voce.
Saul tese una mano e la minuscola macchina gli corse su per il braccio come un ragno grande quanto un chihuahua. I suoi piedi appiccicosi gli punzecchiarono la pelle ad ogni passo.
— Ciao, piccola Ginnie — disse Saul, salutando il minuscolo mech. — Come sta la tua sorella maggiore?
L'occhiocella ammiccò. — Sta bene, Saulie. Virginia dice che vuole parlarti. Non c'è fretta, ha detto.
Saul sorrise. Virginia avrebbe potuto parlargli direttamente tramite il piccolo mech. In fin dei conti, lei «viveva» dappertutto nella complessa cyber-rete sotto il ghiaccio. Ma il vasto programma che conteneva la sua essenza principale aveva deciso, per qualche motivo, di farlo quanto più raramente possibile. Oh, c'era un po' di lei in ognuna di quelle macchine, di quelle piccole «Ginnie», fino ai fuchi-medici che potevano giocare a scrabble e spettegolare. Ma se si voleva parlare a Virginia, di solito bisognava farlo da qualche particolare luogo di sua scelta.
— D'accordo. Riferisci alla tua padrona che le parlerò allo Stormfield Park.
Il piccolo robot ronzò, si consultò, e rispose:
— Anche la tua padrona, Saulie!
Saul scoppiò in una sonora risata. Quel modello non era certo di quelli capaci di stuzzicarlo con i doppi sensi. Virginia stessa doveva aver origliato.
— Sei carina — disse al piccolo robot. — Sai cosa ti dico? Perché non ci appartiamo un po', tu ed io, quando mamma non guarda?
— Bestia! — Un piccolo braccio a pinza calò di colpo e gli pizzicò il braccio.
— Ohi! — Ma il mech schizzò via a gambe levate prima che lui riuscisse ad afferrarlo, e scomparve in un balenare di fogliame ondeggiante.
Potrei creare una creatura capace di prenderti pensò Saul. Se avessimo davanti a noi l'eternità, tu con le tue macchine ed io con i miei animali… che razza di giochi potremmo fare.
Se avessimo l'eternità…
Saul esalò un lungo sospiro. Girò sui tacchi, fece pressione con i piedi contro il grande albero, e si lanciò attraverso l'intreccio dei tronchi che formava una specie di grata, ricamata dalle strisce di corteccia che spandevano intorno un vivido chiarore, verso un'uscita che era un incrocio di qualcosa fra una classica camera d'equilibrio in metalloceramica, e la valvola d'un gigantesco cuore vivente.
Nei corridoi la luce era ancora più fioca e faceva un po' più fresco che nelle camere della vita. Le luminosfere si nutrivano di minuscoli rivoli di elettricità provenienti dalla pila a fusione della colonia, disponendo isole di luce morbida lungo i corridoi rivestiti di halleyvirid.
Molto tempo addietro Saul si era abituato a quelle temperature di poco al di sotto del punto di congelamento, e di solito indossava poco più di una tunica e scarpette a graffe per far presa sul ghiaccio. Il freddo aveva poca importanza, fintanto che ci si nutriva bene, e si poteva dormire avvolti in una coperta intessuta con la morbida seta dei bachi del gelso-mutato.
Comunque, ormai tutti loro avevano sviluppato una pelle che irradiava pochissimo, conservando all'interno la maggior parte del calore del corpo, un altro prodotto della simbiosi accuratamente elaborata.
Il più grande progetto di Saul era un organulo che avrebbe trovato il suo vero posto all'interno delle cellule umane… qualcosa di simile ai mitocondri, soltanto più piccolo. Sarebbe rimasto inattivo per la maggior parte del tempo, ma con i giusti attivatori, ad esempio un brusco abbassarsi della temperatura, avrebbe prodotto glicogeno e coadiuvati che avrebbero consentito il congelamento senza alcun danno del trilione di cellule del corpo.
Se avesse funzionato, i colombari sarebbero andati in disuso. Ogni individuo avrebbe portato con sé, per tutto il tempo, la capacità di sistemarsi dentro una qualunque nicchia nel ghiaccio, semplicemente addormentandosi, aspettando anni, decenni, secoli, se fosse stato necessario.
Ci sarebbe voluto molto tempo per sviluppare qualcosa di così fondamentale. Non era affatto così semplice come la modifica di organismi preesistenti nella colonia, come una volpe o un pollo. Qui si trattava di manipolare e interferire con il funzionamento della stessa chimica cellulare.
Senza la più piccola garanzia che sarebbero riusciti ad arrivare alla fine del mese, talvolta Saul si chiedeva come mai si accanisse a lavorare tanto duramente a quel progetto.
È un dono, naturalmente era arrivato a rendersi conto. La Terra ne ha bisogno tanto quanto noi. La tecnica significherebbe l'accesso alle stelle.
Poteva essere un dono d'addio, poiché i mesi davanti a loro erano colmi di rischi. E anche se fossero sopravvissuti al perielio, e avessero infilato la cruna sottile dell'ago del successivo incontro con Giove per entrare in un'orbita dal breve periodo, non c'era nessuna speranza che le autorità della Terra avessero cambiato idea circa il permesso da concedere ai «portatori di pestilenze», di entrare e risiedere nel sistema solare interno.
In ogni caso, Saul aveva progettato che quei dati sarebbero stati sparati via da una capsula controllata da un mech, restituendo così il favore che il popolo di Phobos aveva fatto loro, in un altro secolo.
Impedisci, o Signore, che mai ci dimentichiamo dei mondi rocciosi, o di quello che eravamo un tempo.
Si fermò brevemente al centro medico per controllare i progressi che venivano fatti nella decolombarizzazione dei «Casi terminali», quelli che un tempo erano stati giudicati senza speranza, ma che adesso erano curabili e rianimabili, utilizzando nuove tecniche.
Lì c'era poco che potesse fare, naturalmente. Ishmael, il clone di Saul preposto, pareva sapere assai meglio di lui quello che stava accadendo. Anche lui e la sua squadra stavano lavorando su Nicholas Malenkov… riparando danni che erano parsi senza speranza tanto tempo addietro.
Ne avrà di sorprese, Nick pensò Saul, abbassando lo sguardo sul suo amico. Aveva un aspetto così giovane, così corpulento e Terra-voluminoso, anche dopo essere rimasto per tutti quei decenni nel colombario.
È un altro mondo, Nick. Spero che ti piaccia.
Stormfield Park era affollato. A mano a mano che un numero sempre crescente di persone emergeva dai colombari, la popolazione aveva cominciato ad avvicinarsi ai livelli pianificati ai tempi in cui il capitano Cruz e Bethany Oakes erano salpati con quattro chiatte a vela e la vecchia Edmund Halley, per sfidare l'ignoto.
La cavità era più piccola di LeGrand Cavern. Aveva un buon numero di alberi-colonna che l'attraversavano incrociandosi da un lato all'altro, ma questi erano disposti con maggior ordine, meno caotico, più curato.
Ad un'estremità dell'area cilindrica, la ruota centrifuga della vecchia Edmund era stata rimessa a nuovo e adesso aveva ripreso a funzionare, ruotava lentamente come una ruota di Ferris. Vi erano ancora due settori perfettamente chiusi, che ospitavano laboratori per quei processi che richiedevano la presenza della gravità. Ma in ogni altro segmento era aperto, e vi erano stati piantati querce e aceri nani. Era come una striscia della vecchia Terra, curvata a forma di cerchio e sistemata sotto un'ampia volta surreale.
La forza centrifuga della ruota equivaleva soltanto a un ventesimo dell'attrazione della Terra, ma era sufficiente. La gente vi andava per tenersi in esercizio nell'arcana arte del «camminare»… di sedersi sotto un albero per guardare gli oggetti che cadevano.
Mentre si avvicinava a quel confine rotante, Saul udì un suono raro e prezioso: il riso di bambini che gli passavano accanto volando, diretti verso l'anello, slittando sulla morbida sabbia di un'area di atterraggio, mentre il grande cilindro continuava a girare e a girare.
Avevano un aspetto molto migliore. Però quelle forme dinoccolate parevano a malapena umane. Soltanto pochi di loro erano in grado di parlare.
Dopo l'afelio, tutte quelle povere creature deformi erano state colombarizzate, e nessun'altra era nata. Le guerre avevano estinto la lunga rivalità fra gli ortho e i percell, e alla fine era prevalsa la ragione. Fino a quando i problemi dello sviluppo fetale e postnatale dell'ambiente cometario non fossero stati risolti, veniva considerato disumano mettere al mondo dei bambini.
Le ragioni per cui gli esseri umani incontravano tante difficoltà rispetto agli animali erano complesse, ma Saul e i suoi assistenti avevano risolto i problemi più di dieci anni prima. In teoria quel parco avrebbe potuto echeggiare delle risate dei bambini sani.
Ma con l'avvicinarsi del perielio, c'era un altro motivo per ritardare. I bambini meritavano un futuro. E in questo momento erano in pochi a credere che ce ne potesse davvero essere uno.
Saul notò attraverso l'oscillante confine e mise agilmente piede su quel prato rotante. Mentre piantava i piedi per terra e assorbiva l'impulso rotatorio, un'immagine olografica si formò dietro di lui, tagliando fuori la vista che aveva del resto della sala. D'un tratto fu come se si trovasse in un parco della Terra. Le cuspidi di una città sormontavano un'altura boscosa in una direzione. Nell'altra s'intravedeva il vivido luccichio del mare.
Per evitare di dimenticarcelo.
Altre due volte, durante quei lunghi anni, erano arrivate raffiche di dati tecnici, inviati da benefattori innominati del sistema solare interno. Displayproiezioni come quelle, lontane discendenti delle climapareti, erano fra i doni più stupefacenti… la prova che non tutti quelli che vivevano sotto il Caldo si erano dimenticati delle affinità o della misericordia.
Era in parte per loro che Saul stava lavorando sugli organismi per l'ibersospensione. Gente come quella si meritava le stelle.
Si mise a passeggiare sotto i rami degli alberi nani, passando davanti a vecchi amici che lo salutarono con cordiali cenni del capo, e ad altri che conosceva appena a causa dei turni di servizio non in sincronia con i suoi.
Era molto simile a una visita al parco fatta ai tempi in cui era più giovane. Naturalmente nessuno si lasciava ingannare. Dove mai sulla Terra, dopotutto, qualcuno avrebbe potuto vedere un individuo dalla pelle tinta di azzurro che giocava a scacchi con un essere dalla forma all'incirca umana, ricoperto da un fungoide verde e un lichene simbiotico giallo?
Diversità, sperimentazione. È così che abbiamo imparato a vivere.
Oltrepassò la statua di Samuel Clemens, a cui era stato intitolato il parco, e arrivò a una cortina d'acqua… o meglio a un'immagine olografica quasi perfetta di una pioggia di goccioline che rifrangendo la luce formavano un arcobaleno, schizzando fuori da bacinelle di alabastro. Quell'illusoria fontana si dischiuse senza inzupparlo, e Saul entrò in una radura privata e nascosta.
Sotto un baldacchino di rami di salici piangenti si ergeva, circondata da rododendri, una casa da tè orientale in miniatura. Saul si sedette a gambe incrociate davanti a una limpida pozza, e osservò la carpa dentro di essa battere l'acqua deuterizzata facendola spumeggiare con la sua coda sferzante.
Qui c'era pace. Il borbottio dei cuscinetti a sfere della grande ruota, il soffio sommesso dei ventilatori… questi erano suoni che, intellettualmente, sapeva che dovevano esistere da qualche parte. Ma da moltissimo tempo ormai erano sfumati nell'abitudine, come il battito del suo cuore, in uno sfondo che a stento ricordava.
— Ciao, Saul.
Sollevò lo sguardo quando lei uscì dalla casa da tè, un ampio kimono le ondeggiava intorno alle gambe abbronzate, i suoi sandali che ticchettavano sul sentiero sabbioso. Si stava asciugando i capelli neri con un tessuto di spugna.
Gli faceva sempre effetto tutte le volte che l'incontrava. Il suo corpo era da lungo tempo finito nell'ecosistema. Eppure, cammina nella bellezza.
— Ciao anche a te — le rispose. — Com'è l'acqua?
Lei sorrise e si sedette sull'erba a neanche un metro e mezzo di distanza. — Buona. Un po' mossa. Ma c'era un'onda alta almeno due metri. Ottima per il surf.
I loro occchi s'incontrarono. Una risata silenziosa. Cos'è l'illusione? si chiese Saul. E cos'è la realtà?
La differenza si appalesava in una maniera soltanto. Virginia giaceva vicina e nitida là dove poteva arrivare la sua mano tesa. Ma lui non poteva toccarla, e mai più avrebbe potuto farlo.
— Hai un bell'aspetto — lo sollecitò Virginia.
Saul scrollò le spalle: — Invecchio in continuazione.
— Perfino con il perfetto sistema simbiotico? — lei lo stuzzicò.
— Perfino con il perfetto sistema simbiotico, già. Naturalmente, bisogna chiedersi se ha veramente importanza. O se vale veramente la pena preoccuparsi per il tempo e l'età. — La osservò con attenzione, giacché, anche se Virginia era in grado di controllare le immagini in maniera quasi perfetta, il suo volto non nascondeva più di quanto avesse mai fatto. Virginia era misteriosa. Era un libro aperto per lui.
— Potrebbe non avere importanza. — Lo sguardo di lei era lontano. — Potremmo farcela.
— Perfino oltre il perielio? — Saul la guardò scettico.
Virginia stava guardando i pesci. Non poteva toccare o disturbare l'acqua, quella vera, in nessun modo, salvo con la luce e l'ombra. — Forse, se lo faremo, un'intera nuova serie di sfide si presenterà a noi. Durante gli ultimi trent'anni sono arrivato a rendermi conto che per me il tempo potrebbe allungarsi fino all'eternità…
Sospirò, sentendo di poter leggere i suoi pensieri. — I miei cloni hanno la maggior parte dei miei ricordi, e il mio buon gusto per le donne. Ti amano tutti, Virginia.
Virginia sorrise. — Anche tutti i miei fuchi ti amano, Saul.
I loro sguardi tornarono a incontrarsi, ironia e una sensazione di perdita rigorosamente controllata.
— E allora nu? — Saul si stiracchiò. — Volevi dirmi qualcosa?
Virginia annuì, e la simulazione tirò un profondo respiro. — Il Vecchio Uomo Duro è morto.
Saul barcollò all'indietro. — Suleiman? Ould-Harrad?
— Cosa ti aspettavi? Non era più tornato nei colombari dopo le guerre dell'afelio… Ha fatto la guardia per tutto questo tempo, per assicurarsi che mantenessimo il nostro accordo, nessun incontro con nessun pianeta, salvo Giove verso l'esterno. Era molto vecchio, Saul. La sua gente lo piange.
Saul abbassò lo sguardo e scosse la testa, chiedendosi cosa sarebbe stata adesso Halley, senza il mistico nelle gallerie più basse.
Adesso… chi avrebbe avuto il coraggio di ricordare a Saul Lintz che lui non assomigliava, dopotutto, neppure lontanamente al vero Creatore?
— Ti ha lasciato un testamento — proseguì Virginia. — Sei atteso nella Profonda Gehenna.
— Non sono mai stato là sotto. — Saul avvertì una strana sensazione. Era forse paura? Si era dimenticato di quell'emozione, ma poteva essere qualcosa di assai vicino a ciò che provava.
— Neppure io — bisbigliò Virginia. Nessuno dei suoi mech si era mai avventurato laggiù, nelle distese più profonde del nucleo della cometa, dove le creature più strane si rifugiavano nel buio totale. Virginia si riscosse.
— Una guida ti aspetterà alla base del Pozzo Uno, alle cinque e trenta di domani mattina. Io…
Sollevò lo sguardo. I suoi occhi si sfocarono per un momento. — Adesso devo andare. Carl e Jeff hanno bisogno d'una simulazione, molto estesa. Ci vorrà una grande estensione di memoria. — Si lisciò il kimono sopra le gambe abbronzate. — È tempo di spogliarmi del corpo e di ridurmi ai nudi elettroni.
Saul si alzò insieme a lei. Si guardarono. La sua mano si sollevò.
— Non farlo — bisbigliò lei, la sua voce era divenuta tesa e delicata. — Saul…
Le dita di Saul descrissero una carezza, ma si arrestarono un attimo prima di toccare la liscia morbidezza che pareva la sua guancia. Per un istante le punte si accesero di un vampa rosata, e Saul sentì, quasi…
— Torna presto — disse Virginia, con un sospiro. — Oppure chiamami e parlami.
Poi, con un frusciare di seta, se ne andò.
I suoi nuovi gibboni, Simon e Sulamita, si tenevano aggrappati a lui mentre seguiva la guida, un uomo che un tempo si era chiamato Barkley, e aveva diretto le serre per le fattorie orbitali della Terra, prima di venir esiliato in una missione a senso unico nello spazio profondo. Adesso Barkley era la propria serra… il proprio habitat. Indossava un ecosistema di fibre verdi e arancione, e si nutriva di questo e di quello… un po' di luce qui, un pezzetto di sostanza carbonacea nativa lì…
Certi tipi di simbiosi spaventano perfino me pensò Saul, mentre navigavano attraverso un labirinto di passaggi stretti e contorti che li conduceva sempre più in profondità dentro il ghiaccio. Per quanto in superficie il campo gravitazionale di Halley fosse debole, Saul sentì sfumare a poco a poco la sua attrazione fino a quando essa non scomparve del tutto dalla sua sensibilità. Quello era il nucleo, il centro. Qua sotto i primi granelli si erano formati, quattro miliardi e mezzo di anni prima, dando inizio ad un processo di accrescimento a mano a mano che un numero sempre maggiore di frammenti si era raccolto, fondendosi e crescendo fino a formare una palla di materia primordiale, la materia dello spazio profondo.
Si aprirono la strada spingendosi attraverso le fronde spesse e oleose d'una pianta a foglie-serratura… una vegetazione che si comportava in una maniera molto simile al portello d'una camera d'equilibrio, giacché avrebbe reagito ad una perdita di pressione appiccicando una foglia sopra l'altra fino a quando l'aria non fosse stata ermeticamente chiusa, senza alcuna fessura, su un lato della barriera. Era una tecnica efficace, ma Saul trovava la cosa pur sempre inquietante, mentre strisciavano attraverso quella massa vischiosa. I gibboni rabbrividivano, ma sopportavano senza lamentarsi.
Qui l'energia della pila a fusione era razionata, impiegata in maniera limitata. Alla pallida luce della sua luminoampolla, i corridoi luccicavano come lui li ricordava dai primissimi giorni, con la buia, maculata bellezza della roccia nativa del carbonaceo e della neve clatrata. Il naso di Saul si arricciò all'odore di mandorle amare del cianuro e degli ossidi nitrosi… reso piacevole dai simbionati geneticamente progettati presenti nel suo sangue, ma più intenso di quanto l'avesse mai ricordato.
Si fermò per raccogliere dei campioni in diversi punti, qua e là lungo il percorso. Ogni volta, la sua guida si fermò pazientemente ad aspettarlo, imperturbata.
Le tracce si stanno facendo sempre più abbondanti, man mano scendiamo in profondità… come ormai sospettavo da anni.
Non aveva molto senso, naturalmente. Perché mai le forme di protovita dovevano pervadere il materiale primitivo con densità sempre maggiore là in basso, dove le periodiche ondate di calore dovute ai successivi passaggi accanto al Sole non penetravano mai? Era un mistero, ma era pur sempre un fatto inoppugnabile. Era vero che le forme più complesse si erano sviluppate più in alto, ma la sostanza di base era più densa vicino al nucleo.
Sospirò. Domande, sempre domande… Com'era possibile che la vita fosse così gentile, e così crudele insieme, da offrire un gran numero di meraviglie da risolvere, concedendo così poco tempo per farlo, così pochi indizi?
Il loro viaggio riprese, passando accanto a strette fenditure in cui si poteva occasionalmente vedere una figura rivestita di verde intenta ad accudire a un giardino di funghi giganti, oppure seduta davanti ad una piccola consolle baluginante, intenta a lavorare per conto della colonia, ma nel luogo prescelto da lui o da lei.
Saul si sentiva intrappolato. Il ghiaccio era pesante, massiccio, tutt'intorno a lui. Era opprimente, umido, buio. Siamo vicini, molto vicini al centro percepì.
— Siamo arrivati. — Barkley fluttuò su un lato. Saul scrutò dubbioso una stretta galleria, la cui sezione ampia quanto un uomo. Si schiarì la gola.
— Simon, Sulamita, restate qui.
I gibboni in miniatura sbatterono le palpebre, infelici. Saul fu costretto a staccarseli di dosso, appendendoli sulla parete. Lo guardarono con occhi spalancati mentre si chinava e s'infilava strisciando nel passaggio muffito.
La sensazione di claustrofobia che provava crebbe a mano a mano che avanzava. Le pareti e il pavimento erano stati sfregati e lisciati, ridotti a lastre ghiacciate dagli innumerevoli pellegrinaggi. Per qualche motivo quella galleria pareva ancora più fredda perfino rispetto ai corridoi là fuori. Era lunga soltanto pochi metri, ma quando finalmente una luminosità diffusa comparve davanti a lui, Saul provava un'acuta tensione.
Quando raggiunse lo sbocco, si fermò lì, semplicemente a guardare, per qualche istante.
Quattro minuscoli luminofosfori irradiavano sopra gli angoli di una bara scolpita nella pietra. Nella bara giaceva una figura in forma d'uomo. Suleiman Ould-Harrad.
Saul entrò fluttuando dentro la cavità. Non c'era nessuna forza di gravità ad attirarlo. Era del tutto senza peso.
Afferrò una delle corna di quella bara simile a un altare. Le halleyforme simbiotiche si erano staccate, lasciando Ould-Harrad con l'aspetto di un uomo vecchio, molto vecchio, che aveva raggiunto l'eterno riposo dopo più anni di quanti ne avesse scelti. Gli occhi chiusi nel suo sonno finale davano tuttavia l'impressione d'una severa dedizione al suo popolo e alla divinità che l'aveva tanto deluso dopo averlo creato.
Saul gli rese omaggio, ricordando.
Finalmente si guardò intorno. Virginia aveva parlato di un «testamento». Eppure la cavità era vuota, spoglia, salvo per le luminosfere, il cadavere e la bara scolpita nella roccia.
— Un momento… — mormorò Saul. Si girò a testa in giù e guardò la pietra più da vicino. — Non… non ci credo.
Armeggiò alla cintura e tirò fuori la torcia elettrica che usava così di rado. Il suo vivido raggio lo accecò per un attimo, ma subito lo abbassò mentre sbatteva le palpebre per scacciare le macchie luminose che gli danzavano davanti.
Poi Saul toccò la pietra, in preda alla meraviglia, la sua mano illuminata da quello stretto raggio luminoso, accarezzando dei contorni appena accennati ma chiaramente simmetrici. La sua voce si fece sommessa.
— È questo che Suleiman ha trovato, quando ha cercato la verità nel cuore della cometa. Questo…
Era una scoperta scientifica, e molto di più.
Era sbalorditivo.
Tracciò con le dita il profilo delle costole dell'antica creatura marina, fossilizzata nella roccia sedimentaria. Saul fissò il disegno di quella cassa toracica, la bocca semiaperta dai bordi ruvidi, spalancata come se fosse stata colta nel mezzo della caccia, pietrificata nell'attimo fuggente d'un famelico inseguimento… e seppe subito che la forma che stava toccando doveva essere più antica, enormemente più antica, dello stesso Sole.
Tutt'intorno a lui, l'incombente pressione di trilioni di tonnellate di roccia e neve non era niente, a confronto dell'improvviso peso degli anni.
Il respiro di Lani era come il leggero fruscio d'una spazzola di fibra sopra la ruvida pietra. Uno stanco guerriero sul morbido campo di battaglia pensò pigramente Carl. Si strinse a lei, come nel cavo di un cucchiaio, e lei scivolò all'indietro nel sonno, cercandolo. Era attraverso quei lievi gesti, all'apparenza inconsapevoli, che la gente finiva veramente per conoscersi, si disse. Era possibile nascondere molte cose, ma non l'elementare ricerca della carne per trovare conforto e intimità. La delicata iridescenza del sudore luccicava sulla fronte di Lani e le sue gambe si mossero, aprendosi a ventaglio, trovandolo. Poi si rilassò con un piccolo fremito, il suo sospiro divenne un respiro regolare, e ridiscese di nuovo nel sonno.
Carl si spinse via con delicatezza e galleggiò fuori dal letto. Era tempo di fare il suo giro, ma non c'era bisogno che lei si disturbasse.
Le gambe e le braccia gli ricordavano il travaglio del giorno prima, con una dolce, formicolante sensazione di dolore. Perfino nella gravità appena percepibile, adesso sentiva uno stiramento qui, uno stringimento là… ho perso il conto, ma devo aver superato di molto i quaranta pensò, mentre si lavava i denti. Lo specchio si mostrava d'accordo: delicate zampe di gallina che si diramavano dagli occhi, la mascella rugosa, le tempie ancora di più schiarite. Tutti distintivi dei vari turni di servizio. Durante gli ultimi trent'anni era rimasto sveglio quasi un terzo del tempo. Le crisi erano andate e venute, anche se nessuna aveva mai uguagliato i guai affrontati durante l'orbita verso l'esterno. Tutte le volte il vecchio Lazarus Carl ha rimesso a posto le cose. Si fece uno sberleffo allo specchio. E te ne hanno reso merito. Nessuno si è accorto che li hai semplicemente indotti a pensare ad alta voce fino a quando le risposte non sono apparse ovvie.
S'infilò una tuta azzurra pulita, assaporando la sensazione di freschezza di quel morbido tessuto prodotto in casa. Era sempre stato disordinato, accorgendosi di rado che i suoi indumenti erano sporchi fino a quando una casuale inspirazione non informava il suo naso. Era stato attraverso quei particolari esteriori che Lani aveva trasformato il suo mondo. Si dividevano con risolutezza e precisione i lavori casalinghi, cosicché nell'insieme non era che lui avesse meno lavoro da fare… eppure adesso tutto pareva in ordine, puntuale e pulito.
Sì, Lani mi ha civilizzato. Si chinò e le diede un tenero bacio. Lani mormorò qualcosa e affondò ancora di più nel suo cuscino, mentre lui usciva.
Adesso le gallerie erano più affollate, rispetto a qualunque altro periodo che riusciva a ricordare sin dall'inizio della Sgomitata. Durante tutti quei lunghi anni bui era rimasta soltanto una squadra si sorveglianza ridotta al minimo, anche se l'equipaggio sveglio era stato più numeroso di quello originariamente previsto, naturalmente, perché la sgomitata non era mai terminata. C'erano i tubi degli sfiondatori da lucidare e da riallineare, i lanciatori da equipaggiare con nuovi ammortizzatori e impianti per la messa a fuoco. Gli interventi per la manutenzione erano un guaio costante, a mano a mano che le parti si rompevano, o semplicemente si logoravano. I lanciatori del polo Nord avevano sparato fino all'ultimo minuto, finché il ghiaccio che evaporava verso l'esterno sotto forma di nuvolaglia di gas non aveva reso le operazioni impossibili. Erano stati costretti a fare così: il sorvolo di Giove aveva richiesto un grande cambiamento di velocità.
Adesso i lanciatori giacevano riparati nei loro pozzi, sepolti a trenta metri di profondità, in attesa della rinascita, giacché avevano altre pallottole da sputare verso le stelle; altra velocità da impartire… se qualcuno fosse sopravvissuto ai pochi mesi seguenti.
Sempre che riusciamo veramente a rivedere Giove.
Carl scese in fretta lungo il Pozzo 3, controllando tutti i piccoli distaccamenti lungo il percorso. Era una vecchia abitudine che risaliva ai tempi antecedenti il pattugliamento delle gallerie da parte degli animali geneticamente progettati per divorare le halleyforme indesiderate. Si fermò ad accarezzare un paio di ibridi mangusta-furetto che Saul aveva prodotto su misura per controllare le halleyforme. Gli strisciarono addosso, strofinandogli il muso contro la mano, scoprirono che non era adatto al loro nutrimento e persero interesse.
Entrò nella Centrale e fece il solito controllo giornaliero degli schermi. Adesso si trovavano a sole sei settimane dal perielio e un chilometro dopo l'altro la cometa li stava conducendo — con la sua accelerazione — verso una fine quasi certa. Carl richiamò le poche panoramiche ancora disponibili trasmesse dei relé meteorologici in superficie.
Oggi andava peggio. Molto peggio.
Scelse una telecamera che guardava in direzione della linea dell'alba. Molto lontano, aurore boreali color avorio ribollivano via da promontori colpiti dalla luce del Sole. Il Sole separava nel modo più netto il cielo dal ghiaccio, una linea di divorante fulgore che si allargava sempre più. Dita dorate si stendevano fra le colline all'orizzonte illuminando il primo fumo del mattino. Dove gli obliqui raggi del Sole trovavano il ghiaccio fresco, erompevano gocce d'un pallido azzurro e di un verde rubicondo. Molto in alto ondeggiavano stendardi di plasma, aurore più estese di quelle viste da Amundsen e Peary.
Si erano intessute di nuovo intorno ad Halley per livellare il carico termico. Jeffers aveva montato tutto uno spiegamento di pannelli assorbenti per controllare in parte la dispersione de gas e usarla per una rozza forma di navigazione, ma in quel caos ululante era impossibile perfino fare il punto con le stelle e dire come se la stavano cavando.
Stiamo salpando nel cuore della tempesta pensò. E niente bussola.
Halley non era più una palla di ghiaccio. Assomigliava invece ad una terra innevata misteriosamente butterata e foruncolosa, dove ogni traccia dell'uomo era stata cancellata. Un miliardo di piccole sorgenti di gas più attive avevano bucherellato le pianure polverose, lacerando il suono per uscire fuori e liberamente unirsi al vuoto totale. Strati di polvere, più pesanti, chiazzavano le cavità. Occasionali chiazze brune venivano d'un tratto soffiate via, unendosi alla sfrecciante ascesa della brillante chioma giallo-verde, visibile a Carl come un alone diffuso che si stendeva attraverso il cielo. Mentre guardava, un lento oscurarsi increspò quel trasparente bagliore, un'onda diretta verso l'esterno, generata da qualche eruzione di polvere sul lato rivolto al sole.
— È piuttosto brutta — commentò Jeffers, al suo fianco. Era diventato perfino più magro, nel colombario, la sua pelle più giallastra. — Le particelle al secondo sono tre volte più numerose di quant'erano la settimana scorsa.
— Da questo momento in avanti cresceranno a un ritmo quasi esponenziale — disse Carl. Lo enunciò come un fatto acquisito, anche se era soltanto una previsione di Virginia; era stata talmente accurata, negli ultimi tempi, che non pareva proprio che potesse esserci ancora una distinzione tra ipotesi e realtà.
— Abbiamo perso l'ultimo dei misuratori di velocità.
— Non mi sorprende.
— È stato soffiato via.
— La temperatura?
— Il lato notturno è a centoottanta Kelvin. Quello diurno circa quindici gradi di più. Ciò crea un grosso gradiente.
Il carico termico era cruciale. A mano a mano che la superficie continuava a riscaldarsi, il calore filtrava dentro il nucleo. — Qual è il dato giù nei pozzi?
— Pare che sia all'incirca sette gradi più freddo che in superficie.
— Già.
— Proprio così.
Il ghiaccio era elastico. La superficie, più calda, si espandeva, si tendeva, si spaccava. L'incessante martellare dei lanciatori aveva indubbiamente stressato il ghiaccio fin giù, nelle profondità di Halley. Con il calore, le tensioni sarebbero state liberate, e si sarebbero formate delle fratture. Quante? Nessuna simulazione numerica poteva dirlo. Halley era già crivellata dalle tane che gli esseri umani avevano scavato, come una colonia d'insetti. Avrebbe potuto spaccarsi completamente in due, eruttando in un ultimo ànsito tutti gli insignificanti parassiti umani che l'avevano afflitta.
Mentre guardavano, una goccia perlacea ruppe la crosta della superficie ed esplose in una turbinante sinfonia ciclonica di colori eccitati: verde pisello, violetto, giallo zolfo.
— Vidor è già stato svegliato?
— Ho ordinato che comincino, ma ci vorrà un altro giorno.
— Be', non c'è più motivo di correre. Il suo castello è scomparso.
Jeffers indicò una massa accasciata vicino alla linea dell'alba. L'ornata, modellata e scolpita opera d'arte, che era stata il capolavoro di Vidor nel ghiaccio, creata tre anni dopo la battaglia equatoriale, per il compito che doveva svolgere, come sostegno strutturale per il Pozzo 20, avrebbe potuto essere una semplice scatola quadrata, un igloo. Vidor aveva voluto aggiungervi parapetti, torri, argentei arabeschi, mura merlate e ponti volanti biancoazzurri. Adesso…
— Non si aspetta certo di trovarlo ancora in piedi… — Un castello di sabbia dura soltanto fino alla prossima marea.
— Quanti ne tirate fuori?
— Tutti — rispose Carl. — Salvo quelli che sono talmente morti che non esiste nessuna vera speranza di salvarli, naturalmente.
Jeffers torse la bocca, atteggiandola nella sua familiare linea di scetticismo. — I tecno-medici sono in grado di utilizzare quelle nuove cure?
— Virginia ha adibito dei mech ad aiutarli. Li ha addestrati in velocità, con quel suo metodo sperimentale.
— Cosa avete deciso a proposito di quelli parzialmente danneggiati al cervello?
— Non serviranno un granché, ma meritano ugualmente di essere rianimati.
— Già. Hanno pagato il biglietto. Tanto vale che assistano al finale.
Alcuni si erano opposti alla sua decisione, ma lui aveva respinto le loro obiezioni. L'argomentazione razionale era che con il massimo equipaggio possibile sveglio avrebbero potuto affrontare più efficacemente eventuali crisi. La motivazione privata di Carl, però, era del tutto emotiva. Se Halley si fosse spaccata, se si fosse rotta in due, se fosse esplosa in un rutilante pennacchio in technicolor, per lo meno avrebbero vissuto tutti ogni singolo momento, affrontando la fine così come avevano cominciato: una spedizione, un equipaggio.
È pur sempre qualcosa pensò Carl. Così, non si finisce addormentati nell'oblio.
Corrugò la fronte. Qual'era la poesia che Virginia aveva sottoposto alla sua attenzione?
Non dovrei pensare al programma come se fosse Virginia, ma mi è impossibile non farlo. JonVon non esiste più. E qual era la poesia che ha recitato ieri?
Non andare con gentilezza dentro quella buona notte…
Giusto. Dannatamente giusto.
— Signore?
Carl si girò, non riconoscendo la voce.
Era il capitano Miguel Cruz.
— Uh… — Carl fissò l'uomo, immutato rispetto al ricordo che ne aveva. La mascella era sempre solida, sicura. Lo sguardo era fermo, ispirava fiducia. Perfino il colore azzurro dovuto al colombario non poteva nasconderlo.
Tuttavia, in quell'uomo c'era qualcosa d'impacciato… di bloccato. Cruz indossava scarpe, e si reggeva in piedi come se la gravità avesse importanza.
— Volevo presentarmi a rapporto — disse Cruz. — Non mi sono ancora completamente ripreso, ma sono sicuro che c'è qualcosa che posso…
— No, no, lei… riposi. Riposi e basta — si affrettò a dire Carl. Non si era reso conto che le rianimazioni si fossero spinte così in là. Qualcuno avrebbe dovuto avvertirlo! Cruz parlava con un lieve accento… il modo di parlare della Terra. — Signore, preferirei prestare servizio. Forse…
Carl scosse la testa: — Senta, capitano, non mi chiami signore. Sono Carl Osborn, lei forse si ricorderà di me. Sono uno spaziale. Io…
— Certo che la riconosco. Sono un po' al corrente degli avvenimenti dopo la mia morte — replicò Cruz con un fievole sorriso. — Ho letto il giornale di bordo. È incredibile… e credo che chiamarla «signore» sia assolutamente appropriato.
Carl rimase a fissare l'uomo per un lungo momento, non sapendo cosa rispondere. Malgrado la sua tormentosa malattia, Cruz pareva… giovane. Per niente stagionato. — Ho… pensato, signore, che, quando avrà avuto qualche giorno per riprendersi, lei potrebbe riprendere il comando.
Cruz fissò lo scorrere d'immagini e di dati sulla superficie d'una dozzina di schermi lì accanto. — Mi ci vorrebbero anni anche soltanto per capire ciò che sta accadendo. I vostri strumenti, le vostre tecniche, e… Venendo qui, ho visto una donna nel Pozzo Due che pareva un fungo volante.
— Quella è una strana, signore — spiegò Carl. — Vivono a circa due clic in fondo al Pozzo Due, nella loro propria biosfera.
— Ma quella roba verde… l'aveva perfino nei capelli!
— È un simbionte che trattiene i fluidi e accresce l'elaborazione dell'ossigeno… i particolari non li conosco.
Cruz scosse la testa. — Incredibile. Come ho detto, non ho la minima idea di come stiano le cose.
— Ma io speravo…
— Capisco — annuì Cruz, come colto da un'intuizione. — Adesso che siamo ritornati nel sistema solare interno, lei forse pensava che io potessi aiutarvi a negoziare qualcosa con la Terra?
— No, signore. Ci siamo resi conto che quello è un vicolo cieco. Io speravo soltanto… be', lei è il capitano!
Il sorriso di Cruz era remoto, come ripiegato su se stesso, quasi che stesse scrutando qualcosa di molto lontano. — Ero il capitano della Edmund, e per un breve periodo, mentre scavavamo le nostre gallerie qua dentro, dove ho anche vissuto un po'. Ma adesso Halley è essa stessa una nave. Ormai sono decenni che naviga agli ordini del suo vero capitano. Io… io sono soltanto un passeggero.
— No, signore, non è…
— Un giorno aspirerò a diventare un ufficiale di questa nave. Non il comandante, però. E non dimenticherò chi ha tenuto in mano la barra del timone per così tanto tempo.
Cruz gli porse la mano. Carl sbatté le palpebre, poi, lentamente, gli tese la propria e gliela strinse.
Per tutto il tempo aveva sperato che i wunderkinder di Saul potessero riportare Cruz alla vita. E adesso l'avevano fatto, proprio all'ultimissimo minuto… e dopotutto, non si era rivelata una panacea. Avrebbe dovuto capirlo da tempo. Cruz aveva ragione. Miguel Orlando Cruz-Mendoza non era più vecchio del giorno in cui era morto, ma Halley era stata profondamente trasformata nell'arco di settant'anni dalla mano di quell'artigliante, irascibile, beatamente ingegnosa e flagrantemente stupida forma di vita che era troppo cocciuta per restarsene a casa e scordarsi l'idea di cavalcare palle di ghiaccio nell'oblio.
Con suo vivo stupore, Carl si rese conto che stava già valutando il suo ex capitano, soppesando il suo posto potenziale fra i membri dell'equipaggio. Un uomo in gamba pensò. Lo metterò al lavoro.
Alcune ore più tardi era di ritorno da un'ispezione di alcune caverne adibite ad uso agricolo e dei nuovi idroponici modulari a spirale che stavano abilmente disponendo in maniera tale da estrarre il calore di scarto dovuto al riciclaggio dei liquami fognari, che venivano immessi dall'esterno grazie a una combinazione di coclee. Gli ultravioletti s'irradiavano da una discarica assiale di plasma freddo, e quelle piante gigantesche anelavano ad avvicinarsi ad essa spingendosi verso l'interno. Carl ammirava quell'impresa prometeica di rilocalizzare le cupole, trasferendole dalla superficie all'interno del nucleo, e stava tornando attraverso il Pozzo 4 quando un cramp lento e borbottante lo strappò dai suoi pensieri. Sembrava provenire dall'interno delle pareti stesse.
S'inserì nella sua linea privata: — Jeffers!
— Lo sto seguendo. Gli acustici lo stanno captando dappertutto.
— Un'esplosione?
— No, una caduta di pressione. Credo che sia arrivato dalla superficie.
Carl richiamò sul display, rapidamente, le telecamere che ancora rimanevano in funzione in superficie. La maggior parte mostravano trasparenti Niagara rovesciati, turbinanti sorgenti di vapore che s'innalzavano dal ghiaccio descrivendo lunghi archi sferzanti che si perdevano nel mutevole cielo velato. I raggi ultravioletti del Sole ionizzavano il gas. Poi la pressione del vento solare faceva volgere queste fontane verso l'esterno, incurvando quel flusso fino a fonderlo con gli spettrali nastri della chioma.
Al di sopra del lontano orizzonte un blocco di ghiaccio granuloso ruzzolava su se stesso, ad un chilometro di altezza nel cielo. Lì accanto si era spalancato un enorme foro frastagliato, esso stesso una sorgente di nuove sostanze volatili. Simili a serpenti, filamenti verde e rubino s'innalzavano da quella fossa, che si contorcevano incessantemente.
— Un rigurgito sismico? Oppure un tratto di ghiaccio amorfo che ha cambiato stato tutt'a un tratto.
Quando la crosta di ghiaccio stressata cedeva, poteva venir strappata via per intero. Ciò trasferiva di colpo il calore del sole su depositi più freschi, il che scavava nuovi canali e col tempo approfondiva ancora di più le crepe.
Jeffers disse: — Già. Pare proprio di sì. Virginia aveva ragione anche a proposito di questo.
— Aveva detto che non sarebbe successo molto spesso fino al momento del perielio.
— Oh, immagino che sia soltanto un assaggio.
Carl annuì fra sé e si spinse via. Passò accanto a gruppi di strani avvolti nella vegetazione verde e purpurea, i quali non prestarono nessuna attenzione alla sua presenza. Stavano controllando le vecchie chiusure ermetiche per accertarsi che non ci fossero intrusioni da parte della halleyforme primitive, che provvedevano comunque a raschiar via ed a sostituire con quelle mutate e amichevoli nei confronti degli umani, che erano state elaborate da Saul.
Più oltre incontrò due cloni di Saul che stavano costeggiando la galleria, sorreggendo delicatamente un decolombarizzato mentre lo conducevano in uno dei serbatoi più caldi. Annuirono in perfetta sincronia e gli gridarono: — Ne rimangono ancora una ventina di probabili.
Carl scoppiò a ridere.
Adesso erano adulti completamente sviluppati, con una propria mente. Facevano perfino gli stessi gesti e avevano lo stesso accento. Ma per qualche motivo non riusciva a pensare a loro se non come a dei sostituti di Saul. Il fatto che Saul fosse riuscito con successo a clonare se stesso, mentre il tentativo di duplicare gli altri membri dell'equipaggio era fallito, significava che quello strano adattamento simbiotico era cruciale. Era possibile che soltanto lui potesse venir copiato nell'ambiente di Halley. Così, durante quegli ultimi decenni, i multiSaul erano stati impagabili per la loro resistenza alle nuove affiliazioni casuali, e la loro curiosa disciplina interna. Saul aveva usato l'apparato di JonVon per il trasferimento della memoria, per instillare grossi frammenti della sua personale esperienza nei suoi cloni.
Ciò che aveva appreso avrebbe potuto permettere ad altri di allevare bambini naturali senza nessun timore. Sarebbe stato bello sentir trillare le risate infantili nei pozzi. Ma la lunga caduta verso il perielio aveva soffocato sul nascere qualunque idea del genere. Nessuno poteva sopportare l'idea che la promessa dell'infanzia potesse non sbocciare mai.
Il comunicatore di Carl ronzò e Virginia disse: — Dubitavi della mia prognosi?
— Quel blowout è arrivato un po' presto, non credi?
— No. Dopotutto io tratto probabilità, signore, non faccio predizioni. Se vuoi, perché non chiami Lefty d'Amario? Lui può controllare i miei calcoli.
In qualche modo l'antico pizzicore lo percorreva ancora, quando quella fragranza civettuola le riempiva d'arpeggi la voce. — D'accordo, non sto facendo rimostranze. Non c'è bisogno che tu t'impermalisca. Stai controllando quei misuratori di logoramento che Jeffers ha impiantato dappertutto?
— Certamente. Mi avanza sempre un nanosecondo o due.
— E…?
— Piccoli tremori qua e là. Qualche piccola faglia lungo il Pozzo Due. Niente di cui preoccuparsi.
— Magnifico. Hai informato il capitano Cruz?
— Sei tu il capitano, Carl. Tutti continuano a dirtelo, anche se la cosa non ti piace.
— Non l'ho chiesto io, questo lavoro.
— Nessun altro potrebbe gestire quello che sta per arrivare.
Carl avvertì un empito improvviso della rabbia di un tempo. — Quello che sta per arrivare è la morte, Virginia.
— Non conosco niente del genere. — La sua voce era compassata, circospetta.
— Hai fatto tu stessa le simulazioni.
— Macinare numeri non è la realtà. Io dovrei ben saperlo, non è vero, amico Carl? Potrebbero esserci varianti nelle matrici delle relazioni incrociate.
— Non raccontarmi storie. Halley sfiorerà il Sole troppo da vicino. L'unico interrogativo è se friggeremo o bolliremo quando questa montagna di ghiaccio andrà in pezzi.
— Ci sono molti fattori imprevedibili. Ma anche delle misure che possiamo adottare.
Carl aveva costeggiato regolarmente il fianco d'una galleria, controllando automaticamente se ci fossero crepe. Quest'ultima osservazione lo fece fermare. — Cosa possiamo fare?
— Convogliare verso l'interno parte del calore in superficie, per attenuare parzialmente l'insorgere delle tensioni dovute ai differenziali di temperatura. In altre parole, dovete invertire il sistema di scorrimento verso l'esterno, diffondendo il calore di superficie nel ghiaccio più freddo che sta in basso.
— E se il ghiaccio interno dovesse vaporizzarsi? Le pressioni…
— Lo sfiateremo. Contribuirà a schermarci dal Sole.
— Ah. — Sentì risvegliarsi la speranza. — Come mai non l'hai detto prima?
— Ci ho appena pensato. Sono soltanto una macchina.
Debolmente, Carl sentì il sommesso borbottio della risacca, il sussurro degli alisei, il lontano rombo dell'addensarsi della burrasca sull'oceano. Il mondo metaforico di Virginia all'interno della rete. Da qualche parte, una voce rise: — Ke Pii mai nei kekai!
Così, in qualche modo aveva compagnia. Sorrise. — Senti, indirò una riunione. Dovremmo esaminare…
Virginia scoppiò a ridere. — Sempre lo stesso vecchio Carl. Un minuto prima ti lamenti di tutto. Ma basta darti un problema su cui lavorare, e… tombola!
Carl arrossì. Virginia aveva sempre posseduto l'arcana capacità di precederlo d'una mossa. Si spinse lungo la galleria che conduceva a casa.
— C'è tempo in abbondanza per calcolare l'ingegneria del problema, capitano. Continua pure con le tue faccende. — Quella risatina argentea gli risuonò ancora negli orecchi. — Lani ti sta aspettando.
E lo stava infatti aspettando. Lo abbracciò in silenzio, e poi rotearono entrambi pigramente nel mezzo della stanza, dimentichi di tutto. Carl si era finalmente impadronito dell'arte di mettere da parte gli affari, una volta tornato nel piccolo alloggio, e questa volta lo fece di nuovo, anche se le implicazioni delle ultime osservazioni di Virginia erano enormi. Fu tentato di dirlo a Lani, ma poi si trattenne. Fra loro, nell'arco dei decenni, la speranza era stata attizzata fin troppe volte, soltanto per venir soffocata dalla brutale certezza di qualche spietato fatto astronomico. Così, bandì del tutto quell'irritante coro di pensieri e, semplicemente, la baciò.
— Càspita! — alitò lei, profondamente. — Piuttosto torrido per essere a mezzogiorno, particolarmente dopo una notte tanto dura…
— Facciamo del nostro meglio.
— Sono di turno fra poco. Facciamo un rapido pranzo.
— Magnifico. — Carl si lanciò verso la loro minuscola cucina, resa funzionale soltanto perché potevano usare le pareti e il soffitto.
— C'è il tabulato sulla tua stampante, a proposito — si ricordò Lani, prendendo un po' della salsa usata per i legumi brasati e il pollo-muto della sera prima. — Da Virginia.
— Oh?
Scalciò per avvicinarsi alla stampante. Di solito veniva usata soltanto per i casi di emergenza o per divertirsi, non per le faccende ordinarie della nave.
Era una poesia:
La natura non sa niente della morte,
non nel pigro coccolarsi del gatto miiiaaaooo,
non nella folle scalciata dell'antilope,
mentre il leone fa il suo pasto.
Né nel sollevarsi indolente del mare
al risucchio del lento gradiente d'una stella,
né nell'annuire d'un fiore, nella danza frenetica di un insetto.
Vivi è tutto ciò che il mondo dice.
Sulle alternative esso è muto.
Soltanto in noi e nel nostro interminabile sporgerci in avanti
può vivere la morte.
Ogni vivido momento è libero.
E tutto quello che potrebbe accadere
può ancora essere.
Carl studiò la poesia, corrugando la fronte. — Sta migliorando.
Lani di avvicinò e la lesse lentamente. — Tutte le volte, rimango di nuovo sorpresa. Virginia è davvero là dentro, da qualche parte.
Carl scosse la testa. — Non è da nessuna parte, in realtà. È dappertutto. Il sistema si è espanso molto al di là dei banchi di JonVon. Adesso è Halley.
Lani si girò e l'abbracciò. — Siamo tutti Halley.
Carl respirò l'aromatico, caldo muschio che emanava da lei, e sentì che i vecchi dolori si allentavano. Perché mai ho impiegato tanto tempo a capire che questa brava donna poteva essere un intero mondo per me? E se non me ne fossi mai accorto?
Sentiva Virginia intorno a loro tutti, sentiva l'intera comunità di Halley come una matrice intrecciata nell'antico ghiaccio. Non erano più sepolti dentro, venuti lì soltanto per usufruire di un passaggio. Niente percell. Niente ortho. Erano una nuova, assediata società, un nuovo modo, per un primate versatile, di estendersi oltre, di essere più di quello che era. Non erano semplicemente al centro dell'antico ghiaccio morto, erano il cuore stesso della cometa.
— Sì, suppongo che lo siamo — dichiarò.
Era uno spettacolo che gli umani non avevano mai contemplato prima, e molto probabilmente non avrebbero mai più visto. Il costante martellare dei lanciatori per più di trent'anni aveva alterato l'orbita della montagna di ghiaccio che cadeva verso l'interno, spostando i punti focali di quell'ellisse schiacciata. L'orbita della Terra si teneva aggrappata al Sole deviando dalla forma d'un cerchio perfetto meno del due per cento. Ma l'eccentricità di Halley era stata del novantasei per cento ancora prima che le macchine degli uomini cominciassero la loro persistente sgomitata. Adesso la curva si stringeva sempre più al passare d'ogni ora, portando un'estate bruciante. Halley non si era mai tuffata così vicina all'erodente Caldo.
Le gallerie e i pozzi formavano degli eccellenti amplificatori acustici. A mano a mano che il ghiaccio sfregava e premeva contro le nuove frizioni, i gemiti echeggiavano fino alle profondità del nucleo, svegliando i dormienti, anche se di questi ce n'erano assai pochi, con l'ora cruciale sempre più incombente.
Con un tuffo che la portava più vicina di cinquanta chilometri ad ogni secondo, Halley si precipitava verso il suo antico nemico. Ogni passato incontro aveva spogliato la cometa d'uno strato si pelle di ghiaccio, ma adesso rombava tutta e si torceva sotto l'effetto di nuove forze che cercavano di frantumarla sull'incudine del suo Sole.
Virginia seguiva quella tempesta ululante e accecante attraverso i suoi occhi elettronici. A mano a mano che una telecamera moriva a causa delle raffiche pungenti di polvere e di plasma, lei ne dispiegava un'altra fatta uscire dalle cavità più profonde. Il Sole appariva il doppio più grande di come lo si vedeva dalla Terra. Ma dalla superficie non si vedeva nessun disco incandescente. Halley ruotava ma non si vedeva nessun sorgere del Sole. Invece una corona bianco-incandescente ribolliva in alto. Una chiazza di ardente luminosità segnava il punto dove il fiume che sgorgava dal Caldo incontrava la marea di ioni che esplodeva fuori da Halley, e la vittoria andava inevitabilmente al Caldo. Spezzati, ionizzati, i gas roteavano, venivano deflessi lateralmente e vorticavano intorno al piccolo mondo di ghiaccio come un sudario magnetizzato. Questa turbinante atmosfera non mostrava nessuna lealtà attraverso il suo genitore, ma si precipitava invece verso l'esterno.
Adesso le code gemelle di Halley si srotolavano attraverso uno spazio più esteso dell'orbita di Mercurio. Il contorto vessillo di plasma luminoso conteneva meno fluido di molti dei grandi stagni della Terra, ma la luce avvampante del Sole lo rendeva l'oggetto più visibile del sistema solare. Gli abitanti progrediti di una stella vicina avrebbero potuto captare le scintillanti cortine quasi dritte che sgorgavano dalla stella centrale. La coda di polvere, per contrasto, era una curva fascia rossastra, interrotta da sentieri bui, sfavillanti di sassi e granelli non più grandi d'un micron.
Ma coloro che calcavano la particella di ghiaccio genitrice non potevano vedere la più bella coda che avesse mai aggraziato una cometa in tutta la storia. A mano a mano che sfrecciava sempre più in profondità nel pozzo gravitazionale della sua stella, quella chioma ardente d'una luminosità insostenibile si allargava sempre più divorando l'intero cielo. Adesso accecata, Halley non poteva neppure vedere la sua nemesi. Il cielo era dovunque un bagliore.
Virginia aveva calcolato con grande accuratezza quell'effetto, giacché quella era la chiave. Se avesse permesso ad Halley di rimanere priva di rotazione, la faccia rivolta in permanenza al Sole sarebbe salita fino alla temperatura di quattrocento gradi, la temperatura che qualunque corpo solido avrebbe avuto a quella distanza dal Sole. Adesso osservava gli schermi sepolti a decine di metri sotto il ghiaccio che le indicavano il flusso del calore. A mano a mano che il calore filtrava sempre più in profondità, Virginia faceva ruotare più velocemente quel mondo di ghiaccio, per attenuare gii effetti della vampa del Sole, spandendoli nel modo più uniforme in tutti i suoi punti, consentendo al lato notturno d'irradiare verso la tenebra dello spazio.
Ma la tenebra si stava affievolendo. Ben presto la stessa atmosfera «estiva» della cometa cominciò a riflettere da ogni parte il bagliore del Sole sulla faccia in ombra di Halley, e le temperature aumentarono più in fretta mentre la cometa continuava a precipitarsi verso il perielio.
— Cosa te ne sembra? — Carl stava osservando gli schermi della Centrale con Lani al suo fianco. — Abbiamo già sparato via venti metri di ghiaccio! — proseguì, con veemenza. — Quanto tempo ci vorrà perché finiamo in pezzi?
Virginia avvertiva il suo crescente livello di conflitto. Era un uomo che risolveva problemi, e in quella grande crisi lui non aveva nessun ruolo. Come gli altri, era un passeggero impotente sulla propria nave.
— Siamo al sicuro — disse Virginia con un tono rassicurante, usando una serie di toni alti che rendevano la sua voce più ricca di quanto lo fosse mai stata l'originale.
— I sigilli dei pozzi?
— Intatti — garantì Virginia, esibendo delle panoramiche dei coperchi d'acciaio in punti che si trovavano duecento metri all'interno di ciascun pozzo. Al di là di essi, enormi tappi di ghiaccio sbarravano la strada al Caldo.
— Smettila di preoccuparti — disse Lani, con voce gentile, appoggiando una mano sulla spalla di Carl. — Tanto vale che ci godiamo lo spettacolo.
Più tardi, Virginia pensò a quanto fosse ironico il fatto che le parole di Lani fossero punteggiate da lunghi, rintronanti rombi che penetravano fin dentro la Centrale. La cavità sferica vibrava, crepitando. Pezzi di apparecchiature schizzavano via dalle loro mensole.
— Un crollo — annunciò Virginia, proiettando un'immagine sullo schermo centrale. Una massa mulinante di neve e di ghiaccio sembrava sgorgare dalle pareti di una galleria, cadendo con dolorosa lentezza.
— Maledizione! — esclamò Carl. — Dove?
— Il sito 3 C, come la nostra proiezione suggeriva.
— La pressione…
— Chiuso ermeticamente. Nessuna perdita. — Virginia analizzò il profilo della voce di Carl, e vi trovò un alto livello di tensione. Se soltanto avesse ascoltato un po' di più Lani…
La reazione umana fondamentale ad eventi di dimensioni così immani era quella di chiudersi a riccio.
Virginia aveva notato questo fatto durante gli ultimi giorni prima del perielio. I suoi mech vagavano attraverso quel labirinto di gallerie, saggiando il terreno alla ricerca di perdite o d'improvvise fontane di calore vagante. Di rado incontravano qualcuno. Perfino Stormfield Park era deserto, adesso, la giostra si era fermata.
Uomini e donne facevano il proprio lavoro, i propri turni di servizio, raccogliendosi nei pochi momenti liberi insieme a coloro che amavano, osservando il maelstrom sgargiante là fuori attraverso gli schermi. Jeffers aveva messo a punto un nuovo tipo di fibra ottica leggera che poteva sbucar fuori come un serpente da una cavità sepolta in profondità, riducendo così i rischi, ma anche così crepature e sfiatatoi continuavano ad aprirsi a causa dell'alta pressione, ed eruzione spontanee di fango schiumeggiante ricco di sostanze rosse inondavano molte delle stazioni di osservazione di Virginia.
Si era riservata un minuscolo frammento del nucleo di memoria come suo «ufficio». Lì, sedeva in mezzo ad un ronzare di macchinari, percependo il rassicurante strofinio d'una sedia, l'ammiccare delle luci delle consolle. Vorrei poter disporre di abbastanza nucleo per andarmi a fare una nuotata pensò. Posso sentire anche le mie stesse tensioni…
Come specie, rifletté, l'homo sapiens non aveva mai veramente varcato i limiti della tribù. La storia degli ultimi centomila anni aveva mostrato con quanta abilità e intelligenza aveva saputo adattarsi alle maggiori esigenze. Sotto la pressione della necessità avevano formato villaggi, città, nazioni. Eppure avevano riservato il loro vero calore e le più ferventi emozioni a una cerchia ristretta di amici e parenti. Erano pronti a morire per conservare la tribù, la famiglia, i vicini. Gli appelli per questioni più importanti funzionavano soltanto attingendo alle sorgenti più sottili e profonde.
Così, quel coro di tremori che si addensava sullo sfondo, il crepitio d'una parete che crollava, il borbottio basso e sgranato del ghiaccio sotto tensione, tutti questi suoni spingevano l'equipaggio a ritirarsi dentro se stessi. Non nella solidarietà, ma nella consolazione e nella rassicurante presenza fisica degli spaziali, o degli strani, o degli hawaiani, loro sodali. I simili cercavano i propri simili per quelle che avrebbero potuto essere le ultime ore. Salvo per una solitaria figura che di rado lasciava la Centrale.
— Saul — gli disse, mentre un pennacchio color ambra sgorgava dalla superficie, proiettando un ricamo di strisce luminose sulla familiare faccia rugosa. Era rimasto seduto accanto al display molto a lungo, la sua mente era molto lontana mentre rigirava tra le mani una piccola pietra, più e più volte. — Saul?
— Ah, oh, sì? — Saul sollevò il volto solcato da quel pezzetto di roccia.
— Sono sicura che potresti sorvegliare le cose da qualche altra parte.
Saul scrollò le spalle. — Stormfield è chiuso. In questo momento non c'è bisogno di me in infermeria. Non c'è nessun altro posto dove io voglia in particolare trovarmi.
— Sono certa che Carl e Lani ti darebbero il benvenuto. Sono svegli, vigilano…
Saul sollevò una mano. — No, li lascerò stare. Non voglio impormi là dove sarei soltanto una quinta ruota.
— Stai pensando parecchio a quella vecchia pietra — disse lei, per cambiar argomento. Erano ore che la rigirava tra le mani.
Saul fissò quel grumo grigio-scuro. — Proviene dalla bara di Suleiman. Sono settimane che me lo porto dietro, che lo studio. Ma… non è a questo che stavo pensando in questo momento.
Il suo sguardo si spostò sull'unità refrigerata che conteneva sedici litri di un processore organico supercongelato. Virginia ritenne di aver capito.
— Tu sei con me, non importa dove ti trovi su Halley, Saul.
Saul sbatté le palpebre e annuì. — Lo so… è soltanto che…
— Soltanto che qui la prossimità fisica della mia memoria organica è rassicurante?
Saul sorrise, il suo vecchio sorriso sardonico, con le labbra leggermente corrugate e gli occhi increspati, comunicando un'ironia che non era lontana dall'immagine che aveva di se stesso, Virginia lo sapeva. — Sono così ovvio?
— Per uno che ti ama, sì.
— Ci sono momenti quando vorrei…
— Sì?
— Avrei potuto trovare un modo per clonarti.
— Così da avere me, o qualcuno come me, in carne e ossa?
— I ricordi non fanno altro che rendere le cose ancora peggiori.
— Ci sono… — Non provò nessuna vera esitazione, e in ogni caso con la sua velocità l'indecisione sarebbe durata soltanto qualche millisecondo, ma doveva mantenere le sfumature di una persona vivente. — … ci sono le nostre registrazioni.
Saul ebbe un'asciutta risata. — Sai quante volte le ho fatte passare…
Un cenno di timidezza, sì. — Potrei… incrementarle.
— No! — Saul picchiò il pugno sulla sedia-ragnatela. — Io voglio una cosa vera, la vera… te.
— Lo sarebbe.
— Quando abbiamo registrato noi stessi è stato uno scherzo, come le coppie che scattano le fotografie di sé con la polaroid in camera da letto. Noi non abbiamo mai avuto l'intenzione che fosse uno solo di noi a ripassarle… — Scosse la testa. — In questo modo, senza di te, la vera te…
— Ma sono io. Più vera di qualunque immagine olografica! E se dovessi entrare nel collegamento sensoriale, è una Virginia più vecchia, e probabilmente più saggia, quella che incontreresti. Me.
Saul aveva resistito altre volte a quel suggerimento, per ragioni che lei non capiva del tutto. Ma adesso, forse, a causa della oppressiva solitudine che si accompagna al pericolo, sollevò la testa e fissò direttamente gli ottici di lei. — Io… sarebbe?
Lei sapeva che non avrebbe garantito che si sarebbe trattato di una Virginia genuina, fissata nell'ambra. Lei non era la personalità che era rifluita dentro l'affollata personalità di JonVon e l'aveva inondata. La lenta evoluzione e i progressi autoinnescati le avevano fatto percorrere un'immensa distanza da quegli anni. Ma non c'era bisogno che lui lo sapesse, né c'era qualcun altro che lo sapesse, e ciò sarebbe stato di conforto per lui.
— Vieni da me, Saul.
Saul mise da parte la pietra e allungò la mano verso il connettore neurale. Con sua viva sorpresa, Virginia si sentiva nervosa.
Forse sarebbe stato un ritorno anche per lei.
Poco prima del perielio il Sole cessò la sua ritirata verso sud e tornò ad avanzare. A mano a mano che il disco cresceva, si spostava verso l'equatore. C'era un mezzogiorno perpetuo, mentre la cometa vibrava ed eruttava sotto quell'interminabile vampa. L'emisfero meridionale, sventrato e sgorbiato per mesi, adesso si stava raffreddando mentre l'emisfero nord veniva esposto a sua volta alla feroce aggressione.
L'acqua e l'anidride carbonica sublimando portavano via calore da quella particella che orbitava velocissima. La sua superficie si crepò in molti punti, seguendo le tracce sempre più deboli che l'uomo vi aveva impresso sopra per sette decenni. Sostanze volatili fresche sublimavano ed esplodevano. Frammenti aguzzi venivano ridotti a monconi nel giro di pochi minuti, come se fossero stati erosi da nugoli di particelle di sabbia. I sassi emergevano in superficie formando coltri che si libravano rimanendo temporaneamente sospese e schermando il ghiaccio sottostante, per poi venir soffiate via e congiungersi alla coda di polvere che si andava addensando.
Al polo Nord, al quale finora era stato risparmiato il peggio, il Sole artigliante mordeva in profondità. Sin dai tempi delle grandi pestilenze alcune fazioni avevano sepolto i loro membri irreparabilmente morti nelle profondità del ghiaccio vicino al polo. Adesso il Caldo li aveva trovati.
Per puro caso lo spettacolo era visibile attraverso una fibra ottica che emergeva in un angolo riparato nel punto esatto del polo Nord. I gas che esplodevano di sotto sollevavano le mummie avvolte nel ghiaccio scagliandole verso il cielo. Un calore ustionante liberava dal ghiaccio l'ossigeno ionizzato, e i corpi esplodevano in fiamme, illuminando il paesaggio di momentanee pire arancione. Quelle torce venivano lanciate, vorticanti e fiammeggianti, in alto e fuori contro le immense forze inconsapevoli. Rimanevano sospese nel cielo per lunghi momenti, come lontani e sgocciolanti castelli, e poi si spegnevano piombando per sempre nel fiume che si srotolava fuori dal Sole.
— Dannazione! L'abbiamo passato!
Il volto stupito di Carl s'intromise in un disegno a 3 D che lei stava modificando. Aveva usato il comando a scavalcamene per irrompere dentro il flusso principale della sua persona.
— Sì. Puoi gioire — replicò lei, con calore.
— Come ci sei riuscita?
— Meccanica dei vettori. Niente di così arduo.
— Sei stata meravigliosa! — Lani sedeva accanto a Carl, aveva gli occhi spalancati per la meraviglia, per il fatto di essere ancora viva. Virginia si rese remotamente conto che si erano davvero aspettati di morire.
— Vi avevo detto quali erano le probabilità — disse loro. — Certamente voi…
— Avevamo pensato che stessi solo cercando di farci coraggio! — rise Carl.
— Ho reso i calcoli accessibili, Carl, grande sciocco. — Virginia trasmise un'aerea risatina al seguito di quella frase, riflettendo che se qualcuno avesse effettivamente controllato i calcoli, avrebbe scoperto che lei in realtà aveva dichiarato una probabilità di sopravvivenza di tre contro uno, quando in verità era stata soltanto del cinquantadue per cento. Ma si era sentita sicura che nessuno avrebbe fatto tutti quei calcoli complicati. In trent'anni si erano tutti abituati a fidarsi di lei, proprio come facevano affidamento sui bio-miracoli di Saul.
Lani aveva gli occhi sfavillanti, speranzosi. — Quand'è che possiamo uscir fuori? Voglio coltivare di nuovo qualcosa fuori al Sole.
— Quasi mezz'anno — rispose Virginia, in tono serio. Aveva scoperto che la gente prendeva più seriamente le dichiarazioni se erano venate di vocali più sonore e di qualche tono basso.
— Non importa — dichiarò Carl. — Ne avremo in abbondanza da fare, qui dentro — aggiunse, schiaffeggiando affettuosamente il sedere di Lani.
Virginia sapeva esattamente quello che Carl aveva in mente. Era implicito in tutto il suo profilo psicologico, sì, ma la sua intuizione le diceva di più. Carl si era imbottigliato emotivamente per decenni, e ciò era stato cruciale per la sopravvivenza del nucleo di Halley. Adesso il tempo e le circostanze avevano operato la loro curiosa magia, e lui era libero. Il Carl giovane non avrebbe potuto, e non l'aveva fatto, rispondere alle tranquille qualità di Lani. Questo Carl più stagionato e più saggio poteva farlo, avrebbe dovuto farlo e l'avrebbe fatto.
Da qualche parte nei compattati recessi della memoria organica, si attizzò una punta di umorismo e d'ironia. Sta ottenendo ciò di cui aveva bisogno, anche se non è quello che voleva.
Virginia prese nota di mettere in ciclo Lani per un esame fisico di «routine» entro quaranta giorni.
Quell'aspra tempesta si gonfiò. Malgrado fossero sopravvissuti al peggio, al perielio, un residuo di calore filtrava ancora verso l'interno. Virginia mandò uomini, donne e mech a sigillare le gallerie crollate, intere zone dei pozzi le cui pareti cominciavano a spruzzare e ad evaporare.
Riscaldato nel vuoto il ghiaccio si sublimava direttamente in vapore senza diventare liquido. A mano a mano che la pelle sparpagliata di Halley veniva soffiata via, Virginia diede inizio al grande esperimento. Squadre di mech esperti si avventurarono fuori dalle corrose imboccature dei pozzi. Dispersero lastre di silicati amorfi, granelli di sabbia e sudiciume disseccato, filtrato e compattato durante i molti anni di estrazioni minerarie. Molto rapidamente stesero giganteschi campi di lastre congiunte fra loro, nere come l'ardesia, in punti ben scelti accanto all'equatore di Halley. Erano troppo pesanti perché i sottostanti vapori sublimati le spingessero via, e i mech se ne accertarono due volte piantando saldamente dei cavi al suolo per ancorare le lastre.
L'effetto si manifestò con dolorosa lentezza. Adesso, a causa della rotazione, il giorno su Halley durava soltanto tre ore. Nel momento calcolato con precisione, gli scudi di silicato bloccarono la luce del Sole impedendole di raggiungere il ghiaccio. Sopra quella zona i gas in eruzione diminuirono. Altre aree continuarono ad eruttare, e questa differenza nella spinta, combinandosi sopra la superficie rotante di Halley, cominciò ad alterarne sottilmente l'orbita. Da tempo gli astronomi avevano notato questo «effetto razzo» sulle comete rotanti che esponevano temporaneamente dei campi di polvere, ma era sempre stato un effetto spontaneo e temporaneo. Adesso, veniva prodotto artificialmente.
Virginia dispiegava i propri mech in maniera spietatamente decisa. Alcuni si surriscaldarono e si guastarono, altri vennero schiacciati tra le placche più grandi che ondeggiavano e cozzavano in mezzo alla bufera di gas scatenata dal Sole. A un suo ordine, potevano far inclinare le lastre frontalmente, cosicché l'area protetta riprendeva improvvisamente vita, vomitando pennacchi color ambra. Destramente, risolutamente, Virginia «suonò» una sinfonia dinamica con le forze di quel furibondo uragano che sbatteva i mech e i loro carichi. Per giorni, e poi settimane, convogliò l'oltraggiato vapore di Halley per un nuovo scopo. Spinte disequilibrate si allungarono lungo l'orbita della cometa, una mano che, persistente, li trascinava lungo una nuova orbita.
Quattro mesi al di là del perielio, Virginia aspettò l'inevitabile. Aveva schierato un nuovo dispiegamento di radar a raggi infrarossi e a microonde, concentrati lungo il cono di spazio previsto.
Il primo fu lento e minuscolo, una meraviglia della tecnologia «furtiva». Intravide le ampie pale trasparenti che disperdevano il calore del Sole. Soltanto la sua rete a microonde, a modulazione di fase, che operava a dieci gigahertz, riuscì a captarne la debole ombra. Aveva distribuito i ricevitori su uno spessore estremamente sottile su un'estensione di cento chilometri di spazio. Se il missile fosse stato più veloce, Virginia non sarebbe forse riuscita a integrare in tempo i diversi segnali della sua rete. Così, invece, riuscì a frantumare quell'oggetto dal naso camuso a dieci chilometri di distanza da Halley.
Dietro quel primo oggetto, qualche momento più tardi, arrivò qualcosa di grande e ingombrante, che utilizzava il Sole per mimetizzarsi, sovrapponendosi a uno sfondo fornito da un'azzurra e vibrante macchia solare che era sbocciata soltanto un'ora prima da un grande arco magnetico.
Quando colse anche quello con una raffica del laser, Virginia avvertì un brivido percorrerle la mente. Non si sarebbe mai accorta di quella leggera increspatura rivelatrice di luce ultravioletta che tradiva la testata nucleare in arrivo… soltanto, stava controllando la macchia, come parte del loro programma di ricerca in corso. Jeffers aveva avuto ragione quando aveva insistito perché conservassero i sistemi diagnostici scientifici… continuare a imparare era valsa senz'altro la pena.
Il terzo fu veloce, si avvicinava ad almeno cento chilometri al secondo, e continuava ad accelerare, spinto dalla propulsione foto-jonica. Virginia si chiese per quale motivo avessero lasciato acceso l'acceleratore elettrostatico, dal momento che proprio esso rendeva il proiettile assai più visibile. Gli sparò contro con i lanciatori di recente ripristinati, e durante l'intervallo di due secondi aspettò fiduciosa il segnale dell'avvenuta distruzione.
Non ne arrivò nessuno. E la sua rete a modulazione di fase le disse il perché. Il proietto stava manovrando lateralmente, schivando le raffiche di pallottole di ferro. Era evidente che era in grado di captare il ronzio prodotto dalle microonde dei lanciatori e vedere le pallottole a mano a mano che arrivavano.
Allora Virginia sparò senza indugi con tutti i banchi di laser di cui poteva disporre.
Anch'essi mancarono il colpo. Ma comunque mancavano ormai pochissimi secondi, e lei non aveva neppure il tempo di suonare l'allarme nelle gallerie di Halley.
Disperata, portò il livello della corrente della rete dei gigahertz fino alla potenza d'un megawatt e invertì il sistema da RICEVERE a TRASMETTERE. Quello spiegamento non era mai stato usato in quel modo. Per un breve istante avrebbe potuto inviare un saluto ad una civiltà che si trovasse sul lato opposto della stessa Galassia, se a qualcuno lungo la traiettoria del raggio fosse capitato di guardare. I «piatti» a ragnatela delle antenne potevano sondare lo spazio e mirare con precisione. Virginia sparò un impulso di energia elettromagnetica nel punto preciso che fluttuava nella sua triangolazione panoramica.
Avevano armato di salvaguardie quella testata nucleare. Quando quel tornado elettromagnetico le fu sopra, la mente-chip a bordo attivò gli esplosivi compressi prima che potessero evaporare. L'equivalente di venti megatori di cauterizzante energia a fusione sbocciò nel cielo nero sopra Halley, sollevando un lampo accecante di candida nebbia dal ghiaccio stagionato.
Durante tutta la battaglia Virginia non aveva avvertito nessuno. Gli uomini, le donne, le famiglie avevano continuato a vivere la loro vita, imperturbabili. Soltanto quando quelli che lavoravano in superficie si chiesero cosa fosse stato quell'improvviso fulgore, Virginia chiamò Carl e comunicò la notizia che la loro grande battaglia era cominciata e finita nel tempo da lui impiegato per mettere giù la sua tazza di caffè.
— Nessun segno di altri missili? — domandò Carl, in preda alla tensione.
— Nessuno — disse Virginia. — Ho esteso la mia ricerca a un'ora-luce tutt'intorno a noi, e non ho trovato niente.
Lani entrò fluttuando nella Centrale. Il suo volto era pallido e tirato. — Ho sentito il tuo annuncio, Virginia. Quanto ci sono andati vicini?
— Come il duca di Wellington disse dopo Waterloo… — La voce di Virginia cambiò, assumendo un pesante e aristocratico accento britannico: — Sì, è stata una cosa dannatamente vicina.
— E ci proveranno di nuovo, se continueremo sulla traiettoria da noi progettata — aggiunse Carl, con calma. — Non tollereranno che usiamo l'incontro con Giove per infilarci stabilmente in un cappio dentro il sistema solare interno. Hanno anni a disposizione per spararci addosso, ricordatevelo. Quando torneremo verso l'interno, ci prenderanno di mira di nuovo. Anche quell'attacco potrà fallire. E quello successivo. Ma alla fine…
— Quegli assassini! — gridò Lani. — Eravamo disposti ad accettare la quarantena, ma questo a loro non è bastato! Soltanto per proteggersi da una qualsivoglia esposizione alle halleyforme, ci uccideranno tutti.
Carl sentì l'inevitabilità di ciò che doveva dire, la fine di tante speranze… — È giunto il momento di guardare in faccia i fatti. Non possiamo far ritorno dal freddo.
Lani corrugò la fronte. — Ma questo significa…
— Proprio così. Dobbiamo scegliere una traiettoria che ci porti verso l'esterno, dopo Giove. È l'unico modo di tenerci lontani dalla portata della Terra.
Virginia chiese: — Credi che sarà abbastanza per far smettere la Terra?
Carl scosse la testa. — Dovremo sperarlo. Tracceremo una traiettoria che ci porti lontano nel sistema solare esterno.
Lani lo fissò, mordendosi le labbra, in silenzio.
— Per qualche motivo — replicò Virginia, lentamente, — credo che non si accontenteranno di niente di meno di un'orbita di partenza.
Lani sgranò gli occhi. — Che cosa? Lasciare completamente il sistema solare?
— Sì, in modo completo e definitivo — ribadì Virginia, con calore. — Soltanto allora si convinceranno che le halleyforme non raggiungeranno mai la Terra.
Carl annuì. — Non varrà più la pena darci la caccia, allora. Troppo costoso, comunque.
— Cosa faremo là fuori? — domandò Lani, incredula.
— Vivremo. Moriremo. — Carl fissava, senza vederlo, lo schermo principale dove i numeri vorticavano. — Dentro la Nube di Oort… — aggiunse, con voce remota. — Dovrebbero esserci triliardi di mondi di ghiaccio, là fuori, grandi come asteroidi. Così era anche Halley, prima che qualche sgomitata, forse a causa di una stella di passaggio, la facesse ruzzolare dentro il sistema solare.
Lani chiese dubbiosa: — E una volta che saremo là? Potremo usarli come risorse?
Carl scrollò le spalle. — Forse. Avremo centinaia d'anni per pensarci, durante il viaggio.
Lani si sistemò su una ragnatela, il volto impassibile. — Saremo tutti morti prima di allora, perfino con la colombarizzazione.
Carl provò una strana, remota rassegnazione. In qualche modo, aveva sempre saputo che non avrebbe mai lasciato quel luogo. Stavano consegnando non soltanto se stessi, ma anche tutte le future generazioni di Halley, alla tenebra esterna, all'ignoto senza confini. Fuggivano dentro l'abisso.
Lani disse: — Suppongo che dobbiamo… progettare quello che possiamo fare, non quello che preferiremmo fare.
La vita è una serie di schiaccianti condanne, una per volta pensò Carl. Sapeva anche che avrebbero potuto farlo, se si fossero semplicemente rifiutati di cedere alla disperazione. Se abbiamo qualcosa per cui vivere.
Una buona metà di Stormfield Park era stata trasformata in asilo-nido. La vecchia ruota centrifuga era stata rinforzata per farla ruotare più in fretta, fornendo un buon decimo di gravità della Terra per aiutare le giovani ossa a crescere robuste. Ciò era duro per qualcuno della generazione più vecchia, ma comunque venivano spesso, finito il lavoro, ad ascoltare quelle voci acute e pigolanti che strillavano, giocavano e ridevano.
Era quello che provava Saul mentre camminava con cautela lungo il sentiero ricurvo rivestito d'erba ai margini del parco-della-ruota, dove gli ologrammi davano l'illusione d'una bassa siepe, con i cieli chiazzati di nubi calde e umide. Lì vicino le mamme e gli addetti all'asilo-nido accudivano la loro folla di rumorosi protetti, osservando i loro giochi, ammirando la bellezza dei loro corpi slanciati e lo sguardo limpido dei loro occhi.
I bambini avevano salvato la colonia di Halley… se non altro per aver rischiarato gli animi di coloro che adesso sapevano che non avrebbero mai più rivisto la Terra, Marte, gli asteroidi, o qualunque altro volto umano che non fosse loro familiare.
Siamo la prima nave stellare si era reso conto Saul, due o tre secoli prima del previsto.
Oh, Halley era ancora legata alla cordicelle del grembiule del vecchio Sole, ma la loro nave-casa era irreversibilmente in rotta verso la nube esterna, dove triliardi di palle di ghiaccio andavano alla deriva nella distesa non tanto vuota fra le stelle. Terreno alieno. Sarebbero vissuti, o morti, a seconda del loro ingegno, e grazie a qualunque cosa avessero portato con loro.
Su quell'argomento Saul aveva appena completato uno studio importante, un inventario del patrimonio genetico disponibile per le prossime generazioni. La questione era importante, giacché poteva significare la differenza fra la sopravvivenza della colonia oppure un lungo, lento declino nella degenerazione e nella morte.
C'è un'abbondante eterozigoticità aveva concluso. Un ampio spaccato dei tipi che popolano la vecchia Terra. Dovrebbe fornire una varietà sufficiente. Specialmente con il tasso di mutazioni che possiamo aspettarci. Il problema più grosso sarà quello di mantenere una popolazione abbastanza numerosa.
In quel momento Halley aveva abbastanza risorse da permettere alla colonia di continuare per un indefinito futuro. Il deuterio estratto dal ghiaccio avrebbe tenuto attive le pile a fusione, adesso ritrasferite fuori in superficie per minimizzare la perdita di calore… fino a quando non fossero riusciti a impadronirsi della capacità tecnica di mettere insieme un generatore alimentato a protoni sulla base di uno dei progetti ricevuti da Phobos. La loro capacità di riciclaggio e di gestione ecologica era già ragguardevole, e sarebbe aumentata.
Se dosati con cautela, i molti triliardi di tonnellate di ghiaccio e d'idrocarburi avrebbero potuto tenere in vita un paio di centinaia di umani per volta, insieme alle loro piante e agli animali, per un centinaio di generazioni e più.
Appena il tempo sufficiente. Giacché, fra un paio di migliaia di anni, la folle velocità della cometa sarebbe enormemente diminuita, quando si fossero avvicinati al nuovo afelio, là fuori dove il Caldo era soltanto la stella più luminosa. E là fuori, che si muovevano lentamente alla deriva, c'erano centinaia di milioni di altri gruppi di materia primordiale rimasta inalterata dai giorni della nascita del sistema solare. Una volta che la loro attuale velocità quasi iperbolica si fosse ridotta a pochi metri al secondo soltanto, avrebbero dovuto esserci abbondanti possibilità di ghermire altre teste di cometa.
Saul si fermò nel punto in cui la siepe che fungeva da guardrail si apriva dando accesso al bordo ricurvo della ruota. Stava ancora pensando alle immagini che Virginia gli aveva mostrato, soltanto pochi minuti prima, nella piccola radura sotto la sua casa da tè… una simulazione di quei giorni, così lontani nel tempo, quando gli uomini e i mech di Halley avrebbero sgomitato la loro stanca, vecchia casa depauperata, scivolando accanto a nuovi, intatti frammenti di ghiaccio nella grande tenebra. Forse ne avrebbero catturati due, tre, o anche di più, per poi separarsi e andare di nuovo alla deriva sulle loro nuove colonie.
E da lì? La simulazione di Virginia non prevedeva limiti. La nube di Oort era immensa, e gli esseri umani erano notoriamente dei colonizzatori.
E la nube di Oort del nostro Sole sfiora gli sciami cometari di altre stelle…
L'immagine che Virginia gli aveva presentato lasciava sgomenti. Lei ragiona già in termini di eoni… mi ci vorrà molto di più per riuscire a pensare in quel suo modo. Il mio stile d'immortalità è diverso. Conserva il senso del Tempo non come se si trattasse di un amico.
Passò accanto a Lani Nguyen-Osborn, seduta su una panchina del parco sotto un acero nano, accudendo al suo figlioletto. La sua bambina più anziana, la piccola Angelique, giocava fra l'erba lì accanto.
Lani sorrise e lo salutò con un cenno della mano. Saul ebbe un largo sogghigno. Avevano parlato soltanto un'ora prima, quand'era andato a trovare Virginia. Era invitato a cena dalla famiglia di Carl più tardi, quella sera. Nel frattempo, c'era ancora del lavoro che lo aspettava.
La panoramica di una città sulla Terra si dissolse quando la sua sezione della ruota si avvicinò al livello del suolo. Attraversò l'interruzione nella siepe di confine e s'immerse nella microgravità delle caverne di Halley, lasciandosi andare alla deriva dentro il soffice strato di sabbia dell'argine frenante. Una nube di particelle si sollevò, quando atterrò, per poi riadagiarsi lentamente al suolo.
Si lanciò verso l'uscita che conduceva al suo laboratorio. La camera d'equilibrio a sfintere, semivivente, lo fece passare attraverso le gallerie con un morbido, umido sospiro.
La ricognizione del patrimonio genetico era stata una notizia molto buona, anche se gli aveva ricordato che né lui, né Virginia vi avrebbero mai contribuito. Tutti i suoi cloni erano sterili, e il corpo fisico di lei da tempo era diventato parte dell'ecosfera.
Forse era meglio così, se era per questo, giacché i suoi cloni sarebbero stati presenti col rinnovarsi delle generazioni. I discendenti di Carl e Lani, e di Jeffers e Marguerite avrebbero mescolato i loro geni, ordinandoli e riordinandoli fino a quando ne sarebbe emersa una nuova specie di umanità. Se anche tutti quei modelli di «Saul Lintz» avessero continuato ad avere bambini nel corso dei secoli, il progresso sarebbe naufragato in un grosso pasticcio.
Che il Cielo non voglia! Rise a quel pensiero. Molto tempo addietro era venuto a patti con l'ironia della sua situazione… l'abile disegno della sua benedizione e della sua maledizione.
Adesso, però, un altro frammento di ricerca lo teneva occupato. Qualcosa di ancora più significativo. Di più sorprendente.
All'estremità di un corridoio poco usato, Saul pronunciò una frase in codice in aramaico, e una porta si aprì con un sibilo.
Sgusciò oltre il grifone guardiano geneticamente progettato, ed entrò nel suo laboratorio privato. Aveva già infilato al suo posto il connettore neurale prima ancora che il suo corpo si fosse del tutto disteso sulla ragnatela.
Programma… Roccia del Tempo… ordinò al suo personal computer. I colori tremolarono e si stabilizzarono.
L'immagine sull'olovasca centrale era della profonda stanza segreta, giù nel cuore del dominio degli strani, dove Suleiman Ould-Harrad aveva incontrato la sua fede, a modo suo. La bara dai quattro corni, scolpita nella pietra, ruotò nell'immagine olografica.
Sulla destra, un altro schermo mostrava un campione astratto da quell'antica roccia: le simmetriche costole fossili tracciavano i contorni della creatura d'un mare impensabilmente antico.
Altri schermi s'incresparono di dati, con primi piani d'immagini al microscopio, con dettagliati profili isotopici.
Da un anno, ormai, Saul si teneva in contatto con gli specialisti della Terra. Una volta che era stato confermato l'inserimento di Halley su una traiettoria quasi iperbolica, sulla Terra l'isterismo era molto scemato. Il senso di colpa e la vergogna trasparivano da quelli che oggigiorno venivano considerati i canali dei notiziari ufficiali. Inoltre, alcuni doni che i coloni avevano trasmesso, avevano contribuito ad approfondire la sensazione che i contatti dovessero venir mantenuti fino a quando il pianeta non si fosse fuso del tutto con il turbinante rumore del Sole e ogni possibilità di conversare tra fratelli non fosse completamente cessata nel sibilo della statica.
Gli scienziati della Terra avevano lavorato a grandi linee.
Quasi cinque miliardi di anni prima, in una delle braccia gassose a spirale, ricche di polvere, che disegnavano il profilo esterno della Via Lattea come tanti sottili raggi roteanti, una giovane, massiccia stella calda aveva infuriato per tutta la sua breve vita, esplodendo nello scoppio titanico d'una supernova. Nel fare questo, aveva disseminato lo spazio vicino di nubi ardenti ricche di elementi pesanti e pesantissimi, dal carbonio all'ossigeno fino all'osmio e al plutonio, il tutto mescolato insieme mentre la gigante azzurra aveva percorso la sua breve ma gloriosa giovinezza. Esclusi idrogeno ed elio, tutti gli elementi che formavano i pianeti, e gli esseri umani, avevano avuto origine in quel modo, da grandi esplosioni di luce e calore primevi.
Questa supernova non soltanto aveva vomitato grandi turbini di materia pesante nello spazio, ma aveva anche creato immani onde d'urto, che avevano compresso la polvere e il gas interstellari, formando turbini e vortici sempre più concentrati.
Un collasso di Jeans, così chiamato dal nome d'un grande astronomo del ventesimo secolo, era stato attivato. Qua e là fra le nubi sottoposte all'urto e arricchite di metalli, dei vortici si erano condensati, appiattiti, formando nuclei ardenti… soli.
E intorno a queste nuove stelle, minuscoli frammenti si erano coagulati, dai corpi rocciosi alle minori distanze, ai grandi mondi gassosi, fino ai lontani, immensi sciami di minuscoli grumi di gas congelato…
Fino ad oggi, tutta la biochimica era stata datata a partire dalla supernova che aveva attivato la formazione del sistema solare. Mai nessuna materia che avesse avuto origine al di fuori di quell'evento era giunta in mani umane. Vale a dire… fino ad ora.
La roccia che Suleiman Ould-Harrad aveva trovato sotto il cuore di Halley non avevano nessuno dei tassi isotopici familiari agli scienziati. Proveniva da un episodio della creazione completamente diverso.
A Joao Quiverian sarebbe piaciuto pensò Saul. Piangeva la morte di quel buon cervello a causa della follia di quei lunghi anni senza speranza.
E anche a Otis Sergeov. Spero che abbiamo imparato la lezione.
I dati finali si srotolarono davanti a lui, la conferma di parecchi anni d'instancabile lavoro e d'ipotesi.
Dimostrato. La pietra proveniva da sedimenti oceanici formatisi molto tempo prima che la Terra avesse cominciato a turbinare ed a formarsi accumulando detriti cosmici. I piccoli animali di cui aveva rintracciato i fossili avevano nuotato nei mari di un mondo non molto diverso dalla Terra, con una chimica anch'essa non molto differente. Ma erano vissuti prima che il Sole fosse anche soltanto una stella ammiccante nei loro deli costellati di nubi.
Saul lesse brani del messaggio giunto dalla Terra.
I danni dovuti alle radiazioni causati ai cristalli che costituiscono la roccia indicano una grande vicinanza all'esplosione. A non più di un quarto di anno-luce di distanza dalla supernova.
Saul prese su quel frammento di pietra, che adesso stava diventando liscio a furia di essere maneggiato. Il pianeta dal quale quella pietra era arrivata doveva aver orbitato intorno a una stella più piccola la quale aveva avuto la sfortuna di trovarsi vicina alla gigante, quando questa era esplosa, riducendola a pezzi e sparpagliandola negli anelli di fumo e gas delle braccia a spirale.
C'erano osservatori, quella notte? si chiese Saul. Poderose intelligenze hanno sollevato lo sguardo sapendo ciò che stava per accadere, cercando di attuare piani frenetici, oppure rimanendo lì a guardare, tranquilli e rassegnati?
Le probabilità erano contro quest'ipotesi. Probabilmente quel pianeta aveva avuto soltanto animali e vegetazione, e la fine era arrivata in fretta, senza nessun preavviso. Ciò non rendeva l'evento meno spaventoso, meno terribile in senso biblico.
Tutte le creature native, dagli animali alle piante, alle piccole forme sulle soglie dell'intelligenza, magari… tutti erano morti proprio nel processo che, in maniera più diretta, aveva condotto all'avventura della stessa Terra.
Che universo… pensò.
Era quasi una questione secondaria, adesso, che ciò aiutasse a spiegare la presenza della vita su Halley. Dapprima quasi incredule, le menti degli scienziati della Terra avevano finito per concludere che quei piccoli frammenti della biosfera del pianeta esploso dovevano essere stati trascinati via dall'onda d'urto, per congelarsi nel freddo dello spazio. Pezzi di roccia, e perfino materia un tempo vivente, avrebbero avuto la funzione di semi ideali intorno ai quali i gas delle frange esterne del nuovo sistema solare potevano coagularsi. Halley, a quanto pareva, si era condensata intorno a un grumo dell'antico pianeta, allo stesso modo con cui le goccioline di pioggia si raccolgono intorno alle particelle di polvere alla deriva nei cieli fecondi della Terra.
Non c'era da stupirsi che le tracce diventassero sempre più ricche quanto più si scendeva in profondità all'interno della cometa. C'era già stata una matrice intorno alla quale i composti prebiotici della nebulosa presolare si erano raccolti durante quei primissimi giorni.
Saul si chiese quante altre comete si fossero formate intorno a simili semi. Non molte immaginò. Noi abbiamo soltanto avuto fortuna, suppongo rifletté ironico.
Oppure le antiche storie di disastri portati dalle comete rispondevano a verità? Era possibile che la Terra fosse stata sempre «rinfrescata» di tanto in tanto, con nuove dosi dell'antica biologia, le quali scendevano galleggiando dentro l'atmosfera tutte le volte che una cometa passava vicina? Ciò avrebbe contribuito a spiegare perché le forme di vita fossero così compatibili. La vita della Terra continuava a incorporare nuovi pezzetti e pezzettini da quel grande magazzino che era lo spazio profondo.
In un certo senso, l'antico pianeta distrutto viveva ancora. I frammenti del codice organico preantico galleggiavano dentro ognuno di loro, e specialmente nei coloni di Halley. Dopo la morte e le paure dei primi giorni, era ironico che sui tempi lunghi risultasse un beneficio, contribuendo alla diversità di cui avrebbero avuto bisogno nei secoli futuri.
Forse la gente di Halley non era più neppure «umana», non nel senso classico della parola. Non alla maniera con cui si stavano sviluppando i terrestri, preparandosi alla loro propria esplosione nella Galassia.
Loro raggiungeranno le stelle. Balzando da un puntino luminoso all'altro, soggiornando giù, dove la gravità incurva strettamente lo spazio e il Sole cuoce i mondi pesanti rocciosi.
Noi, d'altro canto, viaggeremo più lentamente. Ma noi avremo il vero universo… gli spazi in mezzo.
Ricordando la simulazione che Virginia gli aveva fatto vedere, Saul sorrise.
Percepì nel connettore neurale il lieve sfioramento d'una presenza. Stai origliando di nuovo, tesoro? proiettò.
Sì, amor mio. Tanto vale che ti abitui. Siamo insieme in questo, per un lungo periodo.
Sì. Sorrise. Giacché, quando quel corpo che indossava fosse scomparso da tempo, i suoi ricordi avrebbero cavalcato un altro clone… continuando ad amare Virginia. L'Ebreo Errante e la Signora della Macchina… sarebbero stati una risorsa per la gente, servendoli fino a quando qualcuno li avesse voluti intorno.
L'immortalità è servizio pensò.
Si strinsero l'uno all'altra nelle fredde braccia elettroniche. Ed entrambi immaginarono di sentire, debole e spettrale in distanza, una bassa risata di conferma.
Lani fece rimbalzare il bambino sulle ginocchia, provocando uno strillo di terrore e di delizia. Carl fissò raggiante quella coppia giuliva e continuò a pompare metodicamente alla sua macchina per gli esercizi. Dovevano passare metà del loro tempo nella ruota-G per mantenere i normali livelli di crescita del calcio nei bambini. Un decimo di G era pesante, ma non imponeva nessuna vera fatica.
— Vuoi visitare la zia Ginnie? — chiese Lani alla sorella più anziana del bambino, che annuì con un pollice in bocca.
Un tremolio comparve, sospeso nell'aria. Poi un'abbronzata Virginia ne uscì fuori, agitando la mano in segno di saluto. — Ciao, marameo… il surf è finito. V'interessa?
La piccola Angelique scoppiò a ridere, e il fratellino strillò di gioia. Il secondo parto di Lani era stato, secondo le parole di Saul, «noiosamente normale». Entrambi i bambini parevano metter su peso sotto gli occhi di Virginia; ne accumulavano sempre più ogni giorno e mangiavano come tempeste di fuoco.
Carl indicò con un gesto la selva verdeggiante di Stormfield Park in basso, sotto la ruota. — Pensi che riusciremo mai a infilare un lago qui dentro?
— E poi crearci sopra delle onde? — chiese Lani, in tono furbesco.
Carl annuì. — È probabile che Angelique vorrà copiare sua zia.
— Su, adesso — replicò Lani. — Ci sono pur sempre alcune cose che non possiamo realizzare, sai.
Carl sogghignò. — Vuoi scommettere?
Virginia ricordava la caduta dentro il pozzo gravitazionale di Giove. Era stato un periodo di tensione e di rimorso.
Il modo in cui aveva modellato i venti del materiale sublimato aveva inclinato l'orbita di Halley, aggiungendo velocità. La divergenza dalla loro traiettoria originaria si era ampliata costantemente a mano a mano che i lanciatori martellavano interminabilmente. In termini astronomici, si era trattato d'una deviazione di poco conto. Ma per loro era stata cruciale.
Erano arrivati alle spalle di Giove, sulla sua immensa orbita planetaria, non sul davanti. Erano sfrecciati attraverso il nevischio protonico delle colossali cinture magnetiche, avevano visto la faccia chiazzata di Io scagliare contro di loro i suoi foschi saluti vulcanici.
Passando dietro a quel mondo gigantesco, non era stata sottratta velocità ad Halley, ma al contrario ne era stata aggiunta. Invece di descrivere un arco che l'avrebbe riportata dentro la parte interna del sistema solare, la testa della cometa aveva accelerato ancora di più, schizzando verso l'esterno, lontano dal Sole. Adesso il gigante avvampante se ne stava acquattato dietro quella particella che fuggiva frettolosa. I suoi raggi e la sua attrazione diventavano ogni giorno più fievoli.
Quando si erano allontanati dall'inanellato Giove, Virginia aveva studiato con attenzione le facce dei membri dell'equipaggio che stavano osservando gli schermi. Si erano guardati l'un l'altro, rendendosi conto dell'enormità di ciò che stavano per affrontare.
Adesso, molti anni più tardi, la cupa rassegnazione di quei giorni si era stemperata. Ci sarebbero voluti parecchi secoli prima che raggiungessero il regno davvero ricco, dove i mondi di ghiaccio si ammassavano in grandi aloni simili a sciami di api. Immense distanze li separavano, ma nello spazio interstellare viaggi come quelli richiedevano poca energia.
Quelle remote palle di ghiaccio li chiamavano, fresche riserve di metalli e di sostanze volatili. Ci sarebbe stata una generazione successiva, e un'altra ancora. Meritavano quelle risorse; meritavano occasioni, speranze.
Carl, Lani, in realtà tutti loro, erano colti nella spirale della lenta diminuzione.
Saul, tuttavia, avrebbe forse potuto durare per sempre, a meno che qualche incidente non lo rivendicasse a sé. E anche se fosse morto, ci sarebbero stati i suoi cloni. Avrebbero sempre avuto un Saul.
Rabbia, frustrazione, disperazione: era arrivata a conoscerle come illuminazioni temporanee dell'anima individuale, lampi in un buio perenne. Gli esseri umani avevano un tempo di reazione che si era evoluto dalla necessità di cimentarsi, combattere, nutrirsi, fuggire. Non erano più condizionati dal lento oscillare dei mondi, più di quanto non lo fosse un'effimera dall'Impero Romano.
L'equipaggio di Halley si era abituato al proprio destino e lentamente, in maniera impercettibile, ognuno di quegli uomini e donne si era abituato a se stesso, ritraendosi nel proprio buco e nel proprio angolino umanocentrico. A Virginia piaceva affacciarsi alla loro scala temporale, osservare Angelique che cresceva a guizzi sorprendenti. A mano a mano che aumentava la fiducia nella nuova tecnica, altri erano andati ad aggiungersi al primo bambino, giocando in gallerie e pozzi virtualmente sgombri da halleyforme pericolose.
A mano a mano che Halley rallentava inerpicandosi fuori dal basso truogolo inclinato del pozzo gravitazionale del Sole, Virginia aveva distolto la sua attenzione dalla scienza, anche se continuava a raccogliere dati, a formulare teorie, a discutere con Saul e gli altri, movendosi verso questioni di portata maggiore.
Come un tempo aveva fatto Cartesio, anche lei si trovò costretta a farlo. Si chiedeva cosa avrebbe potuto dedurre dai princìpi di base. Cogito, ergo sum? Ma chi era l'Io che aveva fatto questa affermazione?
Per usare il gergo della scienza, lei era un nuovo phylum, non più un vertebrato, ma biocibernetico. Lei era un matrimonio fra l'organico e l'elettronico, con un tocco di consapevolezza sapiente. Secondo una definizione rigorosa, un phylum avrebbe dovuto emergere dall'evoluzione tramite la selezione sessuale e la speciazione dei geni. Ma una volta comparsa l'intelligenza, quel processo lungo eoni diveniva fuori moda. Un nuovo phylum poteva emergere e svilupparsi per progettazione.
La Virginia che adesso risiedeva nelle sinapsi raffreddate e nei dispiegamenti olografici non era più strettamente umana. Però aveva ancora una miriade d'impronte e difetti, sfaccettature e pecche umane. Non poteva ignorare le contrarietà di Saul e Carl e Jeffers e Lani più di quanto non poteva dimenticare la propria giovinezza e il rude affetto di suo padre.
Eppure era di più. La gioia che provavano Carl e Lani le faceva sentire un'occasionale fitta di dolore; e la malinconica nostalgia di Saul per il suo corpo fisico era un'autentica afflizione. Ma malgrado capisse e sentisse tutto questo, arrivava a vederlo come una sottosezione dei problemi molto più grandi che adesso si trovava ad affrontare. Quella gente fragile era legata al vero scorrere della vita che le leggi della selezione naturale avevano decretato, la loro morte era scritta nelle loro ossa. Perfino Saul, il suo compagno nell'immortalità, cavalcava la marea ormonica. Essi sentivano profondamente i problemi inerenti alla morte e vi riflettevano sopra.
Nella nube di Oort orbitavano sotto lo splendore delle stelle fisse un trilione di nuclei cometari, più territorio di quanto ne fosse mai stato promesso ad una qualsiasi banda di straccioni erranti. I coloni avrebbero avuto Carl come il loro Giosué, un'ironia che indubbiamente era già venuta in mente a Saul, e sarebbe stato lui a condurli innanzi.
Ma anche se Virginia li avesse aiutati a badare ai loro bisogni meglio che poteva, essa aveva anche il proprio unico destino come la prima d'una nuova specie.
Se lei rappresentava un nuovo phylum, la prima legge doveva essere la sopravvivenza. Era per questo che adesso considerava l'attacco dalla Terra come un risultato fortunato e non voluto della stupidità dell'umanità. La Terra avrebbe potuto averla, avrebbe potuto vincere le proprie paure e accogliere il nuovo phylum. Ma adesso lei era imbarcata su un nuovo corso, un corso che alla fine sarebbe andato a suo vantaggio.
Aveva bisogno di tempo per pensare. Per esplorare.
La vecchia specie dell'Homo Sapiens sulla Terra si sarebbe inevitabilmente diffusa, prima dentro il sistema solare, poi forse oltre. Avevano già mostrato la loro ostilità alle stranezze racchiuse nei mondi di ghiaccio. Ci sarebbero voluti secoli prima che i loro timori si acquietassero.
Virginia sapeva, anche se il suo bagaglio umano non lo sapeva, che non ci sarebbe mai stato un ritorno al regno del Caldo. Le società umane, una volta sviluppatesi in maniera separata, possono assai di rado incontrarsi di nuovo in termini amichevoli e su un piano di parità. Assai peggio, per due distinti phylum.
La mente, quell'oceano in cui ogni razza trova subito la propria rassomiglianza; eppure crea, trascendendo questo, lontana, su altri mondi, su altri mari.
Aveva tempo per la poesia, per interminabili bizantini sentieri di contemplazione. Le pareva perfino d'intravedere il modo in cui tutto avrebbe dovuto essere, quando avessero raggiunto la grande nube di mondi che li attendeva là fuori.
Adesso, le specie umane avrebbero avuto un destino diviso, fili che avrebbero dovuto progredire un po' lungo percorsi separati. Ci sarebbero stati meno dolori, se si fossero tenuti in disparte.
Valutò la probabile evoluzione della nuova specie dell'Uomo di Carl Osborn, e del proprio phylum, e rimase soddisfatta. La riproduzione, l'adattamento, quei problemi erano immensi, ma lei si sentiva all'altezza della situazione.
E in quanto all'Umanità Planetaria… Stando ai suoi calcoli, il nuovo phylum e la vecchia specie non si sarebbero più incontrati per quattromila anni. Bene. C'era tempo in abbondanza per pensarci.