Vivi solo due volte:
una volta quando nasci,
l'altra quando guardi la morte in faccia.
OPZIONI
1. Giove sulla tappa verso l'interno (preperlello — 284 m/sec)
2. Marte sulla tappa verso l'interno (preperlello — 59 m/sec)
3. Venere sulla tappa verso l'esterno (postperlello 44 m/sec)
4. Terra sulla tappa verso l'esterno (postperlello 63 m/sec)
5. Giove sulla tappa verso l'esterno (poitperlello 536 m/sec)
Esistenza. Vita. Coscienza.
Quelle parole venivano spesso usate come sinonimi, ma lui sapeva che in realtà erano tre cose molto diverse. Tre stadi della creazione.
Il proverbiale albero che cadde in una foresta deserta, produsse un suono?
Era possibile che quella domanda fosse stata fatta addirittura prima che tutti e tre gli stadi si verificassero.
Si supponeva che l'esistenza fosse cominciata quasi ventimila milioni di anni prima, in un flusso caldo di quark e di leptoni, quando il tempo stesso turbinava, come se fosse stato bendato, cercando d'infilzare qualcosa che lì al momento battezzò il futuro. L'universo, per un caso fortuito, avrebbe potuto assumere una miriade di altre forme, grazie a piccole variazioni nel caso e nelle dimensioni. Se anche una soltanto delle costanti fisiche fondamentali fosse stata alterata d'una piccola frazione del suo valore, la vita non avrebbe mai fatto eruzione dalla chimica catalizzata dell'argilla, a molto miliardi di arbitrari intervalli più tardi.
Ma la Vita era spuntata… autoorganizzandosi, autoreplicandosi, organizzandosi con se stessa e altro. La Vita aveva avuto una tendenza sin dall'inizio di alterare il suo ambiente e i suoi dintorni.
Ma quella non era stata la fine. Era arrivata, poi, la terza creazione. Era arrivata la consapevolezza…
I gibboni nani volavano lungo la galleria davanti a Saul, strillando fra loro e dondolandosi agilmente dai cavi fissati al ghiaccio coperto di muschio. Giunti a un incrocio, girarono su se stessi e guardarono Saul, con i grandi occhi castani che ammiccavano interrogativi.
— Pazienza, bambini — disse loro Saul. — Lasciate che papà legga i cartelli delle gallerie. Dovremmo incontrare Ginnie alla Caverna della Pietra Azzurra.
Le due piccole scimmie rimasero appese lì accanto mentre Saul nuotava fino al punto d'incontro di due corridoi. Una densa lanugine verde ricopriva il vecchio pozzo e di codici d'identificazione della galleria, ma sotto quei segni obliterati c'erano delle profonde incisioni, che esponevano un conglomerato scuro, scintillante, gelato, dipinto con una sostanza velenosa per le halleyforme.
Una freccia puntava a destra, trafiggendo una grande S.
La S stava per «Sopravvissuti».
— Sì, la strada è questa. — Si risistemò lo zaino sulle spalle. — Su, Max. Su, Sylvia.
I due minigibboni atterrarono sulle sue spalle. Saul si spinse via, seguendo il bagliore fosforescente di lichenoidi.
Due anni pensò. Sono passati due anni da quando, tutt'a un tratto, l'universo è parso smetterla di prendersela con noi. Da quando si è invertita la litania delle cattive notizie.
Mi chiedo quanto ancora possa durare questo buon mercato.
Tutti parevano dar credito al suo siero e ai miracolosi mech di Virginia, per il ribaltarsi delle fortuna della colonia. Ma Saul sapeva che prima di allora quella parte del problema era imputabile alla pura e semplice solitudine.
Le cose non erano state più le stesse da quel pomeriggio nel laboratorio di Virginia, quando i blocchi mnemonici causati dalla malattia di JonVon erano crollati, e avevano scoperto che, malgrado tutto, non erano stati dimenticati.
Non c'erano più stati messaggi dai loro segreti benefattori. Ma questo non aveva importanza. Cosa ancora più importante delle informazioni tecniche che avevano ricevuto, era il modo in cui il loro morale era uscito galvanizzato dalla consapevolezza che qualcuno, a casa, si preoccupava ancora per loro.
Perfino i funzionari sulla Terra parevano essersi inteneriti. Nella colonia era tutto un parlare del «Pacco Assistenziale» che si stava avvicinando all'appuntamento con Halley, seguito ad alta velocità da un Controllo Terrestre in apparenza tormentato da sensi di colpa per le passate negligenze.
Non c'è da stupirsi che le squadre di Jeffers riescano a realizzare tante cose, giù al polo Sud. Virginia ha calcolato che saranno effettivamente pronti per la sgomitata questo stesso mese.
Sempre che questa pace fra clan duri, s'intende…
Davanti a loro, il corridoio si stava illuminando. Max e Sylvie schizzarono via dalla sua schiena balzando lungo un cavo alla parete, precipitandosi verso una vociferante accoglienza.
— Chi è, Hokulele? Chi sta arrivando? — chiese una voce profonda da dietro un arco di pietra. — Oh, sta zitta, sciocca di una scimmia, non vedi che sono Max e Sylvie? Entri pure, dottor Lintz!
Il sorriso di Keoki Anuenue era ampio e la sua stretta robusta quando tirò su Saul dentro un'ampia cavità che pareva per metà un palazzo di ghiaccio, e per l'altra metà il laboratorio d'uno scienziato pazzo. Delle fenditure dall'apparenza imboccature di caverne si dipartivano in tutte le direzioni, bordate da scintillanti strutture di cristallo indurito. In alcune di queste cavità si poteva scorgere della gente in movimento, individui intenti a diverse attività. Qualcuno si fermò un attimo a salutare Saul con un cenno della mano.
Al centro della cavità maggiore, sporgeva un grande macigno fatto di un qualche tipo di agglomerato metallico bluastro, una strana formazione che aveva dato il nome al gruppo che viveva là.
Dovunque si stendeva il morbido verdeggiare della lussureggiante vita vegetale. Qui, la distesa simile a un prato di qualcosa che ricordava il trifoglio, per l'appunto denominato Trifolium halleyense; là un ciuffo di calendule mutate, che crescevano da quella terra notturna con forme affusolate che non sarebbero mai state possibili sul mondo natio.
— È splendido rivederla, dottore — dichiarò Anuenue. — La mia gente è sempre contenta quando lei ci fa visita.
Saul aveva rinunciato a convincere Keoki a chiamarlo Saul, come faceva chiunque altro. Il fatto che l'hawaiano grande e grosso fosse adesso più vecchio di lui (i suoi capelli un tempo neri come il giaietto erano diventati color d'argento e i suoi occhi erano circondati dalle rughe del sorriso profondamente incise) non pareva aver nessun peso per lui.
— Ciao, Keoki. Hai un ottimo aspetto.
— Come non potrei non averlo? Non sono mai stato davvero malato, come molti altri, ma quelle sue cure mi fanno sentire capace di cavalcare un'ondo su fino a Molokai!
La sua risata era contagiosa. Saul sollevò una mano e accarezzò la piccola scimmia cappuccina appollaiata sulla spalla del suo amico. L'animale si nascose dietro la testa di Anuenue e fissò sospettosamente i gibboni. — E come sta Hokulele? Ha ancora molto appetito?
Keoki rise. — Sono settimane che non si vede un solo purpureo da nessuna parte vicino alla Caverna della Roccia Azzurra. Oggi come oggi deve vivere dei resti dei pasti, ed è qualcosa che odia!
— Già — sorrise Saul. — Sono sicuro che la maternità la terrà parecchio occupata.
— È riuscito a capirlo? — Anuenue sollevò la piccola scimmia. — Ua huna au ia mea… non ero sicuro di doverglielo dire, dottore, poiché lei voleva che facessimo attenzione prima di permettere che una qualunque specie della Terra diventasse indipendente dalle sue camere di clonazione. Ma Virgil Simms è venuto a trovarci dalla Centrale e ha portato con sé il suo maschio…
Saul agitò una mano. — Non ha importanza. È ovvio che le cappuccine modificate sono un successo. Dovremmo vedere se possono davvero generare.
I dati arrivati dalla Terra erano stati la chiave, giacché malgrado la scienza fosse ancora una cosa piatta e monotona laggiù a casa, alcuni progressi non si erano potuti evitare. Saul non sarebbe mai stato in grado di sviluppare lui stesso le macchine per la clonazione, anche utilizzando porzioni cannibalizzate da una dozzina di colombari. Ma attuando dei progetti liberati dalla memoria disintasata di JonVon, era stato in grado di costruire congegni stupefacenti.
Servendosi di campioni prelevati dal loro «zoo» ancora congelato, di animali da esperimento, oggi era in grado di far crescere a forza una scimmietta o uno scimpanzè da una singola cellula «esplosa» fino a un feto e a un adulto nel giro di un mese. Un mese.
Francamente, tutto questo andava al di là della sua comprensione come biologo. Saul era lieto che metà della procedura potesse venir diretta da JonVon, senza che lui fosse costretto a capirla. Poteva rivolgere la maggior parte della sua attenzione alla modifica dei geni originari, un'arte per la quale la sua specializzazione non era obsoleta, dando ad essi un'eredità artificiale perché potessero prosperare nel suo ecosistema, che si stava creando lì su Halley.
Anuenue stava scambiando smorfie scimmiesche con Max e Sylvie, e questo rendeva Hokulele follemente gelosa.
— Non riesco ancora a capire come mai lei abbia scelto dei gibboni come cani da guardia, dottore. Senza coda prensile sono impacciati quasi quanto gli uomini.
— Ho la debolezza innata nei confronti delle scimmie senza coda — cominciò la sua spiegazione Saul. — Hanno le loro…
— Saul! — gridarono all'unìsono due voci femminili. Saul si girò di scatto di lato e vide una giovane donna che indossava una tuta di fibratessuto rozzamente cucita che si lasciava cader giù da un pozzo per atterrare giusto sulla grande roccia azzurra. Una macchina affusolata cadde dietro di lei, e la giovane donna l'afferrò con destrezza, deponendola delicatamente sul pavimento. Il mech ronzante, simile ad un ragno, precedette Lani Nguyen con un rumore frullante, arrivando per primo a Saul.
— Ciao, Saulie! — esclamò la macchina con la voce di Virginia, ma con un registro leggermente più acuto, e una modulazione semplificata. Era facile capire che Virginia non era «presente», che non stava operando di persona quel particolare mech, e Saul rimase un pochino deluso.
— Ciao, piccola Ginnie — rispose, rivolto a quella macchina costruita nella colonia, e che di macchina aveva assai poco, mentre essa allungava un braccio e gli accarezzava la gamba. Quel congegno era un altro ibrido fra la ricerca svolta sulla Terra e quella più casalinga: una mescolanza di nuovi progetti trasmessi dai loro segreti benefattori, l'eccellenza meccanica di Jeffers e D'Amerie, e l'ipermoderno approccio di Virginia alla programmazione basata sulla personalità.
— Ti amo, Saul — disse quella morbida voce simile a quella di una fanciullina. Quella piccola personalità artificiale era una replica riveduta di quella di Virginia. Talvolta, come in quel momento, era fonte d'imbarazzo. Keoki tossì, sorridendo dietro la mano che aveva alzato per coprirsi la bocca.
Saul si sentì particolarmente scoraggiato, giacché, al momento, Virginia era furiosa con lui. E non posso neanche veramente biasimarla pensò.
— Ciao, Lani — disse alla giovane donna che seguiva il piccolo robot. Lei si affrettò a stringerlo in un caldo abbraccio.
— Hai un aspetto splendido — lui le rispose, tenendola staccata da sé alla distanza di un braccio.
Lani arrossì, voltandosi leggermente di fianco per nascondere le cicatrici che le aveva lasciato il vaiolo fulminante sulla guancia un tempo liscia come il velluto.
— Sei un splendido bugiardo, Saul. Quasi quanto lo sei come medico.
Ma per lui, Lani aveva davvero un aspetto splendido, giacché ricordava fin troppo bene quando Lani Nguyen era stata colombarizzata. A quell'epoca, gli era parso inutile, come colombarizzare un cadavere. Adesso, il pallore del sonno profondo aveva quasi lasciato del tutto il suo viso, e le palpebre azzurre non facevano che accentuare ancora di più i suoi lineamenti per metà orientali, rendendoli ancora più passionali e misteriosi.
Virginia non avrebbe mai dovuto parlarmi del nascondiglio segreto di Lani Nguyen, di sperma e ovuli umani. Sono stato quasi sul punto d'interrogarla in proposito parecchie volte da quando è stata decolombarizzata… per scoprire dov'è nascosto.
Ah, ma se avessi quel plasma fra le mani, potrei essere troppo tentato…
— Quando potrò tornare in servizio, Saul? Voglio unirmi alle squadre che stanno montando gli sgomitopropulsori, prima che tutto il lavoro importante sia concluso.
Spaziale fino all'ultimo si disse Saul. — Anche se la sgomitata dovesse cominciare tra un mese o giù di lì, Lani, dovrà procedere per anni, con un gran numero di propulsori ancora da costruire. Farai il tuo turno, non preoccuparti. Adesso, però, il tuo lavoro consiste nel riposare, aggiornarti.
Lani annuì, la piccola scimmia cappuccina si trasferì dalla spalla di Keoki alla sua, e lei la grattò.
— Cercherò di aver pazienza, Saul. Comunque devo ringraziarti per avermi assegnato al Clan della Roccia Azzurra per il mio recupero. Sono stata in qualcuno degli altri gruppi per visitare alcune persone… — Sbatté le palpebre al ricordo. — Saul, com'è possibile che della gente, dei professionisti, con lauree, si comportino in maniera così… così… — annaspò per trovare la parola giusta.
— Così meshuggenuh? — lui le suggerì.
Lani scoppiò a ridere, con la limpidezza d'una campana. — Già. Così meshuggenuh?
Anuenue le mise un braccio intorno alle spalle. — Siamo stati molto contenti di avere Lani con noi. Qualunque clan della fazione dei Sopravvissuti l'accoglierebbe con gioia come membro permanente.
Lani ammiccò più volte. — Io… immagino che dovrò sceglierne uno, non è vero? Non sono ancora abituata a pensare in questo modo.
Neanche a Saul la cosa piaceva. Aveva sperato che il fazionalismo degli ultimi trent'anni finisse per sbriciolarsi, a mano a mano che un numero sempre maggiore dei colombarizzati dei primissimi anni venivano curati con il suo siero e tirati fuori. A mano a mano che la popolazione della cometa cresceva, una maggioranza sarebbe stata costituita da coloro che ricordava la Terra da una minor distanza di tempo, con i ricordi ancora freschi del commovente discorso del capitano Cruz tenuto dall'impalcatura della Sekanina, e delle speranze che tutti avevano condiviso.
Ma non aveva affatto funzionato così. I nuovi rianimati, disorientati, deboli e spaventati, si trovavano in un mondo molto diverso dalla colonia di Halley che ricordavano… così simile a quel tranquillo insediamento alla Base Lunare 1. Finivano molto presto per gravitare intorno a quei gruppi in cui si sentivano maggiormente a proprio agio, ne adottavano l'ideologia, e diventavano membri del clan.
Saul non disse a Lani che pareva ci fossero tre persone immuni da quel modello, per differenti ragioni, lui, Virginia e Carl Osborn erano tutti e tre isolati, rispettati, forse, ma in nessun luogo a proprio agio.
Lani scrollò le spalle: — Be', io non andrò certamente a unirmi a Quiverian e ai suoi ortho estremisti…
— Archisti — la corresse Keoki, come un paziente insegnante di lingue che la stesse istruendo sul corretto uso d'un lessico.
— Già, archisti — ripeté lei. — E quando ho ottenuto un lasciapassare per muovermi nei corridoi e ho cercato di far visita ad alcuni dei miei amici percell nel territorio degli Uber, Sergeov mi ha detto di togliere di lì il mio piccolo culo di ortho! E i ragazzi di Marte non sono molto più simpatici, anche se un tempo Andy Carol ed io eravamo amici.
«Così, che razza di scelta mi rimane? Quelli dell'Altopiano Tre al livello B sono un misto di ortho e di percell, gli API, hanno quel luccichio negli occhi, tu sai cosa voglio dire, Saul? Non sono più spaziali ormai, ma missionari! Pare che non gliene importi più di vivere o morire, fintanto che il trilione o giù di lì di tonnellate di ghiaccio di Halley verrà consegnato al destinatario, secondo il progetto del capitano Cruz.
Saul sorrise. — Mi pare che tu abbia trovato una casa proprio qui, Lani.
— Proprio così — dichiarò Keoki. — Basterà che tu ce lo faccia sapere. Dipingeremo una nuova cotta per te, e terremo una cerimonia.
Lani annuì, ma si morse brevemente le labbra. — Io ve… ve lo farò sapere, non appena avrò avuto la possibilità di parlare con Carl.
Abbassò gli occhi, sapendo quanto doveva sembrare trasparente, ma per nulla vergognosa davanti ai suoi due amici. C'era ben poco d'altro da dire.
— Vedrò di farti avere presto un lavoro leggero su in cima — le assicurò Saul. Lani annuì, gli occhi pieni di gratitudine.
La scimmietta cappuccina pigolò, i gibboni neri, Max e Sylvie, si voltarono di scatto e guardarono dietro di sé lungo il corridoio, col pelo irto.
Keoki sbirciò nella stessa direzione, portando la mano al coltello che aveva alla cintura. — Sta arrivando qualcuno.
Uomini e donne cominciarono ad emergere dai laboratori e dalle caverne-dormitorio, stringendo nervosamente delle sbarre fatte di ferro meteorico. Un paio di loro afferrarono la pesante porta stagna e cominciarono a chiuderla. Poi si udì un fischio acuto: due sibili crescenti e un trillo, ripetuti due volte.
Keoki si rilassò, ma solo un po'. — Il richiamo, secondo il trattato — spiegò. — E wehe i ka puka — disse rivolto agli uomini, e questi smisero di spingere. La porta rimase semiaperta. Una luce comparve in fondo al corridoio, e due piccole figure brune si fermarono con una ruzzolata a soli sei metri dall'ingresso, con le lingue penzolanti da bocche sottili orlate di denti aguzzi come aghi.
Non avrei mai dovuto permettere a Quiverian di convincermi a concedergli delle lontre pensò Saul, guardando quelle agili creature. Sono, semplicemente, troppo pericolose.
Ma se avesse respinto la richiesta del capo degli archisti, Saul avrebbe potuto perdere la condizione di neutralità che aveva cercato di conservare con tanta cura. Era stato difficile fare aa intermediario, negoziare un trattato in modo da far sì che gli emigranti andati al polo Sud collaborassero ancora con le squadre di Carl Osborn. Le lontre erano state soltanto un altro prezzo da pagare.
Con sua viva sorpresa, però, la figura che emerse dietro i sogghignanti animali non era quella di Joao Quiverian, e neppure quella di uno dei principali assistenti del capo degli archisti. I capelli bianchi scarmigliati e la barba fluttuavano come un'aureola intorno ad un volto bruno scuro come le ricche vene carbonacee che rivestivano le pareti di ghiaccio.
— … Kela ao — alitò Anuenue, pieno di stupore. — È Ould-Harrad.
Quegli occhi intensi, castani, adesso erano circondati da profonde increspature. L'ex ufficiale degli spaziali indossava una veste marrone sbattente fatta di fibratessuto recuperato, che lo faceva sembrare ancora di più un antico patriarca. Fece un gesto con una mano.
— Saul Lintz.
Lani strinse il braccio di Saul, e Keoki Anuenue si mosse per fermarlo, ma Saul fece loro cenno di farsi da parte. — Tenete indietro Max e Sylvie — disse, e si spinse fuori nel corridoio.
Le lontre si erano aggrappate alla veste di Ould-Harrad, gratificando Saul di sguardi ferali. Saul non si sentiva particolarmente al sicuro, anche se era stato il loro «creatore», in un certo senso. In condizioni di quasi totale mancanza di gravità, quelle creature erano bestie temibili.
Se Joao Quiverian era il capo degli archisti estremisti, Ould-Harrad era la loro guida spirituale, il loro sacerdote. La fiamma del suo complesso di colpa pareva pungolarlo più di chiunque altro qui, su quell'antica particella di stella.
Mentre si avvicinava, Saul non si sentì molto garantito nella sua sicurezza, giacché, malgrado la fazione degli archisti sembrasse accettare la sua neutralità, quell'uomo rappresentava una forza a sé.
— Colonnello Ould-Harrad. — Saul annuì, fermandosi a tre metri da lui, lasciando che i suoi piedi si adagiassero lentamente sul pavimento, con le dita dei piedi che stringevano il morbido e ibrido rivestimento verde.
— Non chiamarmi così — intonò l'africano, sollevando una mano. — Non sono un ufficiale, né uno spaziale, né un terrestre, non più.
Saul sbatté le palpebre. L'ultima volta che aveva visto Ould-Harrad era stato durante il Grande Esodo, con la bianca cotta della sua tuta spaziale che recava al centro un'esplosione stellare, mentre guidava gli esuli archisti durante il loro viaggio, e Quiverian e la sua banda coprivano la retroguardia. Durante la breve visita che Saul aveva fatto successivamente agli antipodi, le loro strade non si erano mai incrociate. Comunque, ricordava ciò che Ould-Harrad aveva detto, tanto tempo addietro, nel suo laboratorio a bordo della Edmund:
— Colui che Allah sceglie di toccare, reca i solchi delle impronte di quelle dita, per sempre…
— Molto bene, Suleiman — annuì Saul. — Vedo che le lontre se la cavano bene.
Ould-Harrad abbassò lo sguardo sulle due creature. La sua mano accarezzò delicatamente la loro lucida pelliccia, geneticamente adattata per vivere in quei corridoi ghiacciati invece che nella schiuma salata del mare.
— Ancora una volta hai dimostrato come mi sbagliassi su di te, Saul Lintz, giacché il ruolo che hai avuto nel generare queste creature non può essere stato malvagio.
Saul non poté farne a meno: sentì un'ondata di sollievo alle parole di Ould-Harrad, come se fosse proprio quella la cosa che l'aveva preoccupato, e quell'uomo avesse realmente il potere di assolverlo. È molto in gamba con questo shtick della profezia commentò dentro di sé.
— Joao te le ha prestate per questo tuo viaggio a nord?
Gli occhi di Ould-Harrad parvero lampeggiare.
— Non sono più sue, da prestare. Questa è una delle ragione per le quali ti ho cercato. Per dirti che ci sono soltanto tre scimmie, giù agli antipodi del sud, per stanare i purpurei e proteggere la gente mentre dorme. Devi sostituire queste lontre.
— Oh? Dove le stai portando?
— Meriti di saperlo. — Ould-Harrad fece una pausa, con un'espressione remota nello sguardo. — Per anni sono uscito in superficie a meditare sotto le stelle, come hanno fatto i mistici da tempo immemorabile, pregando e sperando in un segno. Ho scoperto che hanno un effetto ipnotico, quelle luci sfavillanti nelle tenebre. Dopo lungo tempo mi è parso… in verità ho cominciato a sentire la voce di Dio.
«Ma non poteva essere.
— Perché no? — chiese Saul, incuriosito.
La voce di Ould-Harrad era colma di dolore. — Perché tutto quello che giungeva a me erano risate.
Saul seppe che questa era qualcosa di più d'una pura pazzia. Poteva quasi sentire l'intensità del tormento nell'anima di quell'uomo. — Credo di capire — replicò con calma. Non aggiunse che non vedeva niente di assurdo in quell'esperienza. Chi ha detto che il Creatore debba essere sobrio? L'universo è stato creato per ridere, altrimenti dobbiamo piangere. Ould-Harrad annuì. Per un lungo istante non ci furono parole. Poi l'africano sollevò di nuovo gli occhi.
— E c'è un'altra cosa.
— Quale?
— Io… io non posso più essere complice delle macchinazioni di Quiverian e del suo equipaggio di banditi, loro…
— Gli archisti?
— Sì. — La barba fluttuò quando Ould-Harrad scosse la testa. La sua voce era appena udibile. — Le guerre che ci siamo portati dietro dalla Terra sono come la nebbia in estate, che si dissiperà e verrà dimenticata con l'imminente inverno. Ho finito per rendermi conto che le discussioni sul dove puntare questa grande lacrima ghiacciata sono completamente fuori centro…
— Dove andrai, allora?
Lo sguardo di Ould-Harrad si abbassò per un attimo sul pavimento. — Devo scendere giù… nel ghiaccio. Più in basso ancora di dove sia arrivato chiunque altro, salvo Ingersoll, il quale adesso viene chiamato il Vecchio Uomo delle Caverne, e quelle povere creature che l'hanno seguito. Vivrò di ciò che cresce lungo lo stesso cammino che essi percorrono. Provvederò ai loro bisogni spirituali, se li troverò ancora in vita. E rifletterò.
Saul annuì. Era ovvio che nell'ambito della visione del mondo di Ould-Harrad un eremitaggio aveva senso. Non fece nessuno sforzo per dissuaderlo. — Ti auguro fortuna. E saggezza.
Ould-Harrad annui. Abbassò lo sguardo sui suoi animali. — Comincio a comprendere un aspetto, almeno… questa cosa che predichi, questa simbiosi. A tutta prima non l'avevo capito, ma adesso…
Fece una pausa. — La tua opera non è uno strumento del male, Saul Lintz. E per questa ragione ti avverto: guardati da Quiverian. Sta macchinando qualcosa. Io lo so. Desidera in particolare far del male a te. E a Carl Osborn.
Saul non seppe cosa rispondere. — Sarò cauto.
— Cautela o non cautela… — Ould-Harrad scrollò le spalle. — Fare o non fare. Alla fine tutto avverrà secondo la volontà di Dio. Siamo impotenti a resistere.
Le lontre parvero percepire qualcosa, prima che Ould-Harrad si muovesse. Balzarono avanti e guizzarono via lungo il corridoio in penombra. Il mauritano si girò rigidamente e si allontanò.
Dà l'impressione di camminare, come sulla Luna o sulla Terra pensò Saul, guardando l'uomo che si allontanava. Mi chiedo quale sia la sua tecnica.
Girò su se stesso e tornò indietro, planando, verso la Caverna della Roccia Azzurra, riflettendo sugli effetti della sua gravità personale.
La tenebra pareva un peso solido, una mano enorme stretta intorno al ghiaccio grigio, crivellato. Erano mesi che Carl non saliva in alto, sopra la superficie, e l'arida desolazione del paesaggio lo colpì in pieno, riportando di colpo alla sua memoria i ricordi dei suoi anni trascorsi quando il vuoto silenzioso significava libertà, e agili movimenti, d'una grazia spontanea.
Le stelle luccicavano: i loro minuscoli fari traboccanti di rosa, azzurro mare e giallo incandescente brillavano come costanti promesse di un'altra vita, un regno colmo di vibranti sfumature, un luogo posto al di là di quella squallida pianura che il lento planare ellittico dell'orbita aveva svuotato d'ogni colore.
Adesso l'invadente oscurità significava che non c'era nulla fra quella distesa gelata e le stelle ammiccanti, nessun pianeta turbinante di nubi e di lampi, non era visibile neppure un asteroide vagabondo.
Adesso stavano viaggiando molto al di sotto del piano dell'eclittica, dieci volte più lontani dal disco dei pianeti di quanto lo fosse la Terra stessa dal Sole. Il sistema solare esterno era vasto al di là di ogni immaginazione. Carl guardò verso sud: virtualmente tutto il sistema solare era alle sue spalle. La debole radiosità del Sole, un millesimo di quella che riscaldava la Terra, non riusciva a suscitare i colori pieni che contrassegnavano il ghiaccio. Dovunque le pozze d'ombra inghiottivano i particolari; la maggior parte di Halley era un regno d'inchiostro.
— Cauto, adesso — gli trasmise Jeffers.
— Bene — rispose Carl automaticamente, la sua fantasticheria s'interruppe. Propulso dai getti verso il basso, atterrò vicino al suo amico. Insieme, avanzarono planando in direzione sud. Di solito, avrebbero cercato il cavo polare e avrebbero usato i jet, arrivando al polo Sud nel giro di pochi minuti. Ma quelli non erano tempi normali.
Aggirarono la collinetta di ghiaccio spruzzato d'arancione. Dei fusti vuoti erano ormeggiati con cavi sottili come ragnatele al coacervo dei rifiuti congelati, spazzatura rimasta a causa di qualche processo ormai vecchio di decenni e dimenticato. Jeffers sgusciò da un fusto all'altro, facendo attenzione a non esporsi sul lato rivolto a sud. Carl lo seguì. Ci voleva uno sforzo per rimanere sul ghiaccio, affondando con cautela le dita-tenaglia ad ogni lungo passo. Soffocò l'impulso a saltare, volare sopra quel paesaggio screziato.
Spirito spensierato pensò. Ecco cos'ero un tempo. Sfrecciavo qua e là tutto brio e vivacità. Carl Osborn, lo scavezzacollo dello spazio. Ma adesso… non ha più lo stesso sapore.
Jeffers gli fece segno, e si lanciarono attraverso una distesa di materiale di scarto sparpagliato, correndo quasi orizzontalmente con lunghi passi plananti, gli stivali che trovavano modo di far leva sulle sporgenze e i bitorzoli di ghiaccio. Arrivarono al riparo d'un modulo chimico, un cilindro macchiato da lungo tempo prosciugato e arido.
— A quest'ora dovrebbero essere in grado di vederci. Io…
— Sst! Così vicino, possono captare perfino le comunicazioni a circuito chiuso.
Carl si chinò per mettersi al riparo, sentendosi leggermente ridicolo. Guardò oltre il bordo curvo del cilindro, cercando di vedere quello che poteva. Sì, decisamente c'erano nuove strutture vicino all'orlo dei pozzi dello sgomitatore. Parevano qualcosa d'improvvisato, messe insieme con vecchi bidoni e montanti. Riusciva quasi a vedere lo stesso polo Sud. Nettuno era sospeso appena sopra l'orizzonte, un debole puntino verde.
Ad alto ingrandimento, le fasce equatoriali di Nettuno formavano cerchi concentrici bruni, assomigliando nel complesso a un bersaglio.
Alcuni Uber volevano ancora attivare lo sgomitatore per fare di Halley un satellite di Nettuno. Avrebbero potuto raccogliere dei gas dalla sua alta atmosfera, e insediarsi sulla luna più grande. Carl si chiese oziosamente che effetto gli avrebbe fatto trascorrere i suoi giorni con un sonnacchioso gigante verde che riempiva il cielo. Non molto simile alla California, no. Forse avrei dovuto lavorare nelle assicurazioni. Ma sperava ancora di rivedere gli azzurri della Terra, i rossi e i porpora autunnali…
— Vi vediamo. — Una voce giovane, sul chi vive. Carl sbirciò oltre l'orlo, ma non riuscì a vedere nessuno davanti a lui.
— Sono Carl Osborn. Sono venuto a parlare.
— Non abbiamo niente di cui parlare. Jeffers ti ha detto qual è la nostra politica —. La voce era tesa ma decisa.
— Chi è che sta parlando? — chiese a bassa voce Carl, mettendo il proprio casco in contatto con quello di Jeffers.
— Si chiama Rostok. Saul lo ha rianimato dieci, undici mesi fa. Adesso è il numero due di Quiverian quaggiù.
— Su cosa lavora?
Jeffers fece una smorfia. — Al montaggio degli assemblaggi elettromagnetici.
— Oh, splendido. — Un ingegnere della sgomitatura. Proprio uno di quelli doveva mettersi a dare i numeri.
— Se vi avvicinate ancora non saremo più responsabili di quello che accadrà.
— Non responsabili? Che razza di merda dici?
— Ci dichiariamo indipendenti dal comando di Halley —. La voce era più tesa, secca.
— Col cavolo! — sbottò Jeffers, prima che Carl gli facesse cenno di star zitto.
— L'abbiamo già fatto. E nessun percell ci dirà quello che dobbiamo fare!
Carl respirò profondamente. Non serviva a niente scoppiare in escandescenze davanti a dei discorsi stupidi: l'aveva imparato alla maniera dura, durante tutti quegli anni. Jeffers stava visibilmente digrignando i denti; Carl gli fece cenno di star zitto. — Cosa… cosa volete?
— Non cibo — rispose Rostok, compiaciuto. — Abbiamo già montato abbastanza idroponici qui da noi, da riuscire a nutrirci da soli. Abbiamo anche trovato una bella, robusta vena di halleyforme commestibili. Davvero deliziose. Le alimentiamo col calore, e quelle non smettono mai di crescere.
Così non possiamo prenderli per fame pensò Carl automaticamente.
— Vogliamo… no, per l'inferno, l'abbiamo già, il controllo del bersaglio della sgomitata.
Jeffers balzò in piedi. — Bastardi! È la nostra apparecchiatura, il nostro lavoro che ha permesso di costruire gli sgomitatori. Rostok, tu ci hai lavorato sì e no due mesi. Il resto di noi ha costruito quei cannoni EM per anni! Che io sia dannato due volte se lascerò che qualcuno… uh!…
Jeffers cacciò un grugnito quando Carl lo tirò giù. — Parlo io.
— Possiamo farlo, Jeffers. Noi abbiamo gli sgomitatori, così saremo noi a decidere la musica.
— Non avete nessun diritto di decidere voi la sgomitata — disse Carl, con tutta la calma che poteva.
— Noi abbiamo gli sgomitatori, e noi rappresentiamo la Terra.
— Col cavolo, voi non rappresentate nessuno.
— Noi parliamo per la Terra. Non permetteremo che voi percell riportiate questa barca di pestilenze nei pressi dell'orbita della Terra.
Carl aveva sperato che, con le malattie sotto controllo, la gente sarebbe diventata più ragionevole. Pare sia servito a dare a qualcuno di loro l'energia necessaria ad essere di nuovo figli di puttana.
Aprì il discorso con un tono ragionevole. — Questo va deciso nell'ambito del consiglio. Senti, Rostok, sto per uscire. Voglio parlare faccia a faccia.
Carl si alzò e aggirò l'orlo del cilindro. C'era qualche movimento intorno a un guazzabuglio di casse all'orizzonte? Socchiuse gli occhi, poi aumentò i telescopici. Sì… delle figure stavano lavorando intorno a qualcosa, guardando dalla sua parte.
Sentì dei borbottii su un canale laterale, poi la voce chiara di Joao Quiverian: — Ti avevamo avvertito, Osborn.
Un'improvvisa folgore oscurò la fioca luce del sole. Era invisibile nel vuoto, ma proiettò delle ombre nette là dove penetrò una collinetta, lì vicino. Vi fu un'esplosione di vapore, delle pietre scrosciarono sul casco di Carl. Un geyser esplose lì vicino, quando una seconda scarica laser si spiaccicò sul ghiaccio. Carl si rituffò dietro il cilindro.
— Vi basta?
Carl sbatté le palpebre, accecato dal bagliore.
Jeffers trasmise: — Adoperano quei grossi laser industriali, le saldatrici a punti. Si tagliano le più grosse travi di acciaio, con quelle. Non si può prendere facilmente la mira, ma Gesù, se bruciano!
— Merda!
— Non fatevi più vedere qui intorno.
Un'altra vampata esplose, striando il ghiaccio lì vicino. Un gas biancoazzurro si levò, formando una sfera sempre più grande.
— Dannazione — disse Carl, cupo. — Contro quelli non possiamo neppure usare i mech… Ne perderemmo troppi. Tutti quelli che abbiamo ci servono per la sgomitata.
Jeffers fece una smorfia, poi diede la stura a una serie ininterrotta di bestemmie. — Probabilmente hanno rotto gli sgomitatori che noi abbiamo provato.
— Cosa diavolo possiamo fare?
— Pensavo che tu lo sapessi — disse Jeffers.
— Merda!
Incontri. Carl giocherellò con la sua penna, cambiando continuamente posizione sulla sua ragnatela. Puoi giudicare l'importanza di un problema dal numero interminabile d'incontri che genera.
Teneva lo sguardo puntato più che poteva sulla climaparete: lussureggianti colline che si levavano dal Lago di Como nell'Italia settentrionale, con gli sciatori d'acqua che tagliavano delle grandi V sulla superficie azzurra dell'acqua, ma doveva ugualmente apparire attento, dando ad ogni fazione la dovuta attenzione. Erano raccolti in gruppi dai confini mal definiti nella sala delle riunioni alla Centrale. L'insurrezione archista aveva riaperto la questione del bersaglio della sgomitata.
Un vaso di Pandora pensò ancora Carl, di cattivo umore. E tutto questo doveva accadere proprio adesso, prima che potessi parlare in privato alla gente importante, prima che potessi raccogliere abbastanza appoggi per quello che devo annunciare. Morse l'estremità della sua penna, un gesto nervoso che aveva preso l'abitudine di fare l'anno precedente. Con più di duecento membri dell'equipaggio rianimati, c'è un bel po' di appartenenti a ciascuna fazione. E devo permettere che tutti possano dire la loro, che esauriscano l'energia smossa da Quiverian. Il peggior momento possibile… come al solito. Andavano avanti da due ore, ormai, e i gruppi si erano schierati esattamente come aveva potuto prevedere lui.
L'idea più popolare era rappresentata dal piano originario della missione; un sorvolo ravvicinato di Giove durante il ritorno alla parte interna del sistema solare, ma prima che la cometa si avvicinasse troppo al Sole. Potevano sfiorare in profondità il gigantesco pozzo gravitazionale del pianeta come una macchina da corsa per una sterzata violenta, appropriandosi d'una velocità essenziale.
Utilizzando gli sgomitatori del polo Sud, potevano mirare il sorvolo di Giove così da trasformare Halley in una cometa a periodo breve. Ciò avrebbe potuto rendere più facile il salvataggio dallo spazio della Terra e la «mietitura» del nucleo della cometa. Quelli dell'Altopiano Tre favorivano il progetto originario, così come la robusta maggioranza dell'equipaggio dei non-allineati.
Gli Uber, i percell estremisti guidati da Sergeov, volevano una diversa variante del sorvolo di Giove. Il loro obiettivo finale, però, era effettivamente bizzarro, poiché volevano abbandonare del tutto il sistema solare interno e tornare negli spazi qua fuori. Proponevano di attivare una sgomitata a basso impulso, e durante il sorvolo passare sopra Giove, piuttosto che davanti ad esso. Ciò li avrebbe portati a descrivere un cappio verso l'esterno per un nuovo appuntamento con Nettuno. Poi avrebbero usato di nuovo lo sgomitatore per rallentare Halley e venir catturati. Diventando una luna. E di qui diffondersi su Tritone, colonizzando le rocce e il ghiaccio. Una colonia di superuomini, i quali si sarebbero sempre più perfezionati sotto un cielo quasi completamente riempito da una pallida palla verde striata da nubi di metano.
Due progetti radicalmente diversi, ma che esigevano entrambi un appuntamento con Giove nel 2135. L'astronomia consentiva parecchie destinazioni diverse partendo da quel mondo gargantuesco.
Gli spaziali dell'Altopiano Tre e gli Uber di Sergeov erano uniti nella loro necessità di un sorvolo di Giove, ma si trattava di un'alleanza assai traballante. Essi differivano su un gran numero di altre cose, e si scambiavano occhiate guardinghe.
Carl aveva controllato di persona i fabbisogni della missione, non fidandosi dei calcoli di nessuno. Ci sarebbe voluta una variazione di velocità, un cambiamento nell'attuale velocità di Halley, di 284 metri al secondo durante la sgomitata, diretta secondo una angolazione di 72 gradi nord dal piano dell'eclittica. Non tanto facile. Ma comunque possibile, utilizzando i propulsori situati al polo Sud.
Le società medioevali baruffavano su astruse questioni teologiche… e noi adesso stiamo litigando per la linea di mira dei vettori. Ugualmente inutile, forse…
L'ironia dell'alleanza Uber-Altopiano Tre era che adesso gli archisti avevano distrutto entrambe le scelte.
Per riuscire a compiere un buon sorvolo di Giove al punto giusto della ricaduta verso l'interno, avrebbero dovuto assolutamente usare gli sgomitatori del polo Sud. E gli archisti volevano ad ogni costo mantenere la Terra nelle condizioni originarie, al sicuro da ogni contaminazione dovuta ad Halley. Se il sorpasso di Giove fosse riuscito male nelle ore del massimo avvicinamento, Halley avrebbe potuto venir scagliata nelle profondità del sistema solare interno. Gli archisti non avrebbero mai accettato una manovra che avrebbe portato Halley vicina al mondo nativo. Per evitare quella possibilità, avrebbero rifiutato l'uso del polo Sud, a meno che non fossero stati loro ad avere il controllo della manovra. Quiverian e i suoi fanatici avrebbero preferito morire nello spazio profondo piuttosto che lasciarlo fare a qualcun altro.
Carl interpretava i segnali, e sapeva che la situazione era prossima alla guerra. Se qualcosa non fosse stato escogitato al più presto, ci sarebbero stati dei morti. Così, Carl aveva trasmesso una spruzzata di notizie supercompresse alla Terra non appena era tornato… e aveva ricevuto una conferma. Doveva offrire una buona occasione di scelta al consiglio, adesso, prima che le lotte intestine rendessero impossibile qualunque compromesso.
Anche se potessi indorargli la pillola… Aspettò la prima, spontanea interruzione dei discorsi. Adesso la climaparete mostrava uno «sloop» che bordeggiava in mare aperto, la sua solenne virata non era per niente ostacolata dalle luccicante onde azzurro-acciaio che martellavano senza pietà o effetto. Le sue vele si gonfiavano trionfanti, d'un bianco vivido sotto un aspro cielo gelido. Sta virando a babordo pensò. Dal modo in cui si muove…
Lasciò che le discussioni continuassero per un po'. E quando sopraggiunse il silenzio della confusione e del dubbio, come sapeva che sarebbe accaduto, si alzò in piedi e cominciò a parlare. Colse e trattenne a turno lo sguardo di ogni capofazione: Otis Sergeov senza gambe, sospeso in aria, con le braccia inflessibilmente incrociate sul petto; Joao Quiverian, lì presente grazie ad una tregua temporanea, più tetragono che mai, con gli occhi ardenti; Jeffers, che rappresentava il gruppo della Via Marziana, magro e sardonico. E gli altri, che non avevano nessuna particolare politica, ma volevano una possibilità di vita.
Carl parlò lentamente, comunicando più con i gesti e l'espressione che con le parole le speranze che aveva, la richiesta di fiducia, di solidarietà, davanti a quella nuova minaccia.
— Questa missione era stata progettata avendo come punto centrale un rimbalzo al di là di Giove. È per questo che abbiamo piazzato al polo Sud dei propulsori che adesso sono inutilizzabili.
Ciò metteva Quiverian in una posizione difficile. Gli altri fissarono furiosi l'olivastro brasiliano. Naturalmente, Carl non aveva fatto esplicitamente il suo nome. Proseguì in fretta, prima che Quiverian potesse interromperlo.
— Ma la sgomitata del polo Sud non è la nostra unica scelta. — Azionò una linguetta sulla sua manica, e una mappa comparve sullo schermo principale della Centrale. — Basterebbe una sgomitata relativamente semplice a raggiungere la Terra medesima. Un cambio di velocità di soli sessantatré metri al secondo, puntato a circa quaranta gradi sud e a quasi novanta gradi dal Sole ci porterebbe a casa.
Gli uomini e le donne si agitarono, un'ampia gamma di differenti emozioni guizzò sui loro volti. A casa.
— Ma per farlo con l'indispensabile precisione è necessario che prima rendiamo più dritta l'orbita di Halley. Ci arcueremo di nuovo nei pressi della Terra, una manovra ideale per balzare via in fretta e salvarci… ma soltanto dopo il passaggio al perielio. Dovremmo superare quella terribile tempesta. Potete tirare tutti a indovinare quanti di noi riuscirebbero a sopravvivere alla piena estate su una cometa.
Aveva lasciato che le espressioni corrucciate e gli sguardi torvi s'intensificassero. Adesso li disinnescò. Quiverian, rosso come una barbabietola, stava aprendo la bocca.
— Naturalmente il Controllo sulla Terra potrebbe offendersi un pochino…
Si guardarono fra loro, sbatterono gli occhi tutt'insieme, ed esplosero in una fragorosa risata. Il loro riso rilasciò un po' della tensione che si era andata accumulando. Naturalmente, la Terra non avrebbe mai acconsentito a un piano che avrebbe portato le spore delle halleyforme vicino all'atmosfera. Perfino Quiverian si era leggermente rilassato, quando fu chiaro che Carl non aveva parlato sul serio.
— Ci sono altre alternative a Giove — continuò Carl. — Potremmo tentare Venere, balzare via nelle aerolance, decelerare nell'alta atmosfera. Ma ancora una volta dopo il perielio, e potremmo non sopravvivere andando a sbattere in quell'atmosfera a ottanta chilometri al secondo, o giù di lì.
Gratificò l'intera adunanza d'una lunga e penetrante occhiata. Il capitano Cruz l'avrebbe fatto nella maniera giusta pensò. O forse lui avrebbe messo fine a tutta questa suddivisione in fazioni già da molto tempo. Non sarò mai il leader che era lui.
— D'altro canto, esiste un rendez-vous che ci potrà permettere di arrivare a un pianeta prima del perielio, e ad una velocità inferiore… un incontro con Marte.
Un movimento d'incredulità. — Marte?
— Vuoi dire, mirare…?
— Non sapevo che si potesse anche soltanto…
Carl si affrettò a proseguire, senza dare a nessuno la possibilità d'interromperlo:
— Sentite, non possiamo permettere che una singola fazione controlli il nostro destino…
— E noi non consentiremo l'uso del polo Sud, a meno che non siamo noi ad avere il controllo! — urlò Quiverian.
Carl protese le mani con i palmi rivolti all'insù, aperte. — D'accordo. Ciò significa che dovremo abbandonare del tutto il sorvolo di Giove. A questo punto la miglior manovra possibile richiede un passaggio dentro il sistema solare interno, ma senza avvicinarsi alla Terra. Possiamo invece dirigere la sgomitata verso Marte. L'incontro vero e proprio non farà deviare molto Halley, ma ci darà la possibilità di balzar via.
Alcuni fra gli specialisti scossero la testa. Carl proseguì, prima che le obiezioni cominciassero a fioccare.
— Costruiremo degli aerofreni e ci tufferemo nell'atmosfera marziana. È sottile ma assai estesa, un buon bersaglio per noi, specialmente poiché un incontro con una qualunque atmosfera planetaria sarà dannatamente veloce.
Uno spaziale chiese: — Perderemo abbastanza velocità con un solo passaggio?
Domanda sagace. — No. Dovremo fare parecchie manovre. — Le enumerò sulle dita: — Aerofreneremo a Marte, devieremo verso l'esterno in direzione di Giove. Lassù aerofreneremo di nuovo, con l'aiuto della gravità. Torneremo all'interno fino a Venere, gli gireremo intorno, punteremo di nuovo verso Marte. A questo punto avremo perso abbastanza velocità da realizzare con successo, frenando, un vero rendez-vous nell'atmosfera di Marte. Potremo uscire con le aerolance quando saremo al fianco di Phobos.
Un lungo silenzio. Tutti lo fissavano.
— Ma… — bofonchiò Keoki Anuenue. — Quanto ci vorrà?
— Vent'anni.
Rantoli.
Carl alzò la voce, sovrastando il brusio: — Saranno venti in aggiunta ai quasi ottanta che a quel punto saranno già trascorsi. Ma varrà la pena di arrivare alla base di Phobos, alla salvezza e forse, col tempo, potremmo anche tornare a casa. Devo aggiungere che questo progetto ha l'approvazione del Comando Terrestre.
Una donna dell'Altopiano Tre esclamò con rabbia: — Cosa ne sarà, poi, di Halley?
Carl scrollò le spalle: — JonVon ci mostra che rotea via verso il sistema esterno, tornando infine alla sua dimora originaria nella nube di Oort, scomparendo laggiù per sempre.
Jeffers disse, soprappensiero: — Potremmo far puntare Halley dritta su Marte, dandogli un'atmosfera!
— Ma certo — ribatté Sergeov, — e tentare l'aerofrenaggio allo stesso tempo… Impossibile!
Jeffers cominciò: — Ma… — Smise di parlare quando notò Carl che gl'indicava di star zitto.
— È una possibilità per vivere — dichiarò Carl, con enfasi. — Se tenteremo l'aerofrenaggio e guideremo Halley per ottenere la condizione ottimale. Qualunque altra cosa è un suicidio.
— Cosa possiamo aspettarci su Marte? — domandò Quiverian, sospettoso.
— La quarantena. Forse la Terra ordinerà che si venga isolati su Deimos. Lasceranno che i medici ci studino fino a quando la Terra non sarà sicura che queste malattie sono controllabili.
Un altro lungo silenzio. Stavano valutando tutti quell'idea, cercando di assimilarla.
— È possibile? — chiese Sergeov, corrugando la fronte.
Carl scrollò le spalle. — Potrebbero non permetterci mai di entrare nello spazio della Terra, non che questo possa infastidire gli Uber, eh? Ricordate, comunque, che esistono luoghi accettabili in cui vivere, nelle piccole colonie scientifiche degli asteroidi. Forse potremo svolgere qualche utile lavoro pionieristico sullo stesso Marte.
Jeffers replicò, radioso: — Giusto, dannazione.
Carl sollevò una mano. — Ancora una cosa. Il Comando Terra è molto favorevole a questo piano. Ha fatto della sua accettazione una condizione perché noi possiamo ottenere il Pacco Assistenziale.
Questo colpì nel segno. Il razzo ad alta velocità che portava i rifornimenti era il tassello centrale della loro nuova speranza. Dovevano averlo.
Carl spiegò ulteriormente la cosa con un po' di grafici che JonVon aveva messo insieme con soltanto pochi minuti di preavviso. Il Consiglio ascoltò con glaciale, ma crescente accettatone. Quanto meno, pareva che l'idea fosse possibile.
Complicata, sì. Difficile e rischiosa, sì. Ma possibile.
E forse la sola possibilità.
Carl restò in piedi. Mantenne il suo umore grave ma comprensivo, deciso ma flessibile. E ad una ad una le fazioni espressero i propri ristretti punti di vista.
Quelli dell'Altopiano Tre trovavano sgradevole l'idea di buttar via Halley, dopo averla conquistata con tanta fatica… ma erano abituati a seguire il suo esempio.
Gli Uber brontolarono alquanto, ma ammisero di non avere nessun'altra scelta.
Jeffers e i pochi spaziali che erano rimasti aggrappati al proprio sogno di terraformare Marte, erano travolti dalla gioia. Avrebbero potuto lavorare vicino a Marte, forse dando inizio alla crescita della prima vegetazione su quel mondo arido e rugginoso.
Gli archisti non erano del tutto felici. Diffidavano di Carl. Ma questa sua scelta teneva Halley abbastanza lontana dalla Terra. E l'approvazione del Controllo della Terra gli dava un certo peso.
Durante tutto quell'incontro Carl sentì scorrere le tenebrose correnti sotterranee dei percell e degli ortho, ma adesso ammutolite dal futuro angusto e squallido che si parava loro davanti. La maggioranza dell'equipaggio apparteneva a un gruppo che lui aveva definito dei sopravvissuti, giacché alla fine era questo che importava a tutti più di ogni altra cosa.
Molto sensato pensò, alquanto mesto. E io sono il loro naturale alleato… anche se in realtà non credo che usciremo mai vivi da qui…
Guardò lo sloop che correva davanti al vento, le sue vele rigonfie e d'un bianco impossibile, la sua prua che fendeva le acque, tagliente e sicura.
E gradualmente, con riluttanza, le fazioni accettarono.
Finalmente il Consiglio si sciolse, con riluttanti assensi. Avrebbero cercato di raggiungere Marte.
Finalmente Carl si sedette, sentendosi cogliere da una stanchezza improvvisa.
Gli archisti hanno ragione. Non possono fidarsi di me. So che questa faccenda di Marte non andrà per il verso giusto, ma in questo momento è politicamente necessaria. Necessaria per impedire una guerra civile. Per ottenere il Pacco Assistenziale. Le dure verità possono arrivare più tardi. Scosse la testa. Sto diventando un dannato diplomatico. Non ragiono più come uno spaziale, neppure come un ingegnere. Cristo! La prossima volta indosserò la cravatta nera e lo smoking. E quando mi guarderò allo specchio, la lingua che vedrò sarà biforcuta.
Il macchinario cominciava ad apparire vecchio. L'originaria rifinitura di vernice lucida era sbiadita già da molto tempo, al punto che era difficile leggere ancora i nomi dei costruttori. Erano stati sfregati fino a diventare del tutto illeggibili dopo trent'anni di pulizie.
Ozymandias, il mio nascondiglio segreto. Virginia lanciò un'occhiata all'angolo del laboratorio alle sue spalle, dove la piccola Wendy sedeva paziente, assorbendo un rivoletto di corrente da una presa alla parete. Il minuscolo mech addetto alla manutenzione pigolò una volta e fece per alzarsi, ma quando Virginia non disse niente, tornò a sedersi.
È strano come per un po' non ci si accorga delle cose, e poi d'un tratto queste ci colpiscono con forza. Erano passati quasi due anni, da quando Virginia era stata scongelata e riportata in servizio, eppure durante tutto quel tempo non aveva prestato la minima attenzione a Wendy. Aveva avuto troppo da fare.
Adesso contemplava il piccolo mech, confusa.
Trent'anni. Ha pulito, ha accudito al mio personale rifugio, sorvegliandolo, tenendo le cose proprio come le avevo lasciate io.
Forse Saul ha ragione. Forse faccio un buon lavoro.
Sorrise.
Attenta, ragazza. Continua così e comincerai davvero a immaginare te stessa come una dea, come quelle povere creature, ormai quasi del tutto non più umane, che hanno seguito Ingersoll dentro le più profonde caverne, che s'inchinano davanti ai miei mech e li chiamano per nome. Gli ultimi due anni avevano significato tanto di quel lavoro per lei, per Saul e per Carl. Rimase colpita dal fatto che non aveva dedicato nessun tempo per soffermarsi a pensare a ciò che era capitato a tutti loro.
Bel terzetto che siamo. Nessuno di noi era importante ai tempi in cui viveva il capitano Cruz, e si trattava di un'unica, grande e felice spedizione di ricerca. Carl era soltanto un sottufficiale, io ero un tecnico cadetto specializzato in intelligenza artificiale e Saul era un dottore con una strana passione per i microbi.
Adesso il povero Carl è qualsiasi cosa passi per comandante, oggi. Io sono la donna-ragno che manda fuori la ragnatela dei fuchi per rattoppare le gallerie e tenere sotto controllo la poltiglia. E Saul…
Fece una pausa di riflessione. Di tutti noi è quello che maggiormente è cambiato. Signore, spero di non perdere un bravo uomo per ritrovarmi con una divinità.
Si era mostrato così preoccupato di recente. Quasi ossessionato. Riluttante a collegarsi con lei nell'intimo tocco dell'amplificazione neurale. Come se mi nascondesse qualcosa… e volesse proteggermi da qualcosa che sente non capirei mai.
Alla fine erano arrivati ai ferri corti. La settimana precedente si era sfogata, gli aveva gridato addosso in preda alla frustrazione. Da allora, lui le aveva lasciato pochi, concisi messaggi, i suoi mech l'avevano visto nei coridoi, ma a tutti gli effetti avrebbero potuto benissimo essere su due diversi pianeti.
Tutt'intorno a lei le immagini olografiche brillavano debolmente. Perfino alcune unità che si erano guastate durante il suo lungo sonno erano state sostituite, adesso che lei e Jeffers erano riusciti a far funzionare a dovere la fabbrica automatica al Livello A. Forse per la prima volta dal suo risveglio non brillava nessuna luce rossa di allarme.
Sostò a lungo con lo sguardo sulla macchina bio-organica Kelmar, per portare a bordo la quale avevano utilizzato una buona metà della sua quota-peso… tanto tempo fa. Il cuore del suo computer bio-cibernetico.
— JonVon — bisbigliò, — ho bisogno di distrarmi un po' dai miei guai.
C'erano cose che aveva avuto l'abitudine di fare, per divertirsi, e da anni non aveva più avuto il tempo di dedicarsi ad esse. Ma adesso…
— Vediamo un po' quanto sono arruginita nella simulazione visiva — disse a bassa voce, e schiacciò il pulsante sulla placca identificatrice del Kelmar. Uno schermo si accese.
Allora, Virginia, qualcosa di più della solita routine, oggi?
Lei scosse la testa. — Spassiamocela un po' come ai vecchi tempi.
Passò quindi alcuni momenti ad attivare interruttori e a calibrare il sistema, prima di applicarsi il logoro disco del suo connettore neurale. Si era talmente abituata al flusso diretto dei dati, a controllare o a programmare mech remoti come se fossero parte del proprio corpo, che le ci vollero alcuni minuti per tornare al modo sperimentale, «sintetico», che un tempo era stata la sua tecnica speciale per interagire con JonVon.
Ma JonVon lo ricordava, Virginia dovette soltanto desiderarlo, ed esplose un arcobaleno di luce… la risplendente tavolozza di un artista.
Mi sono dimenticata i colori! Come ho potuto rimanere lontana da tutto questo per tanto tempo?
Virginia costruì nuvole rosa sopra un placido mare azzurro-verde. Creò sette palle multicolori e le fece lanciare da mani immaginarie con la destrezza di un giocoliere, qualcosa che non sarebbe mai riuscita a fare sul piano «reale».
Siamo in gran forma oggi, Virginia.
Lei sorrise. — Già, siamo proprio in gran forma, JonVon. Dovrò scendere dentro di te per vedere cos'hai combinato con il tuo software di simulazione.
Mi sono dato molto da fare. Durante la mia malattia ho avuto troppe distrazioni per parlartene. Comunque, ci sono stati alcuni risultati interessanti. Sono un libro aperto per te. In qualunque momento tu sia pronta.
— Più tardi. In questo momento voglio soltanto giocare un po'.
Non era soltanto nella simulazione visiva che JonVon aveva fatto progressi. Soltanto i suoi orecchi addestrati sapevano cogliere i piccoli segni nelle sue parole, nel giro delle frasi e nella loro cadenza, che indicavano come fosse ancora lontano da un essere intelligente. Altrimenti, la sua voce avrebbe potuto facilmente essere quella d'una creatura vivente.
Virginia si gingillò con le immagini, facendo spalancare davanti a sé il vasto mare illuminato dalla luna. Un banco di pesci volanti. Delle noctiluche sfavillavano sulla scia ribollente di un'ombra misteriosa, appena sotto la superficie.
Ne provò una sensazione piacevole. Qui, all'interno della macchina, non c'era nessuna di quelle crisi torbide e confuse che assillavano tutti loro all'esterno. Qui, niente poteva spaventarla. Era troppo simile a casa sua.
Signore, come mi mancano le Hawaii.
Virginia creò una focena nell'acqua la quale, giocosa, ciangottò e la spruzzò. La simulazione era così vivida che le parve quasi di sentire le goccioline.
Quanto tempo è passato da quando Saul ed io abbiamo fatto all'amore collegati in questo modo?
Soffocò il pensiero.
Tenteremo di modellare una personalità, oggi, Virginia?
Lei scosse la testa. — No, JonVon. Dopo tanto tempo non sono ancora pronta a tentar di nuovo una cosa del genere. Ti dico una cosa, però. Facciamo passare una simulazione della sgomitata gravitazione trasmessaci dal Controllo Terrestre. Quella per la quale Carl ha fatto votare il Consiglio la settimana scorsa. Hai esaminato la copia che ho inserito ieri?
Sì, Virginia. Vuoi un grafico? Le cifre? Oppure una simulazione onnisensoriale con estrapolazione?
— Onnisensoriale, JonVon. Voglio cavalcare la cometa… vedere come sarà fra quarant'anni, quando apriremo i colombari e ci troveremo vicini a casa.
Casa pensò. Ottant'anni di cambiamenti. Chissà se anche soltanto si ricorderanno di noi?
A Virginia parve quasi di percepire la corsa frenetica degli elettroni superraffreddati mentre la sua controparte faceva i propri preparativi.
Pronto a iniziare la simulazione, Virginia. Per favore, dammi le condizioni iniziali.
— Comincia con la sgomitata. Con gli sgomitatori equatoriali in funzione secondo il programma del Controllo Terrestre.
Si abbandonò lunga distesa, mentre le nubi e il mare scomparivano. Anche la focena svanì, con un ultimo ciangottio di sfida all'ultimissimo istante.
La tenebra s'insediò tutt'intorno, comunicandole una sensazione di profondità che si estendeva verso l'esterno, fin là dove le stelle sfavillavano a miriadi. E sotto quel panorama di stelle si formò un'immagine… un grigio striato di bianco contro lo sfondo nero. Era la scena ormai familiare del ghiaccio polveroso sulla superficie della cometa.
JonVon mostrò i nuovi lanciatori, ottimisticamente raffigurati come ormai condotti a completamento all'equatore di Halley. Non sarà un lavoro da poco costruire dei nuovi acceleratori per sostituire quelli di cui si sono impadroniti gli archisti. Non ci saremmo mai riusciti senza la tecnologia di Phobos.
Disposti ad anello intorno all'equatore dello sferoide allungato, quei cannoni dalla canna stretta cominciarono a sparare, scagliando proiettili di ferro-nickel nativo nello spazio a consistenti frazioni della velocità della luce, cambiando lentamente, in maniera impercettibile, la direzione dell'antica palla di ghiaccio alla quale erano ancorati.
Non c'era nessuna sensazione di movimento, ma Virginia s'identificò con le minuscole figure simulate che saltavano, agitando le braccia, sulla superficie. L'averle inserite era stato un tocco simpatico di JonVon, giacché sarebbe stata appunto quella la scena: giubilanti lavoratori in tuta spaziale che facevano salti di gioia quando finalmente s'iniziava la sgomitata che avrebbe lanciato la cometa sulla nuova orbita. Servendosi di segnali naturali lievi quanto il movimento d'un braccio, Virginia lasciò che la sensazione della sua presenza fluttuasse verso l'alto per osservare meglio la simulazione. A mano a mano che la sgomitata procedeva, seguì il blocco di ghiaccio che cambiava traiettoria.
Qui, con l'afelio ancora a quattro anni di distanza, a poco a poco l'antica orbita di Halley cambiava. I propulsori la derubavano un po' per volta del suo impulso angolare, inducendola ad iniziare la sua lunga caduta verso il Sole con qualche anticipo rispetto a quando l'avrebbe fatto normalmente. Dapprima la velocità della cometa verso l'interno era piccola, ma crebbe.
Virginia sapeva che intrinsecamente quella simulazione non era più accurata di quella che Carl aveva usato, soltanto più vivida. Lei voleva che ogni cosa fosse rappresentata con le immagini. Grafici e numeri, semplicemente, non erano la stessa cosa.
Cavalcava la cometa, le stelle ruotavano lentamente a mano a mano che la scala del tempo si ampliava e gli anni scorrevano via veloci. Lei e Halley stavano cadendo insieme verso la cuspide al centro del sistema solare.
Sulle prime, si registrarono pochissimi cambiamenti sulla superficie del nucleo della cometa. Quel mantello butterato e polveroso luccicava con le sue vene sottili, come la Via Lattea che scintillava più sopra.
Ma il calore crebbe. Halley precipitava verso di esso e il fuoco del Sole si levò a incontrarla.
Gli antichi ghiacci sublimavano sotto quel crescente calore. Prima l'ossido di carbonio, quando il nucleo superò sfrecciando l'orbita di Giove, e più tardi l'anidride carbonica. I vapori che sfuggivano sollevavano una polvere nera, impalpabile, che andava incontro al fulgore crescente del Sole. Cominciò a formarsi una nebbia sottile.
La resa delle immagini era vivida. Virginia osservò il formarsi delle code di polvere e di atomi ionizzati che risplendevano debolmente, come spettrali stendardi che si dispiegassero alla luce crescente.
Duecento e più volte quella roteante palla di ghiaccio era caduta in quella direzione, sin da quella prima volta quando, essendo passata troppo vicina a Giove, era stata intrappolata nel sistema solare mediano. Da allora era rimasta legata al Sole da un guinzaglio più corto della maggior parte delle comete.
Lo spazio era vasto, e da quel quasi-sfioramento con la gravità del pianeta gigante, la cometa non aveva mai più incontrato un altro oggetto fisico che non potesse assorbire: granelli di polvere, pezzetti di roccia alla deriva nello spazio, tutti erano andati a finire dentro la scia sfrecciante di Halley, pagandone il prezzo.
Ma la sgomitata aveva fatto in modo che ci fosse un altro incontro. Qualcosa di più piccolo di Giove, ma troppo grande per poterlo assorbire: questa volta sarebbe passata incredibilmente vicino, mentre il nucleo di Halley saettava verso l'interno.
Ed eccolo là! Un puntolino di luce rossa, subito davanti a loro.
Marte pensò Virginia. Giusto in tempo. Pronto per una piccola operazione di rimbalzo?
JonVon riconobbe la domanda retorica. Comunque, la macchina era troppo impegnata per rispondere, adesso che l'incontro ravvicinato era ormai prossimo. Quello era il compromesso del Controllo Terrestre, il loro piano per salvarli senza rischiare contagi per il mondo nativo.
Devo ammettere che non mi aspettavo neppure questo, da loro.
Sicuro, la pressione dell'opinione pubblica, sulla Terra, era una delle ragioni principali per l'invio del Pacco Assistenziale, che adesso era soltanto a pochi mesi di distanza dal rendez-vous con il loro piccolo, isolato avamposto di umanità. Tuttavia, dopo tutti quegli anni, Virginia era diventata cinica per quanto concerneva le intenzioni del Controllo Terrestre… ciò che il Controllo progettava davvero nei loro confronti.
Mi sarei aspettata che ci ordinassero di suicidarci in maniera «onorevole» e senza chiasso, come dovrebbero fare dei piccoli e diligenti portatori di pestilenze.
Il pianeta rosso si profilò davanti a loro. Virginia chiese a JonVon di fare una zoomata dei dettagli, rallentando l'azione a mano a mano che lei e la cometa si avvicinavano all'appuntamento.
Virginia sfrecciò avanti, precedendo Halley, per dare un'occhiata al pianeta. Il polo ghiacciato del pianeta morto comparve per primo alla sua vista.
Le sabbie rosse stavano soffiando sopra Cydonia. I vulcani dello Scudo erano foruncoli da lungo tempo assopiti, che giungevano quasi a spuntar fuori dalla sottile atmosfera, ricoperti lungo i fianchi da sottili ciuffi di aride nubi.
Phobos si levò da dietro il bordo di quel piccolo mondo. La minuscola luna era una pietra butterata, sfavillante di luci, che passò roteando accanto a Virginia per poi balzare sopra l'orizzonte color ocra.
Brava gente. Il suo pensiero andò alla popolazione della stazione di Phobos. Peccato che non gli sia mai stato permesso di diventare una vera e propria colonia. Forse noi potremmo aiutarli su questo punto.
Guardò dietro di sé e vide la cometa che si avvicinava, come gli uomini e le donne di Phobos l'avrebbero vista fra trentotto anni.
Dovrebbe essere uno spettacolo non da poco per quella gente… Halley che passa loro accanto, così vicina da poterla quasi toccare. Marte deve passare attraverso la parte densa della coda perché la sua debole gravità possa ghermire le nostre aeroscialuppe di salvataggio. Eppure non si può permettere che il pianeta e la cometa si avvicinino talmente l'uno all'altro da sbatter fuori rotta le nostre navicelle a causa della turbolenza.
Nella simulazione, Halley stava dando un grande spettacolo di sé. Niente di simile al fantasmagorico scenario che avrebbe sfoggiato in prossimità del Sole, naturalmente; ma le code gemelle avevano cominciato a dispiegarsi, e la chioma brillava come una nube sfocata di lucciole.
La simulazione era eccellente. JonVon raffigurava perfino le luci di Phobos che si spegnevano a mano a mano che i lavoratori coprivano gli accessi, chiudendo ermeticamente i boccaporti. Per qualche giorno ci sarebbero stati troppi meteoriti per rischiare di avventurarsi all'aperto. Un piccolo prezzo da pagare, comunque, davanti alla possibilità di salvare trecento anime. Per lo meno Virginia sperava che sarebbero stati animati da un simile modo di sentire.
Trecento persone in quarantena su Marte… quello avrebbe potuto essere sufficiente per dare inizio a una colonia. Non era mai stato uno dei suoi sogni quello d'insediarsi in un deserto color rosso-ruggine, ma quel piano batteva ogni altra alternativa. E sarà piacevole percepire di nuovo la gravità, camminare e, forse, perfino nuotare in una piscina protetta da una cupola.
Non sarà Maui, ma potrei abituarmi all'idea di essere una marziana.
Lo spazio che li separava diminuì. La superficie di Halley parve spumeggiare quando dei punti caldi vomitarono fontane di gas e di polvere nello spazio, accrescendo il fulgore della chioma.
È uno scherzo della prospettiva? Oppure passeremo davvero così vicini come sembra?
Scintille scoccarono quando minuscoli oggetti si separarono dalla testa della cometa con silenziose esplosioni.
Le zattere di salvataggio. Corazzati contro la polvere e il dolore, i colombari, avvolti negli scafi delle aerolance, si sarebbero staccati da Halley. Minuscoli razzi controllati dai mech aumentavano rapidamente la distanza, guidando i coloni in ibernazione verso il loro primo, fiammeggiante incontro con l'atmosfera del pianeta rosso.
Virginia arretrò ancora, dando spazio alla simulazione.
Tutta la Terra assisterà a questo spettacolo. Gli abitanti di Phobos non saranno i soli a goderselo.
La chioma nebbiosa di Halley pareva toccare il pianeta. Virginia sbatté le palpebre.
Qualcosa non va. Come può…
La chioma cominciò a distorcersi, a perdere la sua forma, compressa dall'urto delle onde soniche quando il globo gassoso incontrò la sottile atmosfera del pianeta. Il gas ionizzato piegò verso l'esterno, lontano dal debole campo magnetico di Marte.
Il punto scintillante del nucleo stesso, un trilione di tonnellate di ghiaccio, si spinse in avanti, senza trovare nessun ostacolo in qualcosa di così tenue come un involucro di gas o un campo magnetico. Cadde davanti alla propria nube, cominciando ad ardere ancora più luminoso.
NO…
Le onde d'urto di prua si moltiplicarono attraverso i gas espandendosi in diversi coni. Percependo che Virginia voleva seguire l'azione, JonVon rallentò l'incontro mentre il nucleo di Halley sparpagliava le minuscole scialuppe di salvataggio come granelli di polline e proseguiva a tutta velocità verso il più ravvicinato punto di passaggio.
Il più ravvicinato punto di passaggio…
Il nucleo si spezzò. E continuò a spezzarsi. Quattro frammenti saettarono obliqui verso l'interno, adesso la loro scia attraverso l'atmosfera marziana era incandescente. Poi colpirono il piccolo mondo.
Un pezzo parve rimbalzare all'estremità del pianeta, come un martello che destasse faville scagliandole nello spazio. Pennacchi di polvere turbinavano dove quel frammento ampio un miglio aveva toccato per un attimo il suolo.
Un grosso frammento centrò in pieno il monte Olympus, troncando il lato sinistro del grande vulcano con una titanica, accecante esplosione.
Simulazione o no che fosse, Virginia sbatté di nuovo le palpebre per escludere l'immagine postuma di quel lampo. Quando riuscì a guardare di nuovo, quella serie di avvampanti esplosioni si era trasformata in tante nubi arancione che si andavano allargando. La sottile atmosfera s'increspava e turbinava come una pozza poco profonda dentro la quale fossero stati sparati dei proiettili.
Dei terremoti scuotevano le antiche sabbie. Sotto la superficie di Marte il permafrost si deformava e fondeva. Virginia immaginò di poter sentire l'agitarsi del magma.
Era troppo stupefatta per riuscire a fare qualcos'altro se non guardare, incredula. Cercò le piccole aerolance, e ne trovò una, due, che ruzzolavano via verso il Sole. Altre lampeggiarono per brevi attimi quando colpirono le turbinanti nubi di polvere, avvamparono e si spensero.
Alcune erano semplicemente scomparse.
Avrebbe dovuto essere un rimbalzo gravitazionale! Un passaggio ravvicinato! Il Controllo Terrestre non ha mai detto niente di tutto questo!
Carl non ha mai detto niente di tutto questo!
Inconsciamente, impose al proprio io simulato di sfuggire alla luce, di sfuggire alla faccia ardente illuminata dal Sole di quel crogiolo di roccia.
Marte precipitò lontano mentre lei fuggiva verso l'esterno lungo la sua ombra. Visto dalla sua faccia oscurata, il pianeta era una sottile mezzaluna di vento rosso, tinto di fiamme. Su un lato della mezzaluna spuntò una pira rosata. Il dio della guerra rispondeva alla violenza del firmamento con la violenza dei propri vulcani.
Non richiesta, per niente benvenuta, una strofa di Shelley le venne alla mente:
Guardate le mie Opere, o Potenti, e disperate!
Virginia si disinnescò, con le mani che le tremavano mentre si staccava di dosso il contatto. Nella sua mente, tuttavia, la scena continuava. L'immaginazione proseguiva, simulando ciò che era previsto fra trentotto anni nel futuro, visualizzando il Sole come si sarebbe levato il mattino dopo quell'incontro, per risplendere sopra una giornata umida e nuvolosa su Marte.
E più tardi, almeno per un po', ci sarebbe stata pioggia.
Fetide sostanze chimiche pisolano
in mezzo alla melma primordiale,
carbonio, ossigeno, calcio,
fosforo e tempo.
È così che sono cominciate le tristezze.
Era una vecchia canzone cantata dai biologi del ventesimo secolo quando avevano occasione di alzare un po' il gomito. Saul l'aveva imparata in Inghilterra, durante un piovoso inverno a Cambridge. Gli pareva giusto che dovesse venirgli alla mente proprio adesso, mentre una bottiglia di terracotta sbatteva e sobbalzava sulle sue ginocchia e lui si trovava seduto nel corridoio fiocamente illuminato appena fuori del suo laboratorio, intento a provare un rimedio polinesiano contro ciò che lo tormentava.
Keoki gli aveva fornito quella bottiglia di liquore fatto in casa, dicendogli solennemente: — Tu hai bisogno di ubriacarti, Saul. — E naturalmente l'amico aveva ragione.
Le cose erano, oh, così pulite,
su questa nave,
poi i virus si sono arrampicati a bordo,
dapprima un'orda masticante,
con un gene vorace.
Quella canzonetta aveva un ritornello, con una cadenza in stile jazz:
Quel vecchio virus ha
cospirato contro di noi
e ci ha messi in ginocchio.
Ci ha mandato una febbre
più sottile d'una mannaia.
Contagiami per favore.
Vieni a giocare con me,
un'antologia
di malattie istruttive.
Tanto vale che faccia l'ospite.
No, non render l'anima
quando le tue cellule sono sotto torchio.
Saul annuì saggiamente. — Ecco, visto? Conoscevano la simbiosi perfino negli anni Ottanta, quando non erano ancora sicuri di trovarsi nel Secolo dell'Inferno. Questo dimostra che non c'è mai niente di nuovo sotto il sole.
Nessuno era là ad ascoltarlo, naturalmente. Alla fine aveva rimandato Keoki a casa… a quest'ora le mogli del grosso hawaiano dovevano essere preoccupate per lui. Saul aveva garantito al suo amico che sarebbe andato dritto a dormire, e così Keoki se n'era andato, affidandogli il compito di cercare di tirarsi su.
In realtà, in quel momento il sonno non faceva parte delle sue prospettive. Saul se ne stava lì, seduto, centellinando la bottiglia. Non si era mai sentito così lontano da casa.
In senso stretto, fra quattro anni saremo all'afelio e ci dirigeremo di nuovo verso la Terra. Ma in quel momento la dinamica orbitale non occupava la mente di Saul.
Lei non approverà mai si disse.
Oh, davvero? Ma come fai a saperlo, se non glielo chiedi?
A dire il vero, lui aveva, semplicemente, paura… paura di ciò che Virginia poteva pensare dei suoi più recenti esperimenti. Le cure miracolose erano una cosa. Gli esperimenti con gli animali e le piante… bene.
Ma fra i doni giunti dalla Terra c'erano dei dati sulla crescita forzata del corpo umano. Era come Houdini sfidato da un nuovo tipo di serratura, oppure un pittore davanti a una tela vuota. Il bisogno era là… la sfida irresistibile.
Come fai a sapere quello che direbbe Virginia? Forse, non dovresti dormire in un laboratorio freddo e solitario.
Saul rabbrividì, e seppe di essere troppo codardo per metterlo alla prova.
Ah… ma se avesse potuto fare un dono al suo amore? Un dono della cosa che maggiormente voleva al mondo? Una cosa che si era rassegnato a non avere mai?
Una notte, molte settimane prima, mentre lei giaceva sprofondata in un sonno esausto, lui aveva prelevato i campioni che gli servivano.
Da Lani, dalla fidata Lani, aveva ottenuto il deposito segreto di ovuli umani e di sperma che lei aveva contrabbandato dalla Terra. Adesso, aveva tutto il materiale che gli serviva.
Ma da quel momento aveva esitato… fino a stasera.
Aveva passato tutta la giornata a lavorare negli insediamenti degli archisti, al polo Sud. Come medico della colonia, era neutrale in tutte le dispute, ma ne era tornato scoraggiato. La vita era misera e gelida giù in quelle tane. La loro pila a fusione sputacchiava ed irradiava una quantità d'energia a stento sufficiente per mantenere le loro serre. Cosa ancora peggiore, Joao Quiverian aveva anche lui le sue fazioni con cui cimentarsi, fanatici che facevano apparire moderato perfino il suo archismo, il cui odio per qualunque cosa associata con i percell pareva non conoscere confini.
Keoki aveva ragione… avevo proprio bisogno di ubriacarmi.
Un'altra canzone passò attraverso la mente di Saul, una canzone che riguardava la quinta guerra civile irlandese. Era una triste canzone di fratricidio, ma nessuno aveva mai scritto niente di meglio per bere o per misericordia.
Saul stava ancora canticchiando fra sé a bocca chiusa quando un movimento tremolante lo indusse a guardare a sinistra. Guardò strizzando gli occhi la fila delle luci fosforiche sempre più fioche in distanza, e vide che parecchie fra esse erano occultate da vaghe forme che si avvicinavano lungo lo stretto corridoio.
Nessuno avrebbe mai dovuto venire da quella direzione. Era una delle clausole del suo accordo con i clan. Ma allora, chi…?
Sbatté le palpebre. Avvertì un brivido.
Gli strani…
Comparvero alla sua vista, due forme simili a uomini, ma completamente ricoperte di ciuffi, come creature marine avvolte nella melma del fondo. L'insieme delle forme native che ognuno di quegli esseri si portava addosso era diverso. In uno dei due dell'essere umano originario non era rimasto più nulla, al di fuori degli occhi. Nell'altro, c'era ancora un volto visibile attraverso quel simbiotico groviglio.
Questo è sinergismo portato più avanti di quanto io potrei mai sopportare pensò Saul, a disagio.
Parecchie volte, da quando Suleiman Ould-Harrad, quell'ex spaziale diventato mistico, aveva abbandonato i livelli superiori per discendere giù e unirsi a quelle creature, piccoli messaggi erano comparsi, attaccati alla porta di Saul. Lui aveva soddisfatto ogni richiesta, lasciando spesso fuori della porta bottiglie del suo siero. Ad ogni veglia, quando si destava, il pacchetto fuori della porta era scomparso. Al suo posto giaceva un piccolo campione di qualche strana forma di vita che Saul non aveva mai visto prima.
Era uno scambio alla pari: medicinali per altri frammenti dell'enigma che era Halley. La cosa andava benissimo a Saul, poiché lui voleva comunque curare gli strani abitanti di quella Lontana Gehenna. Da quando Ould-Harrad era disceso per unirsi a loro, quegli esseri erano parsi capaci di organizzarsi meglio, meno sospettosi e violenti quando qualcuno di un clan più «normale» attraversava loro la strada.
Comunque, Saul non poté fare a meno di sbattere le palpebre quando i due emissari gli rivolsero un profondo inchino.
— Venia…aamo e implo…ooriamo il tuo aiu…uuto.
Quella voce tartagliante colse Saul di sorpresa.
— Non… non sapevo che qualcuno di voi potesse ancora parlare!
Quello che ancora mostrava il viso scosse la testa. — Qualcuno n…non può fa…arlo. Ma non vuol dire che noi non pen…nnsiamo più.
Saul si affrettò ad annuire. — Mi spiace. È soltanto che… be', voi non vi fate mai vedere. Così, gli altri hanno una gran paura di voi.
— Come noi temiamo loro. Ma tu sei S… aul. Il dot… tore. Veni… iiamo da te con fer… ito.
Saul stava per chiedergli di entrare nel laboratorio, quando lo «strano» più vicino aprì uno squarcio tra il fogliame che lo ricopriva tutto e ne tirò fuori un piccolo fagotto bruno. Degli uggiolii uscivano dal fagotto.
— Puoi gua… aarirla?
La lontra aveva una gamba fratturata. Si dimenò e morse lo «strano» che la reggeva, ma a quanto parve senza nessun effetto.
— Naturalmente — dichiarò Saul. Si alzò in piedi e premette la placca sulla porta per il riconoscimento del pollice. — Portatela dentro, non ci dovrebbe voler molto.
Salvo per Lani e un occasionale mech, nessun altro al di fuori di lui aveva mai varcato quella soglia. Saul era certo che nessun estraneo l'avrebbe mai più fatto.
D'altronde, però, lui non era mai stato in gamba con le previsioni.
Un'ora dopo che gli strani se n'erano andati si trovò davanti alla camera di clonazione principale. Aveva deciso. C'erano solide ragioni scientifiche per procedere all'esperimento. La colonia ne aveva bisogno; l'umanità ne aveva bisogno.
Io ne ho bisogno. E forse posso offrire a Virginia qualcosa che vuole più di qualunque altra cosa nell'universo.
— JonVon — disse, rivolto al principale collegamento vocale con il computer.
Sì, Saul, sono qui.
Saul annuì. — JonVon, voglio preparare un data-base segreto.
Se socchiudeva gli occhi per proteggerli dall'aspro grumo giallo del Sole, quel paesaggio ghiacciato si stendeva davanti a lui come una terra di sogno. Eserciti di uomini e di mech si muovevano su quel terreno chiazzato e sfregiato. Rimorchiavano lunghi cilindri di acciaio lucido e ossido di alluminio color alabastro, oppure facevano destramente rimbalzare in avanti grandi ammassi di apparecchiature elettriche, oppure trascinavano trasformatori che, costruiti per funzionare nel gelido vuoto, assomigliavano di più a cervelli incrostati di corallo che a rotoli luccicanti di rame e ferro.
Le squadre dei lavoratori si affrettavano sul ghiaccio, che era stato sventrato e spezzato, grandi truogoli vi erano stati scavati dentro, in profondità, tagliati e plasmati e martellati. A regolari intervalli Jim Vidor aveva eretto torri affusolate fondendo, modellando a forza e ricongelando l'acqua sotto forma di puntelli, livelle e supporti cristallini.
Fili sottili come ragnatele collegavano le dita sporgenti, color arancio, formate di aggregati di ghiaccio fratturato e compresso. Il ghiaccio offriva poca resistenza alla frattura e funzionava bene soltanto sotto compressione. Era quasi impossibile credere che simili arabeschi fossero così perché funzionali. Comunque Carl non aveva alcun dubbio che Vidor, se sollecitato, avrebbe tirato fuori una spiegazione per ognuno di quei delicati fili estrusi, per ogni arco svettante, per tutta quell'arte affusolata e ondeggiante.
Carl non gliel'aveva chiesto. Gli esseri umani non potevano rimanere attaccati senza interruzione alle cose pratiche, limitati da esse. Chiunque ne avesse la capacità, desiderava esprimere qualcosa di profondo e duraturo attraverso la sua bravura. Forse era questo l'impulso che li spingeva a lasiare un tocco idiosincratico, estroso, di loro stessi sulle cose più durevoli che realizzavano. Forse era qualcosa di più profondo, legato allo spirito, che aveva condotto una solitaria tribù di primati così lontano dal loro mondo caldo e umido.
Carl ricordava la prima strofa d'una poesia che Virginia gli aveva mostrato alcuni mesi prima. Per qualche ragione gli era rimasta impressa nella testa:
Il mare è calmo stanotte,
La marea è al culmine, la Luna rifulge splendida.
Presagi di buona navigazione. La poesia aveva qualcosa a che fare con le spiagge e gli oceani, e Virginia aveva avvertito una certa risonanza in lui di quelle immagini. Viaggiando lì fuori, salpando contro le maree della gravità, assomigliava ai gran bei tempi antichi quando i velieri solcavano i mari. Avevano attinto soltanto una frazione dei fotoni grezzi del vento solare per controllare l'evaporazione dei gas della cometa verso l'esterno durante i primi mesi dopo l'atterraggio. Poi avevano cavalcato davanti a quel vento, usando la luce del Sole all'unico scopo di produrre elettricità. Il momento cruciale stava arrivando adesso, quando il loro vascello di ghiaccio doveva venir sospinto su una nuova orbita, ed era necessario tracciare una nuova rotta.
Sorrise fra sé. Fedele all'analogia con il mare, eh? Tutto perché fino in fondo alle ossa sei uno spaziale, e non puoi dimenticarlo. Sin da quando hai perso la Edmund, hai bramato una nave. Questo pezzo di ghiaccio e di ferro è tutto quello che ti rimane.
Era così ovvio, Virginia l'aveva capito. Gli aveva detto che la poesia era una consolazione, e con sua viva sorpresa aveva scoperto che una parte della roba che lei trasferiva sul suo schermo gli piaceva. Ciò sarebbe stato del tutto impossibile per lo spaziale autoimpegnato, impetuoso, arrogante, che lui era stato trentacinque anni prima. Era invecchiato soltanto di sette anni in quel periodo, ma quell'arco di tempo aveva un proprio peso. Il suo se stesso più giovane adesso pareva lontano, quasi implausibilmente cieco.
Spero che Virginia non riesca a leggermi dentro troppo bene. Scoprirà anche troppo presto quanto tutte queste speranze ed euforie siano false, basate su un'inevitabile menzogna…
Non gli piaceva ricordarlo. Scosse la testa e s'incamminò attraverso il ghiaccio, muovendosi a lunghi passi, supervisionando i lavori. Tienti impegnato. Non pensare troppo: non è il tuo forte.
Carl girò intorno ad una squadra di mech al lavoro per raggiungere la lunga trincea del Lanciatore 6. Uno sgomitatore completo riempiva lo scavo, discendendovi dentro obliquamente. Due tecnici stavano provando un volano fabbricato col ferro di Halley.
Le macchine avrebbero impresso velocità con la frequenza e l'angolo esattamente calcolati. All'inizio avrebbero sparato parallelamente all'equatore, per rallentare e finalmente fermare la rotazione di cinquanta ore di Halley. Dopo di ciò, il lanciatore avrebbe ruotato intorno a un asse incastrato dentro la trincea, disponendosi quasi perpendicolarmente all'equatore, in linea con il centro di gravità di Halley. Poi sarebbero iniziate le lunghe raffiche intermittenti che avrebbero emesse nel corso degli anni, aggiunto piccoli incrementi di velocità alla lenta e solenne virata di Halley all'afelio. Tutti i lanciatori, pulsando ininterrottamente, sommati fra loro, avrebbero portato alla sgomitata.
— Grazioso, eh?
Carl vide Jeffers che si stava avvicinando con passo facile, esercitato. La cotta della sua tuta, macchiata e unta, raffigurava un paio di pinze e una chiave incrociate, racchiuse in un cubo.
— Bellissimo. Il test è già stato fatto. Sono pronti per essere montati in orizzontale?
— Sicuro. Le unità là dentro funzionano benissimo, a qualunque angolo tu voglia. I mech li monteranno per poterli utilizzare non appena i test saranno completati.
Jeffers sorrise felice. Era lui il fulcro, il sostegno principale della sgomitata, che trovava soluzioni ai problemi con la rapidità di un esperto. Faceva turni di diciotto ore senza mostrare nessun segno di fatica. La fabbrica al Livello A, che adesso lavorava a pieno ritmo, con i robot che producevano parti di ricambio per i lanciatori e i razzi, non sarebbe esistita senza Jeffers. Carl ricordava quando quell'uomo dava il minimo di sé, isolandosi negli olonastri o nei pornstim, escludendo la realtà del luogo in cui si trovava. Il lavoro era ciò di cui aveva avuto bisogno. Per Carl, soltanto quella era una ragione più che sufficiente per fare tutto questo, anche se il suo amico doveva certamente sospettare che tutto questo fosse una farsa…
— Tutte le squadre sono in anticipo con i tempi. Fanno perfino le ore straordinarie senza che io glielo chieda.
— Finalmente abbiamo qualcosa per cui lavorare — disse Carl, senza guardare Jeffers negli occhi.
— Maledettamente giusto.
Un mech-direttore si avvicinò, una cupola nera era appollaiata in cima al suo carapace a mo' di kluge improvvisato. Le aggiunte di Virginia funzionavano a meraviglia rendendo i mech e i rob ancora più versatili, ma non erano eleganti. Il mech fece ammiccare la propria lampada per attirare la loro attenzione, e trasmise: — LANCIATORE 6 COMPLETATO. TEC UMANO OSAKA DICHIARA CHE IL CONGEGNO È PRONTO PER IL TEST UFFICIALE.
Jeffers annuì. — Spara, allora.
Si sentirono risuonare i gong di allarme dentro i comunicatori. Dovunque in superficie le squadre smisero di lavorare e si arrampicarono fuori dalle buche per guardare. Le loro tute erano graffiate, logore, scolorite, lacere, rattoppate con pezze fatte in casa.
Il ping ping ping del dispositivo che si riscaldava arrivò attraverso le frequenze del comunicatore come un suono increspato, un'eco sottile del caricamento che adesso si stava svolgendo nella trincea. Carl sbirciò la punta del lanciatore, che sporgeva fuori dal ghiaccio lì accanto, puntata verso il cielo.
Avvertì un fremito di eccitazione che gli fece accapponare la pelle, una tensione crescente. Se avevano commesso qualche errore nella progettazione, nell'assemblaggio…
Un piccolo tremito si trasmise attraverso i suoi piedi. Un cicaleccio nella microonda, uno skriiii… e l'unità scaricò.
Allo stesso tempo una vaga nebbia comparve alla bocca del lanciatore. Si chiese cosa ci fosse che non andava, fino a quando non si rese improvvisamente conto che la cadenza di sparo del tubo di lancio era di parecchie capsule al secondo, e lui vedeva la macchia confusa del loro passaggio.
Questo era tutto. Nessun rombo, nessuna eruzione di fumo. I lanciatori erano concepiti per funzionare con efficacia quasi perfetta, per generare la quantità minima possibile di calore residuo. Se anche soltanto una frazione d'una percentuale dell'energia utilizzata per il lancio fosse filtrata nel ghiaccio circostante, questa avrebbe fatto evaporare il sostegno strutturale, causando delle dislocazioni, sbilanciando la sincronizzazione della velocità nei segmenti dell'acceleratore, tanto accuratamente configurata. Molto tempo prima che il ghiaccio fosse scomparso, l'instabilità e le irregolarità di funzionamento dei tubi propulsori li avrebbero fatti sussultare riducendoli ad acciaio contorto.
Ma lo sgomitatore funzionò benìssimo. Un evviva si levò attraverso i canali dei comunicatori. La gente sollevò le braccia in segno di vittoria fino a dove Carl riusciva a vedere, mettendosi a ballare sul ghiaccio sudicio, saltando alti nella tenebra. Soltanto i mech continuavano stoicamente il proprio lavoro, ignorando che gli esseri umani erano finalmente riusciti ad agguantare il timone di quella nave di ghiaccio. Halley non era più una palla di ghiaccio sporco ruzzolante nella lunga notte. Adesso era una nave spaziale.
Jeffers stava farfugliando in preda all'eccitazione, ripetendo i parametri operativi a mano a mano che li leggeva sullo schermo del suo casco. Carl riuscì a seguire un po' di quel fuoco di fila: kiloampères che affluivano lungo i circuiti a bassa impedenza, voltaggi che raggiungevano apici estremi per poi afflosciarsi al passaggio di ogni pallottola, succhiando l'energia dell'elettricità indotta e dei campi magnetici. L'energia si riversava dentro le capsule, l'impulso elettrodinamico scorreva come un fluido alla velocità della luce.
Soltanto l'accelerazione elettrica era abbastanza efficiente da evitare il problema del calore di scarto, per evitare di far fondere lentamente la cometa stessa. Per il momento c'erano grandi cataste di ferro al polo Nord, estratto durante il primo anno della spedizione, ma sotto ad ogni lanciatore, in profondità, si stava svolgendo un'attività estrattiva meccanizzata, dove in anguste caverne i robot scavavano, e lavoravano altri quantitativi dell'antico e naturale metallo della cometa.
Una fabbrica al Livello A produceva dei secchi leggeri fatti d'uno speciale polimero superconduttivo. Questi venivano riempiti di ferro e di altri materiali di scarto pesanti. Ogni «mestolata» riempita di metallo diventava una pallottola. Dei nastri trasportatori le alimentavano con costante precisione dentro la canna di un lanciatore, dove il voltaggio in aumento afferrava ciascuna pallottola e la lanciava ad altissima velocità: diecimila chilometri al secondo, quasi il tre per cento della velocità della luce. Il Lanciatore 6 era una specie di mitragliatrice cosmica che sparava pallottole le quali avrebbero raggiunto le stelle più vicine nel giro di pochi secoli.
Avremmo potuto costruire delle navi stellari, se soltanto ne avessimo avuto il coraggio pensò Carl. Forse, un giorno…
Tale era la massa di Halley che perfino quelle enormi velocità erano appena sufficienti al compito di pilotaggio. Carl si sintonizzò su una frequenza dei tecnici e sentì uno staccato braaap braaap braaap a mano a mano che ciascuna pallottola coglieva le sue minispinte nella colonna dello sgomitatore. Il Lanciatore 6 era il primo dei cinquantadue che avrebbero ben presto cinto Halley, scagliando via in lunghe serie di rapidissimi balbettamenti le loro pallottole di qualche chilogrammo, per cinque anni. L'afelio, quando la testa della cometa si sarebbe soffermata come una danzatrice all'apice del suo salto, era il momento più efficace per far deviare Halley. Ben un decimilionesimo dell'intera massa della cometa doveva venir espulso. Ciò richiedeva dozzine di mech per supervisionare l'estrazione e la fusione del ferro, minirobot che sgobbassero accanto ai nastri trasportatori, in continuità, programmi esperti di subroutine capaci di accorgersi di ogni intoppo e magari prevenirlo, evitando ogni ostacolo nell'interminabile, balbettante febbre della sgomitata.
— Dannazione — esclamò Carl. — Funziona! — Provò un impeto di sollievo e si rese conto di avere stretto spasmodicamente le mani.
Gli evviva continuavano. Perfino quella dimostrazione che sarebbe durata soltanto poche ore stava rallentando la rotazione primordiale di Halley, alterando sottilmente la sua lunga ellissi planante.
— E funziona, perfino — confermò Jeffers, sorridendo felice. — Vieni giù al Lanciatore 5. Lì ho fatto montare un piccolo perno. Impedisce al tubo del lanciatore di scollarsi. Abbiamo calcolato…
Jeffers s'interruppe all'improvviso quando un geyser ribollì fuori da una torre di ghiaccio lì vicino. L'intricato tratteggio a croce azzurro e avorio di Vidor esplose in una pioggia di nebbia e di residui luccicanti che rimbalzarono via in ogni direzione.
— Dannazione!
— Cosa? Cosa sta succedendo?
— Un laser! — Carl si appiattì contro il suolo sporco. — Tutti a terra!
— Cosa diavolo… Chi può aver…
— Gli archisti! — si rese conto all'improvviso Carl. — Devono aver saputo del successo della prova al comunicatore.
Jeffers urlò: — Ma perché? Pensavo che Quiverian fosse d'accordo…
— Che io sia dannato se lo so.
Dappertutto lì intorno uomini e donne si stavano appiattendo al suolo per cercare riparo. Un'altra torre di ghiaccio più distante si dissolse in nebbia. Questa volta Carl vide un lampo di luce quando il raggio colpì.
Jeffers strizzò gli occhi verso un punto lontano in cima a un mucchio di scorie, residuo d'una operazione mineraria.
— Hanno portato in posizione uno di quei grossi laser industriali. Stanno cercando di colpire il 6, ma con quegli affari non si può prendere tanto bene la mira.
Al comunicatore risuonarono grida oltraggiate. Una scarica incise il ghiaccio vicino a una forma rannicchiata, e Carl udì un grido di sorpresa e di dolore.
— Takeda! Sigilla la tuta di quella donna e portala al pronto soccorso!
Quindi si accucciò dietro ad un piccolo rialzo ed osservò le fiammeggianti scariche dei laser che facevano schizzare fontane verso il cielo. — Bastardi!
— Dobbiamo far qualcosa.
— Potrei chiedere a Virginia di mandare dei mech alle loro spalle, prendendoli di fianco…
— Già, giusto — disse Jeffers.
— No, aspetta… — Carl controllò il canale di Virginia. Un sibilo. Era interrotto, naturalmente. Soltanto un idiota avrebbe attaccato senza interrompere la fonte d'aiuto dell'avversario.
Un altro gemito di dolore al comunicatore.
Carl toccò la spalla di Jeffers: — Il Lanciatore 6… puoi farlo ruotare?
— Cosa?
— Inclinare il Sei verso il basso? Puntarlo verso l'orizzonte?
Jeffers parve sorpreso. — I sistemi di sicurezza non sono montati… è un angolo molto basso.
— Provaci!
Quando Jeffers strisciò dentro la trincea del lanciatore, la torre-fulcro del Lanciatore 5 esplose dietro di loro, facendo cadere lentamente sulla superficie cavi e capottatura. Componenti perduti, perduto il tempo impiegato nella costruzione, squadre ferite: gente della quale lui era responsabile. Carl guardò furioso quei punti lontani che manovravano intorno al cannone al laser. Una rabbia omicida cresceva in lui.
Si disintonizzò dai canali dell'intercomunicatore, in cui le voci s'ingrossavano e si sovrapponevano le une alle altre. La gente chiamava amanti e amici, crepitando di rabbia impotente. I mech chiedevano innocentemente degli ordini. Poi la voce di Virginia s'intromise nella sua linea privata. — Cosa sta succedendo? Qualcuno ha disturbato i miei canali. Chi…?
— Manda qualche arma quassù!
— Ma… ma cosa useremo?
— Quei piccoli laser in Tre B, è tutto quello che possiamo spostare subito.
— Ma non falceranno chiunque si avvicinerà abbastanza per cercare di usarli?
Carl imprecò. Aveva ragione.
— Posso spedire dei grossi mech dal polo Nord.
— A quell'ora saremo già arrostiti!
Fischiò un ordine di cercare e contattare Joao Quiverian e ottenne un canale nel giro di pochi attimi. — Quiverian! Qui Osborn. Tu…
La voce di Quiverian era tesa. — Quelli non agiscono per mio ordine. È vero, sono archisti, ma io non posso controllarli.
— Ti aspetti che ci crediamo?
— Dovete. È la verità.
Carl digrignò i denti. Così, il nemico non aveva volto. Anonimo. La gente che stava usando quei grossi laser non avrebbe permesso a nessuno di prendere il controllo delle possibilità della sgomitata, per tentare un'altra orbita. Con loro, era tutto o niente… e loro avrebbero preso tutto.
Nel comunicatore generale un altro urlo quando un'invisibile scarica laser colpì una collinetta dissolvendola in una buca profonda. Carl vide un corpo rotolare via… qualcuno si era nascosto là dentro.
Usò un comando di scavalcamento sul canale A. — Fate sgombrare la gente che si trova su quella montagnola di scorie vicino al Lanciatore 2! Tutti voi rifugiatevi giù nelle gallerie di alimentazione. — Un farfugliare in risposta. — E usate i codici d'identificazione se volete farvi sentire!
Impartì rapidamente un ordine nel linguaggio mech e il rumore s'interruppe quando il controllo canali passò al modo normale. Adesso le radio delle tute non avrebbero più funzionato fino a quando il sistema non fosse passato ai comandi dei codici individuali. Per qualche istante vi fu soltanto un sibilo arcano. Poi: — Jones, codice BQ a Osaka e Osborn. Adesso sto guidando un gruppo di cinque giù nel pozzo.
— Lomax, codice DF, al comando. Ho una buona visuale da un punto alto e protetto. Tutti mi trasmettano in codice P la propria posizione. Ritrasmetterò la vostra situazione a Osborn.
Carl annuì. Pochi spaziali in gamba che ricordassero il loro addestramento valevano altrettanti battaglioni.
— Jeffers. Codice GH a Osborn. Ce l'ho fatta, credo.
— Osborn. Codice GH. Fatto cosa?
— Jeffers, GH. Sto inclinando il lanciatore verso il basso. Devo girarlo verso sud. Ci pensi tu a metterlo in linea di tiro, d'accordo?
Carl si rese conto che il costante martellare che arrivava dal Lanciatore 6 da un po' di tempo era cessato. Adesso, mentre guardava, l'insieme stava laboriosamente ruotando verso le lontane, basse colline, con il muso inclinato verso il basso. Carl si alzò in piedi e si portò rapidamente dietro al lanciatore che stava lentamente ruotando. L'unica maniera che gli venne in mente per puntare quell'affare fu di prendere la mira direttamente guardando lungo la sua canna.
Magnifico. Davvero alta tecnologia.
Ed era indubbio che gli archisti stessero seguendo con molta attenzione le loro mosse. Il loro obbiettivo doveva essere proprio quel punto. Avevano distrutto i bersagli più facili mentre stavano calcolando la giusta gittata. Il Lanciatore 6 era molto più difficile da colpire, sepolto nella sua trincea. Ma adesso che stava lentamente emergendo…
Carl si acquattò su un tratto di terreno chiazzato di arancione e chiuse automaticamente un occhio, allineando la canna del lanciatore con i puntolini che vedeva sulla lontana collina.
— Lomax, DF a Osborn. Ho un abbozzo tattico delle posizioni del nemico. Preparati a ricevere. Sono ammassati piuttosto vicini gli uni agli altri.
Carl proiettò l'immagine su metà della sua visiera. Il disegno approssimativo di Benchley mostrava un gruppo principale a due ali, probabilmente vedette periferiche.
Non sono in molti. Ne conto cinque. Ma hanno il terreno migliore.
Gli archisti si erano piazzati in un'infossatura del terreno, e approfittavano del riparo. Mentre Carl guardava, un vivido lampo azzurro ammiccò, spingendolo istintivamente ad abbassarsi. Il che era ridicolo. Se si fosse trovato nel punto focale del laser, sarebbe rimasto accecato all'istante. Invece avevano puntato alto. Soltanto i campi periferici l'avevano colpito.
Disse a Jeffers di fermarsi. Era quasi inclinato a sufficienza…
Sbatté le palpebre per schiarirsi la visuale; non gli servì a molto. — Spara!
— Non… non posso sparare contro il fianco di quella collina un carico completo. È un chilogrammo di ferro a diecimila chilometri al secondo… sarebbe come far esplodere una bomba da dieci chiloton!
Carl pensò furiosamente. — Contenitori vuoti! Hanno una massa di soli due grammi. Ne hai qualcuno?
— Uh. Sì. E sarà anche meglio che usi poca corrente — disse Jeffers. — Ci vorrà un minuto… vediamo… regoliamolo sull'uno per cento…
Qualcuno gridò. Un altro colpo mancato di poco. — Dobbiamo rispondere al fuoco. Spara!
— D'accordo, d'accordo. — Con suo vivo sollievo Carl udì il braaap braaap braaap che riprendeva. Il suono era diverso. Pù basso, più aspro.
— Non è sincronizzato per questo!… Le vibrazioni lo manderanno in pezzi!
Carl regolò la sua visiera sul telescopico. Dappertutto in alto e in basso lungo il fianco della collina schizzavano pennacchi di vapore, a mano a mano che le pallottole colpivano.
— Comunicatore ad auto-scavalcamento. Jeffers, a sinistra!
— Bene.
I minuscoli sbuffi di nebbia schizzavano alti al ritmo di parecchi al secondo.
Un lampo azzurro dalla cima della collina, questa volta più luminoso. Anche il nemico stava affinando la mira. Carl si girò e vide il ghiaccio non lontano alle sue spalle avvampare ed esplodere all'improvviso in una nebbia perlacea.
— Più in alto!
— Beccati!
Una linea esplodente di nebbia s'inerpicava lungo il fianco della collina, con andamento vagante ma sempre in salita, sempre più su verso i minuscoli punti che manovravano il grande, ingombrante tubo.
Due antagonisti, ognuno alle prese con un'arma troppo grossa e potente per poter essere usata con destrezza… come lottatori che si stessero flagellando l'un l'altro con travi d'acciaio. Il primo che avesse centrato il bersaglio…
Carl si domandò cosa sarebbe successo se il laser l'avesse colpito in pieno. La sua tuta ne avrebbe riflesso una parte, e con quella angolazione il raggio si sarebbe diffuso su un'area molto più grande… comunque non voleva scoprirlo.
— A destra! E ancora più in alto! — I sobbalzanti sbuffi di nebbia guizzarono, virarono, si stabilizzarono… e colpirono quei puntolini in agitazione.
Una distruzione silenziosa. Carl si distese sul ghiaccio ad osservare le pallottole che martellavano incessantemente i bersagli, microscopici puntini che si dibattevano finendo in frantumi, pezzi del laser che balzavano via, a mano a mano che la nebbia generata da quell'attacco si addensava, si allargava, per poi oscurare del tutto la scena.
— Va bene. Puoi… spegnerlo.
— Li abbiamo presi?
— Sì, sì. Ce l'abbiamo fatta.
In quel momento, Carl non provò nessuna euforia, nessun piacere. Era accaduto tutto così in fretta, in una maniera così astratta. Uno sciame di puntini che si muovevano lungo il fianco della collina. Vividi, improvvisi lampi di azzurro. E poi, quegli spruzzi distanti quando gli involucri sfreccianti a diecimila chilometri al secondo avevano colpito il ghiaccio… l'acciaio… la carne cedevole, fracassando le ossa. Una scienza di rigorosa geometria e di facile morte.
— Ehi! Ci siamo riusciti! Servirà di lezione a quei fetenti! — Il Lanciatore 6 tacque. Jeffers balzò fuori dalla trincea, pieno d'entusiasmo.
— Così… sì, così ce l'abbiamo fatta.
Udì la voce di Virginia, e di altri, e con l'intenso vocìo che scorreva nuovamente negli orecchi, Carl s'incamminò lentamente verso il fianco martellato della collina, non volendo vedere con i propri occhi quello che c'era, ma sapendo che avrebbe dovuto. Faceva parte del suo lavoro.
Tutt'a un tratto la mente gli si schiarì, e ricordò il resto della poesia, le strofe che aveva pigramente rievocato soltanto pochi minuti prima… un tempo che già adesso gli sembrava appartenere a un passato vecchio di molti mesi:
E ci troviamo qui come su una pianura che si va oscurando spazzata da allarmi confusi di lotte e di fughe, dove eserciti ignari cozzano di notte.
Le tute spaziali erano davvero seccanti. Ricordavano a Virginia quanto lei non fosse affatto in forma… come anche per lei fossero trascorsi gli anni.
Lottò per qualche istante con alcune delle fasce di regolazione, allentandone un paio e stringendone altre… tutte nei punti sbagliati. Flaccida! Non c'era da stupirsi che Saul fosse stato così…
Virginia soffocò subito quel pensiero. Comunque, era sicura che i loro guai avevano poco a che fare con la loro recente mancanza d'esercizio.
Forse niente è stato concepito per durare pensò ancora, con una punta di scoramento. Forse tutto ciò che è buono alla fine si autodistrugge.
L'immagine di un nuovo mondo. Nuovi vulcani che eruttano per salutare l'alba…
Per la prima volta, dopo il fallito attacco degli archisti, Carl le aveva dato il permesso di salire a vederlo di persona. Il fatto di essere indispensabile aveva i suoi svantaggi. Con le guardie umane e i mech di sorveglianza disposti a schiere intorno al suo laboratorio per proteggerla, negli ultimi tempi aveva cominciato a sentirsi come una formica regina, un'autentica schiava della propria sovranità.
Però, una formica regina crea per lo meno le uova…
Un altro brutto pensiero. Perché mai tutto questo doveva emergere alla superficie proprio adesso?
Perché abbiamo cominciato ad ammazzarci fra noi, qui e adesso? È per questo che sono così depressa?
O è forse perché mi sento sola e non sono più giovane?
Virginia terminò di vestirsi e s'infilò una logora cotta sulla tuta. Non ne aveva neppure una di sua, non si era mai preoccupata di disegnarne una. Questa, che riproduceva un covone di grano sopra tre sfere d'oro, era appartenuta al dottor Evans, un tecnico degli impianti idroponici ormai ineluttabilmente morto da vent'anni. La matrona addetta all'abbigliamento l'aveva registrata a nome di Virginia, e lei aveva deciso di conviverci.
Vorrei tanto che non fosse necessario salire quassù di persona pensò, mentre cominciava a passare attraverso la camera d'equilibrio.
Ma quella faccenda era troppo importante per discuterne attraverso qualunque canale del comunicatore. Non era soltanto la paura di venire intercettata. Virginia voleva osservare la faccia di Carl quando si fosse trovata davanti a lui.
Il portello esterno si aprì e la scena venne oscurata per qualche attimo da una nebbia di vapori in condensazione. I fiocchi di neve vennero soffiati via nello spazio e Virginia spaziò con lo sguardo su quel paesaggio ghiacciato all'aperto.
In un certo senso rimase un po' delusa. Il suo collegamento anche con i mech più lontani era diventato così buono che la sua vista in superficie le pareva in realtà migliore sotto forma di surrogato che di persona. Quel camminare-scivolare con cautela sulla crosta sudicia le dava in qualche modo un'impressione di maggior distacco che controllare un mech là fuori.
C'era anche un'ondeggiante sensazione di nudità. Dopotutto, aveva molti mech, ma un corpo soltanto. E adesso questo si trovava là fuori, sotto le stelle immobili.
Qui fuori, accanto al Pozzo 6, il paesaggio era meno segnato rispetto ai luoghi dove i suoi mech e i lavoratori della fabbrica di Jeffers avevano scavato e solcato l'antica cometa. Qui la caratteristica dominante era un edificio incombente che pareva un incrocio fra una ruota di vetro di Ferris e una tela intessuta con la seta liquida d'un ragno.
Un certo numero di spaziali erano radunati alla sua base. Indicavano a gesti un punto di quella tenebra luccicante. Virginia riconobbe le cotte di Carl Osborn e Andy Carroll, oltre a quelli di parecchi altri, per la maggior parte membri delle fazioni dell'Altopiano Tre e dei Sopravvissuti. Virginia borbottò delle frasi-comando fino a quando non riuscì a inserirsi sulle frequenze da essi usate. Penetrare il loro codice fu un gioco da bambini:
— … ti dico che penso che quell'affare sia troppo dannatamente piccolo! Potrebbero aver fatto dei progressi da quando ce ne siamo andati, certo. Ma perfino quell'incandescente torcia a fusione non può aver spinto più di venti tonnellate con quel tipo di accelerazione, per così tanto tempo.
— Sì? Be', anche se sono soltanto venti tonnellate, pensa a tutto ciò che potrebbe esservi incluso. Chip dalla logica più veloce per computer migliori, e mech più efficienti. Sementi ibride per migliorare i nostri impianti idroponici. E detonatori al trizio! Venti tonnellate di roba del genere potrebbero costituire tutta la differenza.
Era ovvio che l'oggetto della loro discussione era il Pacco Assistenziale. Mentre si stava avvicinando, costeggiando un'area crepata nel ghiaccio, la voce di Carl interloquì:
— Tu speri che i doni natalizi faranno cambiare idea agli archisti, Andy?
— Oppure che ci offrano qualcosa per spazzarli via. Non m'importa che cosa, basta che sia in grado di scrollarli via dal polo Sud, cosicché si possa tornare alla manovra di Giove e salvare la missione originaria. La sgomitata di Marte va bene, come seconda scelta. Ma il capitano Cruz avrebbe voluto che noi…
Le parole s'interruppero quando Andy si accorse che Carl si era voltato per salutare Virginia.
— Osborn, apri il canale a Herbert. Ciao, Virginia.
La sua tuta macchiata era una combinazione di parti diverse cannibalizzate. Sopra la tuta era steso un tessuto bianco, scurito, adorno dell'immagine d'un crostaceo rosso. Il suo visore si schiarì e Virginia vide il suo viso. Il grigio alle tempie e le rughe sulla fronte non avevano derubato Carl del suo fascino fanciullesco dalla mascella volitiva.
— È bello da parte tua essere salita, Virginia. C'è qualcosa di speciale che vorremmo chiederti di fare per noi.
Virginia annuì, poi si ricordò che era rivolta nella direzione del Sole lontano. Anche se adesso era poco più di una stella molto luminosa, la sua visiera poteva ugualmente essersi oscurata automaticamente, nascondendo il suo gesto.
— Vi aiuterò in qualunque modo mi sarà possibile — cominciò. — Ma…
— Magnifico. Stiamo cominciando a preoccuparci per il primo Pacco Assistenziale dalla Terra. Non vogliamo che niente vada storto quando arriverà.
— Cosa potrebbe andare storto?
— Supponiamo che cada nelle mani sbagliate? — suggerì Carroll.
Carl scrollò le spalle.
— Quiverian nega ogni responsabilità per quell'attacco giù all'equatore. Dice che si trattava di rinnegati i quali agivano senza nessuna approvazione ufficiale. Comunque, capisco il tuo punto di vista. Credo che nessuno di noi voglia che, per errore, il Pacco Assistenziale atterri al polo Sud. Sarebbe meglio mandar fuori un mech perché scorti fin qui il vascello con il carico.
Virginia comprese. Non si può permettere che il pacco di salvataggio venga sequestrato. A questo punto gli archisti ci avrebbero completamente in pugno. Avrebbero il completo controllo della situazione.
— Bene, comincerò a lavorare con Jeffers ai particolari — dichiarò. — C'è qualcos'altro di cui volevo parlarti, comunque.
— Sicuro. Di cosa si tratta? — Quando Virginia scosse la testa e rimase silenziosa, Carl si rivolse agli altri:
— Torno subito, ragazzi. Guardate un po' se riuscite a sintonizzare meglio quell'antenna, per favore? Voglio far bene il punto di quell'affare, quando sarà più vicino.
— Bene, Carl.
La condusse dietro ad un grande mucchio di residui minerari. Assicurandosi che lei potesse vederlo, alzò la mano e spense il proprio trasmettitore. Annuendo, lei fece la stessa cosa. Carl si chinò in avanti, mettendo a contatto i caschi.
— Cos'è che ti tormenta, Virginia? Sembri così… afflosciata. Si tratta di Saul? Ho sentito…
— No — si affrettò lei a interromperlo. Il suo volto era così vicino… Il doppio strato di cristallo che li separava parve trasmettere un alito caldo. — No, non è questo, Carl.
Per lo meno, non è questa la ragione per cui sono salita quassù.
— Ma c'è qualcosa che importa, fra voi due — lui insisté.
Virginia annuì. Un breve, rapido scuotimento della testa. — Niente, a dire il vero. Soltanto… già… una di quelle cose. Il tempo…
— Il tempo ci fa cambiare tutti, Virginia. Non mi sono mai scusato con voi due per il modo in cui mi sono comportato, tanti anni fa. Sono stato un idiota. — C'era un vivo fervore nei suoi occhi.
— Eri giovane, Carl. Eravamo tutti più giovani.
Salvo Saul. Con il suo perfetto sistema immunitario, non vivrà per sempre? È questa, forse, una fonte di attrito fra noi? Carl abbassò lo sguardo per un attimo, poi incontrò i suoi occhi. — Ciò non significa che sostanzialmente il mio sentimento sia cambiato, Virginia. Se sei pronta per un cambiamento… — Carl lasciò in sospeso la frase, e d'un tratto Virginia vide qualcosa di più profondo del fervore, qualcosa di più profondo perfino della severità del comando. Sollevò la mano guantata, toccò il vetro.
— Oh, Carl. Hai sofferto così tanto.
Carl scrollò le spalle, diviso fra sentimenti contrastanti. — Sei salita da me perché… — c'era speranza nella sua voce.
Virginia scosse la testa, scacciando via la debolezza che minacciava la sua determinazione. — Carl… — Deglutì. — Carl, voglio sapere per quale motivo hai in mente di ucciderci tutti.
— Uh? — Lui la fissò. — Come… Cosa vuoi dire?
Virginia lasciò ricadere la mano. — Oh, sei sempre stato un bugiardo molto scadente, Carl. Almeno per me. Gli altri sembrano aver digerito il tuo atto di Giuda, convinti che la Terra abbia davvero l'intenzione di salvarci, tutte quelle fandonie su un passaggio ravvicinato di Marte, per poi proseguire verso Giove e Venere, poi di nuovo su Marte e la quarantena…
— Di cosa stai…
— A pensarci bene, però, Jeffers e i suoi ti appoggerebbero se sapessero la verità, no?
Carl interruppe il contatto facendo un passo indietro prima che lei concludesse la frase. Le sue labbra erano serrate. Quando parlò, i movimenti della sua bocca parevano trasmettere un'amarezza pungente anche se silenziosa. Virginia indicò con un gesto i propri orecchi. Con un impaziente scuotimento delle loro teste ricongiunse i loro caschi con un rumore stridente.
— Cos'hai intenzione di fare? — lui le chiese.
Per lo meno, non stava insultando la sua intelligenza con un'ulteriore finzione.
Carl sapeva che Virginia doveva aver visionato simulazioni in una dozzina di maniere diverse prima di accusarlo di una cosa del genere.
— Quello che farò? — rispose Virginia. — Per prima cosa ti darò la possibilità di spiegarti. Voglio sapere perché fai da paravento a questo tranello del Controllo Terrestre, mandandoci in rotta di collisione diretta con Marte?
Gli occhi di Carl si strinsero per un attimo. — Anche sulla Terra ci sono fazioni. Ci sono stati degli… scambi. Abbiamo dovuto raggiungere degli accordi per poter ricevere i Pacchi Assistenziali.
— Cosicché possiamo spiaccicarci su un pianeta fra quarant'anni? — Virginia non poté fare a meno di esplodere in un'amara risata.
— Quaranta lunghi anni, Virginia. Perfino con il siero di Saul, dovremo tenere sveglia tanta gente che per allora saremo vecchi.
— Ci sono bambini, Carl.
— Quei poveri bambini avuti dagli ortho? Non meritano neppure di essere chiamati umani, Virginia. Tu lo sai. Comunque, loro, e noi, vivremo meglio e più comodamente con gli articoli che riceveremo con i razzi dalla Terra.
— Comodità?
— Sì. Conta qualcosa. Ma c'è una ragione molto più importante.
— Quale?
— Francamente, Virginia, non vedi che questa è la sola maniera grazie alla quale potrà emergere qualcosa da questo completo fiasco?
Virginia scosse la testa. — Quale vantaggio può venire dalla morte di tutti noi?
— Be'… dal punto di vista della Terra, la fine di una minaccia. E sotto questo aspetto posso capire il punto di vista degli archisti.
— Puoi?
— Sì. Naturalmente. Farebbero qualsiasi cosa per proteggere il nostro mondo nativo dalle halleyforme. E tu non puoi biasimarli per questo.
— E dal nostro punto di vista?
Carl scrollò le spalle. — Faremo scoccare di nuovo la scintilla della vita su un mondo morto. Con la nostra morte potremo dare inizio al lungo processo per riportare Marte alla vita.
Virginia non riuscì a trattenersi dal sogghignare. — Cominci ad assomigliare a Jeffers.
— Forse io sono come lui, se è per questo. — Carl guardò altrove. Abbassò la voce. — Avrei potuto tentar di pensare a qualcos'altro, non importa quanto improbabile, se… — S'interruppe.
— Se… cosa, Carl?
— Lascia perdere. Non è importante.
— Carl! Devi parlare con me.
Lui scosse la testa. — Saul mi ha detto, qualche tempo fa, che stava lavorando ad un metodo di clonazione. Fra dieci anni, o giù di lì, potrebbe essere in grado di produrre una generazione di bambini sani, leggermente modificati per essere in salute e crescere bene alla bassa gravità. Potrebbe esserci qualcosa in quell'idea di cui parlano alcuni degli Uber di Sergeov, di dire alla Terra di andare all'inferno, cercando di colonizzare Tritone.
Virginia sbatté le palpebre, rendendosi conto di cosa avrebbe potuto indurlo ad accettare un simile piano. — Vuoi dire… me, in particolare. Non è così?
— Sì. Tu, io, i bambini che soltanto tu ed io potremmo avere insieme. Potrei venir convinto ad assumere un altro punto di vista, se questo sembrasse possibile.
Dentro la mente e il cuore di Virginia soffiava il vento gelido dell'inverno. Era una paralizzante incapacità, una indisponibilità a capirlo. Sapeva, vagamente, che quella era la personale versione di Carl delle neurosi di cui tutti loro soffrivano, ma adesso… niente di peggio della norma, ma altamente insolita. Era la maledizione del romanticismo ipertrofico. Sotto quell'aspetto il nostalgico adolescente che era in lui era rimasto congelato nel tempo…
Sapeva che una semplice confessione avrebbe potuto risolvere quel problema… una franca ammissione che, non importava quali miracoli della tecnica la scienza avesse reso disponibili, lei non avrebbe mai avuto bambini da nessun uomo. L'universo l'aveva deciso molto tempo addietro.
Però lo stordimento che provava era troppo grande, troppo simile a un blocco di ghiaccio che non riusciva a sollevare, neppure per essere gentile con un caro amico.
— Non dirò a nessuno di Marte, Carl.
— Non lo farai? — Sbatté le palpebre. — Ma io…
— Mi hai convinto che hai ragione. Sarà meglio in questo modo… morire portando la vita su un mondo morto. Meglio di un'inutile estinzione, visto dove ci conduce la nostra strada in questo momento.
Virginia arretrò e riaccese il proprio trasmettitore. — Dimmi quando e come volete incontrare il primo Pacco Assistenziale, e dammi una squadra d'appoggio. Comincerò a far passare subito delle simulazioni.
«Ci vediamo, Carl.
Cercò di non guardarlo negli occhi mentre si voltava per allontanarsi, ma sentì lo sguardo di Carl puntato sulla sua schiena mentre sceglieva un sentiero angusto e solitario per ridiscendere nella sua cripta, molto al di sotto delle gelide stelle.
Era un animale sofisticato, il veicolo che aveva viaggiato così lontano per portar loro doni dalla lontana Terra, e aveva tracciato un ardito solco avvampante per raggiungerli in quel luogo in soli cinque anni. Sfrecciando tre volte accanto al Sole aveva acquistato una formidabile velocità, e adesso saettava finalmente verso l'esterno, dentro le nere profondità sottostanti e al di là del piano del sistema solare.
Durante ogni sferzante passaggio accanto al Sole aveva cavalcato l'avvampante bagliore della stella sulle gigantesche, sottilissime vele. Poi, quando la distanza aveva reso fievoli i fuochi dietro di esso, le grandi vele si erano ammainate e la macchina aveva eruttato una fiamma propria. Frammenti di antimateria s'incontravano in una minuscola camera di combustione, liberando energia che era quasi luce coerente, propellendo l'apparecchio ancora più velocemente.
Erano stati sufficienti soltanto tre passaggi per condurre la sua orbita sul piano di quella di Halley, ma assai più velocemente della cometa in fuga. La tecnologia l'aveva reso possibile, e il riacceso favore dell'opinione pubblica esigeva velocità. Per la stampa popolare della nuova generazione quella era una missione di misericordia che non ammetteva ritardi.
Per altri, era qualcosa di completamente diverso. Un pagamento una tantum per corrompere e convincere quegli strani coloni, contagiati esuli nel tempo, a mantenere il loro accordo… l'accordo di starsene lontani.
Qualcuno sperava forse, in quel modo, di placare il loro senso di colpa per la distruzione della Edmund Halley? Oppure di spegnere la propria vergogna per tutti quegli anni di silenzio e disinteresse?
Saul guardava gli schermi, insieme ai rappresentanti scelti di tutti i clan, nella cavernosa Stanza di Controllo della Centrale. Una volta tanto la cavità era piena, anche se Saul era pronto a scommettere che gli architettti non avrebbero mai immaginato una simile folla… figure torve coperte di tatuaggi e d'indumenti tessuti con fibre di licheni delle halleyforme, segnati dalle cicatrici di malattie mai viste sulla Terra, i quali borbottavano fra loro in strani dialetti.
Perfino Joao Quiverian si trovava là, in un angolo, corrucciato, a braccia conserte, insieme a tre guardie del corpo e ad una lontra clonata di recente che lanciava tutt'intorno occhiate ferali, appollaiata sulla sua spalla.
I rappresentanti di tutti i clan si trovavano qui per osservare, mentre Virginia Herbert guidava l'inviato meccanico della colonia in orbita collimante con il Pacco Assistenziale ancora in fase di decelerazione.
— Certamente hanno fatto progressi. Quella torcia è potentissima — disse Andy Carroll dalla consolle balistica. — Ma non rallenta ancora abbastanza velocemente per i miei gusti.
— Eguagliamo l'orbita — mormorò Virginia con voce assonnata. — Non stare sulle spine, Andy. Abbiamo fatto anche noi dei progressi.
Un panno nero le copriva gli occhi mentre giaceva distesa sulla sua ragnatela accanto ai comandi waldo. Il cavo del connettore neurale usciva come un serpente dalla sua nuca, e le sue dita toccavano con delicatezza una serie di manopole zigrinate.
Saul notò la bocca di Quiverian che si piegava in una smorfia di disapprovazione. Ovviamente quell'uomo aveva difficoltà ad accettare che fossero dei percell a dirigere l'operazione di recupero. Ma si trovava lì soltanto perché era tollerato, e non poteva certo lamentarsi.
Per diritto, Carl avrebbe potuto tenerlo lontano, come rappresaglia per l'ammutinamento che aveva guidato giù a sud. Malgrado Quiverian avesse negato qualunque responsabilità nei confronti dei rinnegati che avevano attaccato i lanciatori equatoriali, e li avesse denunciati pubblicamente, lui e i suoi archisti non ispiravano certo fiducia. Fintanto che si trovavano nella Centrale, erano costantemente sorvegliati da una squadra di hawaiani, sia naturali che potenziati, guidati da Keoki Anuenue.
Comunque, con il potere di negoziazione che il Pacco Assistenziale stava per dargli, Carl poteva permettersi di essere generoso.
E nessuno era, poi, certo di cosa contenesse quel pacco. Saul rifletté fra sé: Potrei elencare mille articoli per i quali sarei disposto a dare un dito, una valvola bicuspide, o anche di più. E ci sono centinaia di altre liste, ognuna lunga quanto la mia.
Ahimè, probabilmente a bordo non ci sarà neppure un'oncia di buon tabacco da pipa.
Se ne uscì in un pallido sorriso ironico. Mi accontenterei del sintonizzatore per la differenziazione cellulare di quel nuovo sistema di clonazione che hanno sviluppato sulla Terra dieci anni fa.
Tutto era cominciato in maniera abbastanza logica, il suo programma con le scimmie e i gibboni, e i ceppi di vegetali sottilmente alterati… alla ricerca di nuovi elementi da aggiungere ad un crescente sinergismo, un intreccio di forme di vita di Halley e della Terra, invece di una guerra perpetua. Ma durante i mesi più recenti, era diventato qualcosa di più complicato. Adesso c'erano aspetti che, ne era certo, Carl Osborn non avrebbe approvato, e probabilmente Virginia non avrebbe mai capito.
Era per questo che aveva trasferito il suo laboratorio in una cavità segreta sotto un quadrante di Halley lontano dai razzi e dai clan, impedendo perfino alle sue guardie del corpo mech di seguirlo fin laggiù. Aveva contribuito ad allargare la breccia che c'era fra lui e Virginia, pagandone il prezzo.
Erano passati mesi dall'ultima volta che si era collegato con lei alla maniera in cui erano abituati, intrecciando le loro emozioni, e perfino i più occasionali pensieri amplificati dalla macchina, mentre si stringevano sotto il debole bagliore delle lampade di posizione di JonVon. Non aveva più osato, giacché Virginia avrebbe sicuramente trovato delle tracce… sospettando la libertà che lui si era preso, e il suo tragico risultato.
Una piccola orribile creatura che si contorceva in una incubatrice di vetro… branchie e pelliccia e una cosa sibilante… un volto vagamente umano, contorto nell'agonia, e alla fine misericordiosamente immobile…
— È una bellezza — bisbigliò Carl Osborn. E Saul sbatté le palpebre, riportandosi al presente con una scrollata di tutto il corpo. Comunque, quello era un ricordo sul quale preferiva non soffermarsi. Sollevò lo sguardo per contemplare il magico vascello che adesso era chiaramente raffigurato sugli schermi.
Cuspidi esili come ragnatele si allargavano come gli steli di un fiore denudati dall'inverno: le filiere dalle quali le grandi vele si erano gonfiate durante i tre sfreccianti passaggi del vascello da carico accanto al Sole, disposte intorno a un globo che luccicava con l'impossibile splendore d'uno specchio.
— Sto passando allo schermo analizzatore il centro di quella capsula-contenitore — annunciò Lani Nguyen dalla consolle degli strumenti. — Mi chiedevo come avessero risolto il problema dell'impatto con la polvere a quella velocità. Pare che il loro scudo non sia neppure materiale! È una specie di campo di forza gravitazionale… oppure io sono la mia zia zitella!
— No! — esclamò Andy Carroll, e condivise una rapida occhiata con Carl. — Un vero campo di forza? Non c'è da stupirsi che siano riusciti a fabbricarlo così leggero!
Otis Sergeov, capo del gruppo percell degli Ubermensch, penzolava dal bordo d'una olovasca, sulla sinistra, insieme a parecchi dei suoi camerati tatuati. — Quell'affare purpureo zippato è ancora troppo dannatamente leggero. E a cosa servono, comunque, venti tonnellate di merda terrestre?
Jeffers scoppiò a ridere. — Cosa non farei per pochi chilogrammi di trafilatrici del tipo giusto, o di un miglio o due di filo a superconduzione calda! Diavolo, per roba come questa sarei perfino disposto a dipingermi la pelle di azzurro e a farfugliare la nuova-lingua come un Uber, Otis.
Gli occhi di Sergeov lampeggiarono, e Saul seppe che il fatto di essere un percell non avrebbe salvato Jeffers, se quel russo senza gambe avesse avuto la sua sorte nelle mani.
— Bezmoodiy govnocheest! — borbottò Sergeov nella sua lingua nativa. Jeffers si limitò a ridere.
Susan Ikeda, il loro capo addetto alle comunicazioni con la Terra, riferì sull'ultimo colloquio attraverso la radio a lunga distanza.
— Il Controllo Terrestre dice che la loro stima di quattro ore è esatta. La sonda si trova sul giusto corridoio di decelerazione.
— Non può essere — borbottò Carroll.
— Ma loro dicono…
— Le loro informazioni sono vecchie di quattro ore! La velocità della luce, ti dico! Qualcosa sta…
— Chiudi il becco, Andy. — Per un po' ci fu silenzio nella stanza. Soltanto il sommesso ronzio dei ventilatori e il debole clic tutte le volte che qualcuno di loro azionava un interruttore. Poi Lani parlò:
— Sta girando la sua torcia, Virginia.
— Quadra. Era ora. Sto mandando fuori la pastoia.
Virginia non tradiva nessun sintomo di tensione, ma tutti i presenti nella stanza erano afferrati dalla suspense. Gli schermi in alto mostravano le due parti dell'inviato della colonia, le due porzioni collegate da un cavo teso spesso meno di un dito e lungo più di cinquanta chilometri. I razzi avvamparono, e il corpo collegato cominciò a vorticare, come un lento, grande boia nell'oscurità stellata.
— Adesso il propellente della sezione B è esaurito — annunciò Andy Carroll. — La sezione A è pronta a ricevere il trasferimento di velocità fra trecentodieci secondi.
Lani si girò e spiegò a quelli che stavano osservando: — La nostra sonda era un razzo a due stadi. La parte B ha fornito la spinta iniziale. La parte A ha risparmiato il proprio carburante per la collimazione finale con il Pacco Assistenziale.
— Allora, come mai la parte B è ancora attaccata? — chiese uno degli uomini di Quiverian.
Lani mosse i due pugni uno intorno all'altro, imitando un boia. — Stiamo utilizzando una pastoia a vortice per sottrarre ancora più velocità dallo stadio del booster, il razzo di spinta. Scagliando la parte B di nuovo verso Halley, trasferiamo la sua porzione d'energia all'altro pezzo, il nostro vero inviato.
Gli astanti ascoltavano appena. Tutti gli occhi erano sullo schermo centrale, dove il Pacco Assistenziale cominciava a ruotare. Quello che era stato un puntino caldo sull'orlo della cupola a specchio s'illuminò mentre ruotava verso il vorticante messaggero in due parti dei coloni.
L'immagine era troppo confusa. Le loro telecamere a bordo della sezione A che ruotava rapidamente non riuscivano a rimanere fissate in modo continuo sulla nave della Terra. Elaborando quei rapidi scorci, JonVon riusciva a stento a mantenere la simulazione d'un punto di vista fisso.
Saul si chiese se non avesse dovuto venirgli in aiuto. Conosceva JonVon meglio di chiunque altro, salvo la stessa Virginia. Per lo meno avrebbe potuto aiutare il computer organico a stabilizzare ancor più l'immagine.
Ma non si offrì di farlo. In tutta sincerità, temeva che Virginia potesse rifiutare, e rendere in tal modo esplicito ciò che era già tacito fra loro.
Mi manca talmente… Le ho fatto torto, restando lontano, non confessandole quello che ho fatto…
Così si era già detto più e più volte. Ma questo non l'aveva aiutato a trovare il coraggio di parlarle di quella piccola creatura deforme, che era cresciuta nella vasca della clonazione nel suo laboratorio segreto, un tentativo di farle un dono… ma che invece era risultato un crudele memento… l'ammonimento che Dio poneva dei limiti perfino ai profeti, e imponeva severamente il rispetto di quei confini.
Mi è stato posto in mano il potere di plasmare animali e perfino uomini… ma mi è negata qualunque maniera di dare alla donna che amo il bambino che lei tanto disperatamente vorrebbe, una cosa che la maggior parte degli uomini dà per scontata.
Doveva esserci una ragione, ma finora l'Infinito non si era degnato di confidarsi con lui.
— Che razza di clape oscena sta cercando di fare quel coso? — Saul sentì Jeffers mormorare quelle parole.
— Credo… — Carl Osborn scivolò avanti d'un passo, la sua voce improvvisamente rigida. — Credo stia cercando di colpire la nostra sonda.
— Impossibile! — gridò uno degli ortho moderati della caverna di Almondstone. — Perché dovrebbe?
Ma la lancia fiammeggiante del propulsore del vascello della Terra avvampò accecante quando la sua immagine giunse più vicina alla visuale fornita dalla telecamera. Andy Carrol gridò: — Sta manovrando! Accelera la virata! — E poi fu il caos totale.
— La pastoia si è separata! — urlò Lani.
— Ho perso il contatto con la sezione B! — gridò un altro spaziale.
— State indietro tutti! Lasciateli lavorare. Dategli spazio! — imprecò Carl, mentre spingeva via la gente dai controllori. Sopra le loro teste gli schermi erano una macchia confusa di sensori sovraccarichi.
Quando Saul si fece largo tra la folla urlante, gli occhi di Carl incontrarono i suoi, scivolando fra le braccia intrecciate degli hawaiani di Anuenue per avvicinarsi alla consolle. C'era un silenzioso guizzo d'emozione sul volto di Osborn, poi lo spaziale fece scattare la testa. — D'accordo — disse Carl. — Aiutali. Ma se li intralci ti spacco il culo.
Saul annuì e balzò in avanti per atterrare leggero sulla ragnatela accanto a Virginia. Tirò fuori un casco neurale dalla consolle e l'infilò sopra i punti scortecciati del suo cranio.
Il maelstrom era ancora peggiore nel regno delle immagini e dei flussi dei dati. Senza gli anni di pratica sotto la tutela di Virginia, si sarebbe smarrito in un attimo in mezzo a quel rumore.
Filtrò i dati cercando soltanto i centri per l'elaborazione della visione. Le cose veramente importanti, i vettori e i rapporti sulla condizione meccanica e sui dati della rotta, non le toccò neppure. Probabilmente, se avesse cercato di portare aiuto in quel settore, avrebbe fatto più danni che altro. Ma poteva dare a Carl e agli altri una miglior visuale di ciò che stava accadendo. Valutò che quel tanto fosse nelle sue capacità.
Richiamò quella sezione della memoria di JonVon riservata al proprio lavoro, recitando il suo codice segreto di accesso: Simon dice, apriti Kelly.
La risposta parve impiegare alcuni millisecondi, mostrando quanto il professore fosse impegnato:
Buon pomeriggio, dottor Lintz. Ho notizie da riferire circa lo stato dell'ultimo esperimento. Le camere di clonazione stanno operando secondo le indicazioni previste. C'è…
Non adesso lo interruppe. Scavalca tutto salvo la funzione fondamentale per il mantenimento della vita. Trasferisci le altre risorse all'elaborazione dei dati in arrivo in immagini chiare ed esibiscile secondo i seguenti formati.
Visualizzò la consolle lì davanti, e vi si «tuffò» con la sua mente, tracciando sentieri e nominando blocchi elettronici pulsanti per permettere a JonVon di accedervi. Il torrente dei dati era per lui un caos quasi totale, ma lavorare con JonVon sembrava aprire altre possibilità. Gli offriva uno scorcio, e così spesso pensava, delle meraviglie con cui Virginia aveva a che fare, come surrogati per quella parte d'infinito che avrebbe potuto essere sua.
Cattivo argomento. Concentrati, vecchio sciocco!
Le telecamere bruciacchiate, che rotolavano via sulla sonda A, stavano trasmettendo ancora. Se soltanto lui e JonVon fossero riusciti a sincronizzare ed a mettere in fase quel rotolare… ad accedere alla sonda facendo in modo che trasmettesse immagini in rapida pulsazione…
Sì! Macchina intelligente. La mamma ti ha insegnato bene.
Gradualmente, con lo scorrere dei secondi, quella macchia confusa si risolse, guizzò, si stabilizzò. Saul vide che la torcia fiammeggiante della nave della Terra era stata lasciata indietro, la sua vampa non ardeva più in maniera accecante.
La pastoia che si è spezzata l'ha colta di sorpresa. Si rese conto che il vascello della Terra non era stato capace di seguire dei pezzi che volavano via in direzioni tanto rapidamente alterate. Una delle sezioni stava adesso sfrecciando verso il Pacco Assistenziale ad angolo obliquo, ancora più velocemente di prima.
— Stava soltanto cercando di difendersi! — gridò qualcuno in mezzo al pubblico. — Dobbiamo aver attivato una difesa antimetoeoriti!
Un altro degli osservatori fu d'accordo. — Dobbiamo smetterla con questa stupida interferenza. Lasciatela arrivare come hanno previsto i suoi progettisti. Qualunque cosa faremo, sarà come un'azione da selvaggi che interferiscono con una macchina complicata che non capiscono. Ci causerà soltanto un disastro.
Vi fu un sordo brontolio di assenso, ma Saul riuscì a sentire, al di là del succedersi delle correnti dei dati, il chiaro sapore del trionfo che s'irradiava da Virginia.
— Beccato! — la sentì bisbigliare, non molto lontano. Girò brevemente la testa, cercando di vederla. Ma il pulsante connettore neurale e il suo sistema di visione naturale si scontrarono, minacciandolo con un'ondata di vertigini. Chiuse di nuovo gli occhi e si concentrò per stabilizzare l'immagine per Carl.
— Ecco — sentì borbottare allo spaziale, alle sue spalle. — Piano. Andy, Virginia, cercate di restringervi delicatamente alla base di quelle filiere. Adesso, Lani, aiuta Virginia a introdursi nel computer di quell'affare. Scoprite perché non ha ancora stabilito contatto.
— D'accordo, Carl — rispose Lani. Saul percepì il vascello della Terra come un'immagine incombente d'oro e argento bruniti… un globo troppo liscio, ancor più di uno specchio, per essere d'una quaisivoglia sostanza. In quella superficie una forma minuscola ondeggiò e crebbe, illuminandosi di tanto in tanto quando il robot della colonia sbuffava e avvampava per far collimare le velocità. Il loro piccolo inviato era sminuito contro quella curva che rifletteva il bagliore delle stelle, una grossolanità fusiforme che osava spingersi fuori per toccare quella bellezza angelicata.
— Contatto! Ci siamo fissati su una filiera — annunciò Carroll.
— Sto pulsando un codice di comunicazione sonda a sonda — riferì Lani.
— Vedremo cos'ha da dire…
Poi Virginia gemette.
— Quei pazzi figli di puttana!
Come se la lama di un coltello fosse calata e avesse reciso le mani di Saul. Un tsunami di rumore e di dolore lacerò i suoi ormeggi come un uragano, strappando via frammenti di lui stesso in mezzo ad una tempesta di dati impazziti. Provò la sensazione di affogare, e non aveva più nessuna idea di dove fosse l'alto. Il dolore e il caos lo travolgevano.
A questo punto accadde una cosa che salvò la mente di Saul. Starnutì.
Quell'esplosione sussultante fu così violenta che il casco con il connettore neurale gli volò via dalla testa e andò a sbattere contro la consolle. D'un tratto il mondo tornò di luce, aria, e di vero rumore: un timulto di voci umane che pareva, al confronto, il sussurro d'una brezza mattutina.
— Cos'è successo…
— … saltato in aria!
— Mio Dio, annichilamento puro…!
— Itaka, inserisciti sul canale di allarme! Di' alle squadre di superficie di mettersi subito al riparo! — ordinò la voce di Carl sopra quel lievitare di panico. — Falli scendere giù prima che i neutroni li colpiscano!
Delle mani afferrarono Saul per le spalle, cercando di tirarlo indietro. Sbatté le palpebre e in mezzo alle macchie che gli danzavano davanti agli occhi vide la forma afflosciata di Andy Carroll. Stavano recidendo la rete per liberarlo. Keoki Anuenue stava armeggiando dietro al collo ciondolante di Virginia, tirando via il suo connettore neurale mentre altri stavano accorrendo in fretta reggendo barelle.
— No! — urlò Saul. Afferrò il polso di Keoki con tanta forza che il grosso hawaiano cacciò fuori un rantolo di sorpresa.
Saul gracidò: — Non lasciare che nessuno la tocchi. Nessuno! — Prese su il casco che aveva appena buttato da parte. — Lasciala stare! — Con mano tremante se lo rimise in testa.
In un istante si ritrovò in quella turbinante, ribollente marea di elettroni, il ruggito di un'esplosione forte abbastanza da infrangere un piccolo mondo.
Stavolta meglio preparato, Saul cavalcò quelle onde impetuose, cercando uno scoglio, un vortice, un punto qualunque dove fermarsi e raccogliere i fili.
Un frammento del programma di mimesi della personalità di JonVon gli sfrecciò accanto, mormorando qualcosa sul rifiuto di un «Academy Award»… qualunque cosa fosse. Lo ghermì e collegò il frammento ad una subroutine per cercare i database delle biblioteche, e ad un'altra che conteneva informazioni sull'allevamento del bestiame nell'isola di Wight.
— Virginia — bisbigliò. — Dove sei?
Quale istinto gli aveva detto, con certezza più profonda d'una pura consapevolezza, che Virginia era smarrita in qualche punto di quel maelstrom…? Che scollegarla avrebbe significato lasciarla, se non allo stato di vegetale, comunque a qualcosa di basilare perduto per sempre nel caos? Saul cercò intorno a sé, raccogliendo un costrutto sbrindellato, una truppa di frammenti e di relitti, e mandò fuori degli esploratori a cercare.
Un sussurro di aria tropicale, laggiù!
Un profumo di crisantemi, qui!
Un ricordo segreto dell'infanzia… un imbarazzo con un ragazzo del vicinato… portatelo dentro!
Tracce, tutte, che si precipitavano fuori da un guazzabuglio turbinante. Ad uno ad uno, ci sarebbero volute mille vite per riconoscerle, o anche soltanto per ammucchiarle tutte, per non parlare di riordinarle e riportarle a ciò che erano state. Non ci provò. Tutto quello che poteva fare era amarle.
Paura e dolore… un'imprecazione sussurrata.
— … quei pazzi figli di p…
Gli sfrecciò accanto. Ma Saul la raggiunse e l'afferrò.
Ti amo, Virginia invocò. Difetti e tutto il resto… Stupido e cieco come sono, ti amo e ti amerò per sempre…
… per sempre…
La parola echeggiò.
… sempre…?
Sì, lungo la strada del tempo fino a quando perfino il Caldo sbiadirà e tutto il ghiaccio rivivrà… Non ti lascerò mai…
… mai…?
Oh, Saul…
Oh…
— Oooh. — La sua voce del mondo reale sussurrò accanto a lui. — Oh, Saul…
La ragnatela vibrò di movimento, e d'un tratto… ecco… la mano di lei rinserrava la sua, con tanta forza che quel gradito dolore si aggiunse al libero scorrere delle lacrime nei suoi occhi.
Carl digrignò i denti per l'irritazione, ma non lasciò trasparire la cosa. Quattro ore erano trascorse dall'esplosione. Il cauterizzante calore dell'esplosione avvenuta lì vicino aveva fatto evaporare in un lampo uno strato di ghiaccio da una delle facce di Halley. C'erano stati estesi danni ai mech e agli strumenti diagnostici sulla superficie, e alcuni feriti. I dati arrivavano con lentezza, ma ciò non aveva impedito a uomini e donne di discorrere e avanzare ipotesi.
Joao Quiverian stata diventando insopportabile. Usava tutto l'impatto della sua altezza, torreggiando sopra gli altri, con la sua voce che risuonava cavernosa, imperiosa e autoritaria.
— Abbiamo sbagliato in una maniera che trovo ingiustificabile. Questo infortunio è la diretta conseguenza della nostra bramosia di immischiarci in cose che non capiamo, invece che riporre la nostra fiducia negli esseri umani nostri simili. È ovvio che in qualche modo il mech ha dato fuoco alla camera a fusione del…
— Perdeeyn! — imprecò Sergeov. — Idiota di un archista…
Quiverian continuò imperterrito: — … Pacco Assistenziale, e…
— Va bene, basta così — esclamò Carl, in tono secco. — Chiudete tutti il becco!
Quella congrega di persone rivolse la sua attenzione su di lui. — Guardate quelle cifre. — Carl indicò con un gesto uno degli schermi. — Quella era un'esplosione termonucleare in piena regola. Non la disfunzione d'un motore a fusione.
Quiverian restò a bocca aperta. — Non… Ma perché mai avrebbero dovuto mandarci…
La pelle tatuata di azzurro di Sergeov s'increspò in un amaro sorriso. — Non mandarci, destinarci.
Carl annuì. — Lo penso anch'io.
— Una… bomba? — si chiese perplessa Lani Nguyen, sgranando gli occhi a mandorla a quel pensiero.
Carl replicò chiaro e tondo: — JonVon valuta la sua potenza a parecchie centinaia di megatoni. Un sacco di neutroni, raggi gamma e chi più ne ha più ne metta. Nessuna camera a fusione della quale io abbia sentito parlare può esplodere con qualcosa di simile a questa potenza.
Quiverian disse, scandendo le parole: — Allora avevano intenzione… di…
— Di lasciare che portassimo il Pacco Assistenziale giù nel nostro ghiaccio, per poi farlo saltare, distruggendo tutto quello che si trova dentro ad Halley. Facendo fondere la superficie esterna per lo spessore d'un chilometro, facendo crollare le gallerie in tutti gli altri punti. — Carl dovette controllare il suo crescente e frenetico nervosismo. Sulla Terra, in condizioni di gravità normale, i muscoli esercitavano sempre una qualche forma di lavoro, anche soltanto per far rimanere in piedi il corpo, in un equilibrio di minuscole tensioni. Qui, le esigenze interiori di azione non trovavano nessun modo di esprimersi. Era necessario focalizzare tutto su altri canali: la voce, le espressioni del volto, i gesti.
— Trovo… trovo difficile crederlo — mormorò Quiverian, d'un tratto insolitamente calmo.
— È tipico — ribadì Sergeov. — La Terra è sempre stata la stessa. Hanno distrutto la Edmund, puf! E adesso, noi.
Jeffers disse, amareggiato: — Già ci hanno chiesto di prendere la guida del pacco, di condurlo direttamente giù dentro il Pozzo Tre. E l'avremmo fatto, se non fosse stato per la curiosità che ci ha fatto mandar fuori un mech per vedere cosa mai papà ci stava portando — concluse con una sbuffata di scherno. Carl disse: — La Terra ha continuato con la sua storia per tutto questo tempo, per tre anni, quando fin dall'inizio avevano complottato di distruggerci completamente.
— Per conservare la loro sacra biosfera — concluse Saul, con voce pacata, mentre si avvicinava.
Carl sollevò un sopracciglio, Lei come sta?, e Saul annuì per rassicurarlo. Virginia era stata priva di sensi quando i tecnomedici l'avevano portata via su una barella. Carl provò sollievo, ma nell'espressione tranquillamente soddisfatta di Saul lesse una inquietante conferma: in qualche modo lui e Virginia erano di nuovo insieme. Era opera della crisi. Le sue possibilità, che, adesso se ne accorse, aveva permesso che andassero al di là di qualunque prudente aspettativa, erano di nuovo a zero. Saul e Virginia parevano in grado di sopravvivere a qualunque avversità il caso rovesciasse su di loro.
— … posso aspettarmi una spiegazione completa dalla Terra, ne sono sicuro — terminò Quiverian. Carl si rese conto di essersi perso una delle dichiarazioni pontificali di quell'uomo.
— Cosa?
Il volto di Quiverian parve annodarsi per l'esasperazione. — Ritengo che siamo stati vittime di una fazione politica. Qualcuno che, approfittando della quota di carico loro concessa, vi ha incluso una testata nucleare. Ciò non significa che tutta la Terra ci sia ostile. Una volta che avremo informato le autorità della Terra di come questo gesto umanitario sia abortito nella maniera più indegna e scorretta, sono sicuro che quelli al governo prenderanno tutte le misure per punire e azzittire quella congrega di…
— Balle — esclamò Carl con veemenza.
Quiverian sbatté le palpebre, le sue labbra si contrassero, le narici si strinsero, ma non replicò niente. Uno dei suoi luogotenenti cominciò a dire: — Senti, tu non puoi… — Ma Carl lo interruppe, secco:
— Chiamate la Terra alle microonde e ci farete perdere il solo vantaggio che abbiamo: il tempo.
Quiverian atteggiò la mandibola a un'espressione decisa: — Non posso aspettarmi che tu…
— Senti — disse Carl. — Ancora non sanno cos'è successo, giusto?
Jeffers fece alcuni calcoli a mente. — Vediamo… Sono circa due ore di viaggio in ognuno dei due sensi, alla velocità della luce. Dovremmo essere in grado di captare quello che dicevano quando quest'affare è scoppiato.
Carl annuì. — Inseriamoci nella loro trasmissione.
Lanciò uno sguardo verso una telecamera alla parete e annuì. JonVon stava ascoltando, come sospettava, e immediatamente la stanza si riempì del sibilo della statica solare. Poi una voce metallica snocciolò monotona: — Non posso copiarvi qui punto, Halley.
Jeffers disse: — Stanno ancora trasmettendo dati telemetrici per guidarlo sull'obiettivo.
La voce oscillò leggermente, dispersa a causa del suo viaggio di tre miliardi di miglia. — Stando alle nostre stime il pacco si sta avvicinando alla collimazione finale. RPX. Adesso consigliamo trasmettergli lasersegnale per dirigerlo sul Pozzo Tre. Poi prenderà controllo sistema di guida automatico.
Carl disse: — Stanno ancora lavorando al loro approccio.
Un continuo brusio confuso di statica, poi:
— Confermato attracco? Negativo sull'auto-servo pip di accoppiamento, ma ci mostra un contro-comm sul repplede oltre quattro. Aspettiamo quel pip, che ci segnali nessuno-in.
Gli uomini e le donne stavano ascoltando le parole di una civiltà adesso lontana nel tempo come lo era nello spazio. Sapevano che i controllori della missione sulla terra erano addestrati nel gergo del 2060, per minimizzare la confusione, ma anche così, strani termini e manierismi di un'era più moderna s'infilavano nei loro discorsi. Un'occhiata all'unghia del pollice disse a Carl che erano passate tre ore dall'esplosione. Ma gli pareva un anno, ormai. Ordinò che venisse portato di che rifocillarsi. I capi delle fazioni ascoltavano accigliati, in silenzio.
— Dovrebbe arrivare da un momento all'altro, adesso — osservò Jeffers.
Quella voce fluttuante continuò. — Vettore a posto, lettura coincidente. Codificato…
Un'improvvisa pausa. Gli scoppiettii lanceolati dello stesso Sole parvero inondare la stanza, portando con sé un ricordo delle regioni calde che avevano lasciato tanto tempo addietro, la presenza incalzante di quella eterna voce cogitabonda.
Poi vaghe urla, una grande agitazione. — UV e flusso visibile! È esploso!
Un farfugliare confuso, un tonfo ben distinto. — State lontani da là, potrebbe aver già attraccato, non sappiamo…
Una discussione animata, voci che s'intimavano a vicenda di tacere. — Controllate se quei reietti infettivi trasmettono ancora. Dannazione, sapevo che non avremmo dovuto auto-armare quel bastardo.
Un altro tonfo. — Negativo, Fred. Non trasmettono più.
Il fievole urlo di qualcuno: — Quei fetenti sono vapore!
Gli occhi di tutti si spalancarono quando arrivò un suono sottile, chiaramente da qualcuno che si trovava vicino a quello che stava parlando: una risata vigorosa, un grido di giubilo, poi il rumore di molte mani che applaudivano, come il rombo del mare.
Gli uomini e le donne di Halley si guardarono a lungo, in silenzio. Pareva vi fosse poco da dire.
Carl aprì la porta e uscì attraverso le cristalline rifrazioni del boccaporto di superficie. Erano passate diciotto ore. Aveva conferito con gli inviati delle diverse fazioni, aveva ottenuto il loro accordo, cercando di calmarli meglio che poteva. E adesso aveva tutto il diritto di trovarsi rintanato nella sua branda a riporsarsi un po'.
Ma ciò avrebbe significato strisciar via a leccarsi le ferite, qualcosa che avrebbe potuto benissimo fare qualche decennio prima… Sapeva che adesso non avrebbe funzionato. Troppe cose erano successe, e troppo in fretta. Se ci avesse rimuginato sopra, avrebbe finito soltanto per piombare nello scoraggiamento senza riuscire a combinare niente.
Quello era uno standard che aveva lentamente imparato a imporsi: Cosa avrai, quando questa faccenda sarà conclusa? Il ricordo di amare rimuginazioni, tentativi di dimenticare sbronzandosi? Recriminazioni contro ciò che la mano del fato gli aveva riservato? Ciò avrebbe potuto soddisfare qualcosa dentro di lui che voleva un tale frutto amaro. Ma adesso sapeva per esperienza che si sarebbe sentito assai meglio sui tempi lunghi se si fosse buttato a capofitto in un lavoro, costruendo, o riparando, o spostando qualcosa. Che fossero i muscoli a esercitare la propria logica. Poi sarebbe stato in grado di dormire, sapendo che avrebbe per lo meno realizzato qualcosa, che aveva continuato ad agire, facendola vedere a quei bastardi.
Un leggero sbuffo d'aria lo seguì sul ghiaccio, sollevandosi all'istante in una nube di nebbia. Stava procedendo con andatura costante, agguanta-suolo o stringi-ghiaccio, come si sarebbe voluto definirla, ma in questo modo faceva più esercizio.
Aveva avuto a che fare con gente mezzo ammattita, un sacco di gente così, e adesso era più che contento di trovarsi là fuori. Perché io appartengo a questo. Io sono sempre uno spaziale, maledizione!
Un idiota con gli occhi fuori della testa l'aveva fermato in un corridoio, accusandolo di aver sabotato il Pacco Assistenziale. Follia. La gente non voleva accettare questa chiara e limpida realtà: che il loro mondo d'origine aveva giurato di cancellarli dalla faccia dell'universo.
Be', d'accordo. Proprio come io non volevo accettare la realtà che niente separerà Saul da Virginia. È soltanto una questione di proporzioni…
La cintura dei lanciatori cominciò a profilarsi sopra l'orizzonte, a mano a mano che avanzava, con i piedi che trovavano un appiglio sul ghiaccio picchiettato e crostoso. Erano come esili cannoni dal profilo elegante, ognuno inclinato a un angolo leggermente diverso rispetto al proprio vicino. Settimane addietro avevano rallentato e fermato la rotazione di Halley, per semplificare l'allineamento delle loro spinte. Adesso le stelle erano sospese in posizione costante sopra di loro, e ogni lanciatore era puntato esattamente verso lo stesso punto del cielo: ascensione retta 87 gradi, declinazione +35.
— Ehi, capitano — lo salutò Jeffers, con un gesto della mano, dalla sommità del Lanciatore 16.
— Non sono capitano — rispose Carl automaticamente.
— Potresti benissimo esserlo.
— Sono soltanto l'ufficiale addetto alle operazioni. È tutto quello che i clan tollerano.
— Un branco di culi di somaro.
— E adesso credo che non otterrò neppure una promozione dalla Terra.
Jeffers ridacchiò asciutto. — Non un granché, direi. Hai finito di calmarli?
— Sì. — Carl balzò sulla cappottatura del lanciatore.
— È strano come qualcuno di loro non riesca a credere a quello che è accaduto.
— Era la loro Grande Speranza Bianca.
— Piuttosto scomoda, quando Madre Terra ti offre una tetta e poi… bum!
Carl sorrise suo malgrado. Da lì poteva vedere molti lanciatori, una linea tratteggiata che disegnava in qualche modo l'equatore di Halley, come se fosse stata tracciata da un diligente studente delle superiori per una relazione scientifica. Le loro bocche deviavano gradualmente a nord, a mano a mano che il suo sguardo spazzava l'orizzonte. Ognuno giaceva sepolto su una piattaforma idraulica a cuscinetti d'olio che assorbiva il rinculo ritrasmettendolo al fin troppo fragile ghiaccio. Robot e mech si trovavano accanto ad ogni tubo sottile, pronti a risolvere qualunque problema con gli alimentatori a nastro trasporatore.
— Sono d'accordo quelli là sotto?
Distratto da quell'ordinata schiera di lanciatori che si perdeva fino all'orizzonte, per un attimo Carl non riuscì a capire quello che Jeffers intendeva dire. — Oh, a proposito delle comunicazioni con la Terra?
— Sì. Sono tutti d'accordo di stare zitti?
— Non esattamente.
— Chi?
— Sergeov. Quiverian.
— Mi aspetto che qualcuno dia ascolto a Sergeov, certo. È un bravo ragazzo, un percell tutto d'un pezzo. Forse un po' manesco. Ma Quiverian? È un bastardo assassino! Chi può mai prestare attenzione a…
— Alcuni archisti pensano ancora che debba essersi trattato di un errore. Non possono immaginarsi la mamma che massacra i suoi figli, anche se sono portatori di malattie.
— Paaazzeeesco.
— Proprio così.
Sotto il silenzioso ciclo color ebano quelle questioni parevano meschine, insignificanti. Carl poteva affrontarle dentro, chiuso in mezzo al ghiaccio… ma qui, i problemi e le opinioni umane apparivano sporchi, piccoli, vergognosi. — Allora… ho chiesto a JonVon di prendere alcuni mech e… distruggere le antenne a microonde.
Con sua viva sorpresa, Jeffers scoppiò in una risata. — Dannatamente giusto!
— Lo… lo pensi?
— Certo! Se facciamo sapere alla Terra che siamo ancora vivi, quelli ci manderanno un altro Pacco Assistenziale. Soltanto che stavolta non ce lo diranno.
— Questo ci permetterà forse di guadagnare un paio di anni cruciali… forse. — Carl annuì. — Non hanno mancato completamente il colpo, naturalmente. Abbiamo perduto un paio di persone in superficie, e con la nostra attenzione concentrata sul Pacco Assistenziale abbiamo perso un po' di tempo per la sgomitata. Cominciamo in ritardo.
Jeffers annuì. — Siamo dannatamente vicini all'afelio. Sarà un grosso lavoro dare tanta spinta a così tanto ghiaccio.
— Avete già riallineato i lanciatori?
— Proprio come hai detto. Gli daremo una grossa variazione di velocità se cominceremo abbastanza presto.
Per lo meno, il fiasco del Pacco Assistenziale era alle loro spalle. Mentre altri si lamentavano, Carl, in un certo senso, provava sollievo. Significava che dovevano rompere con la Terra, ignorare il loro mondo nativo, perfino nascondersi ad esso quanto più a lungo possibile.
Chi poteva dirlo? Fra quarant'anni altra gente avrebbe potuto trovarsi al comando, laggiù sulla Terra. Oppure la colonia di Phobos poteva essersi conquistata la propria indipendenza quando i profughi cometari fossero arrivati laggiù sfrecciando sulle loro avvampanti aeroscialuppe.
Chi sto prendendo in giro? pensò Carl.
La tensione che era in lui non voleva scomparire. Aveva bisogno di qualcosa, O di qualcuno pensò, ma si affrettò ad escludere questo pensiero non appena lo riconobbe.
I lanciatori. Erano pronti, calibrati.
— Hai controllato la messa a punto di quelle regolazioni?
Jeffers batté la mano sul suo quadro di comando. Annuì.
— I collettori di pressione? L'allineamento dei magneti?
— Tutto a posto.
— E allora cosa stiamo aspettando?
Jeffers sollevò lo sguardo e un sorriso gli si disegnò con estrema lentezza sul viso. — Maledettamente giusto. — Cambiò canali e sparò fuori una lunga raffica di parole dirette ai tecnici.
Tutt'intorno ad Halley, la cintura si mosse. Gli impulsi elettromagnetici crebbero, raggiunsero la saturazione, attesero di venir liberati. E Carl sapeva che dentro il ghiaccio uomini e donne erano impegnati con le loro solitarie domande, i dubbi, le disperazioni.
Avevano bisogno di qualcosa che li scuotesse.
— Lasciala volare — disse Carl.
Lo percepì attraverso le suole dei suoi stivali. Un tremore, uno slancio crescente, un improvviso, fremente sfogo. Dalla bocca del Lanciatore 16 uscì… niente che lui potesse vedere. Ma poté sentire ogni pallottola rivestita di ferro che fuggiva via lungo il cannone elettromagnetico, con gli impulsi febbrili che scuotevano quell'esile tubo. Una mitragliatrice puntata verso le stelle. Contro il nero oblio sovrastante non lasciavano alcuna traccia, semplicemente descrivevano un arco dentro il nulla.
Era lo sfioramento d'una piuma contro un macigno, ma col tempo gli effetti si sarebbero sommati.
Si voltò per guardare lungo la fila. Ogni lanciatore sparava in continuità i suoi colpi contro il cielo, i campi elettromagnetici periferici risuonavano come un debole ma persistente rata-rata-rata-rata alla linea del comunicatore.
Sapeva che avrebbe dovuto chiamare JonVon, fargli inviare l'immagine a tutti gli schermi televisivi, avvertire l'equipaggio. Ma per il momento fece una pausa e assaporò quella scena per proprio conto.
Adesso stavano tornando indietro. Verso casa. La lenta, pigra orbita di Halley si sarebbe smussata, avrebbe ruotato, si sarebbe deformata. Per il meglio o per il peggio, avrebbero planato giù lungo il pozzo della gravità, verso un destino che non potevano vedere. Era la fine della loro lunga, inerte, obbedienza alla legge della gravità. Halley era diventata una nave.
— Finalmente facciamo qualcosa! — gridò Jeffers.
Carl urlò in preda a una gioia improvvisa, ogni dubbio era scomparso. — Sole, stiamo arrivando!