Nessuno ha mai fatto niente di molto stupido se non per qualche importante ragione di principio.
Che differenza possono fare tre semplici settimane!
Virginia s'interrogava mentre procedeva, semifluttuando davanti a gente che lavorava a tutto spiano. Davvero, era passato così poco tempo? Soltanto venticinque giorni da quando i sopravvissuti del primo turno si erano radunati, logori e smunti, per celebrare la fine del 2061?
Non era stata una vigilia spumeggiante. Anche con gli olo alle pareti regolati sulle loro più allegre scene estive, la sensazione era stata pur sempre quella dell'inverno di Ragnarok. Si erano raccolti all'estremità più lontana della colossale sala del Complesso Centrale, quattro miserevoli sopravvissuti, e avevano brindato con la scorta di liquore Lacy Traces che Carl aveva messo da parte con tanta cura.
La bottiglia si era vuotata in fretta. Non pareva valesse molto la pena di salvare qualcosa.
Tutti i tentativi di far conversazione erano falliti. Le videoimmagini della Terra erano troppo deprimenti da guardare: scene briose di consumismo commerciale o, cosa ancora peggiore, un orribile melodramma sulla spedizione Scott al polo Sud… senza alcun dubbio la stupida idea avuta da qualcuno come gesto in loro onore.
Dietro suo suggerimento, Saul e Carl avevano cercato di fare la loro prima partita a scacchi dopo la morte del capitano Cruz, o da quando Saul e Virginia avevano cominciato a risiedere insieme. Ma non era più come prima. I due uomini non si erano scambiati una sola parola, neppure un'occhiata, e il gioco si era svolto in maniera selvaggia. Quando il computer da polso di Saul lo aveva chiamato perché accudisse di nuovo ai dormienti in via di scongelamento, Lani e Virginia si erano scambiate un'occhiata di sollievo.
Non avrebbe mai più dimenticato quella triste e deprimente serata fino all'ultimo dei suoi giorni.
Questo era successo meno di un mese fa. Adesso… be', le cose erano diverse. Per lo meno superficialmente, erano assai migliori. Se non altro si sentivano di nuovo delle voci nei freddi corridoi, e la gente cercava di trovare soluzioni. Inoltre, Virginia stava migliorando la sua capacità di muoversi nella debole gravità di Halley. Planava veloce rasentando le superfici, aderendo al pavimento di fibra con le pantofole di velcro e tirandosi lungo un cavo da parete diretta verso la Centrale di Controllo.
Era ancora un'esperienza nuova la sua, fare quella strada senza avere la mente annebbiata dalla mancanza di riposo, o un corpo reso quasi del tutto floscio dalla fatica. Sette ore di sonno filato erano un lusso sibaritico.
Ieri il suo turno aveva coinciso con quello di Saul. Avevano avuto la possibilità di fare all'amore per la prima volta, dopo una settimana, e avevano dormito fianco a fianco, collegati tramite il famiglio elettronico, toccandosi al fioco bagliore delle luci di controllo di JonVon. Saul aveva dovuto uscire presto per prepararsi al test della sua nuova invenzione che avrebbe avuto luogo quel giorno, ma Virginia si era svegliata sentendo ancora il suo calore sul giaciglio a rete accanto a lei, il suo odore di muschio, che ormai le era familiare, sul braccio.
Un giorno, quando avrò di nuovo un po' di tempo libero, devo scoprire cosa pensa JonVon dei nostri sogni. Saul ed io ci stiamo avvicinando sempre più, i nostri sensi condivisi e amplificati diventano sempre più vividi. Mi chiedo… possibile che dopotutto avessi ragione? È possibile simulare i processi mentali umani talmente bene da riuscire in una «telepatia» di qualche tipo? Se è così, riusciremo a dare alla Terra almeno un dono, prima di morire tutti?
Quella mattina si era fermata, un istante prima di lasciare il suo cubicolo, esitando accanto alla porta scorrevole, ed era tornata indietro per prendere uno stilo. Sul primo foglio di un blocco per appunti aveva scribacchiato in fretta… non una poesia, non ancora, ma un semplice abbozzo:
Hoku welo welo,
oh, implacabile Cometa…
Ua luhi au,
sono molto stanca…
Quei versi misti le avevano ricordato la sua nostalgia di casa. Sentiva la mancanza di Kewani Langsthan, l'unico altro hawvaiano del primo turno, che aveva perso un braccio a causa di un'esplosione al livello A, la vigilia di Natale, e aveva dovuto venir colombarizzato subito, quando il moncherino si era infettato.
Fra i rimpiazzi non c'era nessun hawaiano. Non sapeva se rincrescersi di questo, oppure esser contenta che ai suoi compatrioti venisse risparmiato quel terribile periodo.
Comunque, le notizie dalla repubblica-isola non erano buone. L'ultima volta che aveva avuto il tempo di ascoltare le trasmissioni della Terra, la tensione era andata crescendo. Le nazioni dell'Arco del Sole Vivente avevano accusato il governo capeggiato da Ikeda di «progetti antiecologici».
Siri da quella serata, molti mesi addietro, quando aveva brevemente condiviso i ricordi di Saul della sua perduta patria, aveva sofferto di una paura profonda e continua, per la precarietà della rinascita del suo popolo.
Haalulu kuu lima
le mani mi tremano…
E awiwi… Ka la
fai presto, o Sole…
L'abbozzo scomparve dentro il pozzo della memoria stocastica di JonVon. Forse l'avrebbe richiamato di nuovo per lavorarci sopra, se ne avesse avuto iì tempo, o se si fosse ricordata. Nel frattempo la sua macchina preferita avrebbe riecheggiato dentro di sé le sue meditazioni. A differenza dei compassati processori della Terra, e dello stolido mainframe della missione che i tecnici avevano cominciato a imballare, per trasferirlo dalla Edmund alla centrale, JonVon non si limitava semplicemente ad archiviare le cose. Lui… esso… era programmato per «ricordare» di tanto in tanto, senza venir attivato e imprevedibilmente, e a «meditare» nuove correlazioni.
Lei non aveva il tempo di dedicarsi a quel progetto con il quale aveva progettato di ammazzare il tempo in quegli anni. Ma JonVon avrebbe sempre avuto almeno un piccolo angolo di memoria dedicato ad esso, raccogliendo e organizzando dati per quando, finalmente, lei avrebbe potuto riportare la propria attenzione alla questione dell'intelligenza medesima.
Una volta o l'altra devo ricordarmi di chiedergli quello che ha appreso.
Ed ecco qua pensò, arrivando a un doppio portello sovrastato da una lampadina color ambra, accesa. L'ingresso alla Centrale di Controllo… il posto di comando delle orde d'invasori dalla Terra.
Prima di entrare, dovette sottoporsi a un'altra dannata pulizia. Un voluminoso mech torreggiava accanto al portello.
PER FAVORE PRESENTI TUTTE LE SUPERFICI ALL'ESPOSIZIONE ULTRASONICA — le intimò il mech, tenendo davanti a sé un piatto ronzante e un tubo aspirante.
Virginia sospirò e fece un passo avanti, girandosi lentamente davanti al tubo ripiegato di quella macchina improvvisata. Le armoniche delle onde sonore ad alta frequenza colpirono la sua pelle con le ottave superiori, scendendo poi fino a un basso ringhio borbottante che le fece stridere i denti.
Conosceva i codici che le avrebbero permesso di scavalcare tutto questo, naturalmente. Ma era meglio sottomettersi a quelle misure, per quanto semi-imbecilli e inutili fossero. Qualcuno avrebbe finito per accorgersene, se si fosse messa a scavalcare i regolamenti per la propria comodità.
Un basso tintinnio le disse che dei detriti venivano scossi via dai suoi indumenti, finendo dentro la bocca dell'aspiratore. Naturalmente, questo non avrebbe realmente impedito alla gente di portare in giro i germi cometari. Saul aveva detto che l'unico effetto a lungo termine della procedura sarebbe stato quello di distruggere tutti i loro indumenti, e alla fine rompere i timpani a tutti.
Il tintinnìo cessò e il tubo aspirante smise di funzionare. Virginia immaginò uno sbuffo d'aria, fibre di cotone e cellule morte della pelle: il tutto che usciva con un sospiro nello spazio.
SI PREPARI A PROTEGGERSI GLI OCCHI PER FAVORE.
Virginia fece una smorfia e sfilò gli occhialoni dalla cintura.
— Spruzza pure, MacDuff — bofonchiò, e serrò con forza gli occhi mentre il corridoio parve riempirsi d'un fulgore attinico.
Sapeva che quella era una pura idiozia. Le lampade a raggi ultravioletti erano le armi migliori che avessero contro le halleyforme, ma ne rimanevano soltanto due dozzine, e stavano esplodendo al ritmo di una o anche più al giorno! E c'erano già stati numerosi casi di bruciature solari e di ematomi della pelle.
Quello sgradevole bagliore s'interruppe, e Virginia sospirò di sollievo.
PUÒ PASSARE — annunciò il mech.
— Grazie — rispose lei, sarcasticamente, mentre la porta si apriva con un sibilo sommesso. E si trovò in mezzo a un'attività frenetica.
Voci colorate d'ansia… teste umane che scomparivano dentro i cappucci dei sintetizzatori di dati… interruttori funzionanti a mano o mech-waldo. Sì, tre settimane possono fare una bella differenza.
Ma quella corrente sotterranea di cupa paura li assillava ancora. Semmai era cresciuta.
In un angolo lontano, una mezza dozzina di sagome umane si affollavano, rannicchiata nella bassa gravità, intorno a una mappa olo. Virginia riconobbe Bethany Oakes e i suoi principali aiutanti. Un altro maledetto consulto strategico.
Olaku na alii… I capi sono loro, che il cielo ci aiuti.
Vorrei che oggi Saul non avesse dovuto scendere nelle camere interne per provare le nuove macchine. Già sento anche troppo la sua mancanza.
Virginia si fece avanti, alle spalle di Walter Schultz, l'uomo che adesso controllava il mech-1. Lei era in anticipo, ma era chiaro che quell'uomo aveva urgente bisogno di ricevere il cambio. Aveva le spalle incurvate sotto il cappuccio d'isolamento, e le mani stringevano i controlli del teleoperatore-waldo con tanta forza da essersi del tutto sbiancate.
Virginia sapeva quello che lui stava provando. Gli operatori dei mech se la vedevano quasi altrettanto brutta degli uomini nei corridoi. Non erano esposti a un diretto pericolo fisico, naturalmente, ma le ore erano peggiori, e l'intenso sforzo mentale quasi altrettanto stremante. Dai piccoli schermi, poté vedere che Walter stava manovrando quattro grandi robot tutto da solo. Aveva proprio bisogno di una pausa.
Però non sarebbe stata una buona idea strapparlo a quel lavoro tutt'a un tratto. Due giorni prima aveva battuto la spalla di Walter mentre era collegato. L'uomo si era girato verso di lei di scatto con le pupille dilatate, maledicendola bellamente e chiamandola «intrigante puttana percell».
Più tardi si era scusato, ma la frase era rimasta incisa a lettere di fuoco nella sua mente.
Gli dirò che sono qui usando una linea di comunicazione pubblica. Ma la sua mano esitò, rimanendo appesa appena sopra il pannello del microfono. Sentì Schultz che sbuffava sotto il cappuccio d'isolamento. Era difficile dire se l'uomo aveva un raffreddore o se stesse piangendo.
Oggi come oggi, avrebbe potuto trattarsi di entrambe le cose.
— Virginia! — la chiamò qualcuno a voce alta da dietro. — Ehi, Virginia, vuoi venire qui per favore, cara?
Al di fuori di Saul, c'era soltanto un'altra persona che usava rivolgersi a lei in quel modo. Si girò e annuì, rivolta alla matrona dai capelli castani che l'invitava ad avvicinarsi con un cenno della mano, all'altra estremità della sala.
— Sì, naturalmente, dottoressa Oakes. — Scivolò fluttuando rapidamente verso la grande olo-vasca dove i facenti funzione di capi-sezione fissavano cupi la grande immagine.
L'attuale capo della Sezione Scienze Cometarie, Masao Okudo, si allontanò ostentamente dall'estremità del tavolo dov'era Virginia, e così pure fece il maggiore Lopez, il militare di grado più alto che era stato svegliato. Virginia ignorò l'affronto. Faceva parte di quella universale corrente sotterranea di risentimento verso di lei, così come verso Carl, Saul e Lani, poiché quelli del primo Turno erano stati in qualche modo criminalmente incompetenti nel permettere che tutto questo avvenisse.
Virginia aveva sempre considerato gli essere umani creature irrazionali, nel profondo, lei compresa, naturalmente. Molti si risentivano per le scelte che erano state fatte su chi avrebbe dovuto essere decolombarizzato come parte della Squadra per la Direzione della Crisi. — Perché io? — era il ritornello che aveva ripetutamente sentito, borbottato con rabbia oppure espresso con alti lamenti, dopo che uno dopo l'altro i risvegliati erano rimasti feriti combattendo contro le sudice incrostazioni che infestavano i corridoi, oppure si erano ammalati a causa di qualche germe sconosciuto.
Carl ha dovuto prendere delle dure decisioni dopo la morte del capitano Cruz. I risvegliati davano ogni colpa a lui, e il fatto che fosse un percell non lo aiutava per niente.
Suppongo che l'unica cosa che impedisce a Carl, a Saul e a me di esser vittime di un totale ostracismo stia nel fatto che siamo indispensabili.
Bethany Oakes, almeno, pareva immune da simili sentimenti. Sorrise con la stessa gentilezza di sempre quando strinse la mano a Virginia.
— Grazie per essere venuta, cara. Ci troviamo qui con un piccolo disaccordo su una questione tecnica, e mi stavo chiedendo se per caso non potevi darci una mano con l'esperienza che hai acquisito durante quelle orribili settimane durante le quali tu e gli altri avete affrontato da soli questa terribile emergenza.
Virginia annuì. — Aiuterò in qualunque maniera possibile.
Bethany Oakes sorrise in risposta con le sue labbra piccole e umide. Virginia non poté fare a meno di notare che il suo volto era tumido, e che era truccato in una maniera che gli dava un aspetto sbilenco.
O sorte, tu sei davvero una perfida cagna. Dovevi prenderti il capitano Cruz, il nostro Drake, il nostro Colombo, proprio all'inizio, non è vero? Aveva realizzato una grande spedizione con una manciata di esiliati e di disadattati, e adesso non c'è più. Questa simpatica donna semplicemente non è un sostituto.
Bethany Oakes si rivolse a Lefty d'Amaria, il capo del reparto di Virginia, Calcoli e Meccanismi. Per lo meno, Lefty rivolse a Virginia un caldo sorriso che lei ricambiò con gratitudine. Ahimè, quell'uomo si teneva aggrappato al bordo del tavolo con fare incerto, e aveva la fronte chiazzata di sudore.
— Ci sono due problemi su cui noi… noi volevamo consultarti, Ginnie. Il primo ha a che fare col modo in cui combattere quella roba, là fuori nei corridoi.
Virginia aprì le mani. — Il dottor Matsudo e il dottor Lintz hanno studiato la poltiglia. Io ho avuto una minor esperienza diretta con essa rispetto agli altri sopravvissuti del Primo Turno.
D'Amaria annuì. — Sì, direttamente di persona. Ma l'hai combattuta tramite i mech, aiutando Osborn e le sue squadre. Quello che vogliamo sapere è se pensi che sia possibile riadattare i mech di superficie per farli lavorare nei pozzi.
— Be', ne abbiamo già riadattati alcuni: robot di servìzio alle navi, soprattutto.
— No. — D'Amaria scosse la testa. — Stiamo pensando a quelli grossi. Quelli davvero da superficie.
Virginia sbatté le palpebre. Le cose erano già così disperate? I mech di superficie non erano mai stati concepiti per lavorare nelle gallerie. Il pensiero di quei colossi dagli arti enormi, simili a ragni colossali, che scendevano là, sotto il ghiaccio, ingolfando i corridoi, fu sufficiente a farla inorridire.
— Non… non lo so di sicuro. Dovremmo preparare e mettere in funzione parte delle attrezzature della fabbrica…
— Un paio di membri della squadra della fabbrica ora vengono riscaldati — l'informò Lopez. — Jeffers, Yeomans Johanson sono già svegli.
Virginia annuì. — Ma anche con la fabbrica in funzione, sarà un pasticcio. Per riuscire a far passare i sollevatori o gli spingitori dentro i pozzi, dovremo fare qualcosa di più che togliergli le gambe e i rulli. Dovrò registrare nuovi schemi nelle loro memorie di routine. Con le attrezzature che abbiamo a disposizione sarà un lavoro di rattoppo, e non sono sicura che sia reversibile…
Okudo annuì. — Bene, bene. Allora dici che non si può fare.
Virginia sbatté gli occhi. — Ma è pazzesco! Non saremo mai in grado di piazzare i propulsori per la «sgomitata» all'afelio, senza i mech di superficie. E senza la «sgomitata», l'orbita di Halley non può venir modificata. Non riusciremo mai a…
— Vuoi chiudere la tua stupida bocca di percell? — sibilò all'improvviso il maggiore Lopez, scoprendo i denti. Gli occhi dell'ufficiale del Corpo Spaziale parevano ardere, e si tirò indietro, ma molto lentamente, quando Bethany Oakes si schiarì ostentatamente la gola. L'uomo fissò la facente funzione di comandante della missione, e poi tornò a rivolgersi a Virginia:
— Mi scusi. Volevo dire, le spiace tener bassa la voce? Per favore? — Il suo sarcasmo era ovvio.
Virginia l'ignorò.
Non riusciremo mai a tornare a casa pensò, concludendo dentro di sé l'accorata protesta.
Bethany Oakes parlò al militare: — Ora, Fidel. Sono sicura che la signorina Herbert si rende conto di come sia essenziale esser discreti su alcune delle implicazioni delle nostre imminenti azioni. Già così il morale è abbastanza basso.
— Direi proprio di sì — borbottò Okudo rivolto al militare.
— Ho sentito che alcuni membri dell'equipaggio giungono persino a fingersi malati, cercando in ogni modo di simulare un'infezione o qualcos'altro per farsi mettere in animazione sospesa.
Non lo sapevo Virginia avverti un'improvvisa nausea allo stomaco.
Il capitano Cruz sarebbe stato più franco con noi. E nessuno avrebbe anche soltanto considerato la possibilità di lasciarlo nella peste cercando di fuggire nel tempo.
Bethany Oakes contemplò malinconicamente l'olovasca; dando a Virginia la sua prima possibilità di guardare lei stessa la grande immagine.
La regione penetrata dalle gallerie non era più grande di quanto lo era stata un mese prima, occupando tuttora meno di un cinque per cento del volume del nucleo di Halley, formando una sorta di conigliera raccolta intorno alla regione del polo Nord. Risaltavano alcune grandi cavità, comprese le tre in cui i colombari giacevano sepolti. E anche questa stessa sala, la Centrale, in mezzo a un grappolo di stanze ad appena un chilometro in linea retta verso il basso dal punto in cui era ancorata la Edmund Halley.
Grazie al cielo la maggior parte degli idroponici sono ancora a bordo della Edmund, pensò Virginia. Al sicuro dalle forme di vita native che abbiamo inavvertitamente svegliato qui sotto. Se la poltiglia o i bacilli riuscissero mai ad arrivare negli orti principali, è molto probabile che moriremmo di fame entro breve tempo.
Così invece è probabile che soffriremo lo stesso la fame tra non molto, se dovremo tenere sveglia tutta questa gente ancora per parecchio tempo.
Quasi tutte le gallerie e i pozzi rappresentati erano macchiati, i colori risaltavano a seconda dei diversi tipi d'infestazioni. Soltanto le quattro cavità principali risplendevano ancora antisettiche, bianche, senza tracce d'invasione, insieme ad un corridoio che conduceva agli scali merci del polo. E c'erano volute tutte le lampade UV disponibili e le scorte di disinfettanti di quarant'anni per tenere sgombre soltanto quelle aree.
La maggior parte delle gallerie brillavano d'una qualche sfumatura di verde, dove l'unico invasore conosciuto era una varietà di vegetazione simile ad un lichene, il cui nome generalmente usato era poltiglia. In quei percorsi c'erano ancora aria e calore. Per quello che tutti loro ne sapevano, potevano essere del tutto sicuri da percorrere. Per lo meno, Saul pensava che lo fossero. Era uscito più di una volta, incurante del presunto pericolo, alla ricerca di altri esemplari da studiare.
Forse è questa una delle cose che mi attrae in lui. Saul non era coraggioso in maniera plateale, ma in un modo che sembrava dichiarare «vivere alla giornata è sempre stato un rischio calcolato».
Forse l'amore che gli portava era semplice da analizzare e definire, giacché Saul le ricordava suo padre. Anson Herbert aveva posseduto la stessa triste, gentile saggezza, le aveva dimostrato di più con la sua forza tranquilla di quanto altri uomini avessero fatto con i loro atteggiamenti eclatanti.
Virginia scosse la testa. Anson era morto da due anni, ma lei riusciva quasi a sentirlo, che le diceva di smetterla di sognare ad occhi aperti e la sollecitava a mettersi al lavoro. C'erano problemi da risolvere, e c'erano sempre degli idioti che cercavano di usare il martello per riparare gli orologi.
Lopez stava indicando con un gesto le gallerie che avevano le peggiori infestazioni, specialmente lungo i condotti dove il calore fluiva dalla centrale elettrica. Chiazze purpuree, gialle e rosse spiccavano là dove avevano fatto irruzione le halleyforme più attive, lacerando i sigilli delle gallerie, trascinando nel caos i macchinari d'importanza vitale, e, occasionalmente, ghermendo perfino un terrestre di passaggio.
— … qui i mech più grandi di superficie potrebbero pattugliare una galleria ampliata e rifondere il ghiaccio a intervalli, chiudendo i crepacci e rimuovendo gli strati infestati per poi trasportarli in superficie ed eliminarli…
Virginia non riusciva a credere a quello che sentiva. Quel piano era pura follia. Era un piano gravoso che ignorava i sette decenni a venire.
— Ci sono ancora altre possibilità da tentare — suggerì — Saul sta lavorando a una possibile maniera per…
Lopez tirò su rumorosamente con il naso. — Il raggio della morte di Lintz, giusto?
Bethany Oakes annuì, senza distogliere lo sguardo dalla mappa. — Possiamo sperare che qualcuno salti fuori con qualcosa di nuovo, naturalmente. Ma tutti gli approcchi convenzionali al problema sono falliti. Una cosa è certa: se le infestazioni raggiungono i colombari, siamo finiti.
La donna guardò Virginia. — È per questo che ti abbiamo chiesto di venire qui con noi, non soltanto per aiutarci a convertire i mech di superficie per questa lotta nel sottosuolo. Tu…
La donna più anziana fece una pausa, ammiccando più volte, come per cercare di mantenere la concatenazione di pensieri. Virginia si rese conto, scioccata, che doveva trovarsi sotto l'effetto d'un qualche tipo di droga.
— … tu sei il solo, vero esperto di cui disponiamo su quel vecchio argomento… l'intelligenza artificiale. Conosco le prove tradizionali, naturalmente, che l'intelligenza artificiale, quella vera, è impossibile. Ma una simulazione molto buona, flessibile, potrebbe essere sufficiente. — Sospirò. — Comunque, dobbiamo aggrapparci ad ogni fuscello. L'invenzione di Saul Lintz, e perfino dei robot capaci di agire da soli.
«Dobbiamo trovare il modo di rendere autonomi quanti più mech possibile… e presto. Vedi… perdiamo uomini e donne più velocemente di quanto li scolombarizziamo.
Virginia la fissò. Scoprì di non essere capace di dire niente del tutto.
— Questo è un segreto militare, Herbert — ringhiò il maggiore Lopez. — Dillo a qualcuno e avrò quella tua pellaccia da percell!
Virginia si limitò a scuotere la testa, lasciando che interpretasse quel gesto come meglio voleva.
Un po' più tardi, accanto al centro di ristoro, stava centellinando una boccia di tè chiedendosi come poteva anche soltanto cominciare ad affrontare i compiti quasi impossibili che le erano stati assegnati. Era ironico. Non avrei mai pensato che qualcuno mi avrebbe chiesto di lavorare all'intelligenza delle macchine.
In quelle circostanze, la cosa le appariva del tutto sbagliata.
Fu allora che l'uomo che voleva incontrare meno di ogni altro le galleggiò accanto con una lieve spinta delle sue gambe monche.
— Bene, dolce signora delle macchine — sogghignò Otis Sergeov. — Suppongo che avrai udito gli ultimissimi interessanti sviluppi sulla Terra… Li hai uditi?
— Vai via, Otis — lei gli rispose con voce priva d'inflessione. — Non voglio sentire nessun'altra brutta notizia in questo momento, specialmente da te. Cosa stai facendo qui, comunque? Tu fai parte della squadra addetta ai corridoi.
Il percell russo scrollò le spalle. Le sue palpebre avevano ancora una leggera colorazione azzurra e le sue guance parevano gesso, a causa del suo recente risveglio dal colombario.
— Mi sono soltanto fermato a dare un'occhiata mentre stavo andando al Pozzo 3. Devo aiutare i tuoi amanti a provare la loro nuova macchina per salvare il mondo.
Virginia alzò di scatto lo sguardo. — Di cosa stai parlando?
— Tu sai chi intendo. — Le strizzò l'occhio. — Osborn e Lintz.
Sergeov le porse un pezzettino di carta con il suo nome scribacchiato all'esterno. Lei lo prese su con la punta delle dita e lo dispiegò per leggere il messaggio, mentre annuiva.
— Così, vai ad aiutare Carl e Saul a provare i nuovi lanciaraggi, non è vero?
Sergeov annuì.
— Va bene, allora. Dì a Saul che farò in modo di mandargli i mech di cui ha bisogno per l'esperimento. Li tirerò fuori da qualche parte.
Sergeov annuì. — Ah, modi per aggirare i canali. Sapevo che lui aveva influenza sulla Padrona Segreta delle Macchine. Devo imparare il suo trucco.
Virginia scrollò le spalle. Sergeov aveva avuto una ragione per cercarla. Adesso lei voleva soltanto che la sua visita terminasse. — È tutto, Otis?
— Soltanto una cosa ancora. Una curiosità personale. Ti ho sottovalutata, Virginia. Potrai anche essere orthofila, ma per lo meno hai scelto il padre, o lo zio, della nostra razza per mettere su tenda. È pur sempre ortho, ma loro sono tutti sopra i cinquanta, così se sei così pervertita da preferire i vecchi, immagino che non avevi scelta migliore, eh?
Virginia lo fissò inferocita: — Piccolo schifoso…
— Aspetta che diventi anch'io così vecchio. Uhmmm. Allora avrò speranza?
Virginia sentì girarle la testa. Quell'uomo stava dicendo tante cose che la facevano infuriare, ognuna delle quali avrebbe meritato di venir rasa al suolo a colpi di logica bruciante. Oh, perché sono così impulsiva? Non sta cercando di litigare su una questione di semantica, vuole soltanto darmi sui nervi, tutto qui.
— Vai a farti fottere, Otis — disse alla fine.
Sergeov sbatté le palpebre, momentaneamente sorpreso, poi scoppiò a ridere. Buttò indietro la testa e gridò, deliziato: — Ben detto! Se soltanto avessimo avuto te sulla Terra l'altro ieri! Avresti potuto dirglielo.
— Dirlo a chi?
— A quei bastardi di Ginevra.
Virginia esitò, avvertendo tutt'a un tratto una senzazione di gelo.
— Cos'è successo sulla Terra?
— Se tu dedicassi più tempo delle tue giornate ai tuoi, a quest'ora tu sapresti — la schernì Sergeov. — Adesso non abbiamo nessuno con cui parlare, salvo fra noi… adesso che gli ortho c'incolpano della malattia.
— Non è vero… — Virginia chiuse gli occhi e decise di non lasciarsi trascinare fuori strada. — Dimmi cos'è successo sulla Terra, Otis. O questa volta di rompo davvero il braccio.
Lo spaziale russo annuì, la sua voce si smorzò a un tratto.
— C'è stato un colpo di stato, Virginia. Hawaii adesso è sotto l'Arco del Sole.
— Cosa? — Virginia lo fissò. — Ma… ma è impossibile! Come?
— Mercenari dalle Filippine. Il governatore Ikeda è morto. C'è la legge marziale.
— Ma il Trentaduesimo Emendamento… gli Stati Uniti devono difendere…
Sergeov scrollò le spalle. — La Corte Suprema degli Stati Uniti si è riunita in seduta d'emergenza, Virginia… ha decretato che le Hawaii dal 2026 sono uno stato semi-sovrano… credo sia questa l'espressione giusta. Significa che un governo archista de facto va bene, fintanto che paga in tempo le tasse federali, e mantiene puliti gli affari con l'esterno.
«Hanno già chiuso la scuola percell. Hanno chiuso l'istituto per le Ricerche Avanzate e quel grosso progetto per l'energia dalle maree. Altro certamente seguirà.
Sergeov venne avanti, con una mano sulla ringhiera, respirando rumorosamente. La sua voce era carica di sarcasmo. — Adesso capisci? Capisci perché preziosa ci sarebbe stata la sua eloquenza sulla Terra. Soltanto per sei a tre il caso è stato deciso. Certamente, se tu fossi stata laggiù, saresti riuscita a convincerli. O per lo meno avresti potuto gridare Andate tutti a farvi fottere a quelle loro brutte facce da ortho.
Ma smise di parlare, perché Virginia si era già precipitata di corsa fuori in corridoio, passando davanti al voluminoso robot addetto alla decontaminazione, ignorando la sua monotona richiesta che si sottoponesse al suo inutile trattamento a base di ultrasuoni e di luci attiniche. Si stava muovendo senza una meta precisa, accecata da un improvviso rigurgito di lacrime, fluttuando puramente a memoria.
Le cose stavano peggiorando.
Carl andava alla deriva agganciato a un cavo, aspettando che Saul Lintz si facesse vivo. Era contento di quella interruzione.
Durante gli ultimi giorni aveva imparato a riposarsi dovunque gli capitava di trovarsi, un pisolino qua o là, e intervalli per i pasti, utilizzando ogni momento di calma per lasciare che i suoi muscoli dimenticassero a che cosa li stava sottoponendo. Non c'era tempo per far arrivare i mech ai loro posti per la maggior parte dei lavori, e molti, comunque, non avrebbero potuto farli.
Il buon vecchio lavoro col grugnito pensò Carl. Soltanto, la cosa è parecchio diversa se da esso dipende la tua vita.
In un certo senso era contento a non essere lui a dirigere le cose. Il maggiore Lopez, che riusciva a malapena a nascondere la sua diffidenza nei riguardi dei percell, si prendeva tutti i mali di testa. Bene, che sudasse pure.
Non c'era abbastanza personale per controllare la poltiglia verde delle alghe, e ancora meno per le forme più grosse. Bethany Oakes era impegnata a scolombarizzare altra gente perché dessero una mano, ma ci voleva tempo. E aveva sentito dire che neppure là sotto le cose andavano bene. Alcuni dei decolombarizzati erano infuriati per essere stati svegliati prima del tempo, e per di più avevano una paura matta di prendersi quelle malattie — qualunque cosa fossero — che circolavano intorno.
Non che li biasimasse. Lui aveva un nuovo tizio nella sua squadra, un robusto norvegese chiamato Veerlan, e già i colpi di tosse e il tirar su col naso erano cominciati. L'uomo era fuori soltanto da trentacinque ore, non era certo ancora in grado di affrontare i lavori pesanti.
— La squadra è pronta? — La voce di Saul parve arrivare a Carl sbucando da una nebbia confusa. Saul atterrò rigidamente su un tratto di filofibra lì vicino e agganciò il cavo a un appiglio.
— Ah… sì. Non è una gran squadra, comunque.
— Quanti? — Saul pareva pronto e sveglio, anche se le profonde rughe della fatica gli scavavano il viso. Trasportava una macchina voluminosa legata alla schiena.
— Quattro.
— Compreso te?
— Sì.
— Uhm… non so… Sarà piuttosto impegnativo.
— Chiamerò dei mech.
— Ho già detto a Sergeov di comunicarlo a Virginia. Ne manderà qualcuno non appena possibile.
Carl avvertì un rovente impulso d'irritazione. — Sono io l'incaricato dei mech di questo quadrante.
Saul serrò le labbra. — Senti, questa è un'emergenza…
— Chiamerò Virginia. Questo non è il tuo laboratorio, Lintz. Sono io che comando quaggiù.
— D'accordo. Sei il benvenuto. Chiama pure.
— Be'… sì… provvederò mentre siamo per strada. — Carl scrollò leggermente la testa, come per schiarirsela. — Hai le frequenze dello spettro?
Saul batté la mano sulla tasca del panciotto. — Proprio qui. C'è voluta tutta la notte.
— Sarà meglio che funzioni.
— Spero di sì.
— Sperare non basta.
— Non posso garantire…
— Ascolta, siamo ridotti a una dozzina, forse quindici, ancora sani. Crollano più in fretta di quanto possiamo scolombarizzarli, a quanto mi dicono. Sto utilizzando uomini che sono intontiti dal lavoro, come me, e donne col naso sgocciolante nelle tute, che tossiscono in fazzoletti di carta che hanno piazzato come tamponi sotto il mento. Voglio dire… — risucchiò l'aria, con gli occhi serrati, ed esalò un respiro affaticato. — Sarà meglio che funzioni.
Saul annuì comprensivo. — Andiamo, allora.
Incontrarono Jeffers, Sergeov e Lani nel Pozzo 3, là dove tutto era cominciato. Il pozzo era ben illuminato, così da poter vedere mentre lavoravano, i fosfori ardevano come pubblicità al neon regolarmente spaziati lungo una buia autostrada, rimpicciolendosi nella sbadigliante distanza.
Il gruppo assomigliava a tanti punti penzolanti di colori diversi, ogni tuta rappresentava una tinta fondamentale differente sullo sfondo rosa del filofibra. Da una galleria laterale arrivò una grande massa asimmetrica, trainata dai mech, seguita da tre mech extra.
— Virginia li ha liberati — esclamò Jeffers, tutto felice. — Così ci facilita un sacco le cose.
— Già — disse Carl. Lo irritava il fatto che Saul avesse ottenuto i mech in fretta e furia, senza che Virginia chiedesse la sua approvazione. E lui non aveva avuto nessun mech di rincalzo per tutto quell'intero, dannato turno, fino a quando il brillante Saul Lintz e la sua cura miracolosa non erano arrivati sulla scena. — Era ora.
Non credo proprio che mi metterò a piangere se non dovesse funzionare pensò Carl, ma subito si rimproverò. No, è stupido da parte mia. Comincio davvero a logorarmi.
Jeffers doveva essere stato altrettanto esausto, ma sorrise e fece delle battute mentre armeggiava per portare le apparecchiature verso l'area del bersaglio. Il suo volto angoloso non dava nessuna indicazione di quello che provava per essere stato svegliato dentro quell'inferno.
Sia Jeffers che Sergeov avevano gli occhi ridotti a fessure d'ombra. Carl disse loro: — Non scoppiate, ragazzi. Fate con calma.
Controllarono i cavi di sicurezza dei mech e fecero ruotare tutto l'insieme per spostarlo al centro del pozzo. Dei telerobot avevano rimorchiato l'apparecchiatura della scavatrice a microonde, meno il treppiede di sostegno, per tutto il percorso dalla superficie. Senza le gambe, il convegno perdeva la sua precedente grazia aracnidea, diventando semplicemente un'altra macchina bitorzoluta, con i tubi e i montanti che sporgevano formando stranissimi angoli.
Più avanti la liscia superficie della galleria era interrotta da filamenti purpurei che si protendevano nel vuoto.
— Non si muovono — disse Lani. Sotto la sua voce chiara e melodiosa si percepiva una vena di fatica.
— Da quanto tempo l'aria è uscita da questa galleria? — chiese Saul.
— Giorni — rispose Jeffers.
— E la temperatura si è abbassata? Allora i purpurei potrebbero essere addormentati.
— Cosa? — chiese Jeffers con voce confusa.
Saul rivolse a Carl un'occhiata interrogativa, come per chiedere: È stordito?
Carl scosse la testa. Siamo tutti stanchi, e allora? Non siamo rimasti seduti in laboratorio a scaldare la sedia durante tutto questo tempo.
— A quanto pare le forme più grandi sono state stimolate dalle infiltrazioni di calore alle intersezioni — trasmise Saul. — Là dove il collare è in contatto con il ghiaccio. Ma una volta che hanno fatto irruzione cercando dell'altro calore, hanno trovato un bengodi. Mentre scorreva fuori, l'aria li ha scaldati, e le forme hanno continuato a crescere, per un po'. Ma adesso qua dentro fa freddo quasi quanto il ghiaccio, così dormono di nuovo. Soprattutto…
— Uh, uhu. — Jeffers fissò dritto davanti a sé, con gli occhi un po' annebbiati, masticandosi il labbro; e Carl non poté esser sicuro che quell'uomo avesse capito qualcosa.
— I purpurei fanno irruzione dovunque cresca la poltiglia — disse. — Ciò significa che in qualunque posto dove ci sia calore o luce o aria.
Rallentarono; i getti dei mech assorbirono l'inerzia del trivellatore a microonde. I bulbosi organismi di Halley sporgevano dentro il pozzo tutt'intorno alla Galleria 3E. Alla luce fosforica gialla parevano trasudare una pellicola d'un azzurro oleoso.
— Bello, eh? — trasmise Jeffers, sarcastico.
— In un certo senso — commentò Lani, cupa, prendendolo seriamente. — Sono così strani…
— La filosofia a più tardi — l'interruppe Carl. — Dobbiamo ucciderli.
— No, prima voglio un campione. — Saul avanzò verso la parete e vi sbatté contro goffamente. Carl ebbe un sorriso malizioso. Che Saul commettesse pure i suoi errori. Non avrebbe sprecato energia per fare da balia a qualcuno, specialmente Lintz.
— Non li avevo mai visti in queste condizioni. Ho ricevuto soltanto dei rapporti, dai quali trarre un giudizio.
Oh, magnifico. — Vuoi dire che non sai se li capisci?
— Oh, abbiamo imparato molto. Per esempio, adesso sappiamo che in realtà non si tratta affatto di organismi differenziati, non come i mammiferi o gli insetti o i vermi terrestri. Sono più simili alle meduse, o alle muffe del fango… dove gruppi diversi di cellule indipendenti assumono compiti specializzati per brevi periodi. Non ho mai visto una fase come questa prima d'ora, ma la loro chimica basilare non può cambiare semplicemente perché hanno una tregua nel loro ritmo di crescita.
La blanda arroganza professionale di quel discorso irritò Carl. — Chi l'ha detto? Come mai ne sei così sicuro?
Saul tirò fuori un barattolo per la raccolta dei campioni. — Sono princìpi biologici generali. La frequenza di vibrazioni delle loro macromolecole non può cambiare semplicemente perché il loro ritmo vitale rallenta.
Saul recise un frammento della più vicina escrescenza sporgente e l'intrappolò nel barattolo. Sbirciò dentro la ferita aperta dove dei tessuti che si andavano oscurando trasudavano un liquido.
— Straordinario. Essuda una pellicola per proteggersi dalla perdita di vapore nel vuoto. Eppure la pellicola stessa è un fluido che in qualche modo non sublima.
— Ehi, muoviti — lo sollecitò Carl con impazienza.
— Sospetto che si tratti di un fluido a tensione superficiale molto alta. In qualche modo si coagula in superficie, ma allo stesso tempo rimane sufficientemente liquido da coprire interamente la creatura, per compensare le ferite.
Saul tagliò una sezione da un'altra sporgenza, poi si allontanò con una spinta. — Fatto.
— Bene, ora prepariamo il forno a microonde per friggere le melanzane — ironizzò Jeffers.
Carl diresse i mech in modo che puntassero le loro antenne sulla vegetazione. C'erano dei lobi laterali che avrebbero lambito le pareti, ma non era possibile evitarlo. Il trucco, un'idea di Saul, era di regolare la trivella a microonde sull'esatta frequenza vibratoria d'una molecola tipica di quelle forme native, cosicché una breve raffica sarebbe bastata a friggerle senza riscaldare nello stesso tempo il ghiaccio lì accanto.
— Spero che tu ne sia sicuro.
— Il calcolo è semplice. Ho fiducia. — Saul sbirciò Carl. — Ascolta, se funziona sui purpurei, posso regolarlo anche sulle peggiori varietà della poltiglia verde.
— Per uccidere quella roba è probabile che tu debba scottare ogni altra cosa che sta intorno. Se il ghiaccio esposto dovesse vaporizzarsi, ci troveremmo dritti di fronte a un uragano.
Saul colse la sua occhiata. — I miei calcoli dimostrano… oh, al diavolo i calcoli. Proviamoci, comunque.
— È tutto regolato? — chiese Jeffers.
Saul annuì. Carl appoggiò il guanto sull'interruttore manuale. — Fuoco.
Da sotto la sua mano giunse un debole ronzio, mentre i capacitori si scaricavano. E poi la parete volò verso di lui. Una bianca raffica grondante colpì Carl, soffiandolo attraverso il pozzo, sbattendolo contro la parete.
Rimbalzò, girò su se stesso, riprese il suo assetto. La linea di comunicazione trasmetteva grugniti, imprecazioni, un gemito di dolore. — Attenti al ragno! Sta per schiantarsi contro la parete! — gridò Jeffers.
L'unità a microonde si stava spostando all'indietro, poderosa e minacciosa. Se fosse andata a sbattere contro il filofibra…
— Mech! Mech!
Jeffers e Carl si lanciarono verso il modulo di controllo dei mech. Fermare quella mastodontica macchina da soli sarebbe stato impossibile.
Jeffers digitò la consolle al suo fianco, imprecando. Delle figure si mossero in mezzo a quella fioca luce cercando freneticamente di afferrare quella massa goffa e pesante. I mech avanzarono su diverse direzioni, rallentando l'unità. Turbinando al rallentatore fecero leva e impiegarono la loro forza, mentre i secondi ticchettavano e le forze si congiungevano.
Funzionò… appena appena. L'unità andò a sbattere contro la parete in mezzo a un lento raschiare verdognolo.
— Qualche ferita?
— No.
— Soltanto al mio orgoglio — trasmise Saul. Pulì via una macchia verde dal fondo della sua tuta. — Ahi, credo di essermi anche slogato il polso.
Si radunarono lentamente. La raffica di vapore aveva soffiato Lani a un centinaio di metri di distanza.
— Ehi — trasmise Sergeov. — Guardate. — Indicò l'orlo della galleria E.
— Le creature… se ne sono andate — disse Carl.
— No, soltanto fritte. Le abbiamo disintegrate — trasmise Jeffers.
— Di questo ero sicuro — disse Saul. — Ma perché tanto vapore? Deve aver fatto bollire l'acqua nei loro tessuti. Dovrò regolare meglio la frequenza.
— Sintonizza tutto quello che vuoi — replicò Carl. — Su, adesso! Tappate quei buchi prima che ci cresca fuori qualcos'altro!
Ci vollero altre due ore di regolazioni prima che potessero disgregare le forme di vita native con una singola breve raffica del ragno, causando soltanto un'insignificante turbine di vapore. Lentamente Carl arrivò ad ammettere che l'idea pareva funzionare. Era difficile per lui abituarcisi.
Bethany Oakes era entusiasta. Approvò l'ordine di portar giù altri due ragni e delle squadre per manovrarli. Se avessero fatto tre turni al giorno, avrebbero potuto ripulire le gallerie e i pozzi più importanti nel giro di quarantott'ore.
Il vantaggio della tecnica a microonde era che disgregava le halleyforme riducendole al livello molecolare. Era assai più efficace che troncarle o strapparle a mano fuori dal ghiaccio sperando di essere riusciti a rimuovere ogni singola radice o filamento.
Adesso pensò Carl, adesso dobbiamo sbarazzarci di quella dannata poltiglia verde.
Cominciò a percepire una vaga sensazione di ottimismo che gli penetrava nel profondo delle ossa. Trasmise a Virginia le immagini al rallentatore dei purpurei che esplodevano a mano a mano che le microonde arrivavano alle lampade. Lei rispose con un entusiastico: — Yaaay! — poi lo fece echeggiare artificialmente, cosicché risuonò nelle cuffie come se un intero stadio stesse applaudendo. Ciò sollevò lo spirito di Carl più di ogni altra cosa.
Stavano tornando verso la Centrale, dentro una galleria presurizzata, quando il pazzo colpì.
— Lasciateli stare, lasciateli stare, lasciateli stare! Assassini! Siete voi gli alieni qui!
Si girarono di scatto e videro un uomo, con addosso una divisa della nave a brandelli, penzolante da un corridoio laterale, che li stava fissando con furore.
— Cosa…? — cominciò a dire Carl. Ma l'uomo cacciò un urlo e balzò avanti.
Si scagliò addosso a Carl, urlando frasi incoerenti, un farfugliare stridulo, costellato di oscenità, gli occhi spalancati, sprizzanti febbricitante energia. Le mani protese in avanti come artigli, le gambe pronte a scalciare.
Prima che Carl potesse reagire, le sue mani agguantarono l'anello del suo casco e schizzarono via insieme, roteando. Il suo casco gli sfuggì dalle mani quando andarono a sbattere contro una parete. Il pazzo avvolse le gambe intorno a Carl e cominciò a martellarlo con pugni duri, veloci.
Carl era lento, stordito. Cercò di colpire l'aggressore, ma lo mancò. Un gancio destro lo colse all'occhio; vividi lampi rossastri. Si girò impetuosamente per agguantarlo. Lo mancò.
È veloce. Carl bloccò un altro pugno. Colpì, mancò, colpì di nuovo. Questa volta assestò un diretto alla spalla dell'altro. Il folle replicò, con una nuova esplosione d'energia, colpendolo alla guancia, al braccio, al petto. Poi, finalmente, arrivarono i soccorsi. Qualcuno afferrò e tirò, e l'uomo roteò via, urlando, agitando una manciata di qualcosa.
Carl sentì delle mani amiche che l'afferravano, che arrestavano il suo incontrollato vorticare. Lani l'accolse fra le braccia.
— Cosa diavolo?
— Chi era?
— Non saprei dirlo.
— Ingersoll, credo. Un tizio della Sezione Chimica.
Carl sbatté le palpebre, incerto, mentre la figura si allontanava veloce, lanciandosi con calci ben sincronizzati alle pareti della galleria. Quel farfugliare continuò, spegnendosi in distanza. Nessuno lo seguì. Si raccolsero intorno a Carl che era ancora stordito dall'improvviso attacco.
— Devono essere soltanto lividi, nient'altro — disse, intontito, cercando di contenere l'improvviso afflusso di adrenalina.
— La faccenda più dannata che si possa immaginare — commentò Jeffers.
Lani sfiorò delicatamente il volto di Carl. — Si sta già gonfiando. Cosa può averlo provocato?
— Pareva fuori di senno — disse Saul. — Ho sentito che è stato colpito da qualcosa, ma Akio diceva che non pareva letale. Qualunque cosa fosse, è ovvio che ha influenzato la sua mente.
Il volto di Sergeov assunse un'impronta cupa, grigia. — Adesso sta scappando nelle gallerie più basse. Sarà molto difficile trovarlo, curarlo, là dentro, se lui non vuole essere preso.
— Per quello che mi riguarda — dichiarò Carl, sfregandosi la mascella, — può restarsene smarrito per sempre.
Saul annuì, ma la sua voce era pensosa e preoccupata quando disse: — Il suo volto era chiazzato di halleyforme. Mi chiedo quanti altri abbiano quello che ha sviluppato lui?
Talvolta quella parola lo ossessionava ancora. Siamo noi gli alieni. Qui erano gli uomini gli invasori, gli intrusi. Di tanto in tanto Saul si chiedeva che diritto avessero, loro, di uccidere quello che non capivano.
Comunque ammetteva di provare un ferale piacere a vagare per le caverne affondate nel ghiaccio profondo, distruggendo la poltiglia: una selvaggia eccitazione nel puntare una specie di pistola a raggi lungo un corridoio, bisbigliando «zap, zap», vaporizzando le eruzioni più pericolose di quella materia cometaria.
Saul non provava sorpresa nell'avere due distinte opinioni su quella faccenda.
In questa circostanza è il soldato, il cavernicolo che è in me ad averla vinta sul filosofo. Il mio lavoro è quello di scheggiare la selce, di modellare nuove armi e di aiutare a salvare la tribù. È una priorità che si tramanda da molto, moltissimo tempo. Ed è giusta.
Toccò il quadrante del suo irraggiatore portatile. Il reostato continuava a spostarsi, ed era importante mantenere il congegno regolato sulla giusta frequenza, nel caso in cui, svoltando un angolo, si fossero trovati di colpo in mezzo ad una massa di purpurei che si contorcevano.
Durante i giorni trascorsi dal primo esperimento, le squadre dei corridoi avevano imparato molto sull'uso delle nuove armi. Non c'era né abbastanza energia né abbastanza personale per mantenere ogni corridoio sgombro in continuazione, e la produzione collaterale di calore si era rivelata assai sgradevole se usavano le armi molto a lungo. Comunque, l'effetto sul morale era stato formidabile. Per la prima volta pareva che ci fosse la possibilità di riuscire a superare quella prova: quelli che non erano malati continuavano addirittura a rifarsi del sonno perduto. C'erano meno discorsi disperati sulla possibilità di smontare i mech di superficie per portarli giù sotto il ghiaccio.
Adesso, se soltanto riuscissimo a debellare la malattia… Il motivo principale per cui Saul aveva acconsentito a venire lassù, in quelle remote gallerie vicino alla superficie, era quello di raccogliere un numero sufficiente di campioni per sviluppare il suo data base, cominciando a crearsi alcune solide ipotesi su come le halleyforme interagivano fra loro, su quali ruoli giocassero i microorganismi.
Subito dietro di lui, Lani Nguyen era in sella a un grosso mech da galleria. Il grande robot trasportava una scavatrice a microonde che era stata modificata per la ripulitura dei corridoi. A parte un'area rischiosa al livello E, non avevano dovuto usarla molto. Le aree davvero brutte erano quelle vicine alle abitazioni umane, dove il calore, la luce e l'aria alimentavano una crescita di lichenoidi complessi e attiravano le micidiali colonie di creature simili a vermi dalle mascelle di ferro.
Qui nelle gallerie periferiche, le lampade fosforiche erano ben distanziate le une dalle altre e la temperatura veniva mantenuta ben al di sotto del punto di congelamento. Soltanto una sottile pellicola di verde rivestiva le pareti. Era più facile andare in giro, perfino in tuta spaziale, che laggiù, più in basso, dove strisciavano i purpurei.
Saul sollevò una mano e Lani fece fermare il mech ad un incrocio che un tempo aveva brillato dei colori arancio e azzurro del plastifoglio. Adesso le pareti erano nerastre sotto il verdeggiante bagliore di pochi pannelli luminescenti.
Saul raschiò via i lichenoidi, riportando alla vista alcune lettere sulla parete: D-14-TAU.
Bene, non si erano smarriti.
— Faccio degli ecosondaggi per cercare le fenditure, Saul.
Saul annuì. — Va bene, Lani. Soltanto, non avventurarti troppo lontano dall'incrocio.
— Sono legata al tuo guinzaglio come un cucciolo fedele, ci puoi scommettere.
Saul sorrise. Lani era scaltra e coraggiosa, ma era anche cauta. Quella combinazione era una delle ragioni per cui era lieto che gli fosse stata assegnata come partner.
Lani si spostò con cautela lungo le pareti, battendo sul fibrafoglio e ascoltando con un audioscopio, rintracciando con competenza delle spaccature e dei punti morbidi nel ghiaccio sottostante.
Avevano scoperto per dura esperienza che i minuscoli, quasi impercettibili terremoti di Halley non erano mai cessati sin dal loro arrivo, continuando ad aprire sottili crepe nell'aggregato del ghiaccio. Il pericolo era particolarmente acuto agli incroci, dove l'isolamento era più debole. Parte del loro lavoro là fuori consisteva nel tracciare una mappa di quelle fenditure per poterle più tardi rifondere e sigillare… sempre che ci fosse stato abbastanza personale per riuscire a farlo, s'intende.
I frammenti raschiati dalle scritte che si trovavano agli incroci vennero riposti in un flacone per campioni. Saul era quasi certo che si trattasse di un tipico Hallivirens malenkovi. Ma durante questo viaggio aveva scoperto anche un gran numero di altri tipi, non ancora descritti. Era chiaro che l'ecosistema variava da luogo a luogo a mano a mano che cambiavano le condizioni ambientali.
In quello stesso momento Akio Matsudo si trovava di nuovo nel laboratorio di biologia, alla Centrale, intento a lavorare con Marguerite van Zoon e tre tecnici esausti per cercare una cura in grado di arrestare la crescita dell'elenco dei malati.
Akio era uno scienziato competente, ma era anche ideologicamente incapace di adeguarsi alle implicazioni di quell'inaspettata marea di vita cometaria.
Tutti sono eccitati per il successo del mio disgregatore a microonde. Ho la reputazione d'uomo d'azione, adesso. Ma è servito a convincere qualcuno ad accettare i miei consigli? A tirarsi indietro per cercare di avere una panoramica più ampia?
Ha!
Saul si era rassegnato a investigare da solo il problema delle halleyforme, e a modo suo. Una parte di quell'indagine consisteva nel venire qua fuori, a dare un'occhiata da solo.
Lo svantaggio più grosso è sentire tanto la mancanza di Virginia.
Saul recitava una preghiera di gratitudine ogni giorno che si svegliavano insieme, senza che nessuno dei due soffrisse ancora a causa di una di quelle orribili e micidiali creature. Era una benedizione che lei, finora, non avesse preso niente da lui.
Virginia aveva avuto delle brutte giornate quand'era arrivata la notizia del colpo di stato alle Hawaii. Le risultanti tensioni percell-ortho avevano quasi messo in ombra la gioia per il successo della tecnica dell'irraggiamento.
Tre passi avanti, quattro indietro pensò Saul.
Si asciugò il naso sul tampone antisgocciolio del casco, prese un'altra pillola di antistaminico, e la mandò giù con un sorso risucchiato da una tettarella per l'acqua per l'acqua. Quindi ruotò il suo corpo per mettersi a testa in giù, allo scopo di dare un'altra raschiatina a un'escrescenza dell'aspetto interessante.
Un basso grugnito risuonò quando Lani tornò con il suo mech. Borbottò rapidamente nell'arcano gergo degli ingegneri mentre registrava i risultati, poi sollevò lo sguardo su Saul.
— Soltanto piccole crepe fino al Pozzo Sei. Allora, lo abbrustoliamo questo tratto di galleria?
Saul scosse la testa. — No, non qui. Impiegheremmo mezza giornata per scoprire le giuste frequenze per i singoli componenti dei lichenoidi. Le cellule disgregate finirebbero per sparpagliarsi ancora di più, e rivestire comunque le pareti, fungendo da cibo per la prossima generazione. Per adesso questa roba non sembra causare nessun danno.
Voleva anche evitare, così facendo, di selezionare delle varietà capaci di resistere alla disgregazione. Adesso avevano un'arma. Sarebbe stato poco saggio sprecarla come avevano fatto gli uomini del ventesimo secolo con i migliori antibiotici e insetticidi.
— Perché non spazzi l'area intorno a ogni pannello fosforescente? — suggerì Saul. — Cosicché questo corridoio non diventi completamente buio e inutilizzabile?
— E le valvole degli sfiatatoi. — Lani annuì. — D'accordo, Saul. A quest'ora conosco alla perfezione l'esercizio.
Nell'aria sottile e gelida i motori del mech produssero un basso rombo raschiante. Mentre il trasportatore passava, Saul lanciò un'occhiata al freddo carico legato alla sua schiena… i corpi che avevano trovato ieri sul tardi e alle prime ore di oggi.
Uno dei corpi era una donna in tuta spaziale, ancora contorta, il corpo piegato ad arco, congelata, come se il freddo e il rigor mortis l'avessero sorpresa nel bel mezzo d'uno spasimo di agonia. Gli occhi fuori dalle orbite e la lingua tumida la sfiguravano rendendola quasi irriconoscibile, ma la Centrale l'aveva identificata come uno dei tecnici della sezione Energia e Propulsione, scomparsa ormai da tre giorni.
L'altro corpo era rivestito d'una semplice tuta isolante. Saul e Lani l'avevano trovato avvinto nell'abbraccio d'una forma di vita che Virginia aveva chiamato anemone di corridoio. Pezzetti di carne erano stati strappati via quando avevano cercato di districare il corpo e di rimorchiarlo via. Avevano dovuto riregolare l'irraggiatore e fare a pezzi la colonia degli organismi che continuavano ad agitarsi, per poter recuperare e insaccare i resti del poveretto.
Chi poteva spiegare perché mai un uomo fosse morto là fuori, così lontano dalla Centrale e tutto solo? Fino a quando non avessero effettuato un'analisi dei tessuti, nessuno avrebbe neppure saputo chi era stato quell'irriconoscibile guazzabuglio di carne.
Era un inquietante schema di eventi. Altri gruppi avevano trovato uomini e donne morti nelle gallerie periferiche. Pareva ne morissero di più quand'erano soli, durante le ore fuori servizio, di quanti ne perivano nel corso delle battaglie nei corridoi.
In un primo momento avevo pensato che fosse un po' come quando un animale ferito si trascina talvolta lontano dal branco, alla ricerca di un buco dove morire. Mi ero chiesto se la gente malata e febbricitante non facesse altro che strisciare via per rimanere sola.
Ma non è affatto così.
Sfoderò il coltello e cominciò a scrostare una specie di muffa vicino alla scritta in codice che dava un nome all'incrocio. La poltiglia nascondeva qualcos'altro.
Della roba verde galleggiò via dalla sua lama vibrante, ed eccolo là… un cerchio con una freccia che schizzava fuori in alto a destra: il simbolo della mascolinità, con un fiore stilizzato all'interno.
Era il terzo tipo di graffito che trovavano. In quel quadrante il più comune era stato l'Arco del Sole Vivente: il simbolo degli ortho radicali dei paesi della fascia equatoriale. Ma ce n'erano stati altri, compreso il cartiglio con la P e il simbolo dell'infinito…
… il Sigillo di Simon Percell.
— Ho finito con quella galleria — annunciò Lani. — È un bene che abbiamo controllato. Il regolatore automatico della pressione era incastrato. Avrebbe potuto causare dei problemi.
— Che ne pensi di questo? — Saul chiese a Lani, indicandole il simbolo del cerchio e della freccia che aveva messo allo scoperto.
Vi fu un lungo silenzio. Il volto di Lani appariva pallido sotto i fari del casco.
— Ogni possibile varietà di svitato è stata mandata su con questa missione, Saul. Perfino noi spaziali abbiamo i nostri, immagino. Quello è il segno della Via Marziana.
Saul annuì. Il suo sospetto stava diventando sempre più concreto.
— I segni del clan. La gente ha preso davvero l'abitudine a vivere qua fuori. Sulle prime non volevo crederci.
Lani gli spiegò: — Ha preso voga quando la gente ha cominciato ad avere un po' meno paura dei purpurei. Quei tizi che abbiamo incontrato giù al livello K… dal Madagascar e dalle Figi… fanno il loro lavoro alla Centrale, ma hanno terrore dei percell. Si rifiutano di dormire nella stessa stanza con loro.
— Terrorizzati — ripeté Saul. Trovava stupefacente che uomini e donne si comportassero in quel modo. Se n'era sempre stupito durante tutta la sua vita.
Non era colpa dei percell, se apparivano più resistenti alle malattie della cometa, rispetto agli umani non modificati… o per lo meno mostravano minori segni superficiali di malattia. Ma questo non fermava quel mito irrazionale.
Durante il Medioevo la stessa cosa era successa agli ebrei d'Europa. Poiché uccidevano i ratti al vederli e si lavavano le mani, avevano avuto la tendenza a soffrir meno degli effetti della peste. Alla fine, però, le loro abitudini igieniche avevano fatto poca differenza. Un numero più che sufficiente era morto per mano della plebaglia infuriata, riequilibrando abbondantemente la percentuale.
Mai sottovalutare il potenziale della stupidità umana. Pareva che un numero sempre crescente di membri della spedizione dormissero nelle loro tute spaziali, nelle gallerie esterne. E talvolta là fuori la malattia li sorprendeva costringendoli a morire in maniera orribile, e soli.
— Ho chiesto alla gente nei territori delle diverse fazioni di riferire se qualcuno manca all'appello. Non so a cosa servirà.
Territori delle fazioni rifletté Saul. — Tutti parlano ancora con te, non è vero, Lani?
La donna si voltò a guardare Saul, forse con una punta di nervosismo.
— Be', immagino che nessuno si senta minacciato da me. Sono un tipo piuttosto innocuo. La gente tende a raccontarmi le cose.
Saul sorrise. Quella ragazza amerasiatica era più profonda di quanto immaginava, e forse non se n'era mai resa conto.
— No. È soltanto una parte della questione. Tu sei una specie di ponte, Lani, una ortho, ma un'ortho a cui piacciono i percell. Una… come si dice?
— Una percefila, Saul.
La sua risata suonò secca e nervosa. Saul annuì. — Tu sei la sola di noi sopravvissuti al Primo Turno di cui la maggior parte dei risvegliati sembra fidarsi.
— Soprattutto perché sanno che io mi limitavo a borbottare. Non ho avuto niente a che fare nel decidere chi dovesse venir scongelato. È per questo che incolpano il povero Carl di…
Scosse la testa.
— Comunque su questo ti sbagli, Saul. In questo momento la gente è arrabbiata, ma se dovessero scegliere tre persone indispensabili fra tutti i membri della spedizione, si tratterebbe senz'altro di te, Carl e Virginia.
Saul scoppiò a ridere. Che dolce bambina! Gli ricordava ciò che avrebbe potuto essere la piccola Rachel, se fosse cresciuta. Ma con dei grandi occhi a mandorla.
Fu quasi sul punto di chiederle come stessero andando le cose con Carl. Correva voce che talvolta stessero insieme… anche se ovviamente a un livello meno impegnato di quello che Lani avrebbe preferito. Peccato. Sarebbe stato bello vedere qualcosa in marcia fra loro, non fosse altro perché avrebbe potuto alleviare la caparbia rabbia di Carl nei confronti di Virginia.
Saul decise di non tirar fuori l'argomento. Probabilmente finirei per prendere una spaventevole cantonata.
— Ehi, oh — esclamò, sollevando il suo irraggiatore portatile con cautela, per compensare l'inerzia. — Rimettiamoci al lavoro, ragazza.
Lani sorrise e rimise in moto il mech. Il mech li precedette mentre avanzavano per un lungo tratto di galleria, osservando con circospezione le vicine pareti tinte di verde.
Su, al livello A, la cavità che avrebbe dovuto essere la fabbrica dei lanciatori si spalancava come una tomba antidiluviana. L'estremità di poppa della chiatta a vela Delsemme giaceva al suo centro, in mezzo a un disordine di casse ancora intatte e a macchinari d'ogni genere. Filamenti colorati decoravano i fianchi del vascello da carico, offuscandone il profilo. La caverna dava l'impressione di essere stata abbandonata da anni. Era difficile immaginarla ronzante di luci sfavillanti e di attività, come avrebbe dovuto essere se mai volevano far ritorno a casa.
L'amico di Carl, Jeffers… ha avuto troppo da fare per venire a dare un'occhiata a questo. Mi chiedo se non sarebbe una gentilezza fare a meno di dirglielo.
— Diamo a questo posto una bella spazzata sulle frequenze tre, cinque e dieci — disse a Lani. — Poi ci affretteremo a fare quell'inventario che Betty ci ha chiesto.
— D'accordo, Saul. — Il mech di Lani si mosse sotto il suo misurato controllo. Ben presto ad una serie di minuscoli clic si accompagnò l'innalzarsi di nubi da ogni parte della cavità quando gli algoidi hallivirens esplosero a causa della disgregazione indotta dalle microonde.
Saul rifletté, se soltanto curare le malattie fosse così semplice… Tirò fuori una penna ottica e cominciò a controllare le casse, lasciando che il suo computer portatile facesse l'inventario del contenuto della caverna.
— Saul — bisbigliò Lani. Lui si girò, interrompendo la sua raccolta di campioni, e vide che Lani era all'estremità opposta della cavità. Gli indicava uno dei corridoi laterali, verso il basso. Quando arrivò dove lei si trovava, la sua prima reazione fu di un fulmineo afflusso di adrenalina, come se fosse sul punto di combattere. Giacché lì c'era un'increspatura rivelatrice che si contorceva rivelando dei purpurei intenti a pascolare sul foglio fibra ricoperto di poltiglia.
Poi vide qualcos'altro. Centro metri più sotto, o giù di lì, vicino a una delle lampade luminescenti, galleggiava una figura indistinta.
— Un altro morto?
Lani scosse la testa.
— No. Credo… credo sia Ingersoll!
Saul maledisse l'annebbiamento che gli causavano gli antistaminici. Aguzzò lo sguardo verso il fondo della galleria. Quella vaga figura si stava muovendo.
Ingersoll. A quest'ora tutti avevano fatalisticamente supposto che fosse morto. Dapprima pensò che il folle spaziale scomparso indossasse una tuta spaziale verde, tinta in quel modo per armonizzarsi con i corridoi ricoperti di vegetazione. Ma poi…
— Cosa diavolo? — Stupefatto, si rese conto che la figura non indossava vestiti.
— Si è ricoperto di poltiglia verde secca! Cos'è che sta staccando dalle pareti, Saul? Cos'è che sta facendo?
Fortunatamente i caschi delle loro tute trattenevano il suono delle loro voci. Saul cercò di planare più vicino in silenzio, con un goffo sbuffare di gas dai suoi getti. — Credo…
Ingersoll doveva aver sentito qualcosa nell'aria sottile. Si girò di scatto e Saul vide che soltanto il suo viso non era rivestito da uno spesso strato di verde vegetazione vivente. L'uomo gridò con gli occhi velati della follia. Saul riuscì a distinguere poche parole qua e là:
— … perfetto! Dolce, dolce, dolce e caldo!… Lo saprete, saprete, no, no, no…
Era difficile prestare molta attenzione alle parole vedendo ciò che penzolava fuori gocciolando dalla bocca di Ingersoll… una sanguinolenta massa purpurea.
Poi, con un'improvvisa rotazione su se stesso e una scalciata, Ingersoll si allontanò a tutta velocità. Lani e Saul riuscirono soltanto a seguirlo con lo sguardo, per parecchi istanti troppo storditi per pensare di dargli la caccia.
Finalmente Lani ruppe il silenzio.
— Uuh — fece. Saul la vide rabbrividire perfino attraverso lo spessore della tuta che indossava.
Annuì.
— Be', è una sorte che mi verrà risparmiata. Se toccasse a me, con tutta probabilità mi mostrerei allergico a quella roba.
Toccò il braccio di Lani e le strizzò l'occhio. Alla fine la donna sorrise.
Poi Saul starnutì.
— Questi dannati antistaminici stanno esaurendo di nuovo il loro effetto. Su, Lani. Mettiamo i contrassegni a questo corridoio e torniamocene a casa.
Con un'ultima occhiata alle proprie spalle verso il corridoio ricoperto dai purpurei, si voltarono e ripresero la via del ritorno, soli, con i propri separati pensieri.
Un'ora più tardi avevano descritto un'altra giravolta e si stavano avvicinando alla Centrale e all'area peggiore. Il Confine, cioè, là dove il calore, l'aria e l'umidità delle abitazioni umane eccitavano più di ogni altra cosa le forme di vita cometarie. Lani stava sintonizzando di nuovo il disgregatore sulle frequenze micidiali per i purpurei, nel caso in cui avessero dovuto aprirsi la strada combattendo. Saul, però, si sentiva di nuovo su di corda, sapeva che al di là della Terra di Nessuno c'erano calore e cibo, e una persona tutta speciale che stava aspettando proprio lui.
I suoi pensieri erano una mescolanza di forme. L'immagine francamente sessuale di uno dei capezzoli di Virginia, surriscaldato dalla sua mano e rigidamente eretto. Il morbido alito di lei sui suoi orecchi e il tocco tentacolare elettronicamente amplificato delle emozioni incanalate e collegate direttamente alle sue…
Eppure la sua mente continuava a fissarsi su quelle piccole cellule che si moltiplicavano a profusione, crescendo in orde screziate dei più vari colori, formando macroorganismi cooperanti là dove nessuno dotato anche di un briciolo di buon senso si sarebbe aspettato che esistessero, per non parlare della possibilità che potessero prosperare.
Quelle immagini avevano un tocco in comune. Una sinfonia di chimica autoreplicante… l'eccitazione sessuale di una giovane donna, le sue più intime correnti d'amore, la marea montante della vita cometaria, che si levava per incontrare le onde di calore emananti da una sorgente che si manifestava soltanto ogni settantasei anni…
Solo indirettamente, senza cattiveria, quelle forme native seminavano la rovina fra i visitatori, uccidendoli e scatenando di rimando la rappresaglia. Saul avrebbe potuto anche sentirsi colpevole per aver inventato delle armi per quella guerra. Ma qui il senso di colpa non era pertinente. Niente di ciò che facciamo qui riporterà indietro la vita della cometa. Siamo come l'estate, e anche noi passeremo.
Il diffusore sopra l'orecchio destro di Saul crepitò.
— Lintz, sono Osborn. Siete svegli là sopra?
Saul annuì. — Sì, Carl. Cosa c'è?
— C'è stato uno sviluppo, Saul. Puoi venire al Pozzo 4, livello K? Io… Potremmo aver bisogno del tuo aiuto.
— Oh? Cos'è successo?
Ci fu una pausa.
— Vorrei parlare con te privatamente, se possibile.
— Perché mai? — Saul corrugò la fronte. — È qualcosa che non puoi dire su un canale codificato?
Vi fu un'altra pausa.
— No, non esattamente. Ma… già, credo di sapere dove si trova la chiatta-colombario mancante. Sono sicurissimo di sapere quello che è successo alla Newburn.
Adesso toccò a Saul restarsene silenzioso, ammiccando più volte.
— Stiamo arrivando, Carl. Passo e chiudo.
— JonVon — disse Virginia, meditabonda, — riesco a percepire quello che stai facendo.
ALTAMENTE IMPROBABILE.
— No, sul serio. C'è un pizzicore, un prurito.
IL PROCEDIMENTO DI SCANSIONE A RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE NON FA MUOVERE NIENTE. NON TOCCA NEPPURE LA TUA PELLE.
— Lo percepisco.
CI SONO ASSAI POCHI RECETTORI SENSORIALI ALL'INTERNO DEL CRANIO.
— Insomma, qualcosa si sta muovendo. Come dita che ballino sopra il mio cuoio capelluto, soltanto, più in profondità… — la sensazione era conturbante, come viticci che tracciassero un ricamo attraverso la sua testa. Si mosse a disagio sul giaciglio a rete. Soltanto un sottile ronzio proveniva dai banchi che la circondavano.
IL CAMPO MAGNETICO, FORSE.
— Gli esseri umani possono percepire i campi magnetici?
QUELLI INTENSI, SÌ. STO IMPIEGANDO 7,6 KILOGAUSS NELLA ZONA STUDIATA. LO SCARTO DALL'UNIFORMITÀ È MENO DI UN CENTESIMO DELL'UNO PER CENTO.
Proprio da quel programma pedante che era, e lei avrebbe dovuto saperlo, dal momento che era stata proprio lei a scriverlo… aggiungere un particolare irrilevante.
O forse non era irrilevante? L'agitarsi degli infinitesimali elettroni che roteavano dentro il suo cranio richiedeva una regolazione fine di un ordine insolito perfino nella ricerca applicata. Soffocò la tentazione di far scivolare lo sguardo di lato per vedere i poli del grande magnete a superconduttori. Perfino quel minuscolo movimento avrebbe suscitato dei tremori indesiderati nella sua testa.
STO ACCEDENDO ALL'ULTIMISSIMO DATA BASE SULLA RISONANZA MAGNETICA NUCLEARE UMANA. INDAGHERÒ SUI POSSIBILI EFFETTI NON PREVISTI.
— Fallo. Mi prude dentro la testa.
RICERCANDO E INTEGRANDO ADESSO.
— Saul ha parlato di qualche effetto?
HA FORNITO SISTEMI DI COMANDO AUTOMATICI DI SICUREZZA QUANDO HA PORTATO QUESTA UNITÀ RMN GIÙ DAL CENTRO MEDICO, MA HA DICHIARATO CHE L'USO ERA INNOCUO TENENDOSI DENTRO LA PORTATA OPERATIVA INDICATA.
— Uhmm. Forse avrei dovuto farlo sotto l'effetto di un sedativo.
SCIOCCHEZZE. NON VORREI DOVER INTRAPRENDERE QUESTO COMPITO DA SOLO.
Proprio come me pensò Virginia. L'ansia ama la compagnia.
È PROPRIO VERO.
Adesso non c'era più praticamente nessuna differenza fra il modo in cui JonVon afferrava i suoi pensieri superficiali e le sue espressioni orali, siccome JonVon li leggeva entrambi direttamente tramite i connettori neurali. Tuttavia le lo percepiva in maniera diversa. La sua mente elaborava le parole in maniera sottilmente differente. I centri di elaborazione preorali nel suo cervello davano una differente andatura alle frasi, immettendo le parole «avanti» con la cadenza inconscia che costituiva il suo stile verbale. Quando pensava, senza neppure l'inconscio desiderio di parlare, spesso non c'erano neppure le parole. Una rapida, quasi olografica percezione dell'idea le balenava nella mente. Si chiese se JonVon sapeva distinguere la differenza.
NATURALMENTE.
— Naturalmente — disse/pensò mesta.
NON INDIVIDUO QUESTO PIZZICORE DI CUI PARLI, ANCHE SE NATURALMENTE NE POSSO PERCEPIRE UN'ECO NEGLI SCHEMI D'ONDA DEL TUO ASSETTO GENERALE, ADESSO CHE SO COSA DEVO CERCARE.
Le parole di JonVon le arrivavano in due scaglioni distinti: il lampo del loro significato generico, seguito un istante più tardi da una frase disposta in bell'ordine. Quello era il suo centro verbale che funzionava alla rovescia, recependo una serie di rapidi, fugaci input da JonVon, per poi plasmarli in frasi compite e lineari.
— Che razza di opera d'arte siamo! — osservò.
SHAKESPEARE?
— Preso vagamente a prestito da lui, sì.
PREMATURAMENTE LACERATA.
Si dimenticava continuamente della rapidità con cui JonVon era in grado di trovare ed esaminare un vastissimo bagaglio letterario. — Dovrò insistere con le tue lezioni di poesia. Dimostri una certa attitudine.
TU MI HAI FATTO… Virginia notò sorpresa che c'era un'autentica esitazione in quella trasmissione. Non faceva parte della simulazione, ma era una vera incertezza… PERCEPIRE IL SIGNIFICATO AMBIGUO DI SIMILI STROFE. LA VIRTÙ DELL'INDEFINITO.
Immaginò che il programma fosse riluttante a utilizzare il termine sentire e avesse scelto percepire soltanto dopo una lunga ricerca per confronto, e una disputa interiore. Le macchine non condividevano la casualità confusa dei sensi e dei pensieri umani, dal momento che i canali dei loro input erano enormemente diversi, JonVon, però, poteva trarre in inganno i profani facendo loro credere di essere una persona vera, usando le parole nella usuale maniera evasiva degli esseri umani. Di solito la gente diceva io sento per io penso, mentre invece le macchine, di solito, mantenevano delle pareti stagne fra i due significati.
Ed era anche questa una delle ragioni per cui stava facendo tutto ciò. Gettate un sasso a una donna, e lei potrà rapidamente digerire tutte le informazioni che arrivano dai canali sensoriali, elaborarle sotto forma di vettori intuitivi, velocità e angoli, per poi precipitarsi avanti, di lato, trovando soluzioni approssimative, tutto per scoprire da quale parte dovrà lanciarsi per schivarlo.
Le macchine basate sul silicio potevano farlo ugualmente, ma in maniera molto diversa. Preferivano (intendendo che gli umani erano di gran lunga migliori nel programmarli) assumerlo come un problema di meccanica, stabilendo le condizioni iniziali in maniera del tutto chiara e pulita, per poi integrare le equazioni del movimento in avanti per vedere l'esatto risultato. Bene. Soltanto che a questo punto sei morta.
CHIARAMENTE UNO SVANTAGGIO.
— Un'altra battuta umoristica. Adesso le stai facendo più spesso.
NON HAI RISO.
— È ironia quella che hai usato, non ah, ah, ah…
OH, VEDO SOLO VAGAMENTE LA DIFFERENZA.
Virginia sospettava che JonVon usasse l'espressione vedere vagamente soltanto come consuetudine verbale. Non aveva ancora una vera capacità di metafora nel linguaggio. — Oh, ogni forma di umorismo è basata su due elementi: il ridicolo e l'incongruenza. L'ironia ha… — Si accigliò.
SÌ?
— Ci sono certe cose…
CHE L'UOMO NON DEVE CONOSCERE?
— Niente da fare, hai sbagliato cliché. Ci sono certi argomenti che vanno al di là di qualunque spiegazione.
UN INDOVINELLO AVVOLTO IN UN ENIGMA?
— Ragazzi, oggi hai l'accesso rapido. Puoi farlo e monitorare allo stesso tempo questo esperimento?
SICURISSIMAMENTE.
Virginia non riusciva a ricordare di aver inserito quella cadenza compiaciuta in quella particolare simulazione. Stava mimando Saul? Negli ultimi tempi JonVon era stato parecchio in contatto con il suo amante. E lei non avrebbe mai dovuto dimenticare che JonVon, come costrutto bio-organico, stava a metà strada fra un essere umano e i computer al silicio, nel modo in cui elaborava le informazioni. Ciò conduceva a capacità inaspettate.
— Puoi fermare il prurito?
L'input di JonVon si ruppe in due canali che lei avvertì come un pigro fiume di parole rugginose, con azzurri, sfreccianti commenti che scivolavano dentro e intorno ad essi:
MENTRE NOI «PARLAVAMO» NON LA PAROLA GIUSTA, LO SO,
HO SAGGIATO L'EFFETTO MA NON CE NE SONO ALTRE
E HO SCOPERTO CHE È DOVUTO
A CONCENTRAZIONI DI
DIPOLI MAGNETICI NUMERO MEDIO IO9
CHE SI URTANO LEGGERI
DOVE HAI ACCUMULATO
COMPLESSI SCATENANTI PROBABILMENTE
SATURI DI EMOZIONI. DALL'ADOLESCENZA
TEMO DI NON POTER
ELIMINARLI PERCHÉ IL LORO GRILLETTO PRIMARIO
SONO INTIMAMENTE ESTERNO SEMBRA SESSUALE
LEGATI ALLE TUE
REAZIONI MOTORIE L'IMMAGINE CHE EVOCHI IN
QUESTO MOMENTO È LA
CONTRAZIONE DEI MUSCOLI
DELLA COSCIA SUPERIORE
MENTRE ALLARGHI LE GAMBE
PER…
— Basta! Non voglio riascoltare da te la mia vita sessuale!
L'HAI CHIESTO TU.
— Davvero?
MI SPIACE.
La sua testa era stretta dentro compatta gommapiuma, il che si rivelò una saggia precauzione, altrimenti sarebbe trasalita per l'imbarazzo.
— Quanto hai… — Be', naturalmente, tutte le volte che sono stata con Saul.
STAI MOSTRANDO RITMI D'IMBARAZZO. MI SPIACE.
— Oh, non è colpa tua.
POSSO ABORTIRE L'ESPERIMENTO.
— No! Ne ho bisogno per i mech.
ADESSO STO RICEVENDO DELLE PREZIOSE SUB-ROUTINE.
Virginia suppose che quell'ultima frase intendesse essere rassicurante. Il programma aveva una sua misteriosa maniera di rispondere alle sue apprensioni. Comunque… — Giusto per curiosità, cosa c'entra la mia capacità motoria per la manipolazione degli utensili? È per questo, no, che stiamo frugando dentro i miei lobi mediani… Cosa c'entra questo con il mio allargare le cosce?
HAI ASSOCIATO QUESTE AZIONI NELLA TUA AUTO-PROGRAMMAZIONE.
— Auto-programmazione?
APPRESO-VIVENDO.
— Oh, vuoi dire l'esperienza.
IL MIGLIOR INSEGNANTE, SECONDO UN VECCHIO DETTO.
— Forse. Ma per alcune cose mi sento più sicura se le attingo da un libro.
SÌ.
C'era forse un accenno di riluttanza? — Puoi assegnare una data alla formazione di quei complessi?
UN ANNO, NO. L'EPOCA DELLE ASSOCIAZIONI È VAGA. COMUNQUE, SEI DISTESA SU QUALCOSA DI GRANULOSO E FREDDO. C'È UN SUONO. ONDE D'ACQUA, VALUTO. SOPRA DI TE C'È UN VISO E UN PULSARE NELLA PARTE BASSA DEL TUO ADDOME.
Sì, quella calda serata hawaiana di primavera, fragrante di promesse. Un film e un ballo e via sulla spiaggia per un'amichevole sbaciucchiata. Soltanto che quei caldi baci e quelle mani carezzevoli e gentilmente curiose non si erano fermate là. Qualcosa di potente l'aveva afferrata in una maniera che non avrebbe mai immaginato, non aveva importanza quante migliaia di volte ci aveva già pensato, cercando d'immaginarlo visivamente, e poi lo stavano davvero, incredibilmente, facendo. E piuttosto che una fiammeggiante ma esaltante sensazione, un delirio cosmico, un'unione mistica, come aveva immaginato nei suoi sogni, era stato crudo, brutale, scomodo, doloroso, e alla fine deprimente.
CALZONCINI CORTI
NELL'INCANTO ASSORTI
— Non basta una rima perché sia poesia.
È VERO.
— È, comunque, tu cosa ne sai? — E proprio mentre queste parole si formavano, pensò: Insomma, a dire il vero, Jon-Von sa esattamente quello che fai. O lo saprà, quando avrà finito di tracciare la mappa dei tuoi lobi, si sarà sprofondato dentro il tuo cervello primordiale, avrà sondato il nucleo da rettile che hai dentro. Un pensiero che la fece meditare.
JonVon scelse di non rispondere. Tatto? Oppure lei stava mostrando il solito pregiudizio compiaciuto del programmatore, che attribuiva caratteristiche umane alle reazioni della macchina?
Quel fresco e delicato prurito continuò. Virginia si rilassò, lasciando che la sua mente planasse lontana da quel rosso turbine di emozioni che il ricordo aveva evocato.
Sapeva che i ricordi alloggiavano vicini ai punti dov'erano immagazzinate le associazioni fisiche, cosicché il corpo guidava la mente nell'incameramento dei dati. L'odore di qualcosa di fresco e arido poteva evocare un lontano pomeriggio polveroso dell'infanzia. Ma ciò la indusse ad interrogarsi sull'esperimento radicale che adesso stava tentando.
I mech avevano bisogno di essere supervisionati. Speciali programmi di elaborazione controllavano le ingegnose braccia waldo, ma non erano intelligenti. JonVon era abbastanza «intelligente» ma non poteva aiutare un mech a girare un cacciavite o a bilanciare una spugna ad aspirazione. Da quella macchina stocastica che era, l'avevano progettato per trattare con l'incerto. Non s'interfacciava bene con la visione del mondo riduttiva, ristretta alla soluzione di equazioni, dei mech. E JonVon era privo delle intricate capacità motorie che l'evoluzione e l'esercizio avevano dato agli umani.
Così lei aveva deciso di tentare uno dei suoi sogni esoterici, a bassa probabilità: lasciare che JonVon leggesse le sue capacità. I suoi riflessi erano egualmente stocastici e olografici. Lui li avrebbe senz'altro capiti.
La tecnologia era disponibile, se si sapeva dove cercarla. Il cervello immagazzinava i ricordi secondo l'orientamento degli elettroni, nel profondo delle cellule e delle sinapsi. In teoria era possibile leggere le direzioni verso cui puntavano questi elettroni. Tutto quello sciame di spin immagazzinava informazioni. Le complicate rotazioni e trazioni necessarie per ruotare un polso, per puntare un dito… Virginia disponeva già di buoni programmi che traducevano i movimenti umani nei movimenti dei mech. Se JonVon avesse potuto immagazzinare le sue stesse capacità motorie, avrebbe potuto prendere, per così dire, in mano buona parte della direzione dei mech. Questo sarebbe stato un grosso aiuto. Carl e gli altri spaziali avevano brontolato interminabilmente perché dedicasse più tempo ai mech, e lei cominciava ad essere stufa.
Quella era una via di uscita. Forse.
Comunque avrebbe dovuto sviluppare lo stesso quella tecnologia, presto o tardi. Anche con la spazzatrice a microonde di Saul, la situazione rimaneva difficile. La Oakes e Lopez attribuivano ancora la massima priorità alla direzione dei mech.
Se continuavano a perdere gente, nell'arco dei settant'anni sarebbe stato necessario che i mech fossero assai più indipendenti di quanto la spedizione aveva progettato. E ad un certo punto anche lei avrebbe dovuto venir colombarizzata, così doveva almeno cominciare a mettere a punto, nel minor tempo possibile, un miglior sistema di programmazione.
LA LETTURA È PROSSIMA AL COMPLETAMENTO.
Virginia trasmise un'espressione di eccitato sollievo: lampi di luce oro brunito che saettavano attraverso un cielo di velluto.
HO REGISTRATO IL LUOGO DEL GRILLETTO. POTREI EVOCARE COME RICHIAMO VOLONTARIO L'INCIDENTE DELLA TUA INFANZIA. PER TUO DIVERTIMENTO.
— Non ero una bambina, secchio di bulloni che non sei altro.
LE ASSOCIAZIONI…
— E non penso neppure che sia «divertente». Quel ragazzo grande e grosso… — Ricordò con un improvviso sussulto l'ansimante voce raschiante di un maschio che borbottava Eli a hohonu keia lua. I suoi colpi duri come quelli di un ariete le avevano scolpito quelle parole come un maglio nella memoria: Questo buco me lo scavo in profondità. Rabbrividì.
ADESSO PUOI MUOVERTI. LETTURA COMPLETATA.
— Grazie.
NON IL MIGLIORE DEGLI INIZI.
Sapeva che JonVon non intendeva la lettura. — No, non lo è stato. Oh, è stato gentile quel che basta, immagino. Mi piaceva abbastanza da essere uscita con lui parecchie volte prima che succedesse, dopotutto. Ma mai più… dopo quella volta.
E DA ALLORA?
— Ho avuto la mia dose. Un ingegnere all'università… no, chi sto prendendo in giro? Non molti. Niente affatto molti.
UNA CONGRUENZA È DIFFICILE.
— Non è una congruenza matematica, sai, JonVon. La gente non cerca qualcuno che sia esattamente uguale a sé medesimo. Quasi il contrario, in realtà.
SEI GIOVANE. CERCHI L'ETÀ?
Il volto segnato dal deserto di Saul le balzò nella mente, sorridente in quell'adorabile maniera distratta, e per un attimo non fu sicura se era stata lei a ricordarla, oppure… sì… — JonVon, sei stato tu a mettermelo in testa.
PAREVA NECESSARIO.
— Sono io quella che deve giudicare. Per lo meno lasciami gestire le mie fantasie!
NATURALMENTE.
Ma la rapida visione di quel sorriso sbilenco sotto quegli occhi scuri, di rado gioiosi, l'aveva davvero colpita. Pareva fosse passato un secolo da quando l'aveva visto l'ultima volta, da quando si era rifugiata fra quelle forti braccia che la rinserravano, da quando aveva inspirato quel suo inebriante odore di muschio, da quando aveva parlato…
— JonVon, chiamamelo.
CREDO CHE ABBIA UN APPUNTAMENTO CON CARL OSBORN. UNO DEI MECH AI MIEI ORDINI È STATO TESTIMONE DEL SUO PASSAGGIO 1.34 MINUTI FA.
— Maledizione. Sento la sua mancanza. — Si strappò dalla testa l'imbottitura di gommapiuma e fissò con una smorfia quegli imponenti banchi di strumenti: affusolati pick-up a risonanza nucleare, invadenti poli magnetici a forma di frittella, file di digitatori.
— Questa crisi senza fine mi ha esaurita.
HAI BISOGNO DI RICREAZIONI.
— Ci puoi scommettere.
Un'immagine balzò dentro la sua mente: così plastica, così scandalosa, morbidi arti intrecciati, e di più. Virginia avrebbe voltato la testa dall'altra parte se mai l'avesse esibita in compagnia mista… eppure la trovò sensualmente allettante, capace di farle accelerare il polso, come se fosse calcolata su misura per scardinare i suoi speciali recessi privati.
— JonVon!
SOLO UN ESPERIMENTO.
Quelle scene così vivide sparirono, lasciando l'alone azzurro dell'immagine postuma.
— Come facevi a… saperlo?
HO LETTO MOLTO.
Suppose che fosse una battuta.
— Da questa parte! — urlò Carl.
La figura di Saul si girò all'estremità opposta della Galleria K e agitò una mano in segno di saluto. Quindi scalciò energicamente e planò per un centinaio di metri, passando attraverso pozze di luminosità fosforescente color avorio.
— Dannatamente freddo — fu il commento di Saul mentre agitava le braccia come un mulino a vento per ruotare su se stesso e portare avanti i piedi. Atterrò ammortizzando l'urto sulle ginocchia.
Sta migliorando rifletté Carl. Tutti dovranno imparare a sudare d'ora in avanti. — Adesso manteniamo il freddo perfino nelle gallerie centrali. Se fosse per me le svuoterei del tutto.
— Ridurrebbe enormemente le nostre capacità di manovra.
— Ma ridurrebbe anche i purpurei.
— Io uso le gallerie interne una volta all'ora o giù di lì. Se dovessi mettermi la tuta spaziale tutte le volte…
— Lo raccomanderò ugualmente.
— Bethany Oakes ha già deciso…
— Sì, lo so. — Tutte le volte che metti Lintz, a confronto con un problema, comincia a citare le decisioni prese dagli alti papaveri.
Saul parve riflettere. — Mentre tornavamo qui, Lani ed io abbiamo visto Ingersoll in fondo a uno dei passaggi laterali, vicino al livello A. Mangia le forme native, credo. Straordinario. Pare innocuo, anche se matto.
Casi avvertì una stilettata d'irritazione al solo sentir parlare di Ingersoll. Le cose vanno talmente male che non riusciamo neppure a catturare un pazzo. Ma mantenne la sua voce su un tono naturale. La diplomazia veniva per prima. — Sì, è matto. Ma matto come una volpe.
Scosse la testa, e decise di andare dritto al punto.
— lo… senti, ho intenzione di proporre a Bethany Oakes di andare a recuperare la Newburn.
— Sì? L'hai davvero localizzata?
— Proprio cosi. È stata un'idea di Lani, a dire il vero, guardando quella simulazione numerica che Virginia ha fatto qualche tempo fa.
— Quella che mostrava come la vela solare delia Newburn avrebbe potuto essere stata lacerata dalla coda di plasma di Halley?
— Già. Ho calcolalo che le altre chiatte sono state soltanto fortunate a non essere state colpite. È probabile che le correnti indotte dalla coda incrociata abbiano fatto anche saltare i fari di posizione della Newburn. Senza quella vela spiegata non c'era speranza di trovare la Newburn. Cosi Lani ha detto che forse potevamo tentare di trasmettere delle microonde su un raggio ristretto e ascoltare un'eventuale eco. Ho usato un po' delle mie ore di sonno e ho fatto proprio questo: centro! Ho ricevuto un segnale in risposta dopo aver cercato per una settimana.
— Meraviglioso… è così semplice?
La sorpresa di Saul era appagante. Per lo meno, non è stato lui a pensarci per primo. — Avremo bisogno di quei quaranta dormienti, alla velocità con cui stiamo perdendo la gente.
Saul annuì, pensoso. — Giusto. Il problema della manodopera peggiorerà.
— Dobbiamo farlo il più presto possibile. La Newburn è andata alla deriva molto lontano da noi, sono già più di due milioni di clic.
— Sono d'accordo. Ma ancora non capisco. Perché farmi venire fin qui per dirmelo?
— Voglio ottenere degli appoggi prima di annunciarlo al Comitato. Non sono bravo quando si tratta di discutere con Bethany Oakes.
— E io sì?
— Proprio così. Inoltre, voglio che tu venga con noi come medico.
Saul s'illuminò tutto. — Ben pensato. Quei colombari potrebbero aver sofferto dei danni.
— Sarebbe un buon incentivo per il morale.
— Proprio quello che ci serve. Sono sicuro che riuscirò a far capire a Betty i vantaggi della cosa, adesso che i purpurei sono sotto controllo. Ma la Edmund è in grado di volare subito?
— Jeffers dice che i suoi mech cerca-trizio ne hanno già filtrato abbastanza da riempire per un quarto i serbatoi per i tragitti brevi, e questo soltanto come sottoprodotto dello scavo delle gallerie. È in grado di arrivare alla quantità di combustibile che ci serve nel giro di una settimana.
— Bene! Hai pensato a tutto.
Dovrebbe forse essere un complimento? Caspita, grazie, dottor Lintz. Noi borbottanti cerchiamo di usare un po' di cervello di tanto in tanto, davvero. — Vediamo. — Saul si sfregò il mento. — Ci vorrà quasi un mese per arrivarci. Ciò significa che dovremo portare con noi dei moduli idroponici, e…
Carl aveva già previsto le cose fondamentali, ma aveva anche imparato che era una buona idea lasciare che gli scienziati parlassero per un po' prima di passare alla parte davvero difficile… le decisioni. Forse era questo a tenerli lontani dalle cariche ai livelli davvero alti. Se ve ne restavate seduti là mentre tenevano le loro piccole conferenze, di solito avevano la sensazione di aver detto la loro e non avrebbero sollevato un sacco di stupide obiezioni su ciò che era ovvio.
Saul si rannicchiò contro la parete con l'insicurezza innata dell'abitatore della terraferma, sempre un po' teso quando si trattava semplicemente di tenersi aggrappato a un appiglio sopra il quale i suoi sensi, non aveva importanza quanto bene li avesse addestrati per dominarli, gli dicevano che c'era una lunga caduta.
— Sicuro — disse Carl quando Saul si fu calmato un po'. — Il punto è, cosa dirà la Oakes?
— Avremo bisogno di un consenso per questo progetto, naturalmente, per il quale potrebbe benissimo essere necessario un po' di tempo.
— Consenso, col cavolo! Ogni giorno che aspettiamo la Newburn si allontanerà di più.
Saul si grattò la testa. — Be', qualcuno considererà la Newburn una questione secondaria.
Carl digrignò i denti. — Sono quaranta vite umane.
— È vero, ma perfino io potrei trovarmi costretto a farle passare in seconda linea. Il problema principale è comprendere le forme di vita di Halley. Se potessi finire in tempo gli esperimenti che ho in corso…
— Esperimenti? — Carl non riusciva a credere alle proprie orecchie. — Pensi che siano più importanti di quaranta esseri umani?
— Non ho detto questo, Carl! Ma non siamo ancora usciti dalla foresta. Ci sono tante malattie! Dobbiamo capire come funzioni l'ecologia cometaria quando aggiungiamo una nuova fonte di calore. È quello che avevamo previsto, naturalmente. Stavo parlando con la Terra al raggio ristretto, l'altro ieri, e Alexandrosov, il capo dell'Accademia Ucraina, ha una teoria. Anche con i minuti di ritardo nella conversazione, abbiamo riflettuto parecchio. Gli ho riferito le mie idee, quelle preliminari, naturalmente, e lui ha visto un'analogia…
— Ah, merda — disse Carl, aspro.
— Cosa? — Saul sbatté gli occhi.
— Stai parlando come se questo fosse il problema di qualche tesi, o qualcosa del genere.
— Tesi? — Saul sbatté di nuovo gli occhi. — Carl, ti assicuro, un evento di questa grandezza, con tante implicazioni, è ben più grande di un puro…
— Cacca, non intendo dire quanto grosso possa essere per i tuoi amici professori sulla Terra! Voglio dire che tu lo stai usando per contestare delle affermazioni!
Il volto di Saul storse, arrossì. — Ma è incredibile. Io… — Tu continui a fare test, a sfornare teorie, chiacchierando con i tuoi amici sulla Terra, e il resto di noi si sta facendo il culo per fermare quella roba.
— Non ho bisogno che tu…
— Suvvia!
— Sono sicuro di non sapere…
— La vita sulle comete! La scoperta del secolo! Saul Lintz, il Darwin interplanetario!
Saul s'irrigidì. — È ridicolo.
— Alcuni di noi hanno cominciato a chiederselo.
Saul lo guardò furioso. — Questo cosa vorrebbe dire?
— Non eri il Signor Popolare nel mondo scientifico quando ti sei arruolato per questa crociera, vero?
— Ero l'ultima persona vivente associata all'origine dei percell, se è di questo che parli.
— Esatto. — Carl provò un improvviso imbarazzo, ricordando chi e cosa rappresentava quell'uomo. Ma non riusciva a controllare il proprio risentimento. — L'Israele che conoscevi era stato spazzato via, la famiglia morta, la carriera finita… eri alle corde…
Saul parlò, scandendo le sillabe: — Allora nu?
— Così, sei partito. Perché non fare questo giro… saresti tornato indietro quando il tuo passato sarebbe stato vecchio, dimenticato, giusto?
Saul replicò, con sorprendente mansuetudine: — Non pensavo che sarei tornato, e non lo penso neanche adesso.
Carl approfittò di quella pausa, e ribatté: — Ma ecco che arriva la vita aliena, e poi la poltiglia verde, i purpurei: il filone d'oro! Sei famoso, per caso, a dire il vero. Chiunque avrebbe potuto analizzare quel ghiaccio e trovare i microbi. Ma capirlo… è questo il colpo grosso. È là che Saul Lintz lascerà il segno, mostrando che non è soltanto questione di fortuna. No, lui è uno scienziato di prima classe. E può lavorare su tutta quella roba nuova da solo. Studiarla a fondo. Sprizzarla sulla Terra quando gli pare e piace. Ogni biologo laggiù non aspetta altro che una particella di dati sulla prima forma di vita aliena, e la sola persona dalla quale può averla è, taratàaaa!, Saul Lintz!
Carl terminò sbuffando, il suo alito spruzzava nubi cotonose e nell'aria fredda. Saul lo fissò in silenzio, il suo volto era rugoso e superava abbondantemente la mezza età in quell'aspro bagliore fosforescente. Un lungo silenzio calò fra loro e Carl si calmò, cominciò a rincrescersi… ma era troppo tardi.
Saul toccò il sigillante incrostato. — Non è per questo che mi hai chiamato qua fuori. Mi hai chiesto di offrirmi volontario per il salvataggio della Newburn. Molto bene. Mi offro volontario. Non devo sorbirmi nessuna chazerei.
Si spinse via con un movimento goffo, dirigendosi di nuovo verso la Centrale. Mentre costeggiava il corridoio, sempre con lo sguardo rivolto a Carl, le sue parole risuonarono nel gelido silenzio: — In realtà si tratta di Virginia, vero?
E Carl sapeva che era così.
Entrò nel cilindro che fungeva da ricreatorio, gravato dal peso dell'amarezza e della fatica. La ruota gravitazionale era stata una delle ultime cose trasferite dalla Edmund. Era sempre deprimente passare dalla gravità quasi zero al campo gravitazionale centrifugo. E questo per parecchi ragioni. Perfino nella grande ruota c'erano le forze di Coriolis che controbilanciavano i riflessi, inducendo una leggera nausea dovuta al cambiamento di direzione. Dopo un giorno a gravità quasi zero dove la più piccola trazione era importante, non si poteva camminare senza sentire il disallineamento delle forze. La rotazione di Halley vi spingeva sempre verso sinistra.
Ma la cosa peggiore era anche la più semplice: eravate stati un'aquila, e adesso vi ritrovavate marmotta.
Così Carl non era di umore cordiale quando incontrò l'ortho. Il nome dell'uomo, Linbarger, era impresso sulla sua divisa.
— Non sederti là — disse, quando Carl prese posto su un sedile regolabile.
— Eh? Perché no?
— Ho un amico che sta per arrivare.
— C'è spazio in abbondanza.
— No, per qualcuno non ce n'è
Carl mise giù la sua bevanda. — Sei appena uscito dal loculo. Così, immagino che questo sia segno che le droghe non hanno ancora cessato il loro effetto.
Linbarger aveva tutti i sintomi del decolombarizzato recente. Era il sottile moncherino di un uomo, tutto pelle e ossa e niente carne. I loculi consumavano gradualmente tutto il grasso immagazzinato giacché il corpo funzionava sempre, anche se a un livello esponenzialmente ridotto. Ma Linbarger doveva essere stato magro già in partenza. La sua testa era lunga e stretta, appollaiata in cima a un collo da pollo con un nodoso pomo di Adamo. Il suo volto era tutto naso e zigomi. I grigi occhi acquosi erano incassati nelle viscere del cranio, la mascella era rotonda e dura.
— Il mio amico è stato appena decolombarizzato anche lui. E preferisco che nessuno di noi due si sieda vicino a un percell.
— Oh, davvero? — fece Carl, con finta preoccupazione.
— Perciò smamma.
Linbarger non è stato svegliato per il rendez-vous, perciò non si è mentalmente disabituato alle idee della Terra pensò Carl. Okay, glielo abbuonerò in parte. — Senti, qui le cose sono già abbastanza difficili senza che tu ti metta a fare il somaro.
Linbarger si alzò in piedi e strinse i pugni. — Non alitarmi addosso, percell, altrimenti io…
— Oh, è il mio alito cattivo? Scusa, non mi sono portato dietro nessun colluttorio dalla Terra.
— Sai cosa voglio dire, sono quei dannati germi che ti porti addosso.
Carl sbuffò deridendolo. — I microbi sono nel ghiaccio, non dentro di noi.
Il volto di Linbarger assunse un'espressione acida e cinica. — Sono tre giorni che sono uscito dal colombario e ho esaminato quanto è successo, e non potete ingannare me. La gente normale è morta in numero due volte maggiore di voi percell.
— E allora? — Carl aveva sentito qualcosa del genere da Virginia, ma nella confusione e durante le lunghe ore di queste due ultime settimane non aveva significato niente. Soltanto un'altra scheda di dati.
— Voi percell li state usando per impadronirvi della spedizione — Linbarger lo annunciò come se fosse un fatto noto. Le teste si girarono dagli altri tavoli. Carl osservò Lani Nguyen che si alzava in piedi, la preoccupazione le segnava profondamente il viso, e accennò a dirigersi verso di loro, ma un altro ortho la trattenne mettendole una mano sulla spalla.
— È questo che pensi?
— Tutti noi lo pensiamo, noi gente normale che siamo usciti dai colombari. Noi lo sappiamo. Non potete darci da bere che…
— Risparmiami — l'interruppe Carl, sollevando le mani. Non c'era nessun complotto del genere, chi diavolo avrebbe mai avuto il tempo di pensare ad una cosa del genere? Ma come avrebbe potuto convincere Linbarger?
Vide sull'altro lato della curva del cilindro il tenente-colonnello Ould-Harrad. Lo chiamò: — Sully!
Il nero si avvicinò, compensando la torsione di Coriolis con un passo disinvolto, drink in mano.
— Spero che tu possa appianare una situazione con questo tizio — disse Carl. — Va in giro a dire che siamo noi, i percell, che…
— Lo so — fece Ould-Harrad, brusco.
Carl annuì, sollevato. Ould-Harrad non era uscito da molto dal suo loculo. Era stato chiamato in servizio quando il maggiore Lopez si era ammalato nel giro di poche ore ed era stato colombarizzato. Ould-Harrad non lavorava tutto il giorno nelle gallerie; aveva avuto il tempo di tenere sotto controllo quella merda politica. Carl poteva affidare a lui tutta la faccenda.
Ma poi Ould-Harrad parve a disagio, il suo largo viso si concentrava su un argomento spiacevole abbassando le folte ciglia e tirando su l'ampia bocca in un'espressione di preoccupazione e disagio.
— Credo che voi dovreste prestare attenzione a quello che dice Linbarger. Mette l'accento su difficoltà concrete.
— Ma le distorce, le fa…
— La forma importa poco. Considera le implicazioni.
Carl lo fissò stupefatto: — Quali… quali implicazioni?
— Abbiamo bisogno di una maggior protezione contro le malattie.
Carl replicò: — Be', certo che ne abbiamo bisogno, ma…
— No. Non capisci. Noi ne abbiamo bisogno, noi gente normale. Specialmente.
— Oh… è così, dunque?
Ould-Harrad guardò Carl sorridendo, ignorando l'energico annuire di Linbarger. — Il cielo ce ne guardi, è già così. A meno che la gente normale non si consideri protetta contro queste malattie dall'isolamento, da una maggior cura… allora può vedere soltanto un risultato.
— Quale?
— Voi percell finirete per dirigere tutta la spedizione. Non ci sarà abbastanza gente normale in vita in grado di opporsi a voi. — L'africano parlava con tranquilla serietà, senza aggressività, e colpiva ancora di più a causa della sua poderosa corporatura. Aveva la calma solenne di coloro i cui forti convincimenti religiosi plasmavano ogni parola.
— Noi… noi non intendiamo far questo — terminò Carl in maniera poco convincente.
— Non ha importanza. — Quegli occhi castani erano carichi di tristezza. — Molti credono che accadrà questo.
— Senti, ti ho chiamato per calmare questo tizio, questo Linbarger. Io…
— Non sono quelli come te che mi possono tappare la bocca — si accalorò Linbarger. — Se pensi di poterlo fare, sarei lieto di…
— No, no — intervenne con severità Ould-Harrad, sollevando una mano verso Linbarger. — Per favore, adesso zitto.
— Ma lui…
— Per favore. — Ould-Harrad azzittì Linbarger con la sua ministeriale presenza.
Carl pensò, eccitato, Potrebbe essere divertente pestare un po' Linbarger. Brutta per lui, ma una buona terapia per me. Meglio di tutte queste chiacchiere, comunque.
Disse: — Certo non avrei pensato che avresti appoggiato Linbarger! Questi tizi usano l'ipocondria per tornarsene nei colombari. E tutte queste sciocchezze sugli ortho…
— Vedi? — l'interruppe Ould-Harrad. — Ci attribuite un vostro nomignolo.
— E con questo? Voi ci chiamate percell.
— Noi non abbiamo bisogno di nomi speciali. Noi siamo la gente normale, la razza umana.
— E noi non lo siamo?
— Non… non ho detto questo.
— Intendevi dirlo! Probabilmente pensi che non abbiamo l'anima.
Il nero scosse mestamente la testa. — Quella questione è nelle mani dell'onnipotente. Rimane il punto che siamo diversi.
— Sì, e voi avete archisti rinnegati e sionisti logori e salawiti… — Carl notò che Ould-Harrad trasaliva. — Ma intorno a noi formate un fronte unico, eh?
Ould-Harrad replicò, pacatamente: — Dobbiamo lottare per bilanciare il punto di vista di tutti.
Carl non era mai stato in gamba con le parole, non aveva la sicurezza e la melliflua abilità di un amministratore, e non aveva nessun magico sistema per convincere Linbarger o Ould-Harrad. Tutte queste interminabili chiacchiere! Digrignò i denti, irritato, si alzò in piedi, e se ne andò senza nessun'altra parola.
Non abbiamo prestato attenzione pensò Saul. È stato questo il nostro errore fondamentale, durante questi ultimi secoli. La natura fioriva ed esplodeva di vita tutt'intorno a noi, e non le abbiamo mai prestato un'attenzione abbastanza rispettosa.
Aspettava che gli altri arrivassero nel colombario Uno, cercando di riposarsi in quei pochi momenti di libertà. Evitando di pensare all'incontro giornaliero al colombario che stava per incominciare.
Pensereste che abbiamo capito la faccenda del calcare. Ebbe un pallido sorriso. Soltanto la Terra verdeazzurra germogliava di vita. E la Terra era risultata l'unico pianeta con un'atmosfera di ossigeno, densa ma sufficientemente trasparente da permettere al calore eccedente di sfuggire. C'erano volute generazioni per rendersi conto che non era quest'ultimo fatto a causare il primo. No, era il contrario. La vita… trilioni di minuscole cellule nei primi giorni della Terra… aveva estratto il carbonio dall'atmosfera primordiale, immagazzinandolo nei propri corpi; le cellule avevano sedimentato sul fondo degli oceani, diventando letti di calcare… cambiando con questo processo l'atmosfera stessa.
La scienza si arrabattava ancora con il concetto che la vita potesse essere un motore nell'evoluzione dei mondi, piuttosto che un semplice passeggero passivo, sballottato tutto intorno dai venti violenti del destino astronomico. Dopo i panorami desolati di Venere e di Marte, gli scienziati supponevano ancora che dei minuscoli mutamenti di massa planetaria, o della distanza dal Sole, rendessero la vita impossibile. Come tutti gli altri, lui aveva ignorato la possibilità che la vita si fosse generata nelle comete. Essa aveva anche plasmato quella particella di ghiaccio, scavando caverne e spargendo semi.
Una minuscola Gaea… un'ecosfera autoregolata sigillata nel ghiaccio, che rivive quando la rapida, calda carezza del Sole giunge, esiliando per un breve periodo la lunga notte… e forse anche trilioni di altre che giungono sfrecciando dal buio lontano…
Avrebbe dovuto meditarci sopra, se mai avesse avuto un secondo libero…
— Cielo, come sei sereno. — L'affettuoso, cadenzato sarcasmo di Virginia, penetrò nelle sue riflessioni come una lama.
— Uh? No, è soltanto la mia rituale preoccupazione. — Si rizzò a sedere, avvertendo dei sordi dolori ridistribuirglisi nelle gambe e nella schiena, perfino in quella debole gravità.
Virginia si sedette accanto a lui sulla stretta panchina che era l'unico arredamento nella stanza di osservazione del colombario Uno. Alla pallida luce smaltata la studiò con meraviglia. Era in forma, e sicura di sé. Il suo pullover verde-latte copriva ma non nascondeva il suo ventre piatto, il seno sodo e svettante, una calma muscolare. L'asettico aspetto di quella stanza ottundeva i suoi sensi, ma Virginia la redimeva con la sua morbida e calda presenza, richiamando alla memoria l'umida aria delle Hawaii, gravida di aromi. Eppure lei si paragona alle sue macchine, fredda, con la certezza di un cyborg. Quanto si sbaglia!
Il quieto conforto dell'essere con lei gli ricordava altri giorni, appartamenti angusti e affollati, le fiamme del gas che lambivano il buio mentre gli amici parlavano fino a notte fonda, pasti fatti di carni pepate e cipolle croccanti, la sensazione avvolgente di un ordine naturale perenne…
Troncò il pensiero. La nostalgia lo rinserrava dolcemente con dita cave e pelose tutte le volte che lo consentiva, e quello di sicuro non era il momento.
Virginia disse con allegria: — Assomigli a qualcosa che il gatto ha appena portato dentro. — Si grattò la nuca.
— Non puoi farmi girare la testa con dei semplici complimenti —. Si sfregò gli occhi. — Inoltre, non abbiamo nessun gatto.
— È una fortuna che non abbiano scongelato subito i tesorucci. Pensi che sarebbero suscettibili?
— Naturalmente. Questi viroidi adorano i tessuti polmonari. Sospetto che alcuni si diffondano attraverso l'aria.
— Allora Macchia e Ricciolo ci rimetterebbero anche loro le penne.
— Decisamente.
Non le disse che lui e Matsudo avevano già scongelato alcuni conigli e scimmie. Avevano dovuto farlo, per provare una nuova cura. Naturalmente quelle povere bestie avevano dovuto venir sacrificate. Lui non era mai stato capace di fare quel tipo di lavoro senza provare una punta di colpevolezza. Eppure, hai ben scelto di fare il biologo…
Virginia guardò fuori attraverso la parete trasparente, là dove parecchie figure in tuta stavano lavorando sopra dei pallidi corpi che parevano di cera. — Se soltanto potessimo impedire a quella roba di diffondersi! Soprattutto la poltiglia verde, che si abbarbica alle pareti… Mi dà i brividi.
— Sospetto che gli algoidi e i lichenoidi non siano il vero pericolo.
— Si stanno diffondendo così in fretta!
— Ci sono tante varietà, che è difficile controllarle perfino con le microonde. Ma stiamo facendo progressi.
Virginia arricciò il naso. — Quella roba puzza.
Un sorriso lontano, tutto interiore, corrugò la pelle coriacea di Saul. — L'anestesia viene per ultima. Sempre che venga.
Virginia corrugò la fronte: — Pensi che stai imparando… be'… abbastanza in fretta?
— Mio padre ha sempre detto che la vita è come un concerto di violino mentre s'impara lo strumento.
Virginia sorrise. — E mentre tutti quelli che ami ti guardano.
— Proprio così —. Era conscio che Virginia stava cercando di tirarlo su di morale, ma un semplice sorriso radioso non era sufficiente. Lui conosceva i propri umori, gli incostanti scoraggiamenti che l'avevano colto con maggiore regolarità in quegli ultimi anni.
Non che adesso non ci fossero ampi motivi per averne, naturalmente. Con più autocoscienza di quanta avrebbe voluto, capiva che le sue riflessioni erano un'ulteriore forma di evasione. Sin dalla caduta di Gerusalemme aveva trovato assai più facile meditare, pontificare, che buttarsi a capofitto nel crudo mondo, per sentire tutte le sue punzecchiature e i graffi. Aveva ancora bisogno della sicurezza concessagli dai suoi calli emotivi.
Virginia si era accorta del suo umore. Infilò una mano tra le sue e disse a bassa voce: — Lo so… — Lui le strinse la mano. — Se c'è qualcosa…
— Sistema subito questa faccenda — disse un uomo magro ad alta voce mentre entrava nella stanza insieme a Suleiman Ould-Harrad. — Che io sia dannato se li lascerò fare mentre noi ce ne stiamo seduti a guardare.
Linbarger annuì nella loro direzione, il volto magro in preda a una dura decisione. — Ho pensato… è ovvio… dobbiamo tenere al vertice la gente normale, dove possano assicurarsi che ogni cosa funzioni bene. Non possiamo permettere che i percell salgano di grado! Se il tasso delle perdite continuerà così, saranno più numerosi di noi, potrebbero perfino arrivare a due contro uno. A meno che non siamo noi a tenere le posizioni di comando, saranno loro a prendere ogni decisione, passando dritti sopra i nostri interessi.
Ould-Harrad parve imbarazzato. — Dovrò confer…
— Con nessuno! Questa è una decisione esecutiva, che devi essere tu a prendere. Comincia a metterla ai voti e saremo spacciati.
Saul fece una smorfia. — È così che sembrano le cose?
Linbarger si girò con le mani sui fianchi. — Sto cercando di assicurarmi che i nostri non perdano il controllo della situazione.
— La nostra gente?
— Proprio così. Hai sentito? Bethany Oakes ha la febbre alta fino al cielo, quella che frigge il cervello in un paio d'ore. Entrerà subito nel colombario.
Saul esclamò: — Oh, dannazione. — E si sedette. Forse avrei dovuto passare più tempo in infermeria. Avrebbe potuto fare una differenza…
— Qualcuno deve fare le ricerche — bisbigliò Virginia, come se gli avesse letto nel pensiero.
Bethany Oakes era stata appena adeguata al suo compito in quegli ultimi giorni, ma per lo meno era stata l'ovvio successore di Miguel Cruz. La continuità era importante.
Dopo che il maggiore Lopez era stato colombarizzato, con la pelle mezzo erosa da un viscido fungo, Ould-Harrad era stato tirato fuori… e adesso era finito in una posizione di comando che nessuno gl'invidiava. L'alto e allampanato nero non era mai stato niente di più che il superiore anziano nominale dei cinque capi-reparto. Non aveva nessuna impronta del comando. Certo il cupo africano non era stato scelto per la sua capacità di equilibrare le forze politiche e azzittire i saputelli che facevano la voce grossa.
Linbarger annuì, leccandosi le labbra. — Bel casino, eh? O la febbre o i brividi con le macchie azzurre che ti picchiettano tutto il corpo, o altrimenti quell'affare che ti riduce ad una massa tremante di gelatina… e tutte fatali.
— Credo di aver isolato il virus che causa brividi e raffreddore — disse Saul con calma. — Per il vaccino ci vorranno soltanto pochi giorni. L'infezione della pelle, invece, mostra segni vulnerabili alle microonde…
— Ma sono già otto o dieci malattie! — urlò Linbarger. — E sono soltanto quelle che conosciamo. Quelle che possiamo individuare facilmente…
Saul fissò il volto ansioso e tirato dell'uomo e vi lesse qualcosa che parve una corrente fredda entrata all'improvviso nella stanza.
— Ci sono alcuni segni promettenti per le altre. È tutto quello che posso dirti in questo momento. — Lanciò un'occhiata a Ould-Harrad. Togli il vento alle vele di quel tizio pensò Saul, come per imporre all'africano di agire. Ma Ould-Harrad rimase impassibile, gli occhi remoti, le braccia incrociate sull'ampio petto.
Linbarger parve pensare di aver guadagnato un vantaggio, vincendo la discussione. Guardò i due uomini, ignorando Virginia. — Con Lomintze là fuori che va sotto ghiaccio — indicò la parete trasparente, — e Byrnes e Matsudo che ci finiranno tra poco… significa che i percell dirigeranno sia i Sistemi Energetici che Gallerie e Gas.
Saul chiese in tono ufficiale a Ould-Harrad: — Posso chiedere perché il dottor Linbarger partecipa a questo incontro?
Il volto dell'alto africano assunse un'espressione guardinga, diplomatica. — Mi è parso che ogni, ah, fazione dell'equipaggio dovesse essere rappresentata nel prendere le decisioni relative ai colombari.
— Già — disse Linbarger. — È per questo che lei è qua.
Saul guardò Virginia. — Oh? Sei venuta su richiesta di Ould-Harrad?
Virginia annuì. — Ero libera. La maggior parte dei percell o dormono o lavorano nelle gallerie. O sono malati — aggiunse, deliberatamente.
— Corro un rischio anche soltanto a trovarmi nella stessa stanza con iei — borbottò Linbarger.
— Nessuno ha ancora assegnato specifici vettori alla maggior parte delle malattie — dichiarò Saul, misurando le parole ma con crescente irritazione. — Non c'è nessuna ragione di credere che gli individui geneticamente accresciuti siano portatori di qualcosa.
— Soltanto perché sono immuni questo non significa che non possano essere portatori — replicò Linbarger. — Questo lo so.
— Non c'è nessuna correlazione — cominciò Saul, ma poi si rese conto che nessuna discussione scientifica avrebbe mai avuto effetto su quell'uomo. — Senti, abbiamo bisogno di apprendere dell'altro, e questo significa cooperare con ogni…
— Ben presto ci daranno degli ordini! Se…
— Chiudi il becco — gl'intimò Saul con estrema fermezza.
Linbarger corrugò la fronte, perplesso, sentendosi chiaramente tradito. — Tu sei un biologo, tu sai che tre di noi si ammalano per ognuno di loro.
— Allora scongelate altri ortho — interloquì Virginia con voce tagliente. — Gonfiate i vostri ranghi.
— E vederne morire la maggior parte? — Linbarger si girò di scatto verso di lei, i pugni stretti. — Tu sai che un uomo appena uscito dai colombari è più vulnerabile a quei germi! — Linbarger la guardò furioso, ma era chiaro che stava facendo scena a beneficio di Ould-Harrad.
— Dobbiamo utilizzare tutti coloro che sono disponibili — disse alla fine lo spaziale africano. — Specialmente se dobbiamo salvare la Newburn.
— Approvi la missione? — chiese Saul, aiutandolo in quel chiaro sforzo di cambiare argomento. Bethany Oakes aveva escluso qualsiasi sforzo per recuperare quella chiatta colombario da tempo perduta.
— Sì. Il caso presentato da Carl Osborn è convincente. Potrebbe distrarci dalle nostre… dispute. — Ould-Harrad guardò con intenzione Linbarger. — Quelli a bordo della Newburn sono nostri camerati, e se sarà volontà di Dio, Inshallah, noi li salveremo.
— Chi ci va? — chiese Virginia.
— Lo deciderò più tardi. Prima dobbiamo raffinare dell'altro trizio dal ghiaccio…
— Jeffers lo sta già facendo — intervenne Saul. — Dice che può farcene avere abbastanza fra una settimana o giù di lì.
Ould-Harrad contrasse le labbra. — Avete continuato a lavorare malgrado Bethany Oakes l'avesse vietato?
— Già… sì — ammise Saul con un sorrisetto. — Per il processo di raffinazione vengono utilizzati i grossi mech di superficie che non hanno nient'altro da fare.
— Ah, così sia. Allora bisognerà sistemare le cupole idroponiche, la maggior parte dovranno venir trasportate dentro la Halley.
— Lo farò io — dichiarò Linbarger. — Anche alcuni dei miei amici sono pronti a dare una mano.
Qualunque cosa pur di star lontano dai percell pensò Saul. Potrà contare su un gran numero di volontari ortho.
— Molto bene — esclamò Ould-Harrad con calore. — In quanto all'equipaggio per il salvataggio lo sceglierò dopo un attento…
— Ci andrò io — disse Linbarger. — Se Osborn non avrà il comando.
Virginia domandò: — Volete un equipaggio di soli ortho?
— Perché no?
— Allora avrete maggiori probabilità che vi siano malati tra voi — lei aggiunse.
Saul si accigliò. Ben presto avrebbe dovuto dirle che lui sarebbe andato come medico della nave.
Ould-Harrad interloquì con voce calma, per placare gli animi: — Corriamo tutti i nostri rischi.
— Tu non hai nessuna idea se Lintz, la van Zoon e gli altri troveranno una cura. — La bocca di Linbarger parve annodarsi formando un groviglio inacidito e disgustato d'impazienza. — Se non lo troveranno e io dovessi ammalarmi, loro non mi tireranno mai fuori di colombari.
Ould-Harrad allargò le braccia aprì le mani e le sollevò, mostrando la sua buona volontà. — Allora alla fine ti sveglierai sulla Terra.
— Nessuno ha mai inteso che dovessimo dormire settant'anni malati! Nei colombari il metabolismo è lento, ma non è zero. Tutta l'esperienza l'abbiamo avuta con gente che stava bene, giusto? Potremmo morire tutti.
Linbarger aveva ragione, ma Saul si sarebbe fatto dannare piuttosto che ammetterlo. — Ci sono ampie ragioni di aspettarsi che…
— Ah! «Ampie ragioni». Non è abbastanza per me e per i miei amici.
— Quali amici? — chiese Virginia. — Altri stupidi archisti?
Linbarger si adirò. La voce gli venne fuori sottile e stridula, come se sgorgasse da un luogo angusto e costipato dentro di lui. — Sì, alcuni di noi. Siamo stati buttati fuori a calci dall'Indonesia per essere stati contro la devastazione del suolo, i veleni e gli animali da esperimento come te.
Virginia borbottò: — E vi siete rifatti sparando alla gente in Pan-Africa.
Saul cercò d'interporsi. — Un momento…
— No, lascialo farfugliare — l'interruppe Virginia, con voce atona, le braccia pronte, c'era una concentrazione d'energia nella sua posizione. — L'ho già sentito altre volte. Quelli come lui si sono impadroniti delle Hawaii. Il governatore Ikeda è morto, lo zio di Keoki Anuenue è in prigione. Voglio vedere che genere di creatura è capace di fare cose come queste.
Linbarger non parve accorgersi del suo rigido controllo.
— Io sono un archista, certo, ma parlo a tutta la gente normale. Non prenderemo mai ordini da quei maiali dei percell.
Saul disse: — Stai attento a come parli…
— Certo, stiamo intruppando voi percell nei campi di concentramento alle Hawaii, e staremmo assai meglio se lo facessimo anche qui! — Le agitò un pugno davanti al naso.
Virginia lo colse in pieno nello stomaco con un calcio fulmineo e selvaggio. Linbarger volò all'indietro con un greve grugnito e andò a sbattere contro la parete. Ould-Harrad si mosse per bloccare Virginia, ma lei compensò con precisione la bassa gravità e lo superò sgusciandogli di fianco. Piantò con precisione il taglio della mano sul mento di Linbarger, applicando in quel colpo tutta la forza delle sue spalle. Linbarger, produsse un suono gorgogliante e roteò lontano, ancora cosciente ma inflaccidito.
— Basta! — gridò Ould-Harrad, con voce severa quanto inutile. Virginia era già tornata automaticamente su una posizione difensiva a zero G, galleggiando, con gli occhi sfavillanti come il ghiaccio.
— Mi spiace — disse. — È stato un riflesso. — Ma era chiaro che non le dispiaceva per niente.
Ould-Harrad e Saul fermarono Linbarger che, debolmente, fece loro cenno di lasciar stare.
Virginia disse: — Sono giorni che ascolto queste stronzate archiste, ormai, tenendo a freno la lingua. Adesso basta. Sta mettendo a repentaglio tutta la spedizione.
— Non ingrandisca troppo il suo caso, dottoressa Herbert. Il dottor Linbarger ha diritto alle sue opinioni — replicò giudiziosamente Ould-Harrad.
Cosa ci vuole per smuoverlo? si chiese Saul. Oppure è già stato testimone di scene altrettanto brutte? Un sospetto inquietante. Era una settimana che Saul non socializzava.
— In ogni caso — proseguì Ould-Harrad, scuotendo gravemente la testa, — niente scusa una condotta come la sua. Se non ci trovassimo in una situazione così disperata, la confinerei nel suo alloggio.
— Oh, per favore, lo faccia — esclamò Virginia, sarcastica. — Ho bisogno di dormire.
Linbarger aprì la bocca per dire qualcosa, ma in quell'istante la porta della sala preparatoria si aprì per far entrare Bethany Oakes. Piombarono tutti nel silenzio mentre il comandante ufficiale entrava con passo lento insieme alla sua porta.
Saul rimase scosso da quell'improvviso cambiamento: gli occhi cerchiati di rosso, il volto pallido come un osso slavato, e il passo strascicato. Le mani semiparalizzate le tremavano e la bocca penzolava floscia, inarticolate e assente.
— Betty, non dovresti camminare — disse Saul.
Poi vide Akio Matsudo e Marguerite van Zoon che la seguivano rispettosi. Con gli occhi lo implorarono di non interferire. Bethany Oakes stava dando una prova di grande coraggio, l'ufficiale comandante che impegnava se stessa con ardimento? Perfino Linbarger si accorse di questo, e malgrado il suo volto fosse ancora contorto per la rabbia e il risentimento, rimase zitto.
Neppure Matsudo aveva un bell'aspetto. Gli occhi erano vitrei e il volto era coperto da una pellicola di sudore che luccicava intensamente. Se dovesse andarsene anche lui, rimarremmo soltanto Marguerite ed io a gestire l'ospedale. Questo certamente m'impedirà di partecipare al salvataggio della Newburn.
Bethany Oakes incontrò per un breve istante il suo sguardo. — Saul… — Ebbe uno smorto sorriso. — … persevera.
Entrò lentamente nella gelida stanza interna dove l'aspettavano i tecnici.
Dannazione. Saul era sgradevolmente conscio che la Oakes avrebbe potuto non rivivere mai dal processo della colombarizzazione. Se la malattia poteva continuare a svolgere la sua micidiale opera mentre galleggiava in quegli anni di sogni, quello poteva benissimo essere il suo accesso definitivo alla tomba. Era probabile che il gruppo che l'accompagnava l'avesse pensato e su di loro discese un silenzio reverenziale quando Bethany Oakes insisté per arrampicarsi da sola sulla lastra, malgrado lo sforzo che ciò richiedeva. Fece uno svolazzante gesto di saluto con la mano e poi affondò dentro la rosea ragnatela nutritiva. Saul vide che era un sollievo per lei, in mezzo a quella gelida promessa di salvezza, distendersi grata dentro quell'abbraccio impaludato di nebbia e lucido d'acciaio e di vetro.
Saul sollevò lo sguardo su Ould-Harrad. Era facile leggere le labbra dell'africano che si muovevano in silenzio, formando parole in arabo. Saul sapeva che le preghiere erano soltanto in parte per Bethany Oakes, ma anche per il nuovo, riluttante comandante, Suleiman Ould-Harrad, appunto.
— Dannazione! Non mi meraviglierei affatto che l'avesse fatto di proposito!
Virginia camminava su e giù nel suo minuscolo laboratorio. Era difficile farlo con un millesimo di gravità, ma ci riusciva tenendosi aggrappata a una consolle lì accanto. Le sue suole di velcro sfrigolavano sommessamente mentre camminava da un'estremità all'altra, scuotendo i capelli e borbottando fra sé.
— È stato Carl a progettare tutto questo, lo so!
L'oloschermo principale s'increspò. Comparve un volto, ma l'«uomo» non era un membro della Spedizione Halley… in realtà non era neppure un uomo. Il volto aveva guance basse, ciuffi di capelli fulvi e riccioluti, baffi provocanti.
— Sicuro fu un'azione villana, cotesta, uguale a quella con cui la regina Maeve fu predata del suo amato — convenne la figura.
Virginia tirò su col naso. — Oh, piantala, Ossian. Non mi serve la comprensione d'un simulacro letterario. Ho bisogno di Saul! E non voglio che schizzi via su una nave spogliata, stravecchia, che avrebbe bisogno di cinquant'anni di revisioni prima di poter davvero volare di nuovo!
Lo schermo tremolò. Si formò un altro viso… un'eminenza incanutita avvolta in vesti scarlatte. La donna sulla schermo fece un segno di benevolenza. — È una missione di misericordia, mia cara bambina. Quaranta anime sono in pericolo…
— Credi che non lo sappia? — I piedi di Virginia lasciarono il pavimento quando picchiò la mano sulla superficie del banco. — Smamma, Cardinal Teresa! Non ho bisogno di logica o di appelli alla mia miglior natura. Ho bisogno di una ragione, di un perché… — Comparve un'ultima immagine ripescata dall'intimo più profondo: una delle prime simulazioni, di rado richiamata a causa del dolore che le causava. Un uomo sorridente con una piccola barba grigia e occhi che si circondavano di tante piccole rughe mentre la guardavano sorridendo con calore.
— Anuenue, piccolo arcobaleno. Le ragioni non aiutano in un momento come questo, figlia mia. I sentimenti hanno una logica che appartiene soltanto a loro.
Virginia affondò il volto nelle mani. Fluttuò contro un armadio e poi si riadagiò lentamente al suolo.
— Ero felice, papà, lo ero davvero, in tutto questo inferno. Ero felice.
Una mano esile, fatta di luce, trasparente, si protese verso di lei come per toccarla. La voce era forte, con una saggezza gentile.
— Lo so, cara. Lo so.
— E alulike! — li sollecitò il caposquadra. E l'equipaggio si mise a lavorare in armonia, riempiendo i canali di comunicazione prescelti con il canto:
— Ki au au, Ki au au
Huki au au, Huki au au!
Gli hawaiani tirarono il cavo d'acciaio mentre l'unità principale da trasporto della Edmund Halley veniva sollevata fuori dal corpo del vascello. Per quanto fosse massiccia e immensa, la sezione salì in fretta verso la cima dell'affusolata struttura a forma di A, dove una figura in tuta spaziale gesticolava ostentatamente a guisa di semaforo.
— Piano, piano. Bene così, voi indonesiani e danesi, laggiù, tirate radialmente!
Carl non aveva più visto Jeffers così felice da quando l'uomo era stato decolombarizzato. Jeffers odiava lavorare nelle gallerie, preferendo di gran lunga l'aspro bagliore dello spazio e il forte odore oleoso del metallo e delle macchine.
Carl non poteva davvero biasimarlo, se era per questo. Qualunque altra cosa, o quasi, era preferibile alla triste desolazione sottostante. Quella era una delle ragioni principali per cui aveva insistito che venisse fatto il tentativo di salvataggio della Newburn. Era convinto che i benefici che ne avrebbe tratto il morale dell'equipaggio avrebbe contribuito alla salute generale molto più che tutte le terapie tradizionali di Akio Matsudo e gli intrugli di laboratorio di Saul Lintz.
Regolò il proprio visore sull'ingrandimento quattro, e guardò in direzione dello Scorpione, dove la coda di polvere della cometa in via di dissoluzione era ormai soltanto un debole bagliore visibile all'infrarosso. Qualche puntolino rivelava la presenza di granelli ancora abbastanza grandi da riflettere la luce del Sole sempre più piccolo. Uno fra i più grandi di quei puntolini, adesso lo sapeva di certo, era la chiatta-colombario Newburn.
Se non fosse esistita avremmo dovuto inventacela. Un evviva si levò, quasi un rumore di fondo, dal comunicatore aperto, quando l'unità d'immagazzimento incontrò la superficie di Halley, sollevando un soffice sbuffo di vapore. Jeffers si strinse le mani sopra la testa, in gesto di disinvolto trionfo. Carl non poté fare a meno di sorridere.
Dei tre turni per rimettere in sesto e spogliare la Edmund, quello era il suo favorito. Sicuro, si sentiva come a casa sua con la squadra costituita unicamente dai percell di Sergeov. Ma quel gruppo misto di volontari erano il turno più allegro.
Specialmente i danesi e gli Hawaiani. Non pareva gl'importasse un fico secco se un uomo era un ortho o un percell… o un globoide gelatinoso denebiano… sempre che non fosse un purpureo o uno stramaledetto archista.
Virginia è hawaiana ricordò. Non c'era da stupirsi che fosse un'orthofila così impenitente. Amante degli ortho. Ovviamente non vedeva niente di male a vivere con uno di loro.
Il pensiero si attardò nella sua mente e lo fece sentire un po' colpevole quando Lani Nuyen gli passò accanto, trasportando un supporto di ferro-nickel che l'avrebbe schiacciata dovunque vi fosse stata un po' di gravità, perfino sulla Luna.
— Ehi, bello — gli trasmise. — Sei impegnato per i prossimi tre mesi?
— Cos'hai in mente? — lui le disse di rimando, lanciandole un'amabile occhiata maliziosa. E lei riuscì perfino a sculettare un po', quando gli passò accanto. L'unicorno della sua cotta gli sogghignò in risposta.
Oh, diavolo ricordò Carl a se stesso. Ci sono anche degli ortho buoni.
Lani si era fulmineamente offerta volontaria per la missione di salvataggio. Buona, vecchia Lani. Era così paziente con lui, non lo rimproverava mai perché si faceva vivo al suo cubicolo di tanto in tanto in cerca di compagnia, per poi scomparire e mantenere un rapporto strettamente cameratesco per settimane e settimane di fila.
Se soltanto fosse più simile a ciò che cerco. Più intellettuale, una percell.
Più come Virginia, in altre parole.
C'era un solo archista in servizio, in quel momento. Ogni fazione aveva un suo «osservatore» per tener d'occhio il turno delle altre… una designazione non ufficiale, certo, ma sempre più comune durante le funzioni importanti quali la colombarizzazione e la decolombarizzazione.
Helga Steppins seguiva la procedura con molta attenzione, usando un laser transit per controllare due volte tutto quello che era stato fatto dalla squadra di Jeffers. Quando Carl si avvicinò si scostò cautamente da un lato, come se lui potesse infettarla attaverso due tute spaziali e tre metri di vuoto.
— Sai, sarebbe assai più facile arrivare al gruppo scientifico della Edmund se ci lasciaste rimuovere i moduli idroponici — le disse. — Probabilmente ci risparmierebbe due giorni di lavoro.
L'austriaca bionda e taciturna scosse la testa.
— Stupido trucco, Osborn. Sappiamo tutti e due che la data del lancio è fissata per quando sarà pronto il combustibile. Non prima di martedì prossimo, come minimo.
Carl serrò i pugni disgustato davanti a tanta ostinazione. — Perché, in nome dello Spazio Oscuro, dovrei volervi imbrogliare? Siete voi ad insistere per avere una riserva di combustibile follemente enorme per un semplice rendez-vous di tre mesi e ritorno! Avremo una nave spogliata, e non ci servono più di sei chilometri al secondo di accelerazione!
L'archista scrollò le spalle. — È più sicuro se i serbatoi sono pieni. Soltanto un idiota salperebbe senza le giuste scorte.
— Ma…
— Non ti piace? Lamentati con quel percefilo, Ould-Harrad.
Carl sbuffò. Ould-Harrad? Amante dei percell? Ah!
— Senti, se adesso calassimo soltanto il modulo idroponico numero uno…
— No! — La donna si girò di scatto verso di lui, stringendo con forza il laser transit. — L'intera colonia dipende da quella fattoria!
— Ma la nuova cupola è quasi pronta. Tutti gli infissi…
La Steppins tornò a girarsi verso la Edmund, come se avesse paura che le intenzioni di Carl fossero soltanto quelle di distrarla mentre Jeffers e gli hawaiani facevano scomparire tutta la nave a razzo.
— Voi percell non avete paura delle malattie di Halley come noi esseri umani. Non ci addentriamo nel perché, dal momento che continuate a negare ogni responsabilità per le malattie. Ma ti basti sapere che non permetteremo che l'idroponica venga inquinata! Sia i moduli idroponici grandi come quelli piccoli rimarranno attaccati fino a quando la cupola non sarà stata completamente controllata… e da uno specialista ortho!
Carl era furente. Sapeva quali erano le sue alternative. Poteva dare lo stesso il via a Jeffers, e forse far scoppiare una miniguerra tra le fazioni.
Oppure poteva correre laggiù, in basso, e presentare le sue lamentele a quel mauritano senza spina dorsale che li comandava.
Oppure poteva andar giù a dare una mano.
— Usa un purpureo durante il tuo prossimo riposo erotico — le suggerì, e scalciò via verso gli operai prima che la donna potesse rispondergli.
— Ehi, Lani! — chiamò. — Lascia che ti dia una mano con quell'affare!
— Sono arrivata a un punto tale che non m'importa più del pericolo di morire, Saul. È il prurito che non riesco a sopportare. Giorno e notte, senza un momento di requie, malgrado gli specifici che mi dà Akio Matsudo. Giuro che se continua così chiederò a Akio di prestarmi il coltello seppuku del suo bisnonno per darmi una vera grattata!
Marguerite van Zoon giaceva a bocconi sulla ragnatela tesa, cercando di rimanere immobile mentre i tecnici della sala-cure in camice e maschera rimuovevano con le pinzette piccoli brandelli della sua pelle, riponendoli in fiale di glassite, per analizzare i fungoidi che stavano trasformando il suo corpo in un campo di battaglia.
Un quarto della sua pelle era crepato e lacerato. Ferite rosee, semiaperte, e vesciche dalla cupoletta scura erompevano in macchie sgradevoli. Qua e là le carni si erano spalancate formando ripugnanti piaghe ulcerose, che luccicavano d'un nauseabondo umidore.
Saul cercava di accelerare il più possibile il lavoro della squadra, sapendo quanto doveva esser dura per lei. Marguerite era una persona molto riservata: una vera esiliata che aveva lasciato la Terra per salvare la sua famiglia da una punizione provocata da crimini politici. Qualunque cosa fosse scritta su un pezzo di carta, soltanto un burocrate avrebbe potuto sostenere che lei si era offerta «volontaria» per venire fin lassù e diventare cibo per le rosicchianti cellule aliene.
Eppure l'allegria di Marguerite era leggendaria. Il dolore fisico doveva essere assai grande perché si lamentasse tanto apertamente.
Saul si portò al suo fianco non appena i tecnici ebbero finito. — Marguerite, adesso userò il nuovo lanciarazzi e cercherò di effettuare quella raschiatura subcutanea. Cerca di non fare movimenti inutili.
Marguerite annuì brevemente. Soltanto un velo di umidità sulla sua fronte e le mani strette tradivano il suo nervosismo. Saul guidò un mech ospedaliero su due ruote portandolo in posizione, inclinando l'ampia piastra dell'apparecchiatura a microonde con la sua apertura sopra la forma prona della donna.
Ho avuto il privilegio di conoscere molti meravigliosi esseri umani pensò Saul. Ma nessuno più coraggioso di questa donna.
Si era offerta volontaria per tentare quella cura mai sperimentata. Quando le era stata offerta la possibilità alternativa di rifugiarsi nel colombario, aveva subito respinto l'idea. — Non intendo lasciare te e Akio gli unici medici svegli durante questa crisi — gli aveva detto con decisione.
Erano passati parecchi giorni, mentre i tecnici costruivano e ricostruivano il nuovo irraggiatore secondo le istruzioni di Saul… sempre cercando di strappar via un po' di tempo ai lavori prioritari delle squadre addette ai corridoi e a quelle che stavano rimettendo in sesto la Edmund Halley. A quel punto non c'era più molta scelta. Se quella cura non avesse funzionato, Marguerite avrebbe dovuto finire sotto ghiaccio.
In segreto, Saul temeva che fosse troppo tardi anche per questo. Non c'era nessuna garanzia che raffreddando un corpo a un grado sopra la temperatura di congelamento, si potessero arrestare quelle escrescenze maligne e multicolori simili a funghi, una volta che si erano insediate così in profondità.
Un terzo dell'equipaggio sveglio, e perfino qualcuno di quei semicadaveri colombarizzati, soffrono di questi striscianti disordini della pelle. Preoccupano Akio più degli orecchioni scagliosi e della gonorrea rossa. Sono il motivo più importante per il quale potrei non poter partire con la Edmund, malgrado tutto. Osborn e gli altri potrebbero trovarsi a correre il loro rischio senza un medico.
E c'era un altro motivo per il quale aveva fretta di rendere efficace la nuova cura.
Ieri, mentre stavano facendo l'amore, aveva trovato un sottile ricamo, simile a una ragnatela di fili verdi, che si andava allargando sotto le scapole di Virginia ramificandosi sulla schiena. Non le aveva ancora detto niente. Ma la sua motivazione a trovare una cura era più forte che mai.
Le macchine avevano smesso di muoversi per prendere posizione. — Va bene, Marguerite — disse alla sua paziente. — Adesso ricordati bene di rimaner ferma.
— Sì, Saul.
Le sue mani si strinsero sui bordi del tavolo. Saul si voltò verso il voluminoso mech medico simile a un ragno. — Accesso cinque… — cominciò a dire, ma dovette fermarsi quando un'improvvisa ondata di vertigini lo colse. Riuscì a sollevare il colletto del suo camice giusto in tempo per contenere un violento sternuto.
Saul si sentì rintronare la testa. Quei sordi dolori in varie parti del corpo che era riuscito ad allontanare dalla sua coscienza per una mezz'ora o giù di lì, adesso tornarono in forze. Passò un lungo momento prima che riuscisse a risollevare lo sguardo, sbattendo gli occhi in mezzo a uno sciame di macchie azzurre che andavano alla deriva davanti a lui, e rivolgendosi di nuovo alla macchina.
— Accesso… cinque-due-sette Jonah.
Una luce che dava il segnale di ricevuto ammiccò attraverso il pannello di plastica del mech. Saul continuò: — Applica sessanta milliwatt nella risonanza preprogrammata dello spettro dell'RNA del fungoide A linea due-nove-quattro, messa a fuoco sull'escrescenze subcutanea, coscia interna posteriore del paziente, cinquecento secondi, fattore di sicurezza beta.
Avevano adattato un'unità concepita per le indagini a risonanza magnetica e ultrasonica delle ferite interne. Quel mech sofisticato era in grado di mirare e valutare la messa a fuoco del radar assai più rapidamente di qualsiasi operatore umano.
MI PREPARO A PROIETTARE annunciò la macchina, senza inflessioni.
Il miglior assistente di Saul, Keoki Anuenue, stava osservando un banco-dati, supervisionando la procedura. Non soltanto Keoki era un abile tecnico di laboratorio, era anche uno degli individui più forti che Saul avesse mai conosciuto. Tre giorni prima aveva avuto modo di vedere in azione il grosso hawaiano quando si era verificato un crollo al livello B.
Una varietà particolarmente virulenta di vermi aveva impiantato una testa di ponte nel pozzo di servizio che conduceva alla Edmund Halley. Lo sfiatatoio principale, essenziale per impedire che il ghiaccio intorno a loro fondesse, era quasi del tutto intasato da una varietà ocracea di vermi ancora più grossi degli orrori purpurei.
Saul e Keoki erano arrivati al livello B proprio mentre nel corridoio si levavano alte grida ed echeggiavano i clacson dell'allarme. Più terrificante di tutto era il gemito e lo stridìo del ghiaccio che si sgretolava. Il cavo lungo il quale Saul si stava arrampicando si era staccato, rompendosi, e si era messo a dondolare dalla parete sferzando l'aria come un serpente torturato, facendolo schizzar via al momento in cui un blocco di cristallo scuro e schizzato perforava il fogliofibra e si schiantava contro il lato del pozzo.
Keoki Anuenue aveva afferrato Saul cacciandolo al sicuro dentro una nicchia, poi si era girato ed era balzato verso lo scintillante macigno che aveva intrappolato sette fra uomini e donne nella galleria di servizio. Nel migliore dei casi, avevano a disposizione soltanto pochi minuti. Keoki era andato a salvarli nell'unica maniera possibile.
Aveva appoggiato la schiena contro il plastifoglio a brandelli, aveva piantato i piedi contro il blocco di ghiaccio e l'aveva sollevato. Doveva aver avuto una massa di cento tonnellate, senza contare i detriti che giacevano sopra di esso. — Kei Make nei mai… — aveva grugnito Keoki, mentre il macigno, cosa incredibile, aveva cominciato a vibrare e a muoversi.
Una raffica di fetida umidità era uscita dal varco. Il volto dell'hawaiano era una cascata di stille di sudore in mezzo a quell'aria umida, i tendini del suo collo erano un mazzo di corde annodate. Saul non aveva avuto il tempo di fermarsi a pensare. Si era tuffato in quella stretta apertura.
Insieme a un'altra mezza dozzina di odori l'aria era piena dell'afrore delle mandorle. Se qualcuna delle loro tute era stata bucata, neppure i cianuti che avevano nel sangue sarebbero stati in gradi di proteggere per molto gli uomini dell'equipaggio intrappolati dalla ricca vena di cianuro che era stata spezzata dalla roccia precipitata.
Saul aveva compiuto un bel po' di contorsioni per entrare in quella nicchia malgrado fosse del tutto consapevole di non indossare nessuna tuta. Aveva cercato di non pensare all'uomo grande e grosso alle sue spalle, intento a lottare con una massa sufficiente a schiacciare un edificio, sulla Terra… prodigioso perfino a un millesimo di gravità.
Così era cominciata una corsa infernale per trascinar fuori i sopravvissuti. Nessuno aveva mai detto a Saul quant'era durato quel calvario. Tutto quello che lui sapeva era che Keoki Anuenue avrebbe potuto mollar tutto dopo che uno, o due, o tre erano stati liberati.
Ma Keoki non l'aveva fatto. Come una figura scolpita nella pietra aveva sorretto quella frastagliata montagna primeva fino a quando Saul non aveva accertato la morte degli ultimi due uomini della squadra, e si era fermato brevemente per prelevare un campione di dieci centimetri cubi d'un fluido pastoso e rossastro estratto da una creatura polposa grossa quanto un anaconda, che era rimasta schiacciata. Soltanto dopo che Saul era strisciato fuori contorcendosi dalla galleria di servizio, per vedere finalmente la squadra di salvataggio che arrivava spinta dai getti su dal pozzo, quel silenzioso gigante era finalmente arretrato lasciando andare lentemente il macigno fra i grugniti delle sue carni e il crepitio del ghiaccio.
Quando i mech di Virginia erano intervenuti per togliergli di mano il fardello, Keoki si era limitato a mormorare una frase che Saul ricordava con la stessa chiarezza del suo nome:
Ua luhi loa au…
Strane, magiche parole, una frase piena di energie segrete, dei misteri di divinità esotiche.
Più tardi, Virginia aveva informato Saul che significava semplicemente: «Sono molto stanco».
Ciò era avvenuto soltanto pochi giorni prima. Le battaglie nei corridoi erano continuate con misurata violenza, ma adesso si andavano attenuando. Le malattie avevano voluto il proprio tributo. E i preparativi per la missione di salvataggio della Newburn erano prossimi al completamento. Non ci si riposava sulle eroiche imprese del passato per trarne benefici. Che ci pensassero i molti miliardi di individui che seguivano i «notiziari di guerra» sui loro apparecchi video sulla Terra a tenere il punteggio. Qui la gente aveva semplicemente troppo da fare.
Keoki era in piedi accanto al suo monitor: fece segno a Saul. Tutto pareva pronto.
Saul arretrò e diede al mech medico simile a un ragno l'ordine di procedere. — Cinque-due-sette Jonah. Comincia.
Una chiazza ovale di luce, di circa cinque pollici per tre, comparve sulla coscia destra di Marguerite van Zoon, soltanto un raggio di laser «morbido» individuatore, che segnava dove l'apertura della macchina stava proiettando in quel momento un fascio di microonde invisibili, finemente modulate, che s'irradiavano del congegno curativo di Saul messo assieme alla bell'e meglio.
La scienza di Rube Golderberg rifletté Saul mestamente. Questo era assai più difficile cha usare quei lanciarazzi giganteschi nei corridoi per spazzar via le forme di vita cometarie più grandi.
Là bastava riversare energia dentro le cellule più grandi delle bestie attraverso le bande di risonanza delle proteine. Non dobbiamo essere troppo accurati nello scegliere l'esatta frequenza. Qualunque cosa manchi il bersaglio, si riversa fuori diventando calore. Sbattici dentro abbastanza energia e le cellule finiscono per lacerarsi da sole. Qui, però, non poteva servirsi di quel genere di strapotere distruttivo. Lui, con quella raschiatura della pelle di Marguerite a colpi di microonde, voleva distruggere soltanto l'invasione cellulare. Non soltanto la macchina doveva venir sintonizzata così da non distruggere nessuno dei tessuti della paziente, ma non ci si poteva permettere neppure troppo calore residuo.
Dovevano regolare con estrema precisione ogni raggio raschiatore su una ristrettissima banda di frequenze, e manovrare gli atomi come i grani su un filo, battendo e ribattendo fino a quando i fili molecolari super tesi non si fossero spezzati. La sintonizzazione doveva essere attuata su ordini di magnitudine assai più esatti di quelli impiegati per le armi usate dalle squadre in gallerie.
La coscia di Marguerite ebbe un tremito, certo a causa della tensione. Non avrebbe dovuto percepire più di un debole calore… per lo meno in teoria.
Saul girò la testa per vedere, dietro di sé, se Keoki non avesse letto niente di sfavorevole nei segni vitali della paziente. Ma il grosso hawaiano stava osservando placidamente il banco dati senza mostrare nessun segno di preoccupazione. Mormorava tra sé sommessamente, dondolandosi sulla sua posizione accovacciata da spaziale.
Fu allora che Saul vide il colonnello Suleiman Ould-Harrad scivolare dentro la sala-cure.
Oh, il cielo ci aiuti. Cosa c'è adesso?
L'ufficiale spaziale cercò in mezzo alla penombra fino a quando il suo sguardo non si fermò su Saul. Il risentimento iniziale di Saul si dileguò quando vide l'espressione di Ould-Harrad: il suo volto rugoso era una maschera di fatica mista chiaramente a paura.
— Torno subito, Marguerite.
— Fai con comodo, Saul. Non devo andare da nessuna parte.
Saul le toccò la spalla per farle coraggio. — Sorvegliala con cura, Keoki.
— Sicuro, dottore.
Saul passò attraverso la nebbia disinfettante nella camera di decontaminazione e si tolse il casco quando la porta esterna si aprì. Il facente capo della spedizione lo stava aspettando, sfregandosi con fare assente il dorso di una mano sull'altra.
— Colonnello Ould-Harrad? Cosa posso fare per lei?
— C'è qualcosa che io… — Ould-Harrad scosse la testa, e d'un tratto guardò altrove. — So che lei non ha nessuna ragione per volermi aiutare, Lintz. Capirei senz'altro, se mi dicesse di andare dritto all'inferno. — Saul scrollò le spalle. — Jerusalem est perdita. Gerusalemme è perduta. Il passato non conta più, adesso. Siamo tutti nello stesso pasticcio. Perché non mi dice cosa la tormenta, colonnello? Se vuole che la cosa non si risappia, possiamo organizzare una cura fuori dal…
La frase gli si spense in bocca quando Ould-Harrad scosse vigorosamente la testa.
— Lei mi fraintende, dottore. Ho bisogno del suo consiglio in un campo non medico… una faccenda di assoluta gravità e urgenza.
Saul sbatté gli occhi.
— C'è qualcosa di nuovo?
L'alto mauritano si morse il labbro. — Ormai sono rimasti in pochi quelli con la testa sulle spalle. Il mio è un popolo di collettivisti, e così non posso affrontare le emergenze come faceva il capitano Cruz. A me serve il consenso. Devo cercare consigli.
Saul scosse la testa. — Ancora non riesco a capire.
Ould-Harrad parve non sentirlo. Il suo sguardo era remoto. — La Terra è troppo lontana, le sue istruzioni sono troppo confuse. Ho bisogno di un comitato che mi aiuti a decidere come risolvere una terribile situazione d'emergenza, dottor Lintz. Le sto chiedendo se, per favore, è disposto ad esserne membro.
— Naturalmente. Aiuterò in qualsiasi maniera possibile. Ma di che si tratta?
— C'è stato un ammutinamento — gli disse seccamente Ould-Harrad. Il labbro inferiore gli tremava per l'emozione. — Una banda di fanatici si è impadronita della Edmund Halley. Hanno preso il guardamarina Kearns quando ha scoperto i loro piani e…
L'uomo nascose gli occhi. — … e lo hanno buttato fuori dalla nave nudo, sulla neve! Loro… loro esigono i colombari e il trizio, altrimenti faranno saltare in aria tutte le scorte che abbiamo nei depositi sotto le tende al polo.
Saul lo fissò. — Ma cosa credono di poter fare?
Lo spaziale africano sbatté gli occhi, si riscosse, e alla fine incontrò nuovamente lo sguardo di Saul.
— Hanno calcolato una traiettoria di rimbalzo oltre a Giove. Gli ammutinati ritengono di poter effettivamente rubare la Edmund e di poter ritornare sulla Terra, vivi.
«Naturalmente, sembra che non gliene importi proprio niente se nel far questo condannano il resto di noi ad una morte certa.
Sfrecciò attraverso la Galleria E, stringendo un maglione di lana grigia sopra la sua tuta. Faceva freddo.
Troppo maledettamente freddo, perfino per lei. Tutti i membri della missione erano dei «caldi», gente che aveva una reazione vascolare minima. I capillari di Virginia non si contraevano molto quando venivano raffreddati, il che significava che si sentiva a suo agio quando la maggior parte della gente comune, i «gelanti», si sarebbero messi a tremare per il freddo. Il maggiore svantaggio era che i «caldi» perdevano il calore più in fretta e avevano bisogno di altro cibo. Il rovescio della medaglia era la libertà dal grasso: di rado i «caldi» avevano bisogno di mettersi a dieta.
Ma Carl aveva regolato la temperatura dell'aria tenendola talmente bassa che perfino i «caldi» avevano freddo. Virginia non sapeva se questo servisse davvero per deprimere la crescita delle alghe, ma certo deprimeva lei.
Entrò con sollievo nel nucleo più caldo della Centrale. I grandi schermi di monitoraggio traboccavano di mutevoli schemi giallo-verdi. Virginia li lesse con una sola occhiata: quelli del biologico stavano tenendo testa alla poltiglia, e le forme purpuree avevano rallentato la loro attività. Non che costituissero più il problema principale, ormai.
Saul stava conferendo con Ould-Harrad. L'uomo grande e grosso torreggiava sopra la corporatura filiforme di Saul, con le mani sui fianchi, scuotendo lentamente la testa in solenne disaccordo. La bocca di Saul era piegata in un curva cupa, esangue, che non gli aveva mai visto prima. Si afferrò a un appiglio, ruotò agilmente, e bordeggiando andò a fermarsi accanto a loro.
— Ho fatto girare la simulazione che mi hai chiesto — esclamò.
— Bene, bene. — Saul parve grato per quell'occasione di distogliere l'attenzione da Ould-Harrad. — E…?
— Posso disabilitare la maggior parte dei loro comandi se riuscirò a far saltare tre mech a bordo della Edmund. Poi avrò bisogno di cinque minuti per usarli.
Saul s'illuminò. — Eccellente! Presteranno attenzione al trasferimento a bordo dei colombari che hanno chiesto, accertandosi che non gli rifiliamo scorte inadeguate, e così via. I preparativi per la missione di salvataggio della Newburn non erano ancora completati quando il guardiamarina ha scoperto le loro intenzioni. Cosi, hanno bisogno di altre apparecchiature prima di andare.
— Questi bastardi! — sputò Virginia. — Spingere il povero Kearns fuori della camera di equilibrio… assassini! Se il mainframe della spedizione non fosse già stato trasferito su Halley, potrei entrare nel loro sistema di controllo e farli fuori tutti creando il vuoto nella nave!
Saul annuì. — Feroce ma giusto. Ahimè, sono sui controlli manuali, difficili da scavalcare. Tuttavia, consideriamo che non hanno cibo e aria a bordo per l'intero viaggio di ritorno. Devono essere dannatamente sicuri che gli daremo abbastanza colombari da far ritorno sulla Terra. Sono in quattordici, hanno detto. Adesso, se riusciremo a trovare il modo per distrarli, offrendo a Virginia una breccia…
— No — dichiarò Ould-Harrad. — Ci sono poche possibilità di avvicinarsi per poco più di qualche secondo con i mech. Ha sentito quello che ha detto Linbarger?
— Dovranno acconsentire che i mech si avvicinino alla Edmund quando cosegneremo i colombari — rispose Virginia.
Ould-Harrad corrugò la fronte. — La tua simulazione numerica… era completa? Hai cercato tu stessa di guidare i mech fino ai cavi per poi distruggerli?
— Be'… no. Non conosco così bene i sistemi della Edmund. Ho lasciato che lo facesse JonVon. Ho avanzato di grado il suo controllo dei mech e…
— Allora non possiamo essere sicuri, vedi? — Le sue sopracciglia si sollevarono a semicerchio sopra gli occhi scuri, con le iridi che nuotavano in mezzo al bianco nel quale appariva un sottile ricamo di vene rosse. — JonVon non ha pratica nel controllo dei mech. Le simulazioni sono sempre più facili delle operazioni vere e proprie. Io…
— Carl potrebbe farlo — disse in fretta Virginia. — Fallo venire qui, fagli provare la mia simulazione.
La bocca di Ould-Harrad si piegò in un'espressione di cortese incredulità. Poi sospirò, annuì e cominciò a parlare alla maniera veloce degli spaziali dentro un microfono da gola.
Virginia si rivolse a Saul. — Quanto tempo ancora?
— Ci hanno dato due ore.
— Sono matti! Non possono aspettarsi che noi…
— Sanno che possiamo trasferire i colombari di riserva, se cominciamo subito.
— Ma quell'appello ai «normali come loro» che offre un passaggio gratis fino alla Terra… Se qualcuno dovesse accoglierlo, Linbarger dovrà aspettare che salgano a bordo.
Saul ebbe un pallido sorriso. I suoi occhi parevano ricordare situazioni disperate di molto tempo prima. — Una mente febbricitante pensa che tutto il mondo possa dipendere da un decino. Inoltre stanno chiamando ognuno di noi… ah… normali al comunicatore. Per esigere che andiamo con loro, abbandonando tutto, partendo immediatamente… sempre che stiamo bene in salute, naturalmente.
— Ti hanno chiamato?
— Oh, sì. Sono stato tra i primi, un medico, perciò prezioso. Non hanno alcuna vergogna. Mi ero chiesto perché volessero vedermi alla telecamera, fino a quando non hanno interrotto all'improvviso la comunicazione, e me ne sono reso conto. — Ridacchiò, e si asciugò il naso con un fazzoletto chiassoso.
— La tua… influenza, o qualunque cosa sia. — Virginia provò un'irritazione irrazionale. — Non significa che tu sia davvero malato.
Saul sogghignò, sardonico. — Per loro sì. Sai, è come le recite dell'epoca elisabettiana, Shakespeare compreso. Se un personaggio tossisce al primo atto, puoi star sicuro che ha il vaiolo e morirà entro il terzo.
— Sono matti.
— Soltanto perché non vogliono prendermi con loro? — Scoppiò a ridere. — Non posso fare a meno di lodare il loro gusto, a dire il vero. Malgrado la mia professione, non mi sono mai piaciuti veramente gli ammalati, non nella loro cruda realtà. Tutte le loro idiosincrasie, la loro irascibilità, il loro tsuris. Li preferisco come astrazioni, come problemi di arte genetica.
Virginia non poté fare a meno di rispondere al suo sorriso. Era incredibile, mettersi a scherzare in quella maniera pacata, quasi maliziosa, autorimproverandosi, in mezzo a una crisi.
Ould-Harrad terminò di controllare la situazione con le squadre addette alle gallerie e quelle di superficie. — Dubito che abbia una grande importanza, comunque Carl sta arrivando.
— Bene — replicò Virginia. Si sentiva sollevata dai modi calmi e ironici di Saul.
Bene, per lo meno significa che non rischierà il collo per dare la caccia alla Newburn, pensò. Poi provò un'immediata vergogna. Probabilmente questo significa anche che l'equipaggio della Newburn continuerà ad andare alla deriva e morirà.
Si affannò a ragionare. — Sono… sono ancora convinta che la mia simulazione dimostri che si può fare.
— Può, forse — disse Ould-Harrad. — Che si debba… è un'altra faccenda.
— Dobbiamo fare qualcosa — ribadì Saul, con forza. — Dimentichiamo la Newburn per il momento. O che avremo bisogno della Edmund fra settant'anni. Il nostro immediato problema è che quasi tutti gli idroponici…
— Sì, sì. — Ould-Harrad sollevò una mano con un gesto di stanchezza. — Ma c'è forse da chiedersi se valga la pena di dare a quattordici persone la possibilità di tornare sulla Terra.
Saul roteò gli occhi verso il soffitto. — Non possiamo supporre che le malattie vinceranno! Sentite…
Virginia l'osservò lanciarsi nella stessa spiegazione che le aveva dato la sera prima, su degli approcci promettenti per curare le pestilenze.
È un uomo meraviglioso, in verità non dovrei trovare a ridire pensò. Ma Saul può essere molto noioso quando assume un tono pedante. Sentendo il calore della grande stanza filtrare dentro i suoi muscoli, si rilassò. Qui il «clima» raffigurato dalla parete era davvero notevole, con un'area così grande a disposizione. Era una spiaggia spazzata dal vento a metà mattino. Al di là dello scorrere dei dati sugli schermi, vide una raffica di vento che soffiava dal nord strappar via di colpo le bandierine di una lontana capanna dalle loro aste. Il cielo divenne greve, purpureo. Cumuli che qualche momento prima erano soltanto batuffoli di ovatta, si addensavano ribollendo, con i bordi più sottili che facevano da aloni luminosi ai centri tenebrosi.
Per puro caso, il programma che si svolgeva in quel momento creava un patetico inganno. Una tempesta simulata nel mezzo di una vera crisi. Se quello fosse stato uno spettacolo d'intrattenimento, come quelli di cui avevano goduto giornalmente, fino all'inizio dei guai, vi sarebbe stato anche il suono, perfino l'odore e la pressione sarebbero stati programmati. L'oceano s'increspava, agitato, innalzandosi in enormi cavalloni, le ombre delle nubi correvano su di esso come impazzite. Grosse gocce gelide battevano la spiaggia, grandi come chicchi di grandine. Un cupo vortice si abbatté sulla scena, srotolandosi come un gomitolo di filo, vomitando lampi giallastri. Come se avessero aspettato quel segnale, minuscoli granchi della sabbia, macchiettati, uscirono di corsa dalle loro buche precipitandosi verso il mare spumeggiante. I lampi balenarono ancora, e ancora, come se Dio stesse scattando delle fotografie pensò, sognante, paralizzata da quella rabbia silenziosa che si arricciava, schizzava e sfrecciava sulla parete. Virginia avrebbe voluto poter udire il brontolio del tuono che si allontanava, il sibilo della pioggia sulle dune.
Un grosso cane arrivò correndo da lontano, scavando la sabbia, cercando di afferrare i granchi fra i denti. La nebbia si raccolse in sottili addensamenti, Virginia provò l'intenso desiderio di sentire l'aria purificatrice appiccicarle gli indumenti sulla pelle, inzupparla, rimodellarle i capelli in un copricapo liscio e aderente. Neppure nella mia migliore senso-simulazione con JonVon riesco a evadere completamente. In questo momento la scambierei con un biglietto di ritorno a casa. Riconosceva la nostalgia: essere lontana da qui. Respirare l'aria salmastra, sentire la sabbia granulosa sotto i piedi, odorare il vento sferzante. E una volta che l'avesse sentito, sapeva come metterlo da parte, come tornare al presente. Se non fosse stata capace di farlo, non avrebbe mai potuto far parte dell'equipaggio. Ma questi folli ortho stanno mettendo a repentaglio la missione, con queste fantasie di fuga.
Carl arrivò, con un pizzetto rosso-bruno al mento, ma senza mostrare nessuna fatica. Galleggiò fino ad una rete che fungeva da mobilia in condizioni di bassa gravità: — Ho fatto recuperare Kearns da un mech. È una statua di ghiaccio.
Virginia disse: — C'è qualche…
— Niente da fare. Le sue cellule sono scoppiate. — Carl sospirò, passandosi la mano sul viso come per dileguare tutto questo, quasi fosse un brutto sogno. Riprese visibilmente il controllo di sé e proseguì con calma deliberata, senza nessuna inflessione: — Ho intensificato le misure di sicurezza alle camere di equilibrio di superficie, nel caso in cui qualcun altro cerchi di unirsi a loro.
— Ah, bene — annuì Ould-Harrad.
Carl disse ancora: — Ho piazzato Jeffers e alcuni mech armati di laser fuori dalla visuale della Edmund.
— A quale scopo? — chiese con freddezza Ould-Harrad.
— Per garantirci nel caso in cui tentino qualcos'altro —. Carl studiò Ould-Harrad in ansiosa attesa di una reazione. — Cos'hai intenzione di fare?
— Vorrei un rapido controllo della simulazione di Virginia — rispose Ould-Harrad.
Carl annuì e si avvicinò a una consolle. Batté la sequenza e s'infilò in tempo reale dentro di essa, dimentico della loro nervosa aspettativa. Attesero ansiosamente fino a quando Carl non si staccò, rimettendo il casco al suo posto.
— Non funzionerà — disse Carl.
— Perché no? — volle sapere Virginia. — Ho passato…
— I mech non sono abbastanza veloci nei lavori ravvicinati.
— JonVon gliel'ha fatto fare!
— JonVon è formidabile per minimizzare i movimenti, certo. Ma non prevede fattori di sicurezza o errori. E c'è sempre del lavoro a distanza ravvicinata.
— Potrei fare delle correzioni, introdurre la stocastica…
— Non con l'orologio che scandisce i secondi — concordò con riluttanza Saul. — Se un mech trovasse una scatola lasciata per terra, consulterebbe JonVon e ci sarebbe una pausa. Semplicemente, non c'è abbastanza tempo.
Virginia sbatté le palpebre, sentendosi offesa per il fatto che Saul si fosse schierato così in fretta con Carl. — Io penso ancora…
— Questo sistema le cose — intervenne Ould-Harrad. — Dio e la Sorte lavorano insieme. Dobbiamo lasciarli andare.
— Non possiamo — ribatté con fermezza Saul. — Gli idroponici, la Newburn, il…
— Lo so. C'è un mucchio di attrezzature di cui sentiremo la mancanza — disse Ould-Harrad. — E, forse, questa mancanza accelererà la nostra fine. Ma non abbiamo scelta. Non sono disposto a consentire un qualunque attacco contro la Edmund.
— È… pazzesco! — sbottò Virginia.
Il volto di Ould-Harrad era impassibile, distaccato. — Quando si deve affrontare la morte, ciò che più importa è l'onore. Io non farò del male ad altri.
Saul e Carl condivisero un'espressione d'incredulità e frustrazione. Virginia pensò: Ould-Harrad non si opporrebbe ad una ribellione degli ortho, ma se ci provassero i percell…
— E se la disabilitassimo? — chiese quasi distrattamente Carl, lasciandosi andare all'indietro con le mani sulla nuca, stiracchiandosi.
Ha rinunciato alla Newburn. E deliberatamente non mostra niente di ciò che prova.
— Hai sentito quello che ha detto Linbarger — gli spiegò pazientemente Ould-Harrad. — Se daremo un qualunque segno di voler portare fuori dei congegni, qualunque cosa che possa venire usata come arma…
— Già, loro useranno contro di essa i grossi laser. Sicuro. Ma non possono spararti se sei già dentro la nave.
Ould-Harrad insisté: — Come ho detto, qualunque approccio…
Saul intervenne: — Credo di capire… Spediamogli un cavallo di Troia, giusto?
Carl sorrise. — Proprio così. Dentro i colombari che vogliono.
Gli occhi di Ould-Harrad si spalancarono, mostrando l'intero disegno di vene rosse. — Una bomba? Potrebbe danneggiare qualsiasi cosa, ferire qualcuno. Non ci sarebbe nessun controllo…
— Nessuna bomba — l'interruppe Carl con una smorfia. — Un vero cavallo di Troia… mettiamoci dentro degli uomini.
Vi fu un lungo silenzio mentre si studiavano a vicenda. Virginia poteva leggere la perplessa riluttanza di Ould-Harrad; era chiaro che quell'uomo aveva deciso di accettare le richieste di Linbarger, lasciando che la spedizione si arrangiasse in qualche modo per i prossimi settant'anni. Il suo stoicismo pan-equatoriale aveva avuto la meglio.
Carl, però, era quasi baldanzoso, sicuro che il suo piano avrebbe funzionato. Meditabondo, f.aul diede una scorsa mentale alle molte possibilità di errore e disastro, ma si leccò le labbra in inconscia anticipazione, tentato, quasi divertito da quell'improvvisa speranza.
E io cosa penso? Virginia si rese conto di essersi inalberata davanti al convincimento di Ould-Harrad che Linbarger andasse assecondato. Aveva studiato le mappe che gli ammutinati avevano trasmesso. La Edmund aveva una quantità di combustibile appena sufficiente per descrivere un arco verso l'esterno con quella che talvolta veniva chiamata manovra di Byrnes: un tuffo e una rapida rotazione nella morsa gravitazione del grande pianeta, una rapida traiettoria verso la Terra, tentando, al rendez-vous, una frenata non distruttiva con più passaggi nell'alta atmosfera… Ma la finestra per attuare una simile manovra si stava chiudendo in fretta, rimanevano ormai soltanto pochi giorni.
Ould-Harrad sta forse facendo la commedia? È possibile che abbia in mente di rifugiarsi sulla Edmund all'ultimo momento, per tornare insieme a loro sulla Terra?
— Non so… — cominciò a dire dubbioso Ould-Harrad.
— Pensaci — lo interruppe Saul. — Intravedo un grosso problema.
Carl corrugò la fronte. — Quell'attrezzatura è vitale. Ci saranno volontari in abbondanza.
— Di questo non dubito. Ma un colombario è basso e stretto. Non potresti entrare in un loculo con addosso una tuta spaziale.
— E allora? Io… — La voce di Carl si spense.
— Sì. L'ovvia difesa per loro sarà aprire i loculi nello spazio, per essere certi che non c'è nessuno dentro.
Carl si morse il labbro, pensandoci. Virginia era acutamente conscia dei secondi che scorrevano via. Le piaceva il piano di Carl, non ultimo perché offriva loro qualcosa con cui trattare. Se Linbarger avesse decollato, la spedizione avrebbe dovuto fabbricare la propria biosfera senza molte delle porzioni vitali. Un conto era far germogliare e crescere qualche seme sotto le lampade, e un altro era dare inizio dal niente ad un intero ecosistema interconnesso. Era come cominciare a fare il giocoliere subito con otto palle. Fra tutti i modi che ci sono di morire qua fuori, non avevo considerato quello di morire di fame.
Irritato, Carl sbottò seccamente: — Non ci avevo pensato.
Un lungo, fremente silenzio. Momenti che cadevano in un abisso.
Virginia aveva una tecnica tutta sua per trattare i problemi quand'era sotto pressione. Quando, sulla Terra, aveva cominciato a fare delle simulazioni dettagliate, aveva sviluppato dei problemi così vasti che aveva dovuto prenotare con giorni o settimane di anticipo giganteschi mainframe. Se il vostro programma andava storto, lo si poteva fermare a metà. Poi c'erano alcuni minuti durante i quali il sistema faceva dei calcoli più semplici e di routine per lontani usufruitori. Potevate mantenere il tempo che vi era stato sistemato, e far girare ancora la vostra simulazione, se riuscivate a scoprire dove stava la difficoltà e riuscivate a risolverla in quel breve intervallo.
Sotto una simile pressione era facile far cilecca. Così, lei aveva sviluppato un modo per permettere alla sua mente di distogliersi dal problema, di fluttuare libera, permettendo all'intuizione di far capolino attraverso quell'ansia opprimente. Mettere a fuoco la mente al di fuori di quel particolare momento, lasciare che la sua superficie si rilassasse…
Oziosamente notò che sulle pareti la tempesta si era addensata, infuriando fosca e ribollente. Il vento soffiava via cuspidi di schiuma dalle ripide onde, ed enormi gocce d'acqua martellavano gli esili fili d'erba che spuntavano sulle dune, sull'entroterra, schiacciandoli. Il cane era scomparso, i granchi si aggiravano senza una meta tutt'intorno sotto quelle gocce che picchiavano incessanti. L'aria pesante ribolliva, quasi fin troppo densa perché si potesse respirare…
— Aspettate — disse Virginia. — Ho pensato a qualcosa.
Si rese conto che, sì, i loculi dei colombari erano molto simili a bare. Era quello che l'aveva sempre preoccupato quando ci rifletteva.
Aveva con sé una piccola torcia elettrica, grazie a Dio. Poteva vedere quella granulosa lucentezza a pochi centimetri dal suo viso, sentire la morbida imbottitura intorno a sé. Quell'intrappolamento ermetico, la costrizione, il freddo… Al buio sarebbe stato peggio. Molto peggio. Non gl'importava il vuoto sbadigliante dello spazio aperto, libero e infinito. Quella bara angusta era diversa.
Un minuto prima Carl aveva percepito la lieve trazione dell'accelerazione e adesso contava i secondi, scandendo il tempo stimato che i cinque mech avrebbero impiegato per attraversare il tratto che li separava dalla Edmund.
Ecco. Una leggera spinta in avanti, che lo fece aderire alla grigia piastra che lo copriva. Il naso la sfiorò e una lieve forza torcente lo fece girare in senso orario.
Quella doveva essere la decelerazione, poi un giro per l'attracco. Quasi certamente sarebbero entrati dalla stiva di poppa.
Un sordo sferragliare. Probabilmente si stavano inserendo nell'autotrasportatore. Poi i mech si sarebbero staccati…
Cinque sonori sprang. Bene.
Adesso… se l'idea di Virginia era giusta…
Un rumore raschiante, lì accanto. Il grappino di un mech fece presa, clank, sulla maniglia dell'apertura manuale del portello. Carl poteva immaginare la maniglia interna che ruotava. Si tenne saldo, respirò profondamente…
Il portello si aprì con uno schiocco e, swuuush, l'aria all'interno del colombario si precipitò fuori, facendo sbattere le cinghie sulle sue spalle e sulla sua divisa azzurra.
Succhiò l'aria dentro, attraverso la maschera sul suo viso. La rischiosa soluzione di Virginia: una piccola bombola d'aria, niente tuta spaziale.
Gli orecchi gli schioccarono, malgrado i tappi a pressione che portava su di essi. Un paio di occhialoni gli proteggevano gli occhi per impedire al fluido di schizzar dentro, chiudendogli e congelandogli le palpebre. Le cinghie erano così strette da mordergli dolorosamente la carne. Fra lui e il vuoto non c'era altro.
Il coperchio del loculo era bloccato alla prima tacca di sicurezza, lasciando una fessura di cinque centimetri. Ai di là di quella fessura Carl intravide l'aspro bagliore bianco della luce del sole che colpiva in pieno il bordo dell'oblò di poppa. Il suo loculo era stato agganciato al trasportatore come aveva immaginato. Vide qualche stella, e un'ombra che si muoveva sulla lontana, liscia curva dello scafo della Edmund. Quello doveva essere un mech che stava per aprire il coperchio del loculo successivo, per controllare se i greci non avevano portato doni…
Aveva scommesso che Linbarger avrebbe considerato quella precauzione sufficiente. Se si era sbagliato…
E Linbarger era già ipersospettoso, dopo che avevano scoperto e bloccato il tentativo di Virginia di prendere il controllo dei mech della Edmund. Ould-Harrad aveva insistito di tentare quello per prima cosa, la cosiddetta soluzione facile, che era subito fallita.
Adesso, per quanto riguardava quella difficile…
Linbarger doveva volere che i mech si fossero molto allontanati dalla Edmund prima che qualcuno si avventurasse all'interno della stiva per assicurare i colombari. Ciò dava a Carl due, forse tre minuti.
Carl sollevò del tutto il coperchio e fluttuò fuori, avvolgendosi su se stesso a palla mentre lo faceva. Indossava una divisa, guanti e stivali, e nient'altro.
Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che l'aria venisse ripristinata? Gettò un'occhiata all'unghia del suo pollice. Venti secondi.
Saul aveva calcolato tre minuti di esposizione al vuoto prima che cominciasse a sentire gli effetti. Poi lo squilibrio della sua pressione interna si sarebbe fatto serio e avrebbe cominciato a provare una sensazione di stordimento, e chiunque fosse entrato nella stiva avrebbe potuto trattarlo come se fosse stato il gatto di casa ubriaco.
Non che Linbarger e la sua banda avrebbero perso tempo con lui. Probabilmente, l'avrebbero spinto fuori della camera di equilibrio augurandogli buon viaggio, come avevano fatto con il povero Kearns. Fatti una bella passeggiata fino a casa…
Si raddrizzò e si guardò intorno.
La stiva era vuota. Probabilmente stavano osservando i mech che si staccavano e arretravano.
Si spinse lontano e cercò di orientarsi. Il comando manuale del portello della camera d'equilibrio, ora spalancato, era una grossa maniglia rossa, deliberatamente assai appariscente, girata a sinistra a un angolo di trenta gradi, sul lato opposto della stiva. Gli orecchi gli schioccarono di nuovo. I suoi sensi facevano squillare segnali d'allarme, ma lui li soppresse tutti e si lanciò attraverso la stiva verso la leva rossa della chiusura ermetica.
A metà percorso qualcuno lo affrontò.
La figura in tuta spaziale lo sbatté all'indietro dentro la stiva, cercando di afferrare il suo tubo dell'aria. Carl si contorse, riuscendo a liberarsi e ad allontanarsi con uno scatto.
Naturale. Ovvio. Linbarger aveva messo qualcuno fuori, per ispezionare i mech a mano a mano che arrivavano per essere certo che non ci fosse nessuno aggrappato al loro ventre. Inoltre, da quella posizione l'uomo poteva sorvegliare anche l'interno della stiva.
Idiota! si rimproverò Carl per non averlo previsto.
Mancavano novanta secondi.
Si separarono, entrambi andando alla deriva per l'asse lungo della stiva. Ci sarebbero voluti dieci secondi prima che l'uno o l'altro toccassero una parete. L'uomo in tuta spaziale agitò le braccia per regolare i suoi getti e cambiò direzione, muovendosi agilmente fra Carl e la vistosa maniglia rossa.
Carl non aveva alcun dubbio che l'individuo fosse in grado d'impedirgli di raggiungere la leva, per un buon minuto o giù di lì. L'ortho aveva i getti, l'aria e tutto il tempo di questo mondo.
Dannazione. E fa anche freddo, per giunta. Carl si contorse, cercando qualcosa, qualsiasi cosa.
Ecco. Una serie di utensili. Planò fino alla rastrelliera, vi si agganciò saldamente, si stiracchiò, e agguantò una chiave inglese automatica. Mirò con cura la figura a dieci metri da lui, e la scagliò.
Mancò l'uomo di un buon metro. Carl riuscì a vedere il volto dell'altro che si apriva in un ghigno sardonico, le labbra che si muovevano, descrivendo il tutto, con ovvio compiacimento, a quelli che si trovavano sul ponte della Edmund.
Il che era proprio quello che Carl voleva. Il lancio di quella pesante chiave inglese gli aveva dato un'altra spinta: scivolò lungo la stiva, ruotando come un mulino a vento, e cambiò assetto per assorbire l'impatto con le gambe.
Dov'era quel dannato…
Si lanciò verso di esso. L'estintore si staccò con facilità dai suoi morsetti. Carl puntò l'ugello verso i suoi piedi e l'attivò. Una nube bianca perlacea si gonfiò sotto di lui e Carl schizzò attraverso la stiva, senza ancora avvicinarsi alla leva rossa dello sblocco. Gli orecchi gli schioccarono una volta ancora. Macchie purpuree gli danzarono davanti agli occhi, trasformandosi in tante lucciole…
Colpì la parete opposta, questa volta impreparato. Una maniglia gli si piantò nelle costole.
Dov'era…? Si lanciò verso l'uomo, cavalcando un getto di schiuma. Giusto a metà strada si contorse come un gatto, puntando l'ugello dell'estintore davanti a sé, e di colpo l'aprì al massimo.
Azione e reazione. Rallentò, si fermò, e la bianca nube schiumeggiante lo avvolse. Schizzò via di nuovo, sfrecciando all'indietro, fuori dalla nube che si andava assottigliando.
Dovunque, un colore purpureo che si andava oscurando. La cruda luce delle lampade degli ormeggi non riuscì a penetrarlo…
Adesso, prima che quella nebbia ribollente si schiarisse, si girò di nuovo e schizzò una volta ancora. Volò attraverso un vuoto biancore, e colpì qualcosa di morbido, cedevole.
Afferrò l'uomo con un braccio, calando su di lui l'estintore. Delle mani cercarono di ghermirlo, artigliandogli la maschera che aveva sul viso.
Spinta, direzione…
Quale… quale mai?
Non aveva importanza. Premette l'ugello contro l'uomo e schiacciò di nuovo il pulsante.
Una nuvola di gas grigio.
Freddo, così freddo…
… una mano gigantesca che lo spingeva indietro…
Un lungo istante di planata… l'estintore gli sfuggì di mano… le mani intorpidite… rotolava via… avvertiva un freddo dolore alle gambe… era impossibile vedere… quel colore purpureo diventava sempre più scuro… chiazzato di macchie bianche simili a sciami di api che sfrecciavano dentro e fuori… dentro e fuori… roteando…
… poi una dolorosa fitta alla gamba lo fece trasalire, un crac quando il suo cranio colpì il ponte.
La botta ridestò di colpo i suoi sensi sopiti. Artigliò l'aria alla ricerca di un appiglio. Sollevò lo sguardo.
La nebbia si stava diradando. Appena fuori della camera di equilibrio Carl riuscì a vedere la figura in tuta spaziale che si dimenava, rimpiccioliva, cercando di riorientarsi per poter usare i propri getti. Un grazioso insetto argenteo…
La spinta dell'ultimo impulso aveva operato con uguale efficacia per entrambi, spingendo Carl verso l'interno e l'altro uomo verso l'esterno.
Carl si lanciò verso la maniglia rossa. L'afferrò, la tirò. Il portello si chiuse proprio un attimo prima che il suo avversario lo raggiungesse, e il forte rombo dell'aria ad alta pressione risuonò dappertutto come uno strombettante e rude grido di festa.
— Ce l'ho fatta — annunciò Carl dentro il suo comunicatore. — Le valvole sono bloccate. — Ansimava nell'aria viziata e odorante d'olio del cilindro pressurizzato.
— Bene! — gli rispose Ould-Harrad all'orecchio. Adesso non c'era nessuna indecisione, nessun fatalismo nella sua voce. — Linbarger, hai sentito?
— Cosa sta blaterando quel somaro? — giunse la risposta di scherno del capo degli ammutinati.
— Carl Osborn ha intasato i condotti di alimentazione della fusione — scandì Ould-Harrad, in tono deciso.
La voce di Helga Steppins risuonò sullo sfondo: — Porco fottuto, ti avevo detto di coprire i tubi di prua!
Ancora più lontano: — Dev'esserci strisciato attraverso la sezione 3F. Merda, non possiamo coprire ogni più piccolo…
— Chiudi il becco. — La voce di Linbarger divenne più forte quando si rivolse a Ould-Harrad: — Lo staneremo di là facendolo sudare.
— Provaci, e scarico il trizio nell'impianto di ventilazione — replicò Carl con voce tesa.
— Cosa? — Linbarger riuscì a malapena a dominare la collera. Volle sapere da un invisibile luogotenente: — Può farlo?
Una risposta in distanza: — Non so… Sì, se aprisse quei condotti pressurizzati che portano alla riserva del nucleo. Potrebbe aver avuto il tempo di farlo.
— Senza trizio da bruciare, la vostra pila a fusione non raggiungerà la temperatura d'innesco — aggiunse Carl a mo' di aiuto, sogghignando.
— Tu…! — La comunicazione con Linbarger cessò.
Carl si contorse, girandosi, e si accertò che l'ingresso alle sue spalle fosse bloccato da un robusto armadietto. Aveva piazzato due chiavi inglesi dal lungo manico nei due punti cruciali per la pressione, pronto ad aprire le valvole, spaccandole. Potevano arrivargli addosso da dietro, ma lui sarebbe riuscito a spruzzare un bel po' di fluido prezioso nello spazio esterno prima che riuscissero a bloccare di nuovo le valvole. Certamente quanto bastava a mandare a monte il loro progetto.
— Sei sicuro di poterlo fare, Osborn? — chiese con cautela Ould-Harrad.
— Sì. — Cosa vuoi che ti risponda? No? Con Linbarger che sta ascoltando?
— Be', questo ci offre senz'altro una miglior posizione per negoziare…
— Negoziare un corno! Li abbiamo per le palle.
— Se dovessero arrivarti addosso abbastanza in fretta, forse riuscirebbero a conservare abbastanza trizio da riuscire ad attuare un sorvolo multiplo di Marte. Tirare a sorte per decidere l'assegnazione dei nove loculi che hanno adesso. Poi…
— Piantala con questa merda. — Su, avanti, dagli qualche altra idea.
— Sto soltanto…
— Ho detto piantala!
— Sto cercando d'impedire…
— Non sei tu che rischi da questa parte, Ould-Harrad.
Si girò di scatto, lo sguardo sui condotti di alimentazione che si dipartivano sulla sinistra scomparendo in distanza. Se qualcuno avesse cercato di arrivare da quella parte strisciandoci dentro, avrebbe potuto cercare di sparargli. Ma sarebbe stato stupido, proprio nel mezzo del nucleo della fusione. Se avessero danneggiato quegli infissi, avrebbero impiegato settimane per sostituirli, sempre che avessero potuto farlo.
Linbarger disse con voce cupa: — Mi senti su questa linea, Osborn?
— Sono proprio qui, a soli cento amichevoli metri di distanza.
Silenzio. Poi la voce stridula e tesa di Linbarger scandì lentamente: — Attiveremo l'interruttore di emergenza se non te ne vai.
Carl trattenne il respiro, poi lo esalò lentamente. Quella era l'unica alternativa che non aveva menzionato a nessuno. Non era un'idea brillante, poiché l'impianto di emergenza poteva fare danni assai seri se fosse stato usato nella maniera sbagliata… e Linbarger non aveva nessuna esperienza in proposito. Ma aveva visto la possibilità di «friggere» Carl quando i fluidi roventi fossero schizzati attraverso quella rete di tubi. E Linbarger era abbastanza disperato da farlo.
Carl rispose, con tutta la calma di cui fu capace: — Brucerai tutto, quaggiù.
— No, se faremo attenzione. Non ci vorrà molto fuoco di fusione per cucinarti e ridurti a una bella vetrificazione azzurra. — Era chiaro che Linbarger se la stava spassando da matti, pensando di aver rovesciato la situazione.
— Scaricherei lo stesso il trizio. — Adesso vediamo quanto ne capisce.
— No, non lo farai. I sottosistemi bloccheranno quei condotti non appena cominceremo a farlo. È automatico… è specificato proprio nei piani della nave.
Maledizione. — Non è così che funzionerà. — Bluff.
— Non cercare di raccontare balle a me.
Linbarger era più abile di quanto Carl avesse pensato. Ma non avrebbe vinto.
— Non tornerete mai sulla Terra. Già così siete scarsi di trizio. Ne scaricherò quel che basta per essere sicuro che farete un lungo viaggio. Non riuscirete mai a incocciare l'accelerazione giusta per un rimbalzo con Giove. Anche con i colombari, morirete lo stesso di fame.
— Abbiamo gli idroponici.
— Sicuro, ma niente acqua extra per farli funzionare.
— C'è il ghiaccio di Halley subito fuori di qui.
— Provate a uscir fuori. — Carl lasciò intuire cosa sarebbe successo. — Ehi, Jeffers, dov'è andato a finire quell'archista che ho soffiato fuori dal portello?
— Quale archista? Vedo solo pezzettini qua e là.
Silenzio.
Questo pan per focaccia non poteva andare avanti per molto tempo ancora. La voce di Linbarger stava diventando sempre più sottile e spenta. Le parole venivano sparate fuori troppo in fretta, schizzavano sotto la pressione del momento.
Carl serrò i muscoli delle mascelle, chiedendosi se credere o no alle proprie parole. Se Linbarger avesse agito, sarebbe stata una questione di secondi, per lui. Carl avrebbe dovuto scegliere se lanciarsi verso il boccaporto di poppa e cercare di fuggire, oppure usare le chiavi inglesi. Non c'era tempo per tergiversare…
— Stai mentendo. — Adesso Linbarger non appariva più tanto sicuro.
— Vai a farti fottere.
— Non faresti…
— Comincio a scaricare il trizio, adesso.
— No! — esclamò Ould-Harrad. — Non permetterò che arriviamo a questo. Avevamo raggiunto un accordo…
— E tu hai fatto il doppio gioco! Amante dei percell! — abbaiò Linbarger.
Ould-Harrad ribatté: — Non potevo permettere che quell'attrezzatura per gli idroponici venisse portata via. Vi eravate rifiutati di capirlo.
Carl intervenne, caustico: — Non scusarti con quella feccia.
— Carl — disse Ould-Harrad, — devo chiederti di fermarti…
— La festa è finita — esclamò Carl. — Linbarger, arrenditi!
— Credo che ti farò assaggiare un piccolo impulso di robetta calda, Osborn. Potrebbe insegnarti un po' di buone maniere.
— Nell'istante stesso in cui sentirò un gorgoglio attraverso quei tubi, testa di cazzo di un archista, io…
— Basta, tutti e due! Dobbiamo trovare un accordo! — La voce dell'africano era frenetica.
Un lungo silenzio. Carl cercò d'immaginare quello che doveva passare attraverso la testa di Linbarger. A quanto pareva quell'uomo era riuscito a nascondere al Comitato Psichiatrico il suo odio frenetico nei confronti dei percell. O forse era semplicemente impazzito. Adesso era in grado di ragionare, dimenticandosi l'odio, cercando di essere almeno in parte razionale?
Dannazione! Hanno perso. Possibile che Linbarger non lo capisse? Oppure avrebbe dato la sua preferenza al momento della vendetta? E lui, Carl, l'avrebbe saputo da un sussurro nei condotti…
— D'accordo. — La voce di Linbarger era raschiante, acida.
Ould-Harrad rispose: — Cosa? Sei d'accordo?
— Scambieremo gli idroponici per il trizio e i colombari.
— No! — urlò Carl. — Li abbiamo in pugno!
— Zitto, Osborn! — gridò Ould-Harrad.
— L'alternativa — proseguì Linbarger, lentamente, — è che io faccia saltare in aria la Edmund Halley. È meglio… noi qui siamo tutti d'accordo… meglio una morte rapida piuttosto che…
Carl provò un brivido gelido nell'udire quella voce biascicata, folle e gracidante. Era del tutto convincente. Parla sul serio, pensò.
— Gesù — bofonchiò.
Prima la morte del suo capitano. Adesso la Edmund.
Finalmente, Ould-Harrad parlò: — Noi… faremo lo scambio.
Cos'è uno spaziale senza una nave spaziale? si chiese Carl, stordito. Cosa saremo noi, una volta che la Edmund se ne sarà andata? Era troppo orribile anche soltanto pensarci.
— Potete scaricar fuori la roba degli idro — disse Linbarger. — Fate uscire Osborn da lì e io regolerò i mech perché lo facciano.
— No. Io rimango qui finché non sarà stato fatto.
Un altro silenzio. — Bene… — Un'altra animata discussione fitta di sussurri. Alla fine: — Va bene. Potete usare quei mech per staccare il modulo della serra principale come unità a se stante. Fate in fretta… altrimenti friggerò quello stronzo di percell.
Carl lasciò andare un lungo, lento respiro. Il pensiero che aveva represso durante tutti quei lunghi minuti, che aveva continuato a pungolarlo, eruppe finalmente in superficie. Perché lo fai? Potresti morire, imbecille! Adesso che l'aveva lasciato emergere, non trovava una risposta.
— Spicciatevi — disse, irritato.
Agitandosi, guizzando nella soluzione salina, le minuscole creature si muovevano qua e là, cacciando, sempre cacciando.
Certe sostanze, sapori, li attiravano verso l'equivalente di ciò che era dolce. Altre le respingevano. La scelta era sempre così facile, una logica di chimica trofica. A livello cellulare non c'erano sottigliezze, nessun futuro di cui preoccuparsi. Nessun passato che potesse ossessionare i sogni di qualcuno.
Saul era pensieroso mentre osservava le minuscole creature che pulsavano sotto il microscopio a fibre ottiche. Erano l'ultimo e il più potente dei nuovi sviluppi che aveva elaborato durante i due mesi trascorsi dall'ammutinamento. Bombe biologiche intelligenti per una guerra non voluta contro la cometa di Halley.
Così, tante regole secondo le quali era abituato a vivere (codici di lenta cautela quando si effetuavano esperimenti con cose del genere) erano state accantonate per arrivare a quel punto. Invidiava quei piccoli microbi, in un certo senso, giacché essi si sarebbero comportati com'erano stati programmati a fare, ma lui, il loro «creatore», si ritrovava con il suo carico di dubbi e di mistero.
No, è naturale che voi non vi preoccupiate, piccolini. Il senso di colpa è un lavoro di squadra, una caratteristica dei metazoi eucariotici, un ampio assembramento di cellule che congiurano fra loro, raccolte insieme per formare uomini e donne, società… dèi.
Guardate me, che mi arrabatto con ciò che capisco appena, con la discutibile scusa che tutte le nostre vite umane dipendono da questo. I cianuti avevano dietro di sé tanta storia quanto lui. I loro minuscoli antenati avevano passato ben più di tre miliardi di anni ad evolversi nelle acque della Terra. Poi, pochi milioni di anni prima, si erano adattati per assumere un modo diverso di vita in un'altra zuppa salata: i fluidi corporei di creature complesse con grandi cellule nucleate.
Quante migliaia di miei antenati hanno ucciso, per stabilire quella prima testa di ponte? Quanti triliardi di loro, sull'altro lato, sono stati combattuti e respinti dai sistemi immunitari dei miei progenitori, attaccati dagli anticorpi e trasportati alla loro distruzione, oppure avviluppati e digeriti dai globuli bianchi? Quanto tempo c'è voluto perché venisse finalmente dichiarata una tregua… perché l'evoluzione elaborasse una pace negoziata, una simbiosi?
Era una domanda senza risposta. Ma a un certo punto del passato un essere umano e qualche ancestrale cianuto avevano raggiunto un accidentale accordo. In cambio d'una poco importante funzione di pulizia nella cavità polmonare, a quelle creature era stato garantito un salvacondotto dal sistema immunitario del corpo. Si erano insediati vivendo un'esistenza innocua, così innocua che in effetti non erano stati scoperti fino agli ultimi pallidi giorni del secolo precedente.
Nella nostra saggezza abbiamo voluto metterci lo zampino, trasformandoli in «cianuti». E, il cielo mi perdoni, non me ne vergogno affatto. Cento fra uomini e donne hanno consacrato mezzo decennio della loro vita per modificare i frutti di quattro giga-anni di evoluzione. Ottenuto uno speciale permesso, abbiamo usato gli strumenti di Simon Percell, e abbiamo forgiato una cosa bella e utile.
Ma questo!
Le creature sullo schermo erano state cambiate ancora di più, erano stati dati loro nuovi e frastagliati rivestimenti di proteine, erano state sforbiciate e modificate con catene molecolari progettate su misura, analizzate e rianalizzate da «enzimi lettori»… deformate dagli stimoli di un'emergenza che nessuno aveva previsto.
Per fare quel lavoro c'erano volute soltanto otto settimane dal giorno dell'ammutinamento. E, salvo per Virginia e il suo famiglio biocibernetico, e qualche incerto suggerimento da alcuni coraggiosi colleghi sulla Terra, non aveva avuto nessun aiuto.
Secondo tutte le leggi della biologia non avrei dovuto affatto riuscire, non senza una squadra di ricercatori e migliaia di ore di accurata simulazione. Milioni di test. Montagne di fortuna.
Lo sapevo anche troppo bene!
C'è da stupirsi che abbia anche soltanto tentato.
Gli occhi di Saul guizzarono sopra quei display di dati che scorrevano davanti, vedendo soltanto il successo. L'uniformità della cosa lo rendeva più nervoso di qualunque difetto. Era troppo perfetto.
Ho prelevato dal mio sangue sia i cianuti che hanno fatto da campione che le unità di lettura. I dati di quelle linee arrivano fino a cinque anni fa e oltre.
Ci sono elementi della vita di Halley nella nuova forma… Ho dovuto includerli.
Saul scosse la testa. Non riusciva a vedere come ciò avrebbe spiegato questo suo successo così opportuno.
Alla sua sinistra, una delle ultime simulazioni a colori di JonVon continuava a rigirare senza sosta una complessa catena frastagliata.
Quell'intricato composto zuccherino era sconosciuto nella casistica. La notte prima, mentre teneva Virginia stretta a sé, le aveva detto che l'Accademia della Terra voleva dargli il suo nome.
— È un grande onore, no? — gli aveva chiesto lei con voce sonnolenta. Il cavo che usciva fuori serpeggiando dal suo connettore neurale pareva una treccia di capelli e non interferiva affatto.
Lui aveva sorriso e le aveva accarezzato le ciocche lustre — Sicuro. Hanno anche ripristinato la mia associazione. Ma dare il mio nome a una sostanza chimica…
— Non vuoi che lo facciano? — gli aveva chiesto Virginia.
— Diavolo, no! — Si era messo a ridere. — Pensa al povero Thomas Fruck, con il suo nome legato per sempre al fruttosio!
Era troppo addormentata e languida a causa degli slanci amorosi per riuscire a fare qualcosa di più che allungare la mano dietro di sé e dargli un pizzicotto per l'affronto di quella battuta.
SERIAMENTE, DOVREI SUGGERIRE UN NOME, aveva subvocalizzato. A quel punto JonVon conosceva abbastanza bene le loro reti di superficie da riuscire a esprimersi con parole chiare per la maggior parte del tempo. Saul aveva sentito riecheggiare l'indulgenza di Virginia, amplificata, alla stessa maniera con cui il suo ardore sessuale e l'acme orgasmica si erano impressi nella sua mente qualche tempo addietro, come esplosioni che cercavano di scardinargli la superficie del cranio.
— Uhmmmm — borbottò. Aveva sentito che Virginia stava sprofondando nel sonno.
… COM-ETOSO… o COM-ATOSO… era arrivato il suo suggerimento.
Saul era rimasto talmente offeso da quella orribile battuta, che non gli era neppure venuto in mente fino a qualche tempo dopo che quando l'aveva sentita Virginia doveva già essersi addormentata.
Qualunque fosse il suo nome, la chiave era il composto zuccherino… la dolcezza che aveva usato per forgiare un cannone di marzapane.
Il pazzo disperso, Ingersoll, ormai una leggenda delle caverne più basse, gli aveva dato un'idea. Non molto tempo dopo che aveva intravisto quell'uomo cibarsi delle forme di vita di Halley nei corridoi esterni, aveva fatto qualcosa di dichiaratamente folle: aveva assaggiato lui stesso un po' di quella vegetazione che cresceva sulle pareti.
L'aveva trovata dolce, pungente, come gocce di limone.
Saul si era affidato a un'intuizione. Aveva cominciato alcuni esperimenti. Ed eccoli qui, i nuovi cianuti. Erano ancora capaci di svolgere i loro vecchi lavori, ma adesso erano voraci anche nei confronti di qualunque cosa avesse dei particolari zuccheri complessi… verso qualunque invasore mostrasse abiti con l'etichetta «Halley».
Sullo schermo le minuscole creature si ammassavano dove dei fattori rivestiti di agenti virali cometari scorrevano fuori dalla punta di un ago. Gli strumenti mostravano che si stavano ingozzando gioiosamente, moltiplicandosi con abbandono.
Avevamo proprio bisogno di una buona notizia.
Oh, le forme di vita di Halley si sarebbero adattate, evolute. Quella non era la conclusione: ce ne sarebbe stata di strada da percorrere. Ma pareva che quel periodo di panico acuto fosse finalmente finito.
Cosa mi sono perso? si chiese Saul con ansia, perplesso. Come mi è stato possibile far questo?
Suonò un campanello. Ogni cosa combaciava. Saul tirò fuori la provetta dei cianuti che avevano superato pienamente il test. La planata dal suo laboratorio all'infermeria era breve. Qui, lungo le opposte pareti, due file di umani erano in attesa di venir accudite dai due tecnici medici in servizio.
Una delle file era più corta dell'altra, ma Saul non vide nessun ortho spostarsi per mettersi nella fila dei percell. Ould-Harrad non avrebbe mai dovuto permettere che si sviluppasse questo sistema di segregazione.
La gente non rimaneva vicina più del necessario. Nessuno era sicuro di come si fossero trasmesse le malattie cometarie. C'erano state risse per un semplice raffreddore… o per il fatto che un uomo aveva usato il casco spaziale di un altro senza averne il permesso.
E durante i periodi di visita ai malati erano molti quelli che si presentavano fingendo sintomi inesistenti, cercando di sfuggire al massacrante lavoro ed alle malattie mortali rifugiandosi nei colombari.
Be', per lo meno le file sono più corte di quanto lo erano alcuni mesi or sono. Prima, la rabbia nei confronti degli ammutinati li aveva distratti un po'. E l'eroismo di Carl Osborn aveva soppresso le liti fra ortho e percell. Tutti i «normali» sapevano di dover la vita a un percell.
Ora, se soltanto questi nuovi cianuti funzionassero bene quanto indicano i primi test…
La porta di una cabina in fondo all'infermeria si aprì, e ne uscì una donna che sorrise, salutando Saul con un gesto della mano. Marguerite van Zoon pareva quasi una persona diversa. Erano sparite le devastazioni che avevano lacerato la sua pelle due mesi prima. Aveva ripreso il suo lavoro di medico, lasciando libero Saul di dedicarsi alla ricerca.
Il sorriso di Saul scomparve quando vide la paziente di Marguerite: una giovane donna con addosso la grigia divisa della nave, la quale passò accanto alla dottoressa e si affrettò verso l'uscita coprendosi il lato del viso con un pezzo di stoffa. Anche voltando la testa dall'altra parte, non riuscì a nascondere del tutto un luccicante esantema rosa.
— Lani! — bisbigliò Saul, sgomento.
Aveva sperato che la diagnosi di Marguerite si rivelasse sbagliata, ma non potevano esserci equivoci sui sintomi del Vaiolo Fulminante.
— Lani? — chiese. Ma lei si affrettò a proseguire senza sollevare lo sguardo. Quelli di entrambe le file si scostarono mentre passava.
Oh, Lani.
Era una di quelle malattie che, finora, si erano mostrate resistenti a qualunque rimedio uscito dal laboratorio. Perfino con la sua recente sfilza d'incredibili colpi di fortuna.
Era davvero ironico. Mentre altri lottavano per tornare dentro i colombari, Lani aveva chiesto di essere lasciata sveglia. Ma la decisione era stata presa. Il suo raffreddamento era già stato programmato per dopodomani.
Carl si è comportato da vero sorcio con lei pensò Saul. Se non sarà presente alla colombarizzazione di Lani, un pugno sul naso non glielo toglie nessuno.
— Dottor Lintz!
Keoki Anuenue, il tecnico medico che si occupava della fila più corta, quella dei percell, si alzò in piedi quando Saul attraversò la sala d'aspetto. L'hawaiano lasciò temporaneamente un uomo dagli occhi opachi i cui orecchi erano pieni zeppi di cotone, il quale si schiaffeggiava un lato della testa ogni pochi minuti come se stesse cercando invano di far cessare un violento scampanio.
Anuenue era eccezionale perfino per un hawaiano. Uno dei rari ortho che pareva del tutto dimentico sia della malattia che della disperazione. Pareva non dormisse mai. In qualunque momento Saul arrivasse, Keoki era già in servizio.
Esibì un ampio sorriso, indicando la provetta che Saul reggeva in mano, con la voce piena d'una fremente attesa quando gli chiese: — È l'ultima varietà di cianuto, dottor Lintz?
Pensa che io possa fare qualunque cosa. E lo stesso vale per Virginia. Saul scrollò le spalle. E dopo la fortuna che ho avuto, chi sono io per dissentire? Era una pensiero sardonico. Lui sapeva che stava accadendo qualcosa di misterioso che non aveva nulla a che fare con la sua abilità.
Gli porse la provetta.
— Ecco qua, Keoki. Trova dei volontari alla solita maniera. Soltanto casi disperati, all'inizio. Questi dovrebbero essere utili contro le infezioni ai gangli linfatici, come pure la sinusite uggiolante e la gonorrea rossa.
Anuenue s'impadronì impetuosamente del flacone. Fece per parlare, poi qualcuno in fila lungo la parete sinistra dette in un sonoro e improvviso sternuto.
Tutt'intorno, nella stanza, la gente alzò lo sguardo con aria accusatrice. Non stato io, stavolta ebbe voglia di discolparsi Saul. Come se fosse stata una molla, altri sternuti eruppero dal lato degli ortho, nella stanza. La fila si allungò mentre la gente metteva più spazio fra sé e gli eretici.
Saul fissò la fila dei geneticamente potenziati. I percell non sternutivano praticamente mai.
I percell prendevano le malattie come chiunque altro. Saul aveva cercato di spiegarlo più e più volte ai risentiti ortho. Se un viroide o altri microbi cometari erano l'agente di una infezione fulminante, impestavano imparzialmente gli uni e gli altri.
Ma il corpo dei percell non eccedeva nelle reazioni. I loro gangli linfatici potevano anche ingrossarsi mentre il sistema immunitario del corpo faceva la guerra agli invasori, ma il processo era autolimitante. Non si gonfiavano come palloni per poi morire a causa delle loro difese troppo smaniose di agire.
Simon pensò Saul. Questo era il dono del quale andavi più orgoglioso, anche se aveva sconcertato anche te… il fatto che ogni bambino sul quale avevi operato avesse in qualche modo beneficiato dello stesso potenziamento, qualunque fosse la malattia genetica alla quale stavi lavorando.
La cosa aveva sorpreso tutti, là a Berkeley. Avevano usato analizzatori automatici e chirurgia molecolare per eliminare i geni nocivi dallo sperma e dagli ovuli di una coppia che voleva disperatamente dei figli. Ma pochi si erano aspettati che i bambini usciti da quelle cellule microriparate ne risultassero biologicamente potenziati.
È un dono che gli abbiamo dato. Un dono che comporta il terribile prezzo di essere diversi. — Saul!
Una voce dal lato opposto dell'infermeria. Saul sollevò lo sguardo e vide Akio Matsudo che lo chiamava con un cenno della mano dalla porta del suo studio.
Saul lanciò un'occhiata a Keoki Anuenue, il quale sorrise. — Vada pure, dottore. Troverò io quei volontari, e la chiamerò prima dell'inizio dei test.
Saul annuì, nascondendo nel suo intimo più profondo la paura di ciò che, lo sapeva, sarebbe successo presto o tardi. Alla fine la sua bizzarra concatenazione di colpi di fortuna sarebbe finita. Uno dei suoi simbionti fabbricati su misura avrebbe ucciso, invece che salvarlo, il proprio ospite. E allora, non avrebbe avuto importanza quanto bene lui avesse fatto in precedenza, gli si sarebbero rivoltati contro.
Tutti.
Così come si erano rivoltati contro Simon Percell.
Come la folla scatenata che aveva incendiato un'università in cima ad una montagna tanto tempo fa e tanto lontano da lì.
— Mai kii aku i kauka hupo — disse, rivolto a Keoki.
Non andare da un dottore ignorante.
Il grosso hawaiano ammiccò più volte per la sorpresa, poi si lasciò andare all'indietro, dondolandosi e scoppiando in una fragorosa risata. Il frastuono era così abbondante, così contagioso, che parecchi di quelli che erano in fila sorrisero senza saper bene il perché.
— Vengo, 'kio — gridò Saul rivolto a Matsudo. — Sono subito da te.
I pendii coperti di neve del monte Asahi erano simmetrici almeno quanto i pini verdi che costellavano i suoi fianchi più bassi. Le nuvole, simili ad imbarcazioni di carta di riso, passavano via galleggiando su uno strato invisibile d'aria… o di magia, salpando verso un sole al tramonto e un mare occidentale azzurro cupo.
Saul era contento di poter osservare la climaparete di Akio Matsudo, forse la migliore di tutta la colonia. Invero, fino a quando Virginia non fosse smontata dal suo turno di due ore, quello era press'a poco il modo migliore con cui aveva pensato d'impiegare il suo tempo.
Meglio che lavorare pensò stancamente. Una volta tanto la sua mente non era un turbinio d'idee, il prossimo esperimento da tentare, il prossimo indizio da rintracciare. Stava seduto alla maniera dello zazen, pensando meno che poteva.
Qualcosa che noi occidentali abbiamo imparato dall'Oriente… che la bellezza può essere trovata nelle cose più piccole.
Il servizio da tè in terraglia bruno-arancio era stato portato fin lì dalle sponde del Mare Interno, le sue ruvide superfici riflettevano i colori della luce del tardo pomeriggio in una maniera che non poteva esser descritta, soltanto ammirata. I segni della plasmatura sulla tazza davanti a Saul parevano essere stati impressi dallo stesso tornio sul quale aveva ruotato la Creazione, contemporaneamente ai pianeti e al Sole.
Incantato, Saul sollevò lo sguardo quando Akio Matsudo parlò.
— L'attesa varrà la pena, Saul. Abbi pazienza.
L'attesa? pensò Saul. Era questo che stavo facendo?
I punti illuminanti fra i neri, lucidi capelli del medico giapponese risplendevano come i ghiacciai del monte Asahi, mentre si dava da fare con il tè, commentando le difficoltà di far bollire l'acqua nella maniera giusta in quella bassa gravità, con la convezione indebolita e tutto il resto. Per Saul la voce dell'amico era tutt'uno con il frusciare dei pini.
— Adesso verserò — intonò Akio, e sollevò delicatamente la tazza. Saul non aveva fretta di discutere di affari. Una volta che la cerimonia fu terminata, e il tè fu versato, chiacchierarono un po' su questioni di secondaria importanza, l'ultima novità nel campo della filosofia matematica sulla Terra, e le curiose proposte enunciate dai teologi marxisti di Kiev. I giornali specializzati ne avevano parlato in abbondanza, e si chiesero entrambi ad alta voce cosa avrebbe detto Nicholas Malenkov di tutto questo.
Pareva che adesso la salute di Akio fosse molto migliorata. Era stato un dei primi volontari di Saul, a prendere una delle prime versioni dei cianuti riprogrammati. O questo, oppure soffrire in maniera permanente a causa dell'infezione che gli stava riducendo a brandelli il fegato. Adesso il suo pallore giallognolo era scomparso. Aveva riguadagnato il peso perduto. Ben presto, avrebbe perfino smesso di usare il ribilanciatore meccanico endocrino che l'aveva tenuto in vita.
Saul era molto soddisfatto di vedere il suo amico così arzillo e di nuovo in salute.
Sono stato in grado di aiutare Virginia, e Marguerite, e Akio. Forse, più tardi, potremo fare qualcosa per Lani e Betty Oakes, e così per molti altri.
Il ricordo di Miguel Cruz era ancora un dolore acuto. Più di qualunque altro, c'era bisogno del loro comandante. Ma c'erano limiti a ciò che Saul si aspettava di riuscire a fare, indipendentemente dalla fortuna che aveva.
Akio Matsudo mise giù la tazza e si tolse con attenzione gli occhiali per pulirli. — Saul, amico mio, perdonami la mia franchezza. Ma credo che, forse, dovrei spiegarti perché ti ho chiesto di venire qui, oggi. Credo che per te sia giunto il momento di entrare nel colombario.
Saul mise giù la tazza. Akio sollevò le mani.
— Prima che tu protesti, per favore, lascia che ti spieghi. Ci sono molte, moltissime ragioni. — Sollevò un dito. — Il Primo Turno avrebbe dovuto durare soltanto poco più di un anno. Questo mese ricorre l'anniversario della colonia. E tu sei stato uno dei civili svegli per tutto il viaggio verso l'esterno, sulla Edmund. Stai perdendo parte del tuo arco di vita. È ingiusto nei tuoi confronti, anche perché ne hai meno da sprecare di quei giovani là fuori.
Saul sbuffò. — Cosa c'è, Akio? Potremmo essere passati attraverso la parte peggiore, ma l'incubo collegato con il problema del personale non è ancora finito. Con tutta la gente che abbiamo dovuto tirar fuori, colombarizzare terminalmente, e perfino immagazzinare sotto vuoto fuori in superficie, è chiaro che i turni dovranno essere più lunghi del previsto. Sai che quel tuo discorso è un sacco di cacca.
Matsudo trasalì per la schiettezza di Saul.
— Sìiii. — Il suo accordo risuonò più come un sibilo represso di disapprovazione. — Forse. Ma devo dirti che Bethany Oakes mi ha fatto promettere, prima che lei stessa venisse colombarizzata, che tu saresti stato messo via se i tuoi sintomi fossero peggiorati.
— Non sono affatto peggiorati — borbottò Saul. — È soltanto un altro brutto raffreddore. Credo sia ancora un residuo di uno dei tuoi dannati virus-sfida. Lo capisco dal modo in cui mi prude prima dello sternuto.
Sapeva bene che non era così, naturalmente. C'era roba della cometa dentro di lui, dai viroidi ai batteroidi latenti. Alcune delle varietà non utilizzavano il complesso zuccherino di Halley, e perciò erano senza alcun dubbio invulnerabili alle sue nuove pallottole d'argento.
E sono più vecchio della maggior parte di loro. Potrebbe darsi che questo mi renda più vulnerabile.
Per un attimo, quello stordimento contemplativo minacciò di tornare. Quella conversazione gli aveva ricordato una bizzarra sensazione che aveva provato, alcuni giorni prima, nell'esaminare un campione del suo stesso sangue… la sensazione che qualcosa…
Scosse la testa. No, questo è… Cercò un'espressione yddish, e non ci riuscì. Fesserie. Buone vecchie fesserie anglosassoni. È la sola definizione possibile.
— C'è una seconda ragione importante. — Matsudo spremette fuori una seconda tazza di tè giallo-bruno per ciascuno di loro e le coprì. — A causa dell'ammutinamento, lo sforzo disperato di quest'anno sarà costruire delle serre in superficie, e delle fattorie giù nella cavità Tau. Le cupole idroponiche della Edmund devono essere tenute in vita fino a quando non verranno installati dei nuovi impianti per la produzione del cibo. È per questo che Evans viene scongelato in questo momento. È il miglior ecologo di tutta la spedizione, e Svatuto esce dal colombario come suo secondo.
Saul notò l'espressione addolorata di Matsudo quando doveva nominare la Edmund. Da evitare ancora di più era qualunque citazione della Newburn. Durante tutto il tempo trascorso da quando gli ammutinati erano partiti, Saul non aveva sentito una sola volta qualcuno pronunciare il nome della perduta chiatta-colombario, la quale adesso appariva del tutto fuori dalla loro portata e sempre più distante ad ogni giorno che passava.
— Sì? Allora sarà bello consultarsi con Evans. Ci sono alcune faccende riguardanti le forme di vita di Halley dove un ecologo può essere di aiuto. Non sono certo di poter accettare ancora la vostra vecchia spiegazione.
Akio guardò verso la scena del sole al tramonto sopra il mare a occidente. Le nubi erano diventate arancione e nere, talmente belle da mozzare il fiato.
— Mi hai frainteso, Saul. Questo significa che sui tempi lunghi avremo più medici svegli di quanto sia corretto, per più di quaranta turni. Svatuto è un clinico migliore di te, comunque. Questo lo sai, Saul.
Saul scrollò le spalle. — È per questo che mi sono dato alla ricerca — disse, allungando la mano per prendere il fazzoletto. — Non posso… non posso sopportare i malati. — La stanza parve barcollare, Saul scosse vigorosamente la testa. Poi si girò di lato e sternuti.
Matsudo ebbe un leggero sussulto, poi sorrise. — Nessuno lo fa così drammaticamente. È quella semitica profondità del naso, suppongo. Seriamente, Saul: questa è un'altra ragione. Perdonami, ma tu scombussoli ogni cosa. La gente teme i tuoi sintomi rumorosi e sgocciolanti, pur rispettando il tuo genio. Il tenente-colonnello Ould-Harrad e altri pensano ce sarebbe meglio per tutti se tu ti riposassi per un po'.
Saul scosse la testa. — Soltanto adesso mi sono reso conto che stai parlando seriamente, Akio. Proprio quando il mio lavoro sta… — Si fermò, incapace di trovare delle parole per descrivere quanto bene stessero andando le cose in laboratorio.
Poi c'era anche Virginia. Il suo amore è la cosa migliore che mi sia capitata da dieci anni a questa parte.
Quella telempatia sperimentale, simulata, che condividevano grazie alla sua ardita, poco convenzionale biocibernetica, era a modo suo eccitante almeno quanto il suo lavoro nella bioingegneria. Stavano entrambi compiendo cose che avrebbero scosso le fondamenta di una mezza dozzina di discipline! Diamine, soltanto durante la scorsa settimana aveva ricevuto dei messaggi da quel vecchio irritabile di Wallin, a Oxford, e perfino dall'altero e al di sopra delle parti Tang, a Pechino…
— Questo non sminuirà i tuoi successi — aggiunse in fretta Matsudo, cercando di quietare Saul. — In effetti, hai compiuto meraviglie, meraviglie! Trovo i tuoi metodi snervanti, come ben sai, ma non posso discutere con il successo. Se qualcuno di noi sopravviverà, in misura non piccola ciò sarà grazie a te.
Saul scosse la testa. — C'è dell'altro da fare! Dobbiamo verificare se le procedure…
— Ed io insisto a dire che tu sottovaluti i tuoi successi — sibilò l'alto giapponese.
Akio doveva essere molto agitato. Quella era la prima volta, per quanto ne sapeva Saul, che interrompeva qualcuno. Deviò lo sguardo e riprese: — Scusami, per favore. Ma ho fatto delle simulazioni ed il Controllo sulla Terra concorda. I più grandi organismi delle halleyforme, specialmente i purpurei, possono essere tenuti sotto controllo usando l'ultravioletto e i tuoi nuovi lanciaraggi a microonde. Adesso i fungoidi vengono controllati usando versioni più precise di entrambe le tecniche.
— E le malattie?
— Le malattie stanno diminuendo in maniera sensazionale in tutti quelli che hanno ricevuto i tuoi nuovi cianuti. I test mostrano che ci sono pochi casi davvero curati, ma il sistema immunitario del corpo è stato restituito alla sua piena efficienza.
— E allora…
— Allora, le tue tecniche serviranno a farci resistere! La gente si ammalerà, è vero. Qualcuno perfino morirà… ma con una velocità molto, ma molto inferiore.
Poi Akio fece qualcosa di molto raro. Guardò Saul direttamente negli occhi.
— Il tuo potere mi sgomenta, Saul Lintz — confessò con voce sommessa. — Un'altra ragione per cui devi venir colombarizzato è che non possiamo permetterci, semplicemente, di perderti. Ci aspettano trent'anni prima del duro lavoro all'afelio. E poi un periodo ancora più lungo. Ci saranno altre crisi. Nuovi batteroidi e viroidi adattati. Per favore, pensa a te stesso come ad una nostra arma segreta, la nostra riserva contro tutte le contingenze.
I suoi occhi lo stavano implorando, chiedendo a Saul di accettare, di non infliggere altre dosi della sua franchezza occidentale contro qualcosa che era già stato deciso.
Mi sta nascondendo qualcosa si rese conto Saul. Politica? Ordini dalla Terra?
Virginia aveva appiccicato insieme dei ritagli di stampe per lui, nei due mesi e più trascorsi dall'ammutinamento. Lui era stato troppo occupato per dare più di una semplice occhiata ai soffietti delle notizie, ma a quanto pareva alcuni tra i media stavano facendo di due particolari membri della spedizione di Halley delle celebrità.
Carl Osborn… e il sottoscritto. Laggiù siamo noi la sensazione del momento.
Possibile che le autorità sulla Terra possano permettersi di far durare così a lungo questa immagine popolare? Dir di sì a un individuo potenziato e a un ex collaboratore di Simon Percell nei titoli di testa?
Oh, che risate! Ho cercato l'oscurità e la sicurezza fuori nello spazio… e non ho trovato nessuna delle due.
Matsudo guardò di nuovo altrove. Saul seppe, allora, che quella era una faccenda decisa molto in alto, e non sarebbe servito a niente infliggere le sue proteste all'amico già fin troppo a disagio.
Aveva visto delle simulazioni assai migliori di quanto aveva fatto Matsudo, preparate con la logica stocastica di JonVon secondo i modelli da lui proposti. Matsudo aveva ragione: le cose stavano davvero migliorando… o per lo meno sarebbero andate male più lentamente per il futuro prevedibile. Saul aveva sperato che ciò avrebbe significato più tempo per studiare, studiare sul serio ciò che avveniva lì.
C'era assai di più in tutto questo di una lotta per la vita o la morte fra i coloni e gli organismi nativi. Molto, molto di più, e lui voleva scoprirlo.
Ma come si poteva combattere contro le autorità cittadine?
Forse potrei convincere Virginia a disertare insieme a me, dentro le gallerie. Brucheremo la roba verde, come Ingersoll. Saccheggeremo i contenitori degli animali, e scongeleremo qualche pecora per allevarla. Forse potremmo piantare sorgo giù nella 40 Sud e dire all'universo di andare all'inferno.
Quell'immagine ridicola lo fece sorridere suo malgrado.
— Mi servono tre mesi — disse, dando il via all'inevitabile tira e molla. — Ci sono esperimenti da tentare, e devo dare tutte le istruzioni a Svatuto. Inoltre Keoki e Marguerite hanno bisogno di altro addestramento prima che possa consegnar loro il laboratorio.
Matsudo scosse la testa. — Due settimane. È tutto quello che sono disposto a… tutto quello di te che posso rischiare ancora.
Saul sorrise. — Devo scrivere un manuale di addestramento per i turni futuri, su come maneggiare i cianuti e usare il disintegratore a microonde… Otto settimane, minimo.
Dopo un lungo silenzio, Matsudo sospirò la sua accettazione. — Temo per te, Saul. Ma sono anche egoista. Ammetto che sarà bello averti ancora per tutto quel tempo.
L'immunologo dai capelli neri fissò i pendii del monte Asahi. Il tramonto si dissolse in una notte purpurea. Nubi minacciose turbinavano con accenni di tuono.
— La carne è debole — concluse Akio Matsudo con voce sommessa. Si tolse gli occhiali per pulirli ancora una volta. — E ci si sente soli senza amici, quando cade soltanto la neve.
Mentre si avvicinava alla sala di preparazione del colombario, una delle sue poesie, se in verità meritano una definizione così pretenziosa!, irruppe nella sua mente come una corrente irrefrenabile:
Voi cavità muschiose
color sabbia, pelle solcata,
ossa ben adatte, una gabbia di calcio
per ospitare un cuore nel quale entrerei
e dimorerei
se solo avessimo giorni lenti ghiacciati.
Potrei rimare
il tic del tempo,
incorniciare pasti eleganti.
Niente primavera in Gehenna.
La fredda lunga orbita fin fuori
non ha potuto recidere gli anni
che ci rimangono.
Il tempo è un giusto azzardo,
giorni non ancora fatti.
Forse diminuiranno
a niente. Ma ci vedranno
allacciati
assieme nel sole.
Va bene, hai abbastanza coraggio da dirlo a JonVon. Adesso fallo.
Scivolò dentro la sala di preparazione. Saul giaceva già nel trasportatore sotto la pallida luce fredda, circondato da cilindri e sfere di lucido acciaio. Carl Osborn stava aiutando Keoki Anuenue, il tecnico-medico stava lavorando sopra di lui. La ragnatela nutritiva rossa pareva una rete di vasi sanguigni proiettata attraverso la pelle, come una dimostrazione a scuola. Saul era ancora sveglio, seppure assopito. I suoi occhi la seguirono mentre si avvicinava al suo fianco. La nebbia si arricciò in gelide dita intorno a lei.
Carl sollevò lo sguardo. — Dove diavolo sei stata? Proprio quando stavo per cominciare, tutti i mech hanno smesso di funzionare.
— Lo so.
— Oh, hai già riparato il guasto?
— Verrà fatto, se darò l'ordine — lei rispose, scandendo le sillabe.
Carl sbatté le palpebre. — Cosa vuoi dire?
— Li ho spenti tutti. E non li rimetterò in linea a meno che tu e Ould-Harrad non onoriate la mia richiesta.
Anuenue continuava ad allacciare dei cavi a Saul, dimentico di ciò che gli accadeva intorno, ma Carl mise giù le pinze-ago per il naso. Si scostò, cosicché il tecnico non potesse sentire.
— Ci… ci stai minacciando?
— Chiamala una promessa.
— Promessa! Cosa diavolo…
— O lasciate che mi colombarizzi adesso, o non otterrete nessun lavoro utile da me o dai mech.
— È disobbedienza… ricatto!
— Chiamalo come vuoi. Ma fallo —. Virginia strinse le labbra a formare una pallida linea sottile.
— Abbiamo bisogno di te.
— Ci sono altri programmatori disponibili, decolombarizzatene uno. E JonVon può prendere il controllo di un sacco di funzioni. Ho aumentato le sue capacità.
— Nessun computer è bravo quanto te.
Bene. Fallo discutere razionalmente. — Le strutture organizzative generali di JonVon sono migliori delle mie. Inoltre, esegue autoprogrammazioni d'ordine superiore. Ciò lo rende molto adattabile.
— Ma la tua esperienza…
— Ascolta. Qui non sto negoziando. Esigo.
Carl sospirò, e Virginia vide che era logorato. Non fisicamente… la sua solida mascella e le sue guance piene avevano un bel colorito sano, uno spettacolo gradito di quei tempi… Ma era logoro mentalmente. Ould-Harrad è un comandante frustrante. Carl era la scelta naturale per il compito di ufficiale esecutivo, ma è davvero angosciante fare da numero due ad un nuovo capo come quello. E io non gli sto affatto facilitando la vita.
— Pensi davvero che JonVon sia disposto a lavorare con un altro mago del computer?
— Gli ho dato istruzioni di farlo. Gliel'ho ordinato, usando il vecchio mainframe della missione. Proprio come gli ho detto di tener disattivati i mech fino a quando non gli darò il contrordine.
Carl replicò con rabbia: — Così, è un ricatto.
— Chiamala posizione negoziativa.
— Hai detto che esigevi, non che negoziavi.
Una scrollata di spalle. — Lascia perdere. Colombarizzami o altrimenti non verrà fatto niente.
Carl si adombrò e puntò un dito contro Saul: — È stato lui a montarti.
— No. Non gli ho mai parlato di questo. L'ho… l'ho deciso da sola.
La voce di Carl parve compressa, diminuita. — Lo… lo ami così tanto?
Quello non era il momento di badare a niente, salvo ai risultati. Il volto di Carl si stava arrossando, il suo respiro si era fatto più affannoso. Se si fosse accorto di quanto lei in realtà era incerta, di quanto coraggio le ci voleva per fare questo… — Naturalmente. Lo hai sempre saputo.
Per qualche motivo, quella semplice dichiarazione smorzò la rabbia crescente di Carl. — Vuoi… vuoi passare lo stesso periodo nel colombario?
— Apparteniamo l'uno all'altro.
Carl sospirò di nuovo. — È maledettamente indecente disattivare i mech in questo modo.
— Dovevo dimostrare che faccio sul serio. Non intendo vivere senza Saul. Soprattutto per il fatto che nessuno sa veramente quanto a lungo reggeranno ancora le cose in questo posto.
— Saul dice che le malattie le abbiamo battute.
— Sì. Per ora. Ma gli effetti a lungo termine? Dobbiamo essere sicuri di avere dei corpi capaci di servire fra qualche decennio. Uomini e donne che possano uscire dai colombari in buone condizioni, pronti a lavorare. Saul ed io corrispondiamo a questa descrizione. Tu sai che possiamo sopravvivere.
Snocciolò le sue argomentazioni così come le aveva ripassate. C'erano delle falle, naturalmente; ma si accorse che adesso Carl, nello stato di disorientamento in cui versava, era vulnerabile davanti a lei, incapace di mettere insieme un'obiezione coerente. Forse, addirittura, sarebbe stato contento di sbarazzarsi sia di lei che di Saul; immaginava che il loro amore fosse una continua irritazione per lui.
Carl chiese: — Keoki, puoi andare a prendere dell'altra soluzione KleinTex dallo stock? — Il tecnico-medico annuì e uscì.
Carl pareva pensieroso, quasi stordito.
— Carl… so che questi sono tempi duri…
Carl sbatté le palpebre, ovviamente lottando con dei conflitti interiori. — Sai, non presto mai attenzione alla gente intorno a me… non so mai quello che pensano… sentono.
— No, non è vero, tu…
— Lani, non l'ho mai vista — proseguì Carl, con amarezza. — Ero così avvolto nei sogni su di te. Vederla entrare nel colombario, con quella maledetta malattia che la divorava… avrei potuto passare un po' di tempo con lei, se io…
— Se tu fossi stato un superuomo, certo — disse Virginia, paziente. — Tutti noi siamo ridotti a pezzi, Carl. Non puoi biasimare te stesso per non essere ogni cosa per tutti.
Non rispose; toccò con fare assente l'intreccio dei tubi nutritivi e dei cavi sensori che avvolgevano Saul. Virginia osservò la sua espressione stabilizzarsi, diventare triste e meditativa. Sospirò, poi fissò il volto rilassato di Saul, e chiese: — Riesci a capirmi?
Un cenno del capo.
— Lei verrà con te.
Un lento sorriso. La pelle rugosa intorno ai suoi occhi si raggrinzì in un segno inequivocabile di felicità. Virginia chiese a Carl: — I suoi centri orali?
— Se vuoi, posso ricollegarli. Oppure chiamare Matsudo se non ti fidi dei miei armeggiamenti.
Virginia coprì con tenerezza la mano di Carl, dispiaciuta per essere arrivata a questo. — No… non farlo. Credo che ci capiamo senza parlare.
Saul annuì.
Il volto di Carl era senza espressione, come intorpidito. Fece passare il suo sguardo dall'uno all'altra. Virginia provò pietà per lui, un uomo proiettato troppo in fretta nel cuore degli eventi. Le dispiaceva di essere stata costretta a forzare le cose a quel modo. Ma non c'era modo di tornare indietro.
— Ti colombarizzeremo nel giro di poche settimane — le disse Carl, con voce priva d'inflessione, chiaramente facendo appello a energie attinte a qualche segreta riserva. — Per prima cosa scongeleremo la tua sostituta, cosicché tu possa istruirla. Dovremo appianare la faccenda con il comitato dei colombari, discutere se il rimpiazzo debba essere un ortho o un percell, la solita storia. Ci dovrebbe volere meno di un mese. Cominceremo non appena avrai rimesso a posto JonVon e i mech.
Virginia non distolse gli occhi da Saul. — Assegnerò il mio mech personale, Wendy, a JonVon, perché gli fornisca funzioni manuali permanenti.
— I particolari non contano. Hai vinto tu. È questo che conta.
Virginia annuì, incapace di parlare.
Carl rimase in silenzio in mezzo al freddo e alla nebbia umida che si arricciava persistente. — Quelli che amavo di più, se ne stanno andando tutti… — Poi scrollò le spalle. — Sai… sentirò la mancanza di tutti e due.