Colui che sta su un luogo scivoloso
bello fa il vile appiglio purché lo regga.
Chi cavalca una tigre non può scendere.
Il mondo tornò indietro lentamente, e non troppo piacevolmente. Sentiva un pizzicore giù in profondità alle radici dei suoi nervi, e poi ogni cosa cominciò a prudergli.
Non poteva grattarsi.
Più tardi, quando il prurito cominciò finalmente ad attenuarsi, arrivò la prima, vera sensazione, di un freddo profondo.
Era un freddo febbricitante, quel lento ritorno alla consapevolezza. Come una malattia, una brutta malattia durante la quale la mente è disabilitata, dispersa, eppure una qualche parte del nucleo dell'uomo sa di voler pensare, di voler capire cosa c'è di sbagliato, e come ripararlo.
Era anche un incubo, per giunta, con immagini offuscate, frammenti di voci che mormoravano e sfumavano, al di là di qualunque capacità di richiamo o significato. Soltanto che il sognatore sapeva che, questa volta, non ci sarebbe stato il conforto di un rapido risveglio.
C'era soltanto un modo per uscire da quel sogno: una lunga, lenta corsa fino alla fine.
La prima volta che Saul fu sicuro che non si stava immaginando tutto, fu quando un vuoto biancore che ondeggiava sopra di lui divenne lentamente più nitido. Le sue palpebre sbatterono esitanti per riflesso, reagendo in realtà alla sua volontà.
Chiudetevi ordinò. La luce venne tagliata fuori, diventando una tenue sfumatura rosata.
Apritevi! ordinò disperato, timoroso che il mondo se ne fosse andato via di nuovo. Ma i nervi scattarono e i muscoli guizzarono all'ingiunzione. Un torrente di luce si riversò di nuovo su di lui.
Fa freddo… freddo come il cuore del Sommo Sacerdote.
E Saul ricordò un asciutto e gelido mattino fra le montagne della Giudea, il profumo dei cedri secolari e il freddo di una speranza morente.
Le fiamme lambirono il cielo in direzione di Gan Illana. C'erano altri incendi sui monte Herzl. Ma a Gerusalemme gli Eserciti del Signore avanzavano intonando canti, guidati su un lato da uno sciame di croci dorate, sull'altro dal Mahdi e dai mullah dei salawiti. E al centro, salmodiando inni ebraici e trasportando l'Arca Ricostruita, c'erano i sacerdoti kahanim del nuovo Sahedrin. I fedeli si accalcavano intorno ai relitti degli autobus fracassati, cantando di gioia e trasportando malta e mattoni.
Incapace di muovere qualunque cosa, salvo le palpebre, a Saul parve di vedere tutto un'altra volta, proiettato contro il pallido soffitto bianco. Era un ricordo di fumo, e di acre odore di superstizione.
I «custodi della pace» dell'ONU facevano la guardia mentre gli Architetti piantavano le bandiere delle tre fedi sul Colle del Tempio e proclamavano la sacralità di quella terra in tre lingue. Gli hover-tank non si erano mossi per far cessare i tumulti. La stampa mondiale aveva praticamente chiuso gli occhi davanti al massacro di coloro che avevano opposto resistenza alla nuova teocrazia.
Per il mondo era un grande giorno. La «pace» era finalmente giunta in quel riottoso ombelico del mondo. Miliardi di esseri umani vedevano come un miracolo i rappresentanti di tre grandi religioni che si univano per una causa santa.
Costruire un tempio per il Supremo…
Adempiere la profezia.
Erigere un luogo dove poter parlare con Dio.
Perfino dopo che i fuochi si erano spenti, dopo che i leviti e i salawiti e i tribolazionisti avevano sigillato quella terra, il fumo si levava ancora fino al monte Sion da dove lui aveva seguito la scena. L'odore acre e pungente degli agnelli sacrificali arrostiti.
La fragranza del Levitico saliva ancora una volta al cielo, arricciandosi sotto le narici del Signore.
Saul chiuse di nuovo gli occhi, e dormì.
Quando si svegliò la volta successiva, c'era movimento. Una figura comparve alla sua vista. Sbatté gli occhi cercando di metterli a fuoco.
Era un volto più vecchio. Più severo. Ma lo riconobbe.
Saul sentì che le sue labbra venivano inumidite. Mosse la bocca e riuscì a bisbigliare una sillaba.
— C… Carl?
Il viso sopra di lui annuì. — Sì, Saul. Sono io. Come ti senti?
Saul sollevò le sopracciglia. A quel punto una pigra scrollata di spalle comunicava più di quanto potessero le parole. Carl Osborn rispose con un sorriso, non un sorriso particolarmente amichevole, ma ironico. — Bene, la tua decolombarizzazione procede normalmente. Dovresti essere in piedi e fuori di qui tra non molto.
Saul si sentiva la voce arida, polverosa. — C'è… c'è pace, adesso?
Carl sbatté le palpebre, poi scosse la testa. — La maggior parte di quelli che si svegliano chiedono la data. O, se sono già stati fuori, se abbiamo sconfitto la poltiglia. Ma non tu, non Saul Lintz.
Non c'era nessun antagonismo in quella osservazione. Saul riuscì a rispondere ad uno dei sorrisi forzati di Carl con uno dei propri. — D'accordo, allora. Qual è la data?
Carl annuì. — Otto anni prima del nuovo secolo.
Così pensò Saul. Trent'anni. Questo sì che è stato un lungo sonnellino. — L'afelio… — bisbigliò.
— Non è lontano — assentì Carl. — Siamo a trenta unità astronomiche di distanza. Dovresti vedere il Sole. Non è più luminoso della Luna in una notte di deserto.
Dove nessuno è mai arrivato prima.
— E i propulsori per il colpo di gomito, il cambiamento d'orbita? — chiese Saul. — Sono…
Carl corrugò la fronte: — Riusciremo a costruirli.
Saul lesse molto in quell'espressione. Rispondeva alla sua prima domanda. Non c'è pace. Ma siamo ancora qui, perciò non può andare poi tanto male.
Gli pareva che il suo corpo fosse fatto di piombo, ma riuscì a girare la testa. — Così, chi comanda adesso?… Kuyamato? Trugdorff?… Johannson?
Carl scosse la testa. — Sono tutti morti, o colombarizzati-morti.
— Allora, chi?
Carl diede in un'inquieta scrollata di spalle. — Io sono l'ufficiale addetto alle operazioni. Se c'è qualcuno che comanda, quello sono io.
Saul si riadagiò, assimilando lentamente la notizia.
È più vecchio. Più duro. Chissà quanti altri anni Carl ha passato da sveglio, mentre io dormivo.
— Così, vi serve un medico? — Francamente non si sarebbe mai aspettato di essere riportato in vita, se fosse stato per Carl.
— Già, proprio così, Saul. Ci serve un dottore. E la Terra ha suggerito che potrebbe essere il momento buono per farti dare un'altra occhiata alle malattie. Alcune sembrano aver mutato.
Carl si librò sopra di lui per un altro momento. Strinse con forza le labbra. — Devo essere onesto con te, Saul. La ragione più importante per la quale ti ho fatto togliere dal ghiaccio è che ci serve Virginia.
— Virginia — sussurrò Saul, ricordando.
Carl annuì, a bocca stretta. — Riposati, Saul. Non ti verrà chiesto di fare molto. Non subito. Verrò a controllare più tardi come va con te.
Saul non disse niente quando Carl sgusciò via dalla sua visione periferica. C'erano ancora molti anni da classificare. I sogni che non aveva sperimentato completamente davano la sensazione di essere una massa d'acqua dietro alla barriera di una diga ricolma. Facce che ondeggiavano come carte mischiate.
Facce di donne: Miriam, Virginia, Lani Nguyen. Facce di camerati: Nicholas Malenkov che gli moriva tra le braccia.
E il fantasma di Simon Percell, attraverso le pareti di fibra-tessuto, attraverso la parete di ghiaccio che l'aveva circondato. A Saul parve quasi di udire una sommessa risata ironica. Lo accompagnava ancora quando piombò in un profondo sonno naturale.
Altre due volte, una breve agitazione. La prima volta quando un tecnico, che riconobbe come uno dei membri dell'equipaggio della Edmund, adesso una donna di mezza età, con una strana macchia verdastra su un lato del viso, lo salutò con voce pacata e gli offrì da bere. Dovette chiederle di parlare lentamente, poiché sembrava aver preso un accento bizzarro.
La volta seguente un uomo stranamente aitante senza ombra di capelli fu il suo infermiere. Una bruciatura su una sua guancia pareva più un marchio che qualcosa causato da un incidente. Saul ritenne saggio astenersi da qualsiasi commento.
Aspetta. Assorbi. Apprendi.
Gli addetti ai colombari non erano tanto indaffarati come un tempo. Il ritmo era casuale, ma sotto ogni cosa c'era sempre tensione. Nelle conversazioni sussurrate che udì senza volerlo, c'erano parole, frasi, che non riusciva a seguire. Gli venne permesso di rizzarsi a sedere quando cambiò il turno di guardia, la volta successiva, e vide che c'era una specie di cerimonia quando i nuovi sorveglianti assumevano l'incarico.
No. Non non c'è pace.
Vide sul pannello alla parete che due luci di recupero erano accese. Una per lui. Una per Virginia. Aveva mantenuto la promessa, seguendolo lungo il Fiume del Tempo.
Ragazza intelligente pensò Saul. Sapevo che ci saresti riuscita.
Non vedo l'ora di dirti quanto veramente ti amo… per quanto vecchia tu possa essere ormai.
Con questa piccola punta di disappunto, Saul dormì di nuovo. E seppe che sarebbe stato più forte quando si sarebbe svegliato la volta successiva.
Adesso le leggi di Keplero parevano quasi biologiche. Carl fissò il display orbitale e sospirò. Seguire una lunga ellissi allontanandosi dalla puntura del sole dava molto la sensazione dell'invecchiamento.
Si comincia con un movimento rapido, febbrile, quando il movimento è rapido, la vita sboccia. La primavera, un calore crescente, e una matura, veloce estate. Passa. Le cose si calmano. La cruda realtà s'infiltra, voi rallentate e vi raffreddate e venite a patti con la basilare ostilità dell'universo. Come diventare vecchi.
La semplice dinamica newtoniana spiegava tutto. L'eccentrico, umorale Keplero aveva dedotto le leggi fondamentali che governano il movimento ellittico in una maniera classica, rude: concentrando il suo sguardo sui dati fino a quando l'ordine ne era parso colar fuori spontaneamente, portando in primo piano una struttura là dove gli occhi di un altro avrebbero visto soltanto un guazzabuglio di numeri. Adesso, dopo aver avuto a che fare per anni con montagne di dati, fedelmente forniti dai sistemi interconnessi del nucleo di Halley, Carl rispettava molto di più quella capacità.
Fece procedere l'orbita di Halley sul grande schermo, osservando la lunga ellissi mentre avanzava: la scala s'ingrandì fino a quando il caldo regno dei pianeti interni rimpicciolì, cerchi risucchiati dal vortice del Sole. Adesso erano ben oltre Saturno, girandosi con dolorosa letargia verso l'afelio, al di là di Nettuno. L'attrazione gravitazionale sempre più debole sgomitava sempre più flebilmente su quella montagna di ghiaccio gli invisibili lacci del Sole.
Lui visitava di tanto in tanto la Centrale, ancora, per controllare, per toccare la consolle e' rinnovare la sua fede che quella lunga notte dovesse avere una fine.
Come diventare vecchi.
Quanto sono vecchio? Ho servito due anni sotto Ould-Harrad dopo che Saul e Virginia sono andati nei colombari. Poi sono stato maledettamente contento di scivolare io stesso dentro quel gelido sonno, logoro e depresso.
Poi un altro turno sotto il luogotenente Morgan, dieci anni più tardi. Meno dilacerante, certo, ma noioso. Mi sono dato massicciamente agli stimolatori sensoriali soltanto per cancellare la monotonia del ghiaccio e del buio. Devo essermi ripassato ogni nastro della biblioteca almeno una dozzina di volte. JonVon mi è stato di aiuto, risistemando e fondendo insieme sensazioni e drammi. Ci sono stati alcuni effetti strani e deliziosi. … Comunque, se avessi superato di troppo i due anni, sarei stato bell'e pronto per la camicia di forza.
Adesso sono passati… quanti? Quattro anni ancora? Mi è parso più lungo… da quando Calciano mi ha svegliato perché prendessi il suo posto. Anche quel tizio era dannatamente andato, o quasi.
Esaminò il suo riflesso su un vicino schermo vuoto, le piccole chiazze di grigio alle tempie. Be', a Virginia piacevano più vecchi… Forse adesso potrò competere. È stata un po' difficile da accettare, immagino. Sfrontato e idealistico e piuttosto abrasivo, ma sono sicuro. Adesso, però…
Scosse la testa. Qualunque cosa stesse diventando come uomo… oh, era secondario. Ciò che contava per lui era soprattutto essere un comandante, o quello che oggigiorno veniva definito tale. Lavorando sodo, facendo in modo che le diverse fazioni lavorassero insieme con il minimo attrito. Gli sarebbe piaciuto riscivolare dentro quel sonno freddo e sognante, mollare tutto, viaggiare fino a casa libero da…
Ma nei colombari non era rimasto nessuno di cui potesse fidarsi per le importanti manovre che li attendevano all'afelio. Lì, sul display, erano a meno dello spessore d'un dito dal momento della virata, un solitario puntolino azzurro.
Aveva avuto il tempo di studiare a fondo la cometa di Halley, qualcosa che aveva saltato quando aveva chiesto di partecipare a quella missione. Gli era parso irrilevante: Halley era un'altra palla di ghiaccio diretta verso l'esterno del sistema e zone di spazio che nessuno aveva mai visto. Quello era sufficiente per un giovanotto ambizioso di venticinque anni.
Si era sentito addolorato quando aveva scoperto che pronunciava sbagliato perfino il nome. Gli astronomi e i tecnici dello spazio la chiamavano Halley con la a corta; i terragnoli della sua nativa America del Nord usavano una a lunga, come se fosse «Hailey». Ma il suo scopritore l'aveva pronunciata con una w nel mezzo, per cui avrebbe dovuto essere «Hawley». Carl s'immaginò un altezzoso inglese che pronunciasse quel nome con un sopracciglio inarcato, le labbra atteggiate a un divertito sorriso di condiscendenza.
Stavano cavalcando la cometa al suo trentunesimo passaggio da quando un antico cinese aveva per la prima volta documentato di aver visto nel cielo quello spruzzo di luce sfavillante; un arco di tempo che sminuiva i lunghi anni passati da Carl, e umiliava gli imperi degli uomini. La quarta apparizione documentata, nell'11 avanti Cristo, era vicina alla data di nascita di Gesù di Nazareth, e qualcuno affermava che doveva essere stata la stella di Betlemme.
Adesso un po' di salvazione ci servirebbe pensò Carl, e spense il display. È dov'è quel dannato Jeffers?
Come se fosse stato chiamato, il portello scricchiolò e Jeffers comparve, la lunga barba rugginosa gli scendeva sopra il giogo-collare della pelletuta come un muschio dall'aspetto sinistro. Jeffers aveva sostenuto che lasciar crescere i peli del corpo era soltanto buonsenso, poiché ciò forniva un isolante naturale di cui c'era bisogno. Carl aveva ribattuto che avrebbe intralciato le apparecchiature della tuta, impedendo il posizionamento del casco, ma sapeva per quale motivo piaceva a Jeffers: l'immagine di Matusalemme, della saggezza, il vecchio eremita nella foresta.
— Com'è andata? — chiese Jeffers. Semmai, il suo strascicato accento del sud si era accentuato con gli anni. Cercavano tutti di tenere in vita qualsivoglia legame avessero con la lontana Terra che vibrava nei loro ricordi.
Carl scrollò le spalle. — Ho inviato ieri la trasmissione settimanale. Oggi ho ricevuto la solita breve risposta, tredici ore e dodici minuti più tardi.
— Qualche spettacolo?
— Ecco qui. — Carl toccò un tasto e un indice scorse sullo schermo. Si fermò su NOTIZIE e passò al tempo reale. — Satòllati gli occhi.
Una annunciatrice sorrise loro. Il suo busto era dipinto in un turbinio di curve in technicolor. Gli ornamenti dei suoi capezzoli luccicarono quando tirò un profondo respiro e disse con entusiasmo: — Arrestati oggi con l'accusa di atti osceni in luogo pubblico la stellina Angela Xeno e Compassatino Rilke, mediano di linea dei Visigoti. — L'immagine in 3D di una coppia sorridente, seminuda. — Voci raccolte in ambienti informati affermano che l'incidente era in realtà un'iniziativa pubblicitaria in vista dell'imminente incontro alla TV dei Visigoti contro i Fracassatori. Parlando di…
Carl lo spense. — Ci sono anche tre nuovi pornosport, se li vuoi.
Jeffers fece una smorfia. — No, sono arrivato al punto che non sopporto più quella roba.
— Neppure io. — Non l'aveva mai sopportata, ma era una buona politica non svalutare mai i gusti della gente con la quale si doveva lavorare: un altro piccolo fatto che aveva imparato.
— Quando arriva Malcolm?
— Da un momento all'altro.
La Centrale era uno dei terreni comuni d'incontro tra le fazioni. Dovevano incontrarsi tutti per forza nei cassoni per il raccolto, ma la Centrale era il luogo più ovvio per i veri negoziati.
Jeffers s'infilò in una rete, stiracchiandosi. — Sono appena tornato dalla superficie. Non si riesce più a muovere niente, là fuori. Un sacco di mech sono giù per le riparazioni e i restanti si trascinano in giro come se fossero drogati.
Carl annuì. Ogni mese la situazione peggiorava un po' di più. Il freddo persistente, i cattivi funzionamenti, la difficoltà di fabbricare delle nuove parti o di eseguire riparazioni… — Mi chiedo se ci siano alcuni di quei collettori cilindrici in titanio nel Pacco Riparazioni.
— Lo spero. — Jeffers corrugò la fronte. — Mi chiedo ancora come siano riusciti a far entrare tutte quelle parti di ricambio e gli altri rifornimenti in un Pacco così piccolo.
— Hanno migliorato parecchio la superpropulsione, suppongo. Dopotutto, sono passati più di trent'anni.
Senza dubbio la Terra aveva fatto grandi progressi nella propulsione di carichi di alta qualità per le basi di Marte e degli asteroidi. Comunque era stata una sorpresa sentirsi dire, tre anni prima, che il Controllo stava per inviare un carico di pezzi di ricambio e rifornimenti indispensabili, propellendoli ad altissima accelerazione. Sarebbero arrivati prima dell'afelio, e avrebbero potuto contribuire in modo decisivo alla riuscita del «colpo di gomito». Anche con trent'anni di miglioramento sulla Terra, un pacco come quello era assai costoso, ma niente, naturalmente, in confronto dell'investimento già fatto nella Missione Halley.
— Ho sottoposto quell'avvistamento ottico a JonVon, e ho ottenuto una misurazione — disse Jeffers. — Il Pacco Riparazione è spinto da un propulsore a fusione. Un grande pennacchio arancione dietro di esso.
— Sta già decelerando?
— Già, ma non molto. Immagino che schiacceranno i freni proprio all'ultimo momento.
Con il rendez-vous a due anni di distanza, il Pacco Riparazioni doveva ancora perdere quattro chilometri al secondo per arrivare al fianco di Halley. La notizia del suo arrivo era stata un'autentica spinta in alto per il morale dell'equipaggio. Carl sperava che il suo arrivo li avrebbe risollevati tutti, riportando un po' dello spirito di cui la missione aveva goduto durante i suoi primi giorni.
— Il maggiore Clay, il nostro nuovo contatto, ha detto che ha incluso una bottiglia di Malescot St. Exupery Margaux del 1986.
— Dannazione! Non so pronunciarlo, ma sono sicuro come l'inferno che darò una mano a berlo.
— Una bottiglia del migliore per l'apparizione di Halley nel ventunesimo secolo.
— Magnifico. Semplicemente splendido.
Jeffers era chiaramente contento di quel frammento di notizia. Carl aveva risparmiato i particolari sul Pacco Riparazioni, centellinandoli uno alla volta per tener vivo l'entusiasmo. Un gesto stravagante, quello di spedire del vecchio succo d'uva attraverso il sistema solare… ma la Terra, malgrado la sua pazzia, capiva qualcosa della psicologia là fuori. Era un tocco da maestri.
Un miglioramento formidabile dopo l'isteria sotto Ould-Harrad, un mese prima sono un eroe, quello dopo un anormale, un percell. E sotto Criswell non hanno neppure risposto. Se non fosse stato per la base di Phobos che ritrasmetteva i notiziari di nascosto, non avremmo avuto neppure la dimostrazione che la Terra era abitata. Adesso, però, pare che le cose si stiano sistemando.
Si sfregò il viso, massaggiandosi per alleviare un po' del dolore. Digitò delle istruzioni, e le pareti si accesero. Meglio metter su qualcosa di grazioso, tranquillo, caldo. Ah, ecco. Una giornata di sole che spunta sul Libero Stato di Hong Kong.
Quelle masse sciamanti di giunche e di velivoli gli facevano sempre piacere. Un sole arrosolante si era appena staccato dalle verdi colline artificiali ad oriente. Un arcobaleno sorrideva, rovesciato, sotto la cascata di vapore di una casa galleggiante di lusso. Il tremolio causato dal calore faceva danzare le lontane foglie di alabastro.
Il portello sferragliò di nuovo e comparve Malcolm, era magro e il suo viso era perennemente atteggiato a un cupo, perpetuo cipiglio, gli occhi neri sbirciavano diffidenti fuori dalle orbite. Senza dire una parola, Malcolm si sistemò in una rete e annuì. — Vogliamo di più dall'idro.
Carl sospirò. — Tu conosci i termini.
— Non basta. Stiamo tutti perdendo peso corporeo.
Per un brutto istante Carl fu tentato di rispondere, Provate a mangiare qualcuno dei vostri marmocchi. Quelli che avete tanto insistito a dire che avevate il «diritto» di avere. Ma mantenne il volto impassibile e disse: — Stiamo ottenendo tutto quello che possiamo dall'idroponica, lo sai. Esamina le cifre.
— Ma noi stiamo crescendo di numero, e l'accordo non lo prevede.
— Quei bambini sono una vostra scelta.
— Senti, ne abbiamo già parlato — replicò Malcolm con voce priva d'inflessione. — La gente normale si ammala più facilmente. Dobbiamo mantenere una popolazione più ampia nel caso in cui ci sia un'altra epidemia.
Jeffers, che si era masticato le labbra per tutto quel tempo, esplose: — Volete soltanto prendere il controllo, nient'altro. Fra una ventina di anni, sarete più numerosi di noi percell.
Malcolm replicò, rigido: — La gente normale rimarrà nella nostra zona.
— Abbiamo visto dei vostri in Tre C… Vi ci state trasferendo? — chiese Jeffers.
— No. — Malcolm tirò su col naso in tono di scherno. — Non possiamo sopportare l'odore.
— Piccoli bastardi delicati, vero?
Carl intervenne con voce pacata: — Piantatela di scambiarvi insulti. Abbiamo delle cose da negoziare.
— Quei bambini sono bastardi, sai. Avete una specie di programma per la procreazione di massa, vero? — fece Jeffers, brusco.
Malcolm arrossì. — Non sono affari vostri, percell.
— Trattate le donne come se fossero animali da riproduzione…
— Piantala — intervenne Carl, con fermezza. Malcolm era sensibile al fatto che i loro bambini fossero rachitici, vittime dell'intrusione delle halleyforme nell'utero e dei problemi venutisi a creare per la bassa gravità. Di rado vivevano a lungo. Riprodursi in un ambiente biologico così ostile era semplicemente una scommessa sbagliata, e gli ortho l'avevano persa.
Carl lasciò che i due uomini si fissassero acidi per un paio d'istanti, e poi proseguì: — Dobbiamo fare qualcosa per il problema dei colombari. L'inventario medico è peggiore di quanto immaginavo. Non rimane abbastanza equipaggio fresco. Non ce n'è abbastanza per svolgere il lavoro che rimane per installare l'apparato per il «colpo di gomito»…
Jeffers intervenne: — Com'è possibile? Ci sono centinaia di…
— C'erano centinaia. — Durante i primi anni avevano tirato fuori la maggior parte dell'equipaggio della missione, prima di riuscire ad avere davvero sotto controllo la poltiglia e i viroidi. Se gli scongelati si ammalavano, e molti di loro si erano ammalati, venivano rimessi nei colombari. Per sostituirli erano stati tirati fuori dei dormienti freschi.
— Uccidevate delle persone normali, ecco quello che facevate — disse Malcolm.
Carl sospirò. — Dimenticati di quelle fesserie. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare. Gli ortho si ammalavano in fretta, tutto qui.
— Non da come l'ho sentita raccontare io. Noi…
Jeffers sbottò: — Tu sei stato scongelato vent'anni dopo il rendez-vous! Non sai niente dei momenti difficili.
— So leggere i documenti! E quelli più vecchi ce lo dicono. So che avete scongelato gente normale più spesso di quanto dovevate.
— Perché la fazione degli ortho voleva tenere alto il loro numero. Era una loro idea — gli spiegò Carl. — Senti, io c'ero, tu no. Fino a quando Calciano non mi ha affidato le cose, ogni comandante era un ortho. Non ho più intenzione di tentare d'infrangere quel pregiudizio nella tua testa di rapa. Ascolta e basta, va bene?
Malcolm annuì con riluttanza. Quell'uomo conservava una certa sbrindellata dignità, malgrado la sua uniforme unta e i capelli incrostati. Di solito faceva uno sforzo per mostrarsi pulito e ordinato. Gli ortho dovevano vedersela brutta da qualche tempo a questa parte.
C'erano anche dispute interne. Le gallerie gestite dagli ortho avevano la stessa gamma di fanatici delle zone dei percell, forse di più. Talvolta era difficile trattare con Malcolm, ma era l'unico al quale gli ortho erano disposti ad affidare il compito di parlare per loro, molto simile alla posizione che Jeffers aveva tra i percell.
Carl poteva rispettare la posizione di Malcolm, ma poteva soltanto provare pietà per la stupidità della gente che rappresentava. Adesso molti orhto non potevano più cercare un compromesso con i percell, dopo tutto quello che era successo, il sangue e la bile sprecati. Molto bene… ma la cooperazione per certi compiti era essenziale.
C'erano alcuni gruppi che si tenevano al di sopra di tutto questo, naturalmente. Il Clan della Roccia Azzurra non aveva mandato nessun rappresentante a quell'incontro. Gli hawaiani e gli spaziali sopravvissuti preferivano tenersi fuori dal perpetuo alterco fra ortho e percell.
— Ci serve dell'altro aiuto all'idro — disse Carl. — L'equipaggiamento continua a rompersi e l'unico modo per mantenerlo in funzione è più manodopera.
— Volete più lavoro da parte nostra? — chiese Malcolm, risentito.
— Esatto. Ma non può essere a scapito del programma del «colpo di gomito».
— Impossibile. Già così siamo fin troppo assottigliati.
— Le orbite non aspettano i comodi di nessuno — disse Jeffers. — Dobbiamo avere i lanciatori pronti per l'afelio, altrimenti nessuno di noi rivedrà di nuovo la Terra.
Carl annuì. — E dubito che riusciremo a sopravvivere altri dieci anni.
La bocca magra di Malcolm divenne una linea decisa. — Ho capito. Volete decolombarizzare un branco dei nostri, per farli lavorare a morte.
— Niente affatto. — Carl aveva previsto questa reazione, ma non così presto. Non lo invidio, dover trattare con Quiverian, o Ould-Harrad e gli archisti. Naturalmente, Jeffers non ha neppure lui la vita facile a trattare con Sergeov e i percell estremisti.
Disse con calma: — Credo che potremo farcela se semplicemente smetterete di aver bambini. Ciò libererà più donne che potranno lavorare a tempo pieno.
— Uh, uh. Abbiamo il diritto a riprodurci.
Carl pensò amaramente, Adesso capisci cosa abbiamo provato sulla Terra, quando ci hanno imposto la Legge sulle Nascite. Accantonò quel pensiero, una vaga disputa da un'altra vita, e si sporse in avanti con foga. — Senti, pensaci, abbiamo…
Il portello sferragliò. Carl sollevò lo sguardo e vide Saul Lintz che si faceva strada con cautela fino al centro dei banchi delle consolles. — Saul, questo è un negoziato. Non sei invitato. E, francamente, credo che tu sia troppo debole per…
— Sciocchezze. Ho saputo dov'eri e ho deciso di venire a dare un'occhiata. Tu sei, ah, il capo degli ortho? — Saul squadrò Malcolm come se cercasse di riconoscerlo dal passato.
Mentre i due si presentavano, Carl rifletté. Avrebbe potuto usare Saul per persuadere Malcolm? Il prestigio di Saul nel reprimere le pestilenze dell'Anno Nero, aveva un peso. Quanto sapeva, Saul, di ciò che era successo? Qui avrebbe dovuto muoversi con cautela.
— Oh, capisco i problemi — disse Saul a Malcolm. — Ho controllato l'inventario corrente, le proiezioni, i programmi di manutenzione. Quello che voglio sapere — aggiunse con cautela, guardando Jeffers e Carl, — è per quale motivo gli «sgomitatori» sono stati riprogrammati.
Dannazione. — È una cosa preliminare, siccome soltanto pochi dei lanciatori sono stati costruiti finora. Abbiamo affinato la nostra analisi.
— No, non è così. Sono regolati per non portarci in nessun punto vicino alla Terra, dopo la fiondata di Giove. — Saul fissò Carl con sguardo fermo.
— Senti, aveva l'intenzione di sedermi e rivedere la cosa in ogni particolare insieme a te non appena… — sospirò Carl. — E va bene. Ecco. Ti faccio girare la trasmissione a velocità compressa arrivata dalla Terra, così come l'abbiamo ricevuta anni fa. Tanto vale che tu conosca la storia completa.
Non gli fu difficile ritrovarla. L'aveva rivisionata incessantemente, e così avevano fatto molti degli ortho, immaginò.
Lo schermo principale s'illuminò. Tremolò. NOTIZIE.
Un corpulento annunciatore si mostrò, allegro. Scrollò buffamente le spalle, e disse: — Vi ricordate quella specie di tragedia capitata sulla Cometa di Halley? Come abbiano dato i numeri e abbiano cominciato a smammarsela per non convivere con i microbi che avevano trovato? Be', ecco l'aspetto che avevano quando l'Orbitale li ha rivisti.
Una risatina asciutta. Lo schermo mostrò un profilo argenteo che nuotava nella tenebra: la Edmund.
— Qualcuno dei non impestati è saltato a bordo della nave-madre ed è salpato verso casa. Soltanto che adesso nessuno là fuori è non impestato, così dicono i Federali, voi sapete quello che hanno detto i Federali, giusto?
La faccia ampia e maliziosa dell'annunciatore si gonfiò, esibì uno smisurato sorriso con degli impossibili denti bianchi, poi rimpicciolì mentre s'innalzavano degli effetti sonori bassi e rimbombanti, e sullo schermo avvampò un'accecante luce azzurra.
— Trasmissione chiarissima, sì! Tutto liberato per voi e me, per tener lontani i microbi dalla nostra atmosfera. Ed è esplosa pulita, per giunta, una grossa fusione…
Carl spense di colpo lo schermo. — Benvenuto all'imminente nuovo secolo — disse, sardonico.
— Buon… Dio… — Saul era stordito. Da grigio pallido il suo volto acquistò una sfumatura rossa. Sbatté rapidamente le palpebre. — Non… non hanno voluto correre nessun rischio.
Malcolm intervenne, pungente: — Perché mai avrebbero dovuto? Anche se la Terra avesse messo la Edmund in quarantena, come avrebbero mai potuto esserne sicuri?
Jeffers intervenne, con voce atona: — Pare che tu sia d'accordo con quello che hanno fatto.
— Lo posso capire. — Malcolm fissò Jeffers con aperta antipatia.
— L'unica cosa buona — ribatté Jeffers, tagliente, — è che se la solo presa Linbarger e quei somari di ortho.
Saul digrignò i denti, come se riemergesse da qualche ricordo personale che l'aveva sopraffatto. Carl sospettava quale: le vecchie associazioni sioniste erano ampie abbastanza da venir innescate da qualcosa del genere.
— Mi aspettavo delle misure severe, ma…
Carl replicò, reciso: — Volevi saperlo, d'accordo, ecco fatto. Non possiamo tornare sulla Terra. Mai. Non crederanno mai che non siamo portatori di malattie, e avrebbero anche dannatamente ragione.
Gli occhi di Saul parvero gonfiarsi sul suo volto dal pallore cartaceo, percependo delle possibilità. — Allora… dove possiamo…
— È quello che dobbiamo decidere. Puntiamo a un passaggio ravvicinato di Giove lungo il percorso verso l'interno, e da lì possiamo sfiondare praticamente in qualunque direzione.
Saul disse con voce remota: — Capisco.
Carl osservò Saul con attenzione durante il resto dell'incontro. L'uomo ascoltava muto, perso nelle sue buie introspezioni.
Malcolm era recalcitrante, riluttante. Cedette terreno di malavoglia, consentendo ad un leggero aumento delle ore di lavoro negli idroponici, giurando che non poteva offrire niente di più senza consultare le fazioni degli ortho. Jeffers fece analoghe promesse elusive per conto dei gruppi dei percell.
Carl invece parlava per gli ex spaziali, per la maggior parte tipi dell'Altopiano Tre, e gli hawaiani. Cosa farei senza quegli ostinati idealisti? pensò, osservando il dare e l'avere di quegli incontri. Non ce ne sono abbastanza come loro…
Entrò nel tiro incrociato delle parole, barcamenandosi così da arrivare a un praticabile compromesso. Usò quella destrezza che si era faticosamente conquistato per lusingare Malcolm e indurlo a fare ciò che a lui sembrava ragionevole e immediatamente accettabile da chiunque, ma a quest'ora c'era abituato, si era rassegnato alla pervicace testardaggine della specie umana.
E quella era soltanto una difficoltà di poco conto. Alla fine avrebbero dovuto convocare anche Quiverian e Sergeov che rappresentavano gli estremi. E per giunta tutti quei battibecchi per la semplice questione degli idroponici… i problemi più gravi relativi ai propulsori per il «colpo di gomito» sarebbero stati assai peggiori. Assomigliava alle interminabili notizie dal Medio Oriente. Anche al perduto Israele di Saul frantumato in litigiose teocrazie. La regione pullulava tuttora di fazioni ancora più microscopiche, interminabili rivalità, amarezza, stupidità. Nessuno riusciva a vedere al di là della punta del proprio naso. No, Halley era fin troppo rappresentativa dell'umanità.
Dopo l'incontro, si sedette a osservare il sole che tramontava in vividi spruzzi color rubino sopra Hong Kong. Si chiese oziosamente se quel posto esisteva ancora; c'erano stati rapporti circa una piccola guerra nucleare, in qualche posto, da quelle parti, venti anni prima. Una volta o l'altra avrebbero dovuto controllare. O forse in verità non desiderava saperlo. La città sobbollente nel suo rosso crepuscolo appariva migliore se si sapeva che, forse, esisteva ancora.
Alla fine si alzò e scese al colombario Uno. Lo scongelamento procedeva normalmente; l'aveva seguito da lontano per tutta la giornata. Racchiuso nella sua tuta entrò nel nebbioso regno del gelo eterno. Comunque, non si precipitò nella sala di preparazione. La squadra non aveva ancora terminato del tutto il proprio lavoro…
Carl si fermò al loculo di Lani Nguyen. Era rivestito da una pellicola di brina. Carl controllò automaticamente i tubi del fluido. Spesso era venuto là a contemplare quel felice, latteo, galleggiante rifugio. E ad invidiare quelli che vi venivano ospitati. Sbirciò la forma acquosa all'interno, immersa nei fluidi che si agitavano lentamente. Aveva visto un volto che lo guardava, là dentro?
Sento la tua mancanza, Lani. Ero un giovane idiota quando ti ho conosciuto. Non che un idiota più vecchio avrebbe fatto di meglio. Quella notte dopo la morte di Cruz… Non sappiamo come avrebbe dovuto andare, vero? Ebbe un pallido sorriso. Dovresti dormire al sicuro fino alla fine. Ma presto avremo bisogno di te. E voglia il cielo che la decolombarizzazione non offra a quelle pestilenze che giacciono addormentate dentro di te quel vantaggio cruciale di cui hanno bisogno…
Non riusciva più a contenere la sua impazienza. Entrò nella sala di preparazione e si mise in un angolo mentre i tecnici terminavano le loro ore di attento lavoro. I suoi occhi seguivano ogni cavo di alimentazione, ogni circuito stimolatore, tutta la miriade di particolari che scandivano le differenze.
È rimasta ancora meravigliosa. Soltanto a guardarla mi sembra che una mano mi stringa il cuore.
Si fece da parte mentre svestivano la pelle color mandorla di Virginia dalla garza nutritiva.
Quel colore voluttuoso appartiene alle spiagge, non al ghiaccio.
Aveva aspettato così a lungo quel momento… E aveva pensato mille volte di violare la sua promessa, di rianimare Virginia senza Saul. Cosa avrebbe potuto fare, se non lamentarsi? Una volta era persino sceso fin là sotto, alla fine di una serata passata da solo, semiubriaco… aveva invaso quel regno di gelo e aveva cominciato il riscaldamento, l'aveva lasciato andare avanti per due ore prima di rendersi finalmente conto che non poteva farlo. Non soltanto perché lei si sarebbe arrabbiata, avrebbe certamente intuito la verità dietro alle sue spiegazioni inventate… ma perché sapeva che lui non avrebbe potuto più vivere sapendo di averlo fatto.
Ma adesso tutto questo apparteneva al passato. I lunghi anni erano lontani, conclusi.
Avanzò per vederla di nuovo.
Molto tempo addietro Virginia si era chiesta come sarebbe stato se ci fosse davvero riuscita… se ce l'avesse fatta ad abbindolarli tutti ed a realizzare sul serio una macchina in grado di pensare.
Come sarebbe apparsa la consapevolezza in quella nuova entità? Sarebbe comparsa all'improvviso, come si supponeva che la grande Atena fosse balzata saggia e consapevole dalla fronte di Zeus?
Sarebbe stata come un bambino che cresce a poco a poco? Un lungo, lento, tedioso-eccitante processo di apprendimento ripetitivo ed estrapolativo? Prove, errori, ginocchia sbucciate?
Oppure sarebbe accaduto come aveva fatto l'umanità: evolvendosi per sussulti e casi fortuiti dai ferali riflessi dei microbi, su, su fino all'orgogliosa sfida rivolta agli dèi?
Più spesso di ogni altra ipotesi, aveva immaginato che sarebbe stato così. Un lento raccogliersi di fili sparpagliati. Un apprendere a nuovo ciò che era già conosciuto.
Un risveglio.
Tutte le immagini confuse si raccolsero in una singola forma che nuotò davanti ai suoi occhi: un completo mistero. Un grumo.
Poi, senza nessuna transizione, lo riconobbe come un volto… un volto che avrebbe dovuto esserle familiare.
— Carl? — cercò di chiedere. Ma i suoi muscoli facciali si contrassero soltanto un po', la promessa di un ritorno della volontà, ma non molto di più.
La figura sopra di lei ridivenne sfocata, confusa, e alla fine si allontanò. Virginia dormì. E per la prima volta, dopo molto tempo, sognò.
Le bianche pareti erano chiare e limpide quando riaprì gli occhi.
La sala recuperi pensò. Chissà quanto tempo è passato.
Da un quadrodati lì vicino giungeva un frusciante tap tap tap. Virginia girò faticosamente la testa, e vide un uomo con addosso un camice d'ospedale logoro e sbiadito appollaiato a gambe incrociate sopra una rete, il quale fissava assorto un display portatile sfregandosi lentamente il mento con una mano. Le sue palpebre erano azzurre come i colombari, e pareva così magro…
— Saul — bisbigliò Virginia.
L'uomo sollevò in fretta lo sguardo. Con un singolo movimento mise da parte il display e fu al suo fianco, accostandole alle labbra un flacone a spremere.
Lei lo sorseggiò fino a quando lui non lo tirò via. Poi Virginia mosse la bocca: — Qua… quanto…?
— Quanto tempo? — Saul le prese la mano. — Circa trent'anni. Ci stiamo avvicinando all'afelio. Carl mi ha detto che hai lasciato dei programmini tipo cane da guardia sparpagliati per tutto il sistema dati, promettendo l'inferno se ti avessero svegliato prima di me.
Virginia mostrò un pallido sorriso. — Te l'avevo detto… che… ci sarei… riuscita.
Saul si mise a ridere. — Ed io… io sono così orgoglioso di te.
La ricchezza della sua voce le fece sbattere le palpebre. Saul si era ripreso soltanto in parte dalla decolombarizzazione, eppure aveva qualcosa di diverso.
I suoi ricordi precolombarizzazione gli stavano tornando con chiarezza. C'era un po' di grigio in più alle sue tempie, forse, eppure era forse un'illusione quell'impressione che dava, di essere più giovane di prima?
No, io devo essere un gran pasticcio pensò Virginia. Dovrò ingozzarmi a forza per rimettermi un po' in carne, dopo tre decenni.
Ma se la colombarizzazione ti fa perdere degli anni, dovrò imparare a vincere la paura che provo! — Come… come me la cavo?
— Sei la più gran gioia di un dottore. — Saul sorrise. — Un meraviglioso pezzo d'ingegneria femminile. Che si riprende bene e ben presto verrà messo al lavoro, per ordine di Sua Grandezza Poobahdom, il comandante Osborn. Virginia scosse la testa.
— C… comandante?
Saul annuì. — Luogotenente comandante, a dire il vero. Incarico avuto dalla Terra. Hanno dovuto farlo. Soltanto due ufficiali sono rimasti in vita, e non contano proprio. Il guardiamarina Calciano è nel colombario dopo un turno di dieci anni durante i quali pare sia convinto di essere l'Olandese Volante. Ould-Harrad ha rassegnato il suo incarico ed è andato a raggiungere gli archisti-revisionisti nella Gehenna…
Nel vedere l'espressione perplessa di Virginia, Saul le strinse la mano.
— È un mondo diverso, Virginia. Tante cose sono cambiate. Sulla Terra le cose sono passate dal molto brutto al meglio, all'incomprensibile. E qui fuori… be'… — Scrollò le spalle. — Qui fuori sono semplicemente bizzarre.
— Ma Carl…? — Fece per alzarsi, ma Saul la spinse delicatamente giù di nuovo contro i cuscini. Perfino la gravità di Halley rappresentava un peso per lei.
— Basta parlare. Adesso riposati. Più tardi ti spiegherò quello che sono riuscito a scoprire. Cercheremo di trovare un posto per noi in questo strano nuovo mondo.
Virginia si rilassò.
Noi… pensò. Le piaceva il modo in cui la parola echeggiava in lei. — Sì, lo faremo.
Cominciava ad addormentarsi, quando sentì che Saul sfilava dolcemente la mano dalla sua. Virginia sollevò lo sguardo e vide che Saul stava fissando il vuoto con gli occhi storti, un'espressione semiorgasmica, armeggiando con un fazzoletto. Il tutto si concluse nelle profondità dell'ampio quadrato di tessuto con uno sternuto soffocato.
Virginia se ne uscì in una risatina singultante. Allungò le braccia che parevano pesanti come il piombo, e toccò una lacrima che stava scorrendo giù lungo una guancia graffiata.
— Oh, tesoro — sospirò. — Sei uscito dal colombario da pochi giorni e hai già un raffreddore.
Lui la guardò impacciato, poi sorrise.
— Allora nu? Che altro c'è di nuovo?
Tutti parevano morire.
In effetti, più cose Saul apprendeva su quella colonia in invecchiamento, più gli sembrava un mistero che ci fosse ancora qualcuno in vita.
Oh, la gente si era adattata; aveva trovato dei modi per affrontare la situazione. Gli esseri umani ci riuscivano bene. Da trent'anni prima, quando Akio Matsudo aveva finalmente dato ordini ben precisi e aveva visto Saul avvoltolato nel suo loculo, gli strumenti che si era lasciato alle spalle erano stati aumentati e migliorati.
Ma i cianuti modificati, i disintegratori a microonde a sintonizzazione fine, tutti i loro congegni intelligenti, poteva soltanto rallentare la lunga erosione, la spirale declinante. Anche la vita di Halley era capace di adattarsi, e qui si trovava molto di più a casa propria. Era una guerra di attrito che gli uomini potevano soltanto perdere.
Avrei dovuto sapere che Akio non avrebbe certo accettalo il suo stesso consiglio pensò Saul, nel gelido regno del colombario Uno. Era stato un errore scendere là sotto così presto dopo aver lasciato la Sala Recuperi, per andare a trovare una vecchia amica. Uno shock brutale farle sapere con tanta schiettezza che erano passati tre decenni.
Fino a quel momento il suo ultimo ricordo del medico giapponese era stato quello d'una chioma di lucidi capelli neri, che incorniciavano un paio di occhi a mandorla dietro a occhiali cerchiati di fil di ferro. Ma quell'immagine, fresca come se fosse della settimana prima, veniva schiacciata in maniera stridente lì in mezzo a quelle bare congelate. Una aveva l'etichetta con il nome di Akio Matsudo. La figura dietro al vetro coperto di brina era quasi irriconoscibile.
Una sottile frangia di ciuffi grigi bordava una testa maculata dall'età e segnata dagli attacchi d'infezioni della pelle. Quelle guance un tempo paffute adesso erano lo svuotato retaggio di un uomo divenuto vecchio lottando contro l'inevitabile, l'implacabile. Non c'era più nessun accenno di riso nelle rughe che orlavano gli occhi chiusi dai sonno del povero Akio.
I grafici ai piedi di ogni loculo raccontavano la storia di ogni occupante in ibernazione. I simboli rossi illustravano le ragioni mediche per l'animazione sospesa, la listatura nera significava un immagazzinamento senza nessuna reale speranza di ripresa o rianimazione, un segno azzurro, un uomo o donna dell'equipaggio che erano semplicemente «fuori servizio» per quell'arco di anni.
Ad una prima occhiata, la situazione pareva seria, ma non impossibile. C'erano molte cartelline azzurre. Tuttavia un rapido esame dei colori non diceva tutta la verità della storia. Akio, per esempio, aveva una cartellina azzurra.
Un uomo stanco, vecchio e malato pensò Saul nel leggere la cartella dell'amico. Non erano soltanto le persistenti infezioni, o la malnutrizione per aver mangiato per decenni la ristretta gamma di alimenti prodotti sotto le agri-cupole della colonia. La osteoporosi aveva talmente indebolito le ossa di quell'uomo che in nessun modo avrebbe più potuto passeggiare fra le amate colline del Giappone occidentale. La stimolazione elettrica delle ossa non aveva compensato i lunghi anni passati in condizione di quasi totale mancanza di peso.
La ruota gravitazionale della Edmund Halley era appesa nella caverna Gamma, congelata e rotta. Finora nessuno aveva trovato l'energia necessaria per aggiustarla.
Saul lesse a caso un campione di cartelle azzurre e studiò gli indicatori dei loculi. A poco a poco arrivò ad una agghiacciante constatazione.
Non più del dieci per cento della colonia stava bene nel verso senso della parola.
Carl è davvero così bravo a mentire? Si chiese come Osborn riuscisse a mantenere la finzione che la missione avrebbe potuto venir condotta a termine. Oppure fingono tutti per non impazzire?
Non vedeva nessun modo perché potesse rendersi disponibile anche soltanto una frazione della manodopera necessaria per costruire e manovrare i propulsori del «colpo di gomito», i jet che avrebbero dovuto alterare l'orbita di Halley una volta arrivati all'afelio.
E senza la «sgomitata», tanto valeva che se ne andassero tutti a dormire, senza pensarci più, giacché non ci sarebbe stato nessun ritorno a casa per nessuno di loro.
I suoi pensieri erano rannuvolati quando lasciò il colombario Uno. Ancora un po' debole a causa della lunga ibernazione, Saul stiracchiò i muscoli rimasti a lungo inutilizzati, percorrendo in quasi-planata le lunghe gallerie verso il basso, in direzione sud, un'area che non aveva ancora visitato, dai tempi della sua ibernazione.
In quel settore quasi tutti i corridoi erano rivestiti da lussureggianti strati verdi di fungoidi halleyviridis. Quella roba era troppo viscida per consentire una buona presa alle sue pantofole di velcro, ma gli offrì un appiglio sicuro quando usò i piedi nudi, come aveva visto fare ad altri.
In effetti, facilitava molto i movimenti. Scoprì, per esempio, di non aver bisogno dei cavi alle pareti, ormai quasi del tutto nascosti. Afferrarsi ad un ciuffo di vegetazione mentre passava gli offriva tutta la possibilità di fare leva che gli serviva per procedere speditamente.
Saul vagò per un po', senza prestare troppa attenzione a dove stava andando, pensando allo strano ambiente in cui lui e Virginia si erano svegliati.
La Terra pareva aver completamente espunto la grandiosa odissea di Miguel Cruz. Oh, manterranno i contatti a modo loro, mandando su intrattenimenti e rivoletti di dati tecnici di tanto in tanto. Saul aveva estorto a Carl Osborn la promessa di aggiornarlo al più presto e nella maniera più completa. Quello spaziale distante, un po' remoto, era stato assi vago su quando l'avrebbe fatto. A quanto pareva, la maggior parte dei coloni svegli vivevano alla giornata, ed avevano una visione spassionata del tempo.
Comunque Saul sapeva che ben presto avrebbe dovuto riprendere i suoi doveri di medico della spedizione. E il fardello della disperazione che aveva logorato Akio Matsudo sarebbe stato suo.
Più miserandi di tutti erano quei poveri ortho giù nel Quadrante 9, con i loro pietosi bambini: figure squallide, rinsecchite, appena umane nell'aspetto, sempre affamate e fragili come foglie.
Forse le Leggi sulle Nascite della Terra erano sagge. La gravità è una dominante molto forte nei nostri geni.
Ma c'era di più. Ieri aveva esaminato cinque bambini degli ortho. Parevano soffrire tutti della stessa deficienza enzimatica. Ne aveva già tracciato una mappa fino al settimo cromosoma. Fra qualche settimana avrebbe dovuto riuscire a scoprirlo, e…
E, cosa, Linzt? Stai forse pensando d'immischiarti di nuovo? Sei appena emerso in un nuovo mondo e già salti fuori con delle idee su come cambiarlo? Il chiarore dei pannelli fosforescenti stava diventando sempre più rado. Saul cercò di orientarsi e si rese conto di non essere stato abbastanza attento. Si era perso.
Ai vecchi tempi sarebbe stato impossibile. Ma ormai tutti i vecchi «cartelli indicatori» posti agli incroci erano oscurati, completamente ricoperti dal morbido tappeto nativo. Invece, là dove il pozzo incontrava la galleria, c'erano dei «segni del clan» profondamente incisi, riempiti d'una sostanza simile alla pece che pareva respingere le halleyforme. Quei segni denotavano i confini delle varie bande umane. Saul si guardò intorno alla ricerca di uno di questi.
Adesso, a quanto pareva, soltanto la Centrale, i colombari e le cupole idroponiche erano i territori neutrali. E le profonde regioni interne di Halley, naturalmente. Ma a quanto aveva sentito dire soltanto i pazzi si avventuravano là in basso.
In una delle aree occupate da una fazione vicino alla Centrale aveva visto che fine aveva fatto il fibratessuto che un tempo aveva rivestito le gallerie e i pozzi della Colonia Halley. Quel materiale era stato trasformato in indumenti e tende, in habitat «a prova di purpurei», sospesi dai soffitti delle cavità più grandi.
Ogni dormitorio manteneva un servizio di sorveglianza ininterrotto per guardarsi dalle più micidiali forme di vita della cometa. Tuttavia, ogni anno o giù di lì, un'altra vittima veniva mietuta dai temuti foraggiatori nativi.
Gli animali sarebbero una soluzione ideale pensò Saul, mentre raschiava via quella vegetazione simile a muschio, sperando di trovare un indizio del luogo in cui era finito. Sulla Terra addomesticavamo altre creature e le usavamo per combattere contro gli animali nocivi. Qui dovremmo riuscire a fare la stessa cosa.
Naturalmente quell'idea era stata tentata. Nell'arco dei decenni altri avevano scongelato cani e gatti e scimmie attingendo alla piccola collezione di animali colombarizzati. Ma nessuna di quelle povere creature si era dimostrata capace di adattarsi altrettanto bene degli umani.
Ma se fossero stati mutati gli animali della Terra… alterandoli, così che si adattassero a quell'ambiente estraneo?
Sapeva che non era stato tentato. Nessun altro aveva la capacità, o l'arroganza, di tentarlo. Già la sua mente si stava gingillando con quelle idee, regolazione ed espressione dei geni, modi per adattare delle creature a lavorare in un ambiente alieno invece che contro di esso.
Quei poveri, patetici bambini pensò.
Saul tirò fuori il proprio fazzoletto chimicamente sterilizzato e si soffiò il naso. Mentre si stava avvicinando a un altro incrocio, vide finalmente uno dei segni dei clan riempito di pece. Frenò la planata, si fermò e studiò il simbolo: una grande «U» coronata da un'aureola.
Mentre era là fermo, una voce parlò. Parve spuntare dal nulla.
— Clape, guarda chi abbiamo qui! Perso, capo?
Saul si afferrò alla vegetazione alla parete e si girò di scatto. Vide un uomo con la faccia tinta di azzurro che lo guardava dall'apertura del pozzo sopra di lui. Saul fu costretto a sbattere le palpebre, poiché quella era senza alcun dubbio la persona dall'aspetto più strano che avesse visto sin dal suo risveglio.
L'individuo portava braccialetti di platino nativo lavorato al martello e una tunica a maniche corte di fibratessuto. E mentre scendeva verso il pavimento, Saul vide che aveva dei ganci-artiglio metallici di brutto aspetto alle dita dei piedi. Nella mano sinistra l'uomo stringeva dei cappi di corda, fatti di un tipo di vegetazione nativa intrecciata.
Saul annuì. — Immagino di essermi smarrito, se è per questo. Pensavo di essere al livello M, vicino al Pozzo Cinque, ma…
L'altro uomo rise, mostrando dei varchi spalancati fra i denti marci. Balzò avanti e atterrò vicino a Saul. Il movimento rivelò un grande tatuaggio sul suo petto. Era un simbolo che Saul riconobbe: il sigillo di Simon Percell.
— Che gusto, uhm? Lavoro gratis, barbone. — L'uomo sogghignò, tastando la corda.
Una seconda faccia azzurra emerse dal pozzo soprastante e sogghignò. — Sgobbata al verde idro, per un favore.
Saul scosse la testa e sorrise. L'espressione vitrea dei loro occhi lo rendeva nervoso. — Mi spiace, sono uscito di fresco dai colombario, così non sono ancora all'altezza del dialetto.
— Clac! — Il primo percell roteò gli occhi. — Un lana vergine! Bene, bimbo dell'azzurra Terra, mi ricordo come si fa a parlare il gergo del suolo. Sei uno dei diamanti di Simon? Oppure una di quelle merdose scimmie normali?
Saul sollevò la testa, sorridendo mestamente. — Colpevole, come da accusa. Sono quello che suppongo voi chiamate un ortho. È un problema? Sono finito dentro un territorio che è esclusivamente perc…
La mano dell'individuo si mosse fulminea, diventando una macchia confusa. D'un tratto un cappio di corda si srotolò come un serpente sopra le spalle di Saul e si strinse. — Ehi!
Un altro cappio seguì il primo. Saul si tirò indietro, ma riuscì soltanto a stringerli ancora di più. — Ho detto che sono stato appena scongelato! Basterà che mi mostriate la strada per arrivare alla Centrale e non vi darò nessun fastidio…
Stavolta entrambi gli uomini scoppiarono a ridere. — È chiaro, somaro — cominciò il primo percell. Poi il secondo interloquì:
— Oh, da' un po' di respiro alla scimmia, Stew. Gli manca il binario. — C'era una traccia di simpatia negli occhi del secondo uomo. Ma soltanto una traccia. Squadrò Saul.
— Ci sono regole, amico. Una cattura senza danni o sangue versato non è una vendetta, è un colpo onesto. Tu lavori per noi in idro per dieci megasecondi, circa quattro mesi, vecchia numerazione, forse con un po' di tempo libero se ti comporti bene.
Il primo percell rise di nuovo, questa volta con una serie di acuti vagiti interrotti da un attacco di tosse. Sputò un globulo striato di rosa sulla parete.
— Quella tosse sembra piuttosto brutta — disse Saul. — Da quanto tempo sputi catarro insanguinato?
L'uomo dalla faccia azzurra scosse la testa con rabbia. — Non sono affari tuoi. Su, muoviti, scimpanzé zoppo. — Stew tirò con forza il laccio che imprigionava Saul. Fino a quel momento Saul si era sentito quasi estraneo a quanto accadeva, come se fosse una cosa comica e non seria. Ma adesso sentì una parte di sé che s'infuriava molto, moltissimo.
Avrei dovuto stare al gioco fino a quando non avessi appreso di più pensò. Ma l'ultima volta che era stato strattonato all'estremità di una corda come quella era stato durante un'infelice giornata a Gerusalemme, quando era stato passato, ammanettato, da un burocrate all'altro della nuova teocrazia da poco installata, con la metà di loro che gli citava il Levitico in faccia in modo sbagliato, e il resto che gli leggeva dei passi in apparenza scelti a caso dalle rivelazioni e dal Corano. Era stato un benedetto sollievo quando il ferchochteh l'aveva finalmente condannato a sei mesi a tagliar legna con un gruppo di prigionieri, per poi espellerlo per sempre dalla sua terra natia.
— Credo proprio di no, yoksh — replicò con voce senza inflessione, quando l'uomo dalla faccia azzurra lo tirò di nuovo. Afferrandosi alla vegetazione della parete con le dita dei piedi e una mano, Saul tirò indietro con tutta la forza dell'altra.
Forse fu dovuto alla mossa inaspettata, dopotutto gli occhi di Saul avevano ancora l'azzurro del colombario, ma l'uomo sul soffitto cacciò un guaito e ruzzolò giù dal suo alto posatoio, oltrepassando il livello del pavimento e finendo dentro il pozzo sottostante. Il suo grido divenne più debole mentre via via rimbalzava con tonfi ovattati sulle pareti, lottando per afferrarsi ad un appiglio mentre cadeva. Saul trasferì la sua stretta all'altra corda.
«Stew» non si sarebbe fatto sorprendere altrettanto facilmente. Sogghignò e tirò con forza il proprio laccio. La maggior parte di quel dialetto stravagante e ritmato era scomparso, quando parlò.
— Povero bambino della Terra. Appena decolombarizzato e debole come un bimbetto degli ortho. Cosa sai della lotta in galleria?
— Non cercare d'insegnare a tuo nonno come si succhiano le uova — disse Saul, e scalciò via dal suo punto di ancoraggio alla parete. Atterrò accanto al sorpreso percell, mentre la corda ricadeva molle, e cominciò subito a scrollarsi di dosso i legacci allentati.
— Mi pare che tu abbia un'infezione tubercolinica — disse, in tono pacato, distraendo per un attimo il suo tormentatore con le sue più asciutte maniere da letto d'ospedale. — Inoltre, da quanto tempo hai quella parech d'infezione della pelle? La cura con le microonde non serve più?
L'espressione stupita di Stew durò soltanto pochi secondi. — Io… — Sbatté le palpebre, ululò e si lanciò contro Saul.
Le ginocchia di Saul si sollevarono giusto in tempo, riuscendo ad allontanare le dita artiglianti del percell. Un acuto dolore gli trafisse la gamba sinistra prima che riuscisse a serrare l'avversario in un abbraccio troppo ravvicinato perché quei micidiali arnesi potessero venir usati. Le loro mani s'incontrarono e si strinsero le une sulle altre, con le dita intrecciate. Stew affondò le dita artigliate dei piedi nella vegetazione della parete e cominciò a spingere indietro Saul.
Il vento sibilava fra i loro denti. La parte distaccata di Saul notò clinicamente il puzzo particolarmente fetido dell'alito dell'altro. Lo aggiunse automaticamente all'elenco degli altri suoi sintomi, per usarli più tardi, sempre che ci fosse un più tardi, per studiare la malattia.
Sei troppo vecchio per queste cose si disse, mentre grugnivano faccia a faccia. E sei uscito da troppo poco tempo dal colombario!
Nel pensarlo, rimase quasi altrettanto sorpreso del robusto percell quando quella guerra di muscoli sotto sforzo cominciò a cedere, allontanandosi da lui. Le braccia del suo avversario cominciarono a tremare, a mollare. Saul approfittò del vantaggio:
— Ci… sono… — rantolò Saul, mentre strappava all'indietro le braccia dell'altro, facendolo urlare di dolore. — Voi… dovete essere quelli che… chiamano gli Uber. — Costrinse l'uomo a girarsi, torcendogli dolorosamente le braccia dietro la schiena.
— Uush, bei superuomini… — commentò infine. Con un grugnito scagliò il suo avversario giù nel pozzo, giusto in tempo per fargli colpire il compagno che stava ritornando, nel momento in cui la sua testa sporse dal bordo. Insieme, rotolarono giù di nuovo dentro il pozzo, vorticando, urlando e dimenandosi. Saul andò alla deriva fino ad una parete e vi si tenne aggrappato con una mano fino a quando la lieve gravità non lo riportò di nuovo sul pavimento. Il cuore gli batteva e delle macchie gli ballavano davanti agli occhi. La gamba graffiata gli faceva un male d'inferno.
— Somari — bisbigliò, preferendo gli espliciti inglesismi della sua gioventù, in questo caso, al più raffinato yiddish che aveva imparato soltanto in età più matura. Raccolse il fiato e si preparò quando dei rumori lo avvertirono del loro ritorno.
Questa volta fecero maggiore attenzione. I due balzarono sui lati opposti del corridoio per affrontarlo, entrambi chiaramente imbestialiti. Nelle loro mani erano comparsi luccicanti coltelli metallici.
Così, se ne va in fumo la cattura secondo le regole pensò Saul, Forse, dopotutto, avrei dovuto accettare quei dieci megasecondi di idro.
Eppure, per qualche ragione, non si sentiva per nulla rincresciuto. — Venite avanti, cretini — disse, invitandoli a farlo con un cenno della mano. Loro fecero per assecondarlo.
— Fermi!
Saul e i due percell alzarono lo sguardo in perfetto sincronismo. Una terza testa dipinta di azzurro emerse dalla galleria sovrastante, e Saul non poté fare a meno di cacciare un gemito. Anche impregnato di adrenalina, non era tanto idiota da credere di poter affrontare tutti e tre quei bastardi.
Ma il nuovo venuto non rivolse la sua ira contro di lui, bensì contro i due Uber.
— Avete aggredito quest'uomo? — urlò, con chiaro tono di comando. A Saul la voce pareva familiare… un accento un tempo marcatissimo, ammorbidito e coperto da anni di dialetto.
I primi due Uber distolsero lo sguardo da Saul. — Clape. Il macaco ci ha combattuto. Sergie…
— Mollate la cacca! — Il capo scese giù lungo una delle pareti rivestite di verde. Delle gambe tronche che erano poco più di moncherini, sormontate da ganci, lo fecero girare rapidamente quando indicò Saul. — Sapete chi è questo?
I due si limitarono a sbattere le palpebre e fissarono senza espressione il loro capo senza gambe che si voltava per la prima volta verso Saul, facendo un inchino molto decorativo in segno di rispetto. — Ti do il benvenuto, zio della nuova razza.
Adesso quel suo ciuffo di capelli slavi era quasi del tutto scomparso, e la sua pelle abbronzata dallo spazio era diventata un unico gigantesco tatuaggio. Ma gli anni non impedivano in nessun modo il riconoscimento. Saul rise sonoramente.
— Oh, ciao, Otis. Mi fa piacere rivedere anche te. Cosa hai fatto… oltre a diventare azzurro, voglio dire?
Dentro di lui, però, il cuore batteva ancora forte, quando cominciò a rendersi conto di quanto ci fosse andato vicino. Riuscì soltanto a pensare, Oh…
Il viaggio di ritorno fino alla Centrale sotto la scorta degli Uber fu quasi snervante, scivolando rasente lungo le pareti vellutate dei corridoi rivestiti di muschio, passando accanto ai punti di controllo delle vie di accesso ai territori dei diversi clan, con rituali elaborati ma all'apparenza di routine.
Perfino Saul si rese conto che stavano ritornando lungo un percorso molto più lungo del necessario, affondando in profondità dentro la cometa e spostandosi a nord prima di ricominciare a salire. — Perché andiamo tanto fuori strada? — chiese, una volta che furono scesi fino a gallerie che non aveva mai visto prima, sentieri serpeggianti che seguivano vene di neve primordiale morbida.
Sergeov scrollò le spalle. — Quiverian.
Saul si fermò. — Joao? Ho sentito che adesso è sveglio anche lui. Ma perché lo evitate?
Il primo Uber, il percell chiamato Stew, sputò dentro un pozzo vicino. — È il più cupo degli archisti. La scimmia che odiamo di più.
Saul scosse la testa, guardando Sergeov. — Spiegamelo per favore, Otis.
Il capo degli Uber sorrise. — La vecchia razza aveva degli individui superiori, come te e Simon Percell. E anche Quiverian. Ma lui oggi è alla testa della più idrofoba banda di ortho anti-percell che si possa immaginare. Quelli che si sono resi conto di essere dei dinosauri, e vogliono eliminare noi, i nuovi mammiferi.
Saul riteneva di capire. Il termine archista, che un tempo, sulla Terra, aveva denotato gli ambientalisti equatoriali, si era evoluto, cambiando, qui su Halley. Adesso stava a indicare la fazione più estremista degli ortho, così come Uber contraddistingueva quei percell che ritenevano non potesse esserci nessun compromesso con gli esseri umani non modificati.
Era chiaro che c'erano un odio e una rivalità intensi, eppure erano, altrettanto ovviamente, sotto controllo. Era chiaro che tutte le fazioni erano troppo deboli, troppo dipendenti le une dalle altre, per condurre una guerra aperta.
— Sono perplesso, Otis — disse, mentre riprendevano il loro viaggio. Qui sotto le gallerie sembravano essere state scavate a mano, scabre e serpeggianti, seguendo piste di minima resistenza attraverso il ghiaccio roccioso. — Se la pensate così, perché non avete bambini come qualcuna delle bande degli ortho?
Uno degli uomini di Sergeov ringhiò rabbiosamente, e Saul si rese conto di aver toccato un argomento tabù. Sergeov interruppe l'uomo dalla faccia azzurra con una parola secca, e tornò a girarsi verso Saul.
— Ne abbiamo qualcuno. Sono venuti meglio di quei piccoli disgraziati pietosi degli ortho. Forse uno di loro, speriamo, un giorno potrà imparare a leggere e a scrivere. — Il suo volto si contorse per un breve istante a quel doloroso ricordo. — Non facciamo più esperimenti. A cosa servono, quando sono tutti ugualmente condannati, eh? Quegli ortho al Quadrante 9, sono immorali a far nascere bambini soltanto per farli soffrire e morire.
Così pensò Saul, conoscono la verità.
— È per questo che il livello della violenza è così basso, anche se vi odiate tanto? — azzardò Saul.
Sergeov annuì. — Tutti moriranno insieme, comunque. Ma ci servono lavoratori per mandare avanti le cose quanto più a lungo possibile. Nessuno vuol morire di freddo, di fame.
— Nessuno, salvo forse Ould-Harrad — disse uno degli altri.
— Ould-Harrad! — Saul sbatté le palpebre. — Allora è…
— È diventato un mistico dagli occhi spiritati — gli spiegò Sergeov. — Come credi che un percell come Osborn sia riuscito a diventare un ufficiale? Non certo per il suo bell'aspetto o il suo amore per gli ortho, te l'assicuro.
Gli altri due Uber scoppiarono a ridere. — No. Ould-Harrad ha cominciato a parlare con Dio. Ha dato le dimissioni dal suo incarico. È andato fuori di testa, ed è uno strumento di Quiverian, adesso. Capo spirituale degli archisti — concluse sarcasticamente.
Saul era disposto a credere quest'ultima cosa. C'era da stupirsi che il completo silenzio delle lunghe veglie non avesse spinto un numero ancora maggiore di loro verso le frange estreme dell'umana esperienza.
Sergeov scrollò le spalle. — Andiamo, adesso. Ti riporto alla Centrale. Devo comunque parlare con Osborn. Devo chiarire alcune stupide accuse di quel piagnone di Malcolm.
Ma Saul non si mosse. Sbattendo le palpebre, stava fissando una galleria trasversale più in basso, dove una luce fantasma ondeggiava in distanza.
Gli altri si voltarono, e videro anche loro la luce. Uno degli Uber sibilò. — Clape. È il vecchio in persona!
Incuriosito, Saul si spinse verso quella forma. Poi vide che erano due, no, tre, le figure spettrali che si stavano muovendo lungo le pareti, simili a grandi ragni, brucando la vegetazione che cresceva su di esse.
Una mano lo strinse per il braccio e lo tirò indietro.
— Adesso andiamo — grugnì Sergeov.
— Cosa sono? — domandò Saul. E per un momento provò un brivido di eccitazione al pensiero che potesse trattarsi di una forma finora sconosciuta di halleyvita: creature gigantesche e dalla struttura complessa.
— Adesso, Saul Lintz. Quelli possono essere pericolosi.
Saul ammiccò di nuovo più volte, e si rese conto che quelle creature che si stavano avvicinando lentamente avevano la forma di uomini, ma i loro contorni erano confusi, frastagliati, con un bordo latteo, nebuloso, di fronde luccicanti.
— Ingersoll? — chiese, ad alta voce.
— Il Vecchio Uomo delle Caverne — ammise a questo punto Sergeov. — E qualche altro pazzo che si è unito a lui. Vieni, adesso, Lintz, altrimenti ti lasciamo.
Saul annuì e cominciò ad arretrare insieme a loro. Ci sarebbe stato tutto il tempo per studiare i misteri. Alla fine la pazienza avrebbe dato risultati assai migliori d'una curiosità impetuosa.
Comunque, il palmo delle sue mani era sudato, e la sua bocca era ancora più secca mentre guardava quelle forme simili a fantasmi che brucavano in mezzo alla foresta di halleyforme, di quanto lo fosse stato durante la lotta con i combattenti Uber di Sergeov. Si affrettò comunque a proseguire insieme alla sua scorta, ripromettendosi di tornare quando avesse conosciuto meglio le regole di quello strano tempo e luogo.
I corridori vicini alla Centrale, ancora rivestiti di fibratessuto, ancora spazzati a intervalli con gli ultravioletti e le microonde e tenuti puliti dai pochi mech che erano sopravvissuti a tutti quei decenni, parevano un'oasi, sbucata fuori, più che da un altro secolo, da un mondo diverso.
— Devo parlare con Osborn — disse Sergeov a Saul. — Accetta il mio consiglio, Lintz. Fai attenzione a quale fazione ti aggreghi, dopo il recupero. Qualcuno dei gruppi di ortho non è fatto di babbuini idrofobi.
Saul si era sentito descrivere in termini ugualmente sgradevoli i percell estremisti di Sergeov. Aveva stabilito già molto tempo prima che là dove esisteva il tribalismo, non c'era alcun modo di evitare la criminalità.
— Alcuni gruppi accettano sia gli ortho che i percell — rispose a Sergeov. — Se dovessimo aggregarci a qualche fazione, dovrà essere una di queste.
— Dovessimo… — Il capo senza gambe degli Uber rifletté un momento. — Ah, tu e la Herbert.
— Un'altra amante degli ortho… — cominciò a dire uno degli altri uomini, ma un'occhiata tagliente di Sergeov gli troncò la frase in bocca.
— Un'ultima cosa — disse Saul, mentre i percell si voltavano per andarsene. Affondò la mano nella borsa che aveva alla cintura e tirò fuori un arnese argenteo.
— Voglio un po' di sangue e qualche campione di tessuto per il mio nuovo inventario medico, se a voi non dispiace. I Sopravvissuti e le bande dell'Altopiano Tre hanno già contribuito, e sono sicuro che anche voi sarete felici di collaborare.
L'Uber con i denti malconci ringhiò e portò la mano al coltello. Ma ancora una volta il russo troncò la sua reazione. Gli occhi di Sergeov parvero luccicare mentre presentava il braccio a Saul. E un silenzioso messaggio parve dire che un giorno si sarebbe aspettato un favore anche da lui.
Se un tempo non avessi lavorato per Simon Percell pensò Saul, mentre prelevava i campioni dagli altri due, Otis mi avrebbe mai salvato la vita questo pomeriggio?
Sul petto degli Uber il Sigillo risaltava nitido, rosso sull'azzurro, il tributo nei confronti di un uomo morto da lungo tempo per propria mano, che forse aveva visto quello che stava per arrivare, ma non avrebbe potuto immaginare fin dove sarebbe giunto.
Saul andò a far visita a Virginia nella sua unità di recupero e rimase qualche tempo con lei, controllando con grande attenzione i suoi progressi e assicurandole che il pallore dovuto al lungo soggiorno nel colombario stava svanendo, proprio come doveva. La baciò e le diede un leggero sedativo per l'insonnia. Poi scese nel suo laboratorio.
I campioni degli Uber subirono le stesse analisi preliminari che aveva eseguito sugli altri suoi soggetti. I primi risultati parvero essere gli stessi.
Oh, c'era un diverso accumulo di microfauna nel sangue e nella saliva. Il sistema immunitario dei percell pareva leggermente meno danneggiato, non superstressato come gli effettivi ortho rimasti nella colonia. Questa non era una sorpresa. La spedizione aveva cominciato composta per un quarto di percell. Adesso, il rapporto fra quelli abbastanza in salute da rimanere svegli era alla pari, o leggermente a favore degli individui geneticamente potenziati.
Ma la storia era sempre la stessa. Stiamo morendo tutti pensò. Alla fine trovò il coraggio d'inserire un campione appena prelevato a Virginia.
Saul deglutì. Lei era meglio conservata, ma poteva leggere i segni. Perfino nel suo caso, appena uscita dal colombario, l'inevitabile era in arrivo.
— Bene — bisbigliò. — Forse riuscirò a trovare uno schema. Forse riuscirò a dare un'ulteriore regolata ai cianuti.
Non nutriva molte speranze in quell'approccio, comunque. Quel successo aveva permesso a uomini e donne di vivere nell'ambiente di Halley. Ma le forme di vita della cometa si adattavano. Un numero sempre maggiore di tali forme evitava lo speciale rivestimento di zuccheri che aveva permesso alle piccole creature sottoposte all'ingegneria genetica di fare così bene il loro lavoro extra.
La vecchia domanda rispuntava sempre, ogni giorno, quasi ogni ora in cui era sveglio. Doveva averci dormito insieme durante i lunghi anni in cui si trovava nel colombario.
Com'è possibile che la halleyvita viva in noi? Come mai Ingersoll e gli altri abitanti delle caverne riescono a mangiare quella roba e a sopravvivere?
Perché siamo così simili?
Oh, quella simulazione che lui e Virginia avevano elaborato tanto tempo addietro aveva mostrato come poteva esistere quell'analogia fondamentale. La scienza sapeva da lungo tempo che la chimica organica avrebbe prodotto gli stessi amminoacidi, le stesse purine e pirimidine in una varietà molto ampia di circostanze. In generale la vita sarebbe cominciata allo stesso modo dovunque.
Ma le analogie andavano ben al di là. Era quasi come se l'uomo non fosse stato la prima creatura della Terra a invadere la cometa. Come se ci fossero state delle ondate precedenti, e la guerra attuale si svolgesse fra lontani cugini.
Molto tempo addietro, nel tardo ventesimo secolo, un famoso astronomo aveva addirittura proposto che le comete fossero una delle fonti delle epidemie sulla Terra. Secondo la sua teoria, i virus primordiali scendevano fluttuando dentro l'atmosfera tutte le volte che il nostro mondo passava attraverso una coda cometaria. Ciò, pensava l'astronomo, spiegava gli antichi miti che consideravano oggetti come la cometa di Halley apparizioni che annunciavano la fine del mondo. Le stelle del male.
Saul aveva riso nel leggere quelle sciocchezze barocche. Ma questo era successo molto tempo prima. Adesso… insomma, non sapeva più cosa pensare. Niente, niente di tutto questo aveva alcun senso.
Il computer prese ad ammiccare a ripetizione, per attirare la sua attenzione, facendo lampeggiare un codice.
F4-D$56.
Richiesta di altri dati.
— Ma certamente. — Saul annuì amabilmente. — Una richiesta più che degna.
Domani sarebbe uscito per tentare di convincere gli archisti di Quiverian a collaborare. Poi ricordò: non aveva ancora esaminato il suo stesso sangue.
Un altro dato per la sua linea di ricerca. Si avvicinò al tavolo dei trattamenti, estrasse e preparò i campioni, e tornò indietro per sottoporli all'analizzatore-separatore fluorescente. I numeri e i diagrammi lampeggiarono in tre dimensioni e parecchi colori. Delle raffigurazioni crebbero tutt'intorno a lui, programmate per mettere in risalto differenze grazie ai campioni raccolti ed esaminati in precedenza.
D'un tratto tutt'intorno a Saul i display avvamparono, ammiccando per mettere in risalto i punti salienti, illuminando le anomalie. Saul sbatté le palpebre. Quasi ogni cosa era diversa!
— Uhm — commentò, con estrema concisione. Saul sbatté di nuovo gli occhi nel contemplare quelle cifre.
C'era l'elencazione dettagliata del conto dei linfociti… tutti i tipi: entro limiti normali.
I campioni di nessun altro dicevano questo. Soltanto i suoi.
Equilibrio elettrolitico… nominale.
I suoi erano i soli che lo dicevano.
Processo metabolico… nominale.
— Stupida macchina — grugnì Saul. Appioppò una sberla sul fianco dell'unità, regolata su un autotest, poi un'altra. Il pannello reagì soltanto con un ammiccare di luci verdi. La macchina sosteneva di lavorare bene.
— Sono io, forse, aberrante, perché sono normale? — Saul fissò le colonne di cifre. Tutte insistevano a dire che lui era anomalo. Strano. Insolito.
E quasi tutte le differenze andavano verso la norma umana della Terra. Salvo una…
Agenti infettivi estranei…
Fissò le stime e fischiò.
Stando alla bioanalisi, avrebbe dovuto esser morto.
Morto? Saul scoppiò in una risata. Quella dannata macchina sembrava pensare che il suo sangue fosse una schiuma di pericolosi invasori. I fluidi del suo corpo erano un brulichio di orribili creature maligne, la più piccola frazione delle quali avrebbe dovuto ucciderlo già molto tempo prima.
Eppure gli altri display dicevano: Nominale…
Nominale…
nominale…
nominale…
— Dannata macchina pazza — borbottò.
Ma poi Saul ricordò… quando aveva lottato contro gli Uber nel corridoio… la sorpresa su entrambi i loro volti quando lui, uscito dal loculo da due settimane soltanto, aveva cominciato a torcere indietro il braccio dell'altro, sempre più indietro…
— Visualizzazione microscopica — ordinò. Era giunto il momento di andare a fondo di quella faccenda. Qui c'era qualcosa di sbagliato e il miglior modo per scoprire cosa si fosse guastato nel suo biocomputer sarebbe stato quello di fare lui stesso una ricognizione istologica all'antica. — Schermo Uno, campione di sangue del soggetto, ingrandimento novanta.
L'olovasca s'increspò, poi si schiarì, mostrando un mare color paglia affollato di globuli rosa, bianchi e gialli alla deriva. Una agitazione turbolenta di forme multicolori, che vorticavano, rimbalzavano, frullavano in quella marea salina.
Saul scosse la testa, fissò quello spettacolo, scosse di nuovo la testa.
La sua bocca cominciò ad andare su e giù, senza produrre un solo suono, con un'espressione di assoluto stupore e silenziosa preghiera.
Carl studiò con incredulità lo schermo principale. Aveva terminato un'altra inutile conversazione con il Maggiore Clay, quel meraviglioso uomo di legno che riceveva tutte le domande rivolte alla Terra con una calma blanda eppure dura come la roccia. La Terra non mandava nessun consiglio, informazione, e neppure molta solidarietà, questo era certo. Il Maggiore Clay eludeva ogni singola domanda. Ad ogni anno che passava tappezzavano le loro paure aumentando i canali d'intrattenimento che trasmettevano con la «spruzzata» settimanale. Ciò lasciava meno tempo per le vere comunicazioni.
Così, Carl aveva fatto scattare l'interruttore colto da un impeto d'impazienza, prima che il tempo destinato alla trasmissione fosse concluso.
Era doppiamente irritante, per lui, il fatto che non potesse mai sbattere veramente la «cornetta» in faccia al maggiore Clay, poiché il ritardo dovuto alla velocità della luce adesso era di cinque ore. Questo non favorisce proprio le risposte brusche aveva pensato.
Era tempo di prepararsi all'incontro. Pigiò oziosamente il READOUT CORRENTE, aspettandosi di vedere il solito rapporto sullo stato delle cose, ma non gli comparve il consueto grafico a cinque colori. Invece colse un rivoletto di flusso interno momentaneamente esposto di JonVon. Incredibilmente, si trattava di un'altra poesia. Mentre leggeva, Carl cominciò a sorridere.
Gli Altopiano Tre sono semplici, comuni,
non possono svolazzare via dal dolore dei percell.
Portaci a casa! O vicino al calore del Sole!
Vicini alla Terra e lontani dal pericolo.
Solo il vecchio JonVon ha il fascino
di nascondere un indovinello
in mezzo: oro!
Trattaci da minatori,
Maggiore.
E la Via Marziana, ah,
essi vedono il loro giorno
che arriva, per sculacciare un pianeta rosso
(Attenti alla testa!)
per farlo scorrere e sanguinare di fluidi
dal ghiaccio azzurro morto e butterato della Halley.
Vermi, come perle appiccicose,
orbite in vortici liquidi,
Uber tronfi, pallide dure mascelle sporgenti
ad affettare gli ortho!
… se potessero. Tutti
per convergere, buoni e viscidi,
fuori, vicino a Nettuno,
su qualche luna di ghiaccio-e-ferro
(o altrimenti per piantare il coltello
dei microbi e dei pidocchi sulla Terra. Lasciar
cadere un razzo
nella loro tasca. Eh?).
Tristi sicuri Archisti, vogliono
fare il cappio per sempre.
Non sono furbi?
Ragli acuti e sferragliate rugginose.
le fronti corrugate, cantano come bestiame:
Mantengo libera da noi,
dal nostro pus la perla verdazzurra.
Immondi, capite:
il suicidio è un diritto tanto quanto
l'andar lieti nella Buona Notte.
Carl rise. Quella non era la prima prova che aveva visto di JonVon, che snocciolava poesie nei momenti di stanca. Ma di recente quell'idiota biorganico era diventato arcano. O forse dimostrava solamente che la poesia, dopotutto, non era un'attività di alto livello. Quella era roba frastagliata, vacillante, amara, che procedeva barcollando da un verso all'altro, con qua e là, occasionalmente, un contatto strisciante con la ragione.
Qual era l'oro che JonVon nascondeva? Carl si chiese se JonVon l'avesse già mostrato a Virginia. Lei si stava ancora riprendendo dal colombario, ma passava qualche ora, ogni giorno, collegata al suo cyber-amico. E se alla fine la macchina si fosse rivelata un poeta migliore di lei? Carl sorrise.
E come faceva JonVon a ottenere delle informazioni così dettagliate su quelle perniciose fazioni tra le quali lui doveva destreggiarsi? Forse dovrei dirottare il suo lavoro su una subroutine.
Incontri, sempre incontri. Attraverso il portello entrò Andy Carroll, magro come qualcuno appena uscito dal colombario, e furioso.
— Quegli archisti sono di nuovo in sciopero!
— A gatto selvaggio?
— No, è stato Malcolm a indirlo. Mi ha appena chiamato.
— Come mai?
— Dice che la loro razione di idro era bassa, questa settimana. La sua squadra addetta al raccolto è appena tornata senza frutta e con pochi ortaggi.
Carl corrugò la fronte. — Non avrebbe dovuto succedere. Ho controllato la produzione.
— Sergeov si è impadronito di una parte di quello che spettava a loro, ne sono sicuro. — Andy serrò una mano a pugno e la picchiò contro il palmo dell'altra. — Rubata di nuovo?
Un cenno di assenso. — Ha un sistema per far uscire la roba di nascosto dopo che è stata contata e assegnata. Non riesco a capire quale.
Con voce pacata, Carl disse: — È il tuo reparto. — Andy era giovane, risvegliato soltanto di recente, ma aveva fatto assai presto a capire le sfumature della situazione. Le sue nere sopracciglia schizzarono all'insù. — Io controllo ogni ingresso. Non c'è nessun modo in cui un uomo o una donna potrebbero entrare là dentro.
Carl annuì comprensivo. — Ehm, già… E un mezzo uomo?
— Per… oh! Tu pensi che Sergeov possa entrare in qualche altra maniera?
— Senza gambe… Controlla.
Andy ci pensò su per qualche istante, i suoi pallidi lineamenti si contrassero in una maschera d'irritata preoccupazione. — Non vedo proprio come, ma… d'accordo.
Carl sospirò e si stiracchiò nella ragnatela. — Adesso capisci com'è tutto questo lavoro.
— Già. Sono un branco di maledetti bambini!
— Sei fuori da… da quanto? Due mesi?
— Appunto. Tuttavia…
— Ci vuole un po' per capire da dove nasca l'odio. Cerca soltanto d'ignorare il peggio, giraci intorno.
— Sono convinto che Malcolm stia cercando di prendere tempo.
— Lo fa spesso. Che altro gli rimane, per negoziare? Ma intendi dire che stavolta lo fa seriamente?
— Credo di sì. Ho controllato gli alloggiamenti degli sgomitatori, che si suppone abbiano terminato tre mesi fa, giù al polo Sud di Halley. Sembra che siano stati montati alla maniera giusta. Ma ho tolto alcune delle cappottature. All'interno mancano dei collegamenti, alcuni dei serbatoi non sono al loro posto… sì, è un casino.
— È sicuro che sia colpa di Malcolm?
— Credo che stiano sabotando gli alloggiamenti.
— Hanno spaccato niente?
— No, hanno soltanto smontato alcune cose.
— Furbi. Qualunque danno ovvio, e ci saremmo messi a ululare. In questa maniera avresti potuto benissimo accusare Malcolm in faccia, di scansare il lavoro.
Andy arrossì: — Be'… a dire il vero, è proprio quello che ho fatto.
Una pausa. — Oh?
— Io… So che prima avrei dovuto chiamarti, ma… ero così infuriato! Ho chiamato Malcolm e ho cominciato a gridargli… — Andy s'interruppe, imbarazzato.
— E…?
— Mi ha riappeso in faccia prima che fossi riuscito a dire tre frasi.
— Allora è probabile che pensi di aver qualcosa di cui lamentarsi anche con noi. — Non apparire troppo distratto, disinteressato si ricordò Carl. Non rivelare ad Andy quello che sai… che, semplicemente, non c'è proprio nessuna maniera in cui possiamo realizzare in tempo gli sgomitoacceleratori.
E proseguì: — Chi ha più da guadagnare, se tu e Malcolm vi prendete per la gola?
— Diavolo, quasi nessuno, mi pare.
— Non c'è bisogno che siano in tanti.
— Be'… oh, sì, Quiverian. È quello che continua a vomitare tutta la merda archista. Pensi che sia lui che sta cercando di rallentare il lavoro per la sgomitata?
— Quadra. Gli archisti più estremisti non vogliono nessuna possibilità che del materiale cometario arrivi in prossimità della Terra. Nessuna orbita abbastanza vicina da poter realizzare un buon rendez-vous, niente del tutto. Tutto quello che conta, per loro, è conservare la biosfera della Terra. Non gl'importa quello che può succedere a noi.
— Ma ci sono ancora delle possibilità che non presentano nessun rischio concepibile per la Terra. Con la sgomitata possiamo ottenere un periodo orbitale più breve, impacchettare tutti dentro i colombari…
— Sperando che un decennio o due in più faccia rinsavire tutti sulla Terra?
L'espressione di Andy era così aperta che leggerla era quasi doloroso. — È… Dobbiamo avere una speranza, no?
— Certamente — rispose Carl, cercando d'infondere nella voce un sincero ottimismo. — Sicuro.
Andy contrasse le labbra, assorto nei suoi sogni. Forse non è uno stupido ottimismo pensò Carl. Forse ci verrà concessa una tregua. Mi sto stancando di desiderare.
Pensò di mostrare ad Andy la poesia, ma poi decise di lasciar perdere. Andy avrebbe potuto benissimo trovare sconvolgente quella mistura di bile e di umorismo da patibolo. Che prima si marinasse per un anno o giù di lì.
E chi può saperlo? Forse qualche archeologo potrebbe trovare quella poesia e proclamarla la più grande opera della nostra triste e sfortunata spedizione. Potrebbero inciderla su una targa e affiggerla accanto al portello esterno principale, per etichettare il montagnoso museo di ghiaccio che sfrecciava nel loro cielo, contrassegnando una grande idea fallita. Con noi che nuotiamo in permanenza nei melmosi fluidi dei nostri colombari, come oggetti principali della mostra.
Non era un'idea assurda.
Doni rubati
nascosti nel tempo.
Doni in attesa
nel profondo della mia rima.
— Uh? Hai detto qualcosa, Virginia?
La voce di Jeffers crepitò nel suo comunicatore, mentre lei si concentrava per guidare i suoi due riluttanti mech sopra una montagnola di ghiaccio, allo stesso tempo. Era sempre un esercizio delicato, perché quelle grosse macchine avevano sempre abbastanza forza da rimbalzare via completamente da quella superficie cosparsa di detriti. Quei modelli da riparazione non avevano dei propulsori a bordo per riportarli indietro nel caso di un calcolo errato.
— Uhm, non badarci, Jeff. È soltanto JonVon che recita di nuovo. Non appena avremo finito con questo progetto gli darò una bella purgata alla memoria.
— Pare che abbia acquisito un po' della tua mano di scribacchina. Se ha continuato a scrivere poesie per trent'anni, potrebbe darti delle belle soddisfazioni, figliola.
Jeffries pareva divertito, e Virginia scoppiò a ridere. Ma dentro di sé cominciava ad essere preoccupata. C'era qualcosa che non andava con la sua controparte, il computer bio-organico. In alcune specializzazioni JonVon pareva più sottile, più capace, di quant'era quando lei era stata colombarizzata, decenni prima: un risultato del tutto naturale, visto che lei l'aveva programmato in modo che migliorasse in maniera lenta ma costante. Ma per altri aspetti la macchina/programma si comportava adesso in maniera erratica, incerta, spontanea, esplodendo in quelle eruzioni che parevano irrilevanti, non rintracciabili.
Campi di neve cosparsi di spazzatura si stendevano verso la fila di agrocupole intorno all'ingresso del Pozzo Uno. Giganteschi specchi erano appesi a torri di ghiaccio simili a tralicci che si ergevano lì accanto, i quali concentravano la lontana favilla del sole per trasformare quelle cupole in vampe risplendenti sullo sfondo del ghiaccio granuloso.
Sotto le cupole di vetro, delle masse verdi ondeggiavano lentamente per effetto delle brezze artificiali. Pochi lavoratori si muovevano languidamente fra le piante, accudendo a quello che era il pane della colonia. Da quando si era svegliata dal sonno del colombario aveva avuto poco tempo per apprendere le procedure idroponiche che erano state messe a punto a colpi di successi e d'insuccessi nell'arco di quei lunghi decenni. Ma vedeva già che la procedura poteva fare ampio uso di automatismi.
I suoi mech arrivarono dove la figura in tuta spaziale di Jeffers la stava aspettando in piedi accanto ad una figura di cristallo rovesciata. Le schegge del ghiaccio simile a vetro erano sparpagliate dappertutto.
Virginia dette in un rantolo. — È terribile! Chi ha distrutto la scultura di Jim Vidor?
La statua era stata dedicata al capitano Cruz e al sogno che tanti membri della spedizione avevano condiviso. Aveva raffigurato un essere umano in tuta spaziale, logoro e stanco, ma perseverante, il quale porgeva dei doni lucenti al suo ritorno su un globo azzurro, la Terra.
Virginia ricordava quanto Jim Vidor ne fosse orgoglioso, subito prima della sua colombarizzazione, tanto tempo fa. Era stata un'opera molto bella, lavorata con sei differenti sfumature di ghiaccio, disegnato nella materia nativa. Ma adesso lo spaziale scolpito giaceva sbriciolato sul fianco, e il globo azzurro era schiacciato.
In profondità, sotto la superficie, nel suo laboratorio, Virginia divenne tesa nella sua ragnatela, mentre fissava quell'atto vandalico attraverso gli occhi del mech. — Chi…?
La voce di Jeffers suonò tesa. — Non so. Immagino che siano stati alcuni degli Uber di Sergeov.
— Ma perché?
Lo spaziale scrollò le spalle. — Cruz era un ortho.
Questa a lui pareva una spiegazione più che sufficiente. Virginia sentì la pelle che le s'imporporava, vergognosa in quel momento di essere una percell.
— Jim l'ha mai visto?
— Noo. Matsudo l'ha tirato fuori nel 2079 o giù di lì, e i cianuti di Lintz hanno sistemato la sua prima malattia. Ma poi hanno dovuto di nuovo colombarizzarlo un anno più tardi per un'infezione del sangue davvero brutta. Immagino che in un certo senso sia un bene, se è per questo. Non ha mai visto quanto sono peggiorate le cose da allora. Jim era un ortho, ma mi piaceva molto.
— Già — replicò Virginia, incapace di pensare a qualcos'altro da dire. Fece girare i suoi mech intorno al monumento infranto, per raggiungere Jeffers. — Su, vieni, vediamo se riusciamo a fare uno o due miracoli.
— Giusto, graziosa signora hawaiana. — Jeffers sollevò un braccio e tirò via da una rastrelliera trasportata da uno dei mech parecchie buste sottili. — Il Cimitero degli Elefanti è da questa parte.
Aggirarono un poggio roccioso e Virginia esalò un sospiro. Nessun puro dato statistico avrebbe potuto prepararla alla scena che adesso si stendeva davanti a lei. Macchine, disposte fila dopo fila, in ranghi ordinati che si stendevano fin quasi all'orizzonte ricurvo, tutte pietrificate, immobili, bloccate in una rigidità fatta d'inutilità e disperazione.
— Da dove cominciamo? — chiese sgomenta.
Jeffers batté le mani guantate e si sollevò di un paio di metri dal ghiaccio, in preda com'era a un'intensa eccitazione nervosa.
— Chi se ne frega! Per tre anni ho smanettato con l'hardware, affannandomi nell'auto-fabbrica, provando dei prototipi di ricambio. Ma ho continuare a incappare in intoppi del software, blocchi alle ROM, clape che non riuscivo a glokkare! Frustravano ogni mio tentativo.
Atterrò rivolto ai mech di Virginia.
— Ma adesso, in sole due settimane, hai risolto cose che mi avevano fatto arenare in pieno!
Uno dei mech sollevò una mano meccanica, mimando con precisione il gesto di Virginia giù dentro il suo laboratorio in penombra. — Aspetta un momento, Jeff. Ho detto che questo era soltanto un primo assaggio. Nessuna promessa…
Ma l'uomo si era già propulso sopra un ripar-bot fusiforme, una macchina sofisticata simile ad un androide, concepita per la manutenzione di altri congegni, ma adesso bloccata in un'inutile rigidità.
Virginia osservò nervosamente lo spaziale che stava vagliando le buste, ne sceglieva una, la lacerava e ne tirava fuori una scheggia scintillante. Aprì un pannello di accesso, e infilò il cristallo riprogrammato nel retro della macchina.
— Alzati! — comandò, arretrando ed agitando teatralmente le mani. Virginia trattenne il fiato. Per un istante parve che lo strato di ghiaccio che ricopriva il rigido mech l'avrebbe costretto all'immobilità. Una parte di lei si chiese: Può una statua animarsi?
Ma poi il ghiaccio si screpolò, dissolvendosi in minuscoli sbuffi, con silenziose esplosioni a mano a mano che il ghiaccio amorfo cambiava il proprio stato trasformandosi direttamente in gas. Ondeggiando, la macchina si dispiegò. Con movimenti legati, simili a quelli delle zampe di una mantide, si rizzò e si voltò verso Jeffers. Con le cellule degli occhi che luccicavano, tese un lungo braccio, robusto abbastanza da spezzare un uomo in due. Una mano dalle molte dita si aprì come un fiore in boccio.
Jeffers mise il mucchio di buste in quella stretta efficiente e sicura.
— Questa mattina si risvegliano gli eserciti dei morti! — scoppiò a ridere Jeffers. — Su, vieni, faccia d'angelo. Abbiamo un pesante lavoro di resurrezione da fare!
Virginia perdonò all'uomo quella veniale empietà. La sua eccitazione era contagiosa, quasi quanto le micidiali malattie e la mancanza di manodopera, quel graduale declino della forza dei mech della colonia aveva contribuito alla diffusa atmosfera di disperazione, l'impossibilità di concludere qualcosa di reale.
Oh, non farà molta differenza, qualsiasi cosa riusciremo a combinare qua fuori. Niente può sostituire gli esseri umani mancanti.
Ma potremmo riuscire a rendere un po' più comoda la vita di qui.
Jeffers, lì sul ghiaccio, pareva un'ape operosa, balzando in continuità dal fuco al roboide, al waldo-mech. Virginia non si faceva nessuna illusione; tuttavia cominciò a stupirsi e a diventare più speranzosa a mano a mano che si spostavano lungo le file silenziose di quel cimitero, sostituendo le «schegge» dei programmi, lubrificando, dando energia.
Era eccitante osservare la scena. Quelle macchine morte da tempo, congelate e irrigidite da anni, fremevano e si risollevavano. Altre si spostavano su ruote uncinate, oppure si libravano in aria una volta liberate dai loro ancoraggi. I canali dei dati ticchettavano, bippavano, pigolavano, esprimendosi nel bene ordinato codice dei computer.
I loro sforzi cominciarono a moltiplicarsi, a mano a mano che i ripar-robot riprogrammati si mettevano a lavorare in proprio, occupandosi di intere file di mech disattivati. Quello che era stato un piccolo nucleo di attività, si diffuse verso l'esterno come le increspature sulla superficie di uno stagno scongelato dalla primavera.
Mentre la polvere veniva scrollata via da quelle macchine da lungo tempo quiescenti, le loro cuffie trasmettevano voci di meraviglia e di crescente meraviglia provenienti dalle agrocupole. Cominciò a raccogliersi una piccola folla che fissava quello che fino a poco tempo prima era stato un esercito silenzioso e pietrificato. I portelli si aprirono, e delle figure in tuta spaziale si riversarono sulla nave per contemplare quella turbinante moltitudine meccanica. Jeffers gridò quando un gigantesco mech da sollevamento si levò in volo sbuffando una scarica d'idrogeno ionizzato per rimanere sospeso lì accanto, con le sue luci di posizione verdi e azzurre che scintillavano. Le ombre si allargarono davanti a loro quando il grande mech si spostò per andarsi ad ancorare accanto al deposito di rifornimenti da lungo tempo inutilizzato.
Il sistema di monitoraggio del canale delle cuffie intervenne per smorzare un sovraccarico di evviva che si erano levati dagli astanti.
Un numero sempre maggiore d'individui era uscito in mezzo al ghiaccio, indossando tute spaziali che non erano più state utilizzate da molti anni, con cotte un tempo bianche ma adesso logorate dal tempo. Qualcuno si scordò la prudenza, mettendosi a saltare per l'eccitazione, e finendo per descrivere lunghi archi in aria della durata di molti minuti mentre gli altri acclamavano felici.
Virginia scoppiò a ridere. Il polo Nord di Halley era diventato un festival: gli umani che andavano a sbattere contro i mech, i quali deviavano dal loro cammino senza lamentarsi per evitare collisioni più violente. I percell piroettavano insieme agli ortho. Gli spaziali parlavano con gli archisti, tutti in preda ad una grande eccitazione. Qualcuno immise della musica nel Canale D, e quella bizzarra danza aggrovigliata a gravità quasi zero riempì il cielo.
Non ci vuole molto… soltanto una notiziola buona.
Da una agrocupola una dozzina di bambini magrissimi fissava la scena… qualcuno con la mascella spalancata e a stento capace di vedere, ma c'erano dei bambini che battevano le loro piccole mani e tiravano gli adulti lì accanto, indicando tutti eccitati quei chiassosi festeggiamenti.
Una figura comparve accanto al mech di Virginia e allungò la mano per tirare il braccio della macchina. Virginia avvertì quella sensazione al proprio gomito e abbassò lo sguardo.
— Oh, ciao, Carl! — Si sentiva come una bambina, ed era bello vederlo sorridere di nuovo, sotto la visiera lucida della sua tuta insudiciata. — Come hai fatto a sapere quale dei mech ero io?
— Osborn a Herbert, canale AF. Come facevo a saperlo, Virginia? È stato facile. Mi è stato sufficiente guardare come camminava ciascun mech, e ho scelto quello dai movimenti più sensuali.
Virginia si sentì arrossire, e fu lieta che fuori in superficie non si potesse notare niente. — Hai sempre avuto il dono di dire delle grandi scioc…
D'un tratto Virginia fu interrotta da un suono orrendo. Era l'ululo raggricciante d'una tuta lacerata, il quale, interrompendo ogni canale, si sovrappose ai festeggiamenti, mozzando a metà ogni altra voce.
— Oh, cielo, dove…? — Virginia fece girare di scatto il mech per vedere. Già alcuni dei mech più sofisticati si stavano precipitando verso un assembramento di spettatori, i quali adesso si stavano radunando vicino ad una delle agrocupole.
— Non so… — cominciò a dire a Carl, ma poi si rese conto che lui era già partito, lanciandosi con uno spruzzo di propellente verso il centro dell'agitazione.
Il segnale d'allarme interruppe di colpo il suo rauco grido, riducendosi a un basso e mesto ronzio, il quale segnalava la cessazione delle funzioni vitali.
Qualcuno era morto.
Virginia fece per dirigersi verso la folla, poi si fermò, sentendosi sciocca. Naturalmente non c'era bisogno che conducesse quel particolare mech fin sul luogo per dare un'occhiata da vicino. Con uno schiocco della lingua e l'impulso di un ordine subvocalistico, trasferì il suo punto di vista ad un alto fuco affusolato che si ergeva sopra il grappolo vociante degli umani.
Allora guardò in basso. Carl e Jeffers erano chini su una figura in tuta spaziale stesa bocconi sul terreno. La tuta era lacerata fino all'osso. Una schiuma rossa si riversava ancora fuori dallo squarcio, come una macabra nebbia.
Arrivarono Keori Anuenue e alcuni dei suoi corpulenti hawaiani. Cominciarono a spingere indietro la folla, ordinando ai mech di nessuna utilità di allontanarsi. La folla, d'un tratto silenziosa, si allontanò, tutto il loro umore festivaliero si era spento come un ruscello rumoroso trasformato in ghiaccio duro come la roccia.
— He kiai — trasmise Virginia al polinesiano dalla faccia scura che stava cercando di allontanare il mech che lei stava usando come punto d'osservazione. L'uomo sbatté gli occhi per la sorpresa. Poi scrollò le spalle.
— Ua make oia, wahine.
Virginia non aveva bisogno che le dicessero che la figura distesa sul ghiaccio era morta. Ovviamente, era anche inutile pensare a colombarizzarla.
Sentì la bocca che le si inaridiva quando vide il vibrocoltello dalla lama sottile che giaceva accanto al corpo. Chiunque l'avesse fatto, approfittando della confusione e dell'eccitazione causata da lei e da Jeffers, aveva lasciato il suo biglietto da visita accanto al proprio lavoro manuale.
Fece scorrere automaticamente lo sguardo sul comunicatore, alla ricerca del canale e del codice crittografico usato da Carl e Jeff. Alla fine trovò la combinazione giusta.
— Ci sarà un inferno da pagare per questo. È sicuro che Quiverian e Ould-Harrad lo useranno a loro vantaggio.
— Merda. Malcolm potrà anche essere stato un bastardo prepotente, e uno sciovinista ortho. Ma per lo meno non era un archista. Con lui potevo lavorare. Sai chi verrà incolpato di questo, naturalmente…
Girarono il corpo della vittima. Il povero Malcolm la fissò, il volto gonfio e gli occhi strabuzzati a causa della decompressione.
Virginia si affrettò a interrompere il collegamento e si tirò fuori dal mech. Aprì i suoi veri occhi e si ritrovò nel suo piccolo, sicuro regno, nel profondo del ghiaccio. Si tolse il connettore neurale e gemette mentre si rizzava a sedere, sfregandosi l'area escoriata sulla nuca.
Oh, sì pensò. Ci sarà un inferno da pagare per questo. Si alzò in piedi e andò al minuscolo rubinetto incappucciato per inzuppare un asciugamano e pulirsi il viso.
Il cuoio capelluto le faceva ancora male. Sollevò i propri capelli e si chinò tra le superfici a specchio delle due olovasche per esaminare l'area di contatto del connettore neurale. Una rabbiosa infiammazione rossa si stava già allargando, e questa volta il trattamento standard pareva non funzionare. Saul le aveva detto che riteneva di poter trovare un modo nuovo di affrontare il problema, ma non era stato capace di nasconderle la sua ansiosa incertezza.
Non ci voleva un genio per capire che stavano morendo tutti.
Pensò a quegli sconsiderati festeggiamenti, lassù in superficie, così brevi, interrotti così all'improvviso…
È bello provare una speranza, almeno per pochi minuti. Un colore lampeggiò sopra di lei. Sollevò lo sguardo mentre delle lettere si coagulavano nella principale vasca display del computer. Oh, no. Era un'altra delle bizzarrie di JonVon, uno dei suoi tentativi spontanei di scrivere versi… un altro segno che il deterioramento non era limitato agli uomini e alle macchine articolate.
Perduto fra le lotte,
celato in ritmi gergali.
La beneficienza alberga ancora,
esiliata da una casa dimenticata.
— Oh, JonVon — bisbigliò Virginia. — Sei malato anche tu?
Le figure si muovevano in fila per uno lungo quel passaggio butterato, legate insieme da una corda annodata. Avanzavano con cautela, lentamente, mentre spingevano o trascinavano i loro fardelli sopra i poggi e i bordi dei crateri.
Era un esodo silenzioso, forme avvolte in tute spaziali insudiciate e costellate di rattoppi, che lottavano ad ogni passo con enormi fagotti, quasi privi di peso ma ingombranti a causa dell'inerzia, forme che si aiutavano a vicenda a superare i tratti scivolosi e i pericolosi campi di ghiaccio amorfo ed esplosivo.
Dall'angolo di visuale di Virginia, da una delle alture equatoriali più elevate di Halley, l'orizzonte del loro minuscolo mondo era un arco ad un miglio, o poco più, di distanza… tanto vicino da poterlo quasi toccare. Quelli più sotto avrebbero dovuto coprire soltanto otto chilometri, all'incirca, fra la base settentrionale e le caverne che si trovavano all'altro polo della cometa. Eppure, nell'osservare la migrazione degli archisti, Virginia aveva la sensazione di assistere a qualcosa di biblico. Quei sedicenti profughi si trascinavano, si sollevavano e si voltavano per aiutarsi fra loro, mentre trasportavano i propri averi verso le nuove case che i loro capi avevano promesso.
Erano stati loro offerti dei mech, che li aiutassero nel tragitto, ma era ben noto che i sofisticati roboidi erano stati rimontati da Jeffers e resi funzionanti da lei, Virginia, tutti e due percell. La natura sospettosa degli archisti l'aveva vinta sulla convenienza, ragione per cui avevano rifiutato ogni cosa, salvo le macchine più semplici.
Tre uomini in tuta spaziale erano in piedi, immobili, sull'altura, accanto al nuovo mech di Virginia, anch'essi intenti ad osservare la partenza degli archisti. Carl e Jeffers tenevano a contatto diretto i caschi, parlando fra loro in privato, indicando con dei gesti la fila delle figure che stavano avanzando con passo strascicato. Sull'altro lato, Saul era appoggiato contro il fianco del mech, intento a canticchiare a bocca chiusa e con espressione assente un motivetto scarsamente espressivo.
Il sapore biblico di quella scena era ancor più rafforzato dalla figura che conduceva quella carovana in fila indiana. Là, davanti a tutti, usando un bastone mentre procedeva a passi lunghi e lenti, c'era Suleiman Ould-Harrad, un tempo tenente colonnello del Servizio Spaziale, adesso consigliere mistico e spirituale del clan degli archisti. Quell'alto nero aveva tinto la propria tuta d'un cupo azzurro mezzanotte, e la sua cotta era bianca con una singola stella nera.
Dietro di lui, trasportando giganteschi fardelli, o trascinando immense slitte fluttuanti, venivano dozzine e dozzine di altri esseri umani: da quelli più vecchi, da troppo tempo usciti dai colombari, ai bambini dagli occhi sbarrati, spettralmente magri, i quali fissavano la scena intorno a loro dall'interno di bolle di plastica per la sopravvivenza.
— Per lo meno altri trenta ortho si sono uniti a loro dopo l'assassinio di Malcolm — borbottò Carl, senza forse rendersi conto che Virginia poteva captare le sue parole attraverso le vibrazioni del ghiaccio. — Non abbiamo nessun modo di sapere chi l'abbia fatto, ma posso dirti chi ne ha tratto vantaggio.
Jeffers annuì.
— Vorrei proprio sapere — disse, — come Quiverian c'è riuscito.
Si azzittirono, mentre la carovana passava davanti a loro.
Sull'altro lato di Virginia, Saul stringeva i cuscinetti tattili del suo mech, dando ad essi un'ulteriore stretta di tanto in tanto. Virginia lo sentiva nelle profondità del sottosuolo, distesa nella sua ragnatela.
Un gruppo di tre forme in tuta spaziale si staccò dalla colonna degli emigranti e, fluttuando rasente il suolo, risalì il pendio in direzione di Carl. La figura in testa ostentava sulla cotta lo spruzzo dorato dell'Arco del Sole Vivente. Joao Quiverian parlò al canale e nel codice concordati.
— Ci aspettiamo di ricevere la nostra parte di vegetali dalle cupole idroponiche, e di avere la nostra quota pro capite dalla pila a fusione.
Carl scrollò le spalle. — Se lavorerete ai propulsori dello sgomitatore, come avete promesso, non abbiamo nessuna ragione di negarvi i vostri diritti. Procedete pure e andate a vivere al polo Sud, se l'essere vicini a noi vi fa sentire immondi.
Era ovvio che Carl si sentiva parecchio sollevato dall'idea di avere i fanatici di Quiverian fuori dai piedi.
— Immondi e in pericolo. — Quiverian annuì come se gli fosse completamente sfuggito il sarcasmo di Carl. — Potremo lavorare meglio agli sgomitatori dal momento che devono comunque venir situati al polo Sud. Tutto quello che esigiamo è che ci vengano forniti materiali e rifornimenti, e di essere lasciati soli.
— Le mie squadre conservano il controllo dei propulsori veri e propri — insistette Jeffers. Quiverian si limitò a scrollare le spalle.
— Basterà che non entriate a casa nostra.
Virginia ebbe modo di studiare l'umore di tutti i partecipanti. Nessuno di loro pensa che tutto questo abbia davvero importanza, altrimenti sbraiterebbero molto di più.
Jeffers scrollò le spalle. — Siamo tutti i benvenuti ad arredare le nostre tombe come megli ci aggrada. — Tutti gli altri parvero concordare con quella cupa valutazione.
Salvo Saul, il quale tutt'a un tratto esplose in una risata abbaiante. Tutti si voltarono a guardarlo.
— Scusatemi. Non fate caso a me — disse, agitando una mano. Ma tutti potevano veder attraverso la sua visiera, che stava lottando per soffocare un ulteriore eccesso d'ilarità.
Carl corrugò la fronte fino a quando l'espressione di Saul non si ridusse a un controllato sorrisetto compiaciuto. Poi si girò di nuovo verso Quiverian. — Andate pure, allora. Andate a sud, in pace.
I tre archisti fecero dietro-front e si allontanarono. A loro volta Carl e Jeffers s'incamminarono verso il vicino portello della galleria.
Saul portò la mano del mech all'altezza della sua visiera e mimo un bacio. — Anch'io devo andare, tesoro. Non aspettarmi alzata.
— Ma… ma… pensavo che saresti sceso adesso. Potremmo passare un po' di tempo insieme. Saul, sei stato via quasi una settimana.
— Oh, suvvia, Virginia. Noi parliamo parecchie volte al giorno.
— Tramite uno dei miei mech! — Il piede di un robot si sollevò dalla neve vicino alla sua gamba. — Non è la stessa cosa!
Lui annuì, sorridendo in maniera irritante.
— Lo so. Sento anch'io la tua mancanza. La sento terribilmente. È soltanto che…
Saul scosse la testa.
— È soltanto che devo verificare qualcosa. È maledettamente troppo importante perché possa aspettare. E non posso ancora parlarne con nessuno… neppure con te… non fino a quando non saprò di sicuro se…
La sua voce rimase sospesa mentre arretrava verso l'ingresso della camera di equilibrio. Virginia conosceva l'espressione sulla sua faccia, quell'espressione remota, scientifica. Saul era già lontano, altrove.
— Fino a quando non saprai cosa? — lei gli chiese. — Cos'è tutta questa storia, Saul?
Lui scrollò le spalle.
— Fino a quando non saprò di sicuro se sono matto… o se sono…
L'ultima parola fu un borbottio, qualcosa detto in una delle lingue straniere di Saul.
— Cosa?
Ma anche adesso lui si limitò a scoccarle un bacio, e subito si girò, procedendo a lunghi passi dentro l'ingresso della galleria.
La parte di lei che era sopra la superficie, collegata ad una macchina di metallo e ceramica, lo seguì con lo sguardo fino a quando il portello non si chiuse, lasciandola lì fuori, nella notte gelida.
In basso, nelle profondità del ghiaccio, il resto di lei era altrettanto al buio.
Trovò il luogotenente comandante Osborn su alla Serra 3. Carl era in piedi, davanti ad una finestra delle cupola di quaranta metri. Indossava una tuta spaziale macchiata, rattoppata e priva di cotta. Lo spaziale stringeva un ammaccato casco nel cavo del braccio e guardava fuori in direzione del pianoro di ghiaccio sporco disseminato di spazzatura.
Che casino pensò Saul.
Le tende a brandelli dei depositi, l'albero di ancoraggio spezzato, là dove un tempo era stata legata quella sfortunata nave, la Edmund Halley… Finalmente Saul si rese conto di ciò che lo tormentava più di qualunque altra cosa. Faceva troppo buio lì nella sera.
Sollevò lo sguardo sulle torri, sottili come fili di ragnatela, che sorreggevano uno dei giganteschi specchi concentratori recuperati dalla grande vela solare della chiatta spaziale Delsemme. Due dei cavi di fissaggio si erano spezzati. Un intero quadrante del grande collettore si era afflosciato.
Fuori, in superficie, una figura solitaria frugava a casaccio fra i detriti, presumibilmente alla ricerca di materiale col quale eseguire riparazioni. Pareva non avere nessuna fretta.
All'interno le cose non erano molto migliori. I quattro uomini e le tre donne di quel turno accudivano ai nastri trasportatori che si muovevano lentamente carichi di patate americane irrigate a gocciolamento, liberando dai detriti i binari di plastica e pulendo i getti degli spruzzi nutritivi. Era un servizio d'importanza vitale, ma gli addetti si muovevano senza nessun apparente entusiasmo.
Tre dei mech riprogrammati seguivano i lavoranti, ma nessuno pareva anche lontanamente interessato ad addestrarli nelle nuove procedure idroponiche. I nastri proseguivano la loro marcia; le piante languivano in quella fioca illuminazione.
Saul provò una viva scossa quando riconobbe i sigilli sugli indumenti dei lavoranti: la scala e la stella che simboleggiavano l'Altopiano Tre.
Spaziali! Sono le ultime persone che mi sarei aspettato che gettassero la spugna!
Saul vide l'espressione sulla faccia di Carl Osborn mentre spaziava con lo sguardo su quel campo di ghiaccio. Non puoi biasimarlo se anche lui ha perso ogni speranza pensò Saul. È ostinato. Ed è di una stoffa robusta. Ma tutti hanno un limite.
Ha fatto girare le stesse simulazioni che ho fatto girare io. Sa quello che accadrà se le cose continueranno ad andare avanti in questo modo.
Perfino se tutti ci avessero dato dentro e avessero collaborato, con tutti i mech disponibili, non ci sarebbe stata manodopera neppur lontanamente sufficiente per predisporre in maniera corretta gli sgomitopropulsori, per non parlare di tutti i lavori necessari per impedire che le cose andassero a rotoli. Mi sorprende che faccia anche soltanto la commedia di crederci.
Saul sorrise. Progettava di cambiare l'idea che Carl aveva del futuro.
Giuro che stavolta non ci saranno fraintendimenti tra noi. Saul sperava che quella buona notizia avrebbe indotto Carl a perdonare perfino lo scarso gusto di Virginia in fatto di uomini.
Non ci ho mai pensato prima, ma con quel tocco di grigio alle tempie, e quello sguardo gelido, in un certo qual modo assomiglia a Simon Percell!
— Sì? — gli chiese Carl, quando gli si avvicinò. — Mi hai detto che intendevi fare un bioinventario della colonia. Hai già pronto un rapporto?
— Proprio così — annuì Saul. — Ma non credo che tu sia molto preparato a crederci.
Carl sollevò le palpebre. — Le cattive notizie non mi spaventano mai.
Saul non poté fare a meno di lasciarsi andare a una risata breve e acuta, che risuonò improvvisa e inaspettata in quel luogo solenne. Gli occhi di Carl si strinsero.
— Mi fraintendi. — Saul sogghignò. — O sono impazzito, nel qual caso la notizia va dal neutro al buono dal tuo punto di vista, oppure ho fatto una scoperta che è davvero di buon auspicio.
Carl s'immobilizzò. Il suo corpo rimase fermo nella tipica posizione rannicchiata dello spaziale, le braccia in avanti, le ginocchia piegate. Soltanto una contrazione delle guance tradiva un'ombra di emozioni, ma era sufficiente per Saul.
Allora è così dolorosa la speranza? Potrà anche odiarmi, ma sa che già altre volte ho tirato fuori conigli dal cappello.
Saul ricordò a se stesso di non esprime giudizi troppo in fretta. Per un uomo che ha visto in faccia la morte, e ha imparato la rassegnazione, spesso la speranza è la cosa che lo spaventa di più.
— Spiegati, per favore — disse Carl con voce sommessa.
— Vieni con me in laboratorio — lo sollecitò Saul. — Anche con le raffigurazioni grafiche non sono sicuro di poterlo spiegare chiaramente. Ma devo condividere questa cosa con qualcuno. Potrebbe essere lo scherzo supremo dell'Infinito fatto ad un uomo che ha avuto l'incorreggibile audacia di tentare di recitare la parte di Dio.
— Capisco — gli disse Carl, circa mezz'ora dopo. — Hai trovato infestazioni da parte della flora e della fauna cometaria in ogni singolo membro vivente dell'equipaggio, in ogni clan, perfino in quei pochi che non abbiamo ancora decolombarizzato.
Saul annuì. — Perfino il computer bio-organico di Virginia, JonVon, sembra soffrire a causa di un'infezione. Quella cosa non è realmente viva, naturalmente, ma qualcosa si è insinuato in essa. Sto cercando di trovare un modo per curarlo.
Carl scrollò le spalle. — Ho cercato con tutte le mie forze di far entrare in testa agli Uber e agli archisti che il loro modo di comportarsi non aveva più nessuna importanza. Percell, ortho, tutti stanno morendo.
Fece per alzarsi. — Se è per questo potresti averci reso un servizio, Saul. Scrivimi un conciso rapporto, cosicché io possa distribuirlo. Potrebbe aiutarci a fare la pace tra noi per il tempo che ci resta da vivere.
Saul lo fermò con un gesto. — Siediti, per favore. Non ho ancora finito.
Carl si riadagiò con riluttanza sulla ragnatela.
— Che altro c'è?
— Ricordi le bioanalisi che ho eseguito sul mio proprio corpo?
— Sicuro. — Carl annuì. — A parte il tuo sistema riproduttivo e quel colare perpetuo del tuo naso, sei abbastanza in salute. Mi spiace che tu sia sterile, Saul. E sono contento per te che i microbi della cometa sembrino ucciderti più lentamente della maggior parte di noi.
— Carl, non mi stanno uccidendo affatto.
L'altro gli scoccò un'occhiata gelida. — Non fare l'asino! Il tuo grafico mostrava un aumento asintonico…
— Un aumento nella varietà degli organismi infestanti, proprio come per chiunque altro. Secondo la logica normale, non posso continuare a combattere ancora per molto tutte queste infezioni. Presto o tardi una di queste finirà per sfondare il mio sistema immunitario, aprendo un'ampia breccia per tutte le altre. È questo lo schema a cui stai pensando?
Carl annuì. — Ho studiato un bel po' di biologia medica durante i miei ultimi cinque anni di servizio.
— Immagino che tu abbia dovuto farlo, da quando Svatuto ha smesso di farvi da dottore.
— Proprio così. E da quando la Terra ha smesso di darci consigli che valessero qualcosa di più di quelli d'un maledetto praticone di villaggio. — Carl fece una smorfia, ricordando con amarezza. — Durante i miei turni ho visto gente vivere per anni con la pelle tinta di verde e la febbre bassa, i quali hanno continuato a combattere come campioni… per poi cadere a pezzi, letteralmente, quando venivano colpiti dall'ultima goccia…
Saul scrollò le spalle. — Quelli erano loro.
— E tu sei diverso? — commentò Carl in tono di scherno. — Sei stato oggetto d'una speciale benedizione?
Saul avrebbe voluto ridere. Benedetto? Oh, Miriam, cos'ha fatto l'onnipotente al tuo semplice Saul?
Fece una pausa e tirò un sospiro. — Voglio raccontarti qualcosa. Lascia che ti parli della simbiosi.
Immaginate un virus… una semplice striscia di acidi nucleici impacchettati dentro un guscio di proteina… un assassino, una bomba intelligente con un solo compito: replicarsi.
Supponete che questo virus trovi un vettore, e penetri la pelle e le membrane esterne di un organismo multicellulare… forse un essere umano. A questo punto il suo lavoro è soltanto cominciato. Da qui, cerca la sua vera preda, non tanto l'uomo quanto una singola cellula dei molti trilioni che lo compongono.
Cercare potrebbe non essere la parola corretta, giacché un virus è soltanto una forma di pseudovita. Non si muove grazie a vibrazioni o tracce chimiche, come fanno i protozoi e i batteri. Un virus si limita soltanto ad andare alla deriva, sospeso nell'acqua o nel sangue o nella linfa o nel muco, fino a quando non colpisce la superficie d'una cellula sfortunata. Ora supponete che uno di questi pezzettini di semivita abbia fortuna. Ha evitato le difese dell'organismo della vittima. Non ci sono anticorpi capaci di agganciarlo e di trascinarlo via. Non viene inghiottito e distrutto dalle forze di pronto intervento del sistema. Il virus fortunato sopravvive andando a sbattere contro una cellula probabile proprio alla maniera giusta, innescando l'aderenza.
S'incolla alla parete della cellula, una semplice capsula di proteine, pronto ad iniettare il suo contenuto nella cellula prostrata. Una volta dentro, l'RNA virale prenderà il controllo del vasto e complesso macchinario chimico della cellula, costringendola a forgiare centinaia, migliaia di duplicati del virus originario, fino a quando, simile a un pallone troppo gonfio, la cellula devastata esplode. La nuova orda virale si riversa all'esterno, lasciandosi soltanto un relitto alle spalle.
C'è il virus incollato alla parete esterna… pronto a iniettare il suo carico tirannico nella preda prostrata…
Prostrata sì. Ma indifesa?
Per lungo tempo una disputa ha infuriato tra medici, biologi e filosofi. Una piccola minoranza continuava a porsi in continuazione la stessa domanda.
Perché mai la cellula permette che avvenga questa catastrofe?
Gli eretici della biologia hanno fatto notare quanto fosse difficile ghermire e penetrare le complesse barriere delle pareti di una cellula. C'erano talmente tante cose in gioco, e pareva così semplice per una cellula rifiutare semplicemente l'accesso.
E il fantastico numero di passi necessari per trasformare il meccanismo di una cellula in una fabbrica schiavizzata, costringendo i ribosomi e i mitocondri a eseguire compiti del tutto estranei alle loro normali funzioni?
— Tutto quello che deve fare una cellula è interrompere uno di questi passi, uno qualsiasi, e il processo sarà completamente bloccato! — dichiaravano gli increduli. — Dev'esserci una ragione. Per quale motivo la cellula acconsente ad essere una preda così facile?
I biologi classici storcevano il naso disgustati. Gli animali sviluppano in continuazione nuovi sistemi per combattere i virus, dicevano. Ma i virus evolvono metodi per aggirare qualunque ostacolo. L'equilibrio viene sempre raggiunto sul filo del rasoio della morte.
Ma i dissenzienti insistevano. — La morte è soltanto un effetto collaterale. La malattia non è una guerra fra specie. Più spesso è un caso di negoziati falliti.
— Sto perdendo il filo — confessò Carl a Saul.
Saul batté le dita sulla superficie della scrivania e cercò le parole giuste. — Uhmmm. Proviamo con un esempio. Tu sai cosa sono i mitocondri, giusto?
Carl inclinò la testa e parlò, compitando: — Sono dei granuli… parti interne della cellula vivente. Regolano l'economia dell'energia di base… provvedono al potenziale elettrochimico bruciando zuccheri e convertendo l'energia in forme utilizzabili.
— Molto bene — annuì Saul, favorevolmente colpito. Carl aveva studiato davvero durante quei lunghi anni di disperazione. Per niente il tipo dell'erudito, era probabile che avesse padroneggiato la materia grazie alla forza bruta.
— E conosci la teoria ampiamente sostenuta sul luogo d'origine dei mitocondri?
Carl chiuse gli occhi. — Ricordo di aver letto qualcosa in proposito. Assomigliano a certi tipi di batteri che vivono in libertà, vero?
— Sì, proprio così.
— Qualcuno pensa che un tempo fossero creature indipendenti. Ma molto tempo fa uno dei loro antenati è rimasto imprigionato dentro uno dei primi eucarioti.
Saul annuì. — Circa un miliardo di anni fa… quando i nostri antenati erano soltanto cellule singole, che cacciavano in mare aperto.
— Già. Pensano che uno di quei nostri antenati abbia mangiato i mitocondri ancestrali. Soltanto che per qualche ragione quella volta non li ha digeriti. Ha invece lasciato che quelle minuscole creature sopravvivessero e lavorassero per lui.
Carl sollevò lo sguardo su Saul e replicò, in tono serio: — È questo che intendi per simbiosi, non è vero? I mitocondri primevi hanno offerto alla cellula ospitante una conversione dell'energia più sufficiente. E in cambio essi non hanno più dovuto dare la caccia al cibo per proprio conto. La cellula ospitante…
— … i nostri antenati…
— … si sono occupati di questo da allora.
— E quando l'una si divideva, così facevano gli altri, distribuendosi a ciascuna cellula figlia. L'associazione divenne ereditaria, generazione dopo generazione. — Saul annuì. — Lo stesso sembra valere per i cloroplasti, i granuli verdi delle piante che fanno il lavoro vero e proprio della fotosintesi. Sono parenti delle alghe azzurro-verdi. E molti altri componenti cellulari mostrano anch'essi segni di essere stati un tempo creature indipendenti.
— Sì, ricordo di aver letto qualcosa in proposito. — Carl, per la prima volta, pareva interessato. Saul ricordava qualcuna delle conversazioni che avevano avuto ai primi tempi, prima che il contrasto si fosse spalancato fra loro come un abisso. Si chiese se Carl ne sentisse la mancanza tanto quanto lui.
Probabilmente di più. Dopotutto io ho Virginia.
— Lo stesso vale per l'intero organismo, Carl. Un normale essere umano ha un numero incalcolabile di creature che gli vivono dentro, che dipendono da lui, come lui dipende da loro. Dai batteri dello stomaco che ci aiutano a digerire il cibo ad uno speciale tipo di minuscolo insetto che vive alla base delle sopracciglia umane, ripulendole, mangiando la materia decomposta e impedendo che si accumuli.
Saul premette insieme le mani. — Nessuna di queste creature simbiotiche può vivere indipendentemente dall'uomo. Né noi possiamo cavarcela facilmente senza di esse. Fanno parte dell'organismo-colonia chiamato Homo sapiens, tanto quanto lo stesso DNA.
Carl sbatté le palpebre, come per cercare di assorbire quel nuovo balzo in avanti. — È come nella fisica quantlstica, allora. I confini di quello che io chiamo «me stesso» sono… sono…
— Sono amorfi. Nebulosi. Difficili da definire. Ci sei! Hanno scoperto, per esempio, che le coppie sposate condividono in gran parte la stessa flora intestinale. Fai l'amore con una donna, e scambi con lei dei simbionti. In un certo senso diventi parte della stessa creatura condividendo degli elementi che crescono e partecipano gli uni degli altri.
Carl corrugò le sopracciglia, e Saul si rese conto di aver sfiorato un argomento delicato. Si affrettò a proseguire.
— Ma qui sta il mio punto principale, Carl. Probabilmente pochi, sempre che ce ne siano stato qualcuno, di questi simbionti hanno occupato la loro nicchia senza una lotta iniziale. L'evoluzione non funziona in questo modo… per lo meno non di solito.
— Ma…
— Ogni simbionte, da quello che aiuta la digestione a quello che pulisce i foruncoli, hanno cominciato come invasori. Ogni sinergismo è incominciato come una malattia.
— Non… — Carl corrugò la fronte per concentrarsi. — Aspetta. Aspetta un momento. — La sua fronte era un intreccio di solchi serrati. — Hai parlato della malattia come di un negoziato fra l'ospite e la specie dell'invasore…
— … visitatore…
— Ma… se è anche questo il caso, questo negoziato ha luogo sopra il corpo d'un numero incalcolabile di cadaveri da entrambe le parti! — Carl sollevò lo sguardo con gli occhi che gli lampeggiavano. — È vero, potrebbero arrivare a un modus vivendi, un giorno, ma questo non aiuta gli individui che sono morti, spesso in maniera orribile, infranti sulla ruota dell'evoluzione.
Saul lo fissò, incapace di nascondere la sua sorpresa. Nei suoi momenti più pensierosi Carl Osborn pareva aver acquistato una nuova capacità con le parole. A forza di venir stemperata, una gioventù difficile sì era trasformata facendolo diventare una specie di poeta.
— Ben detto — annuì Saul. — Ed è esattamente quello che vediamo qui su Halley. Qualcuno muore all'improvviso. Altri combattono contro gli intrusi fino a una situazione di stallo. Qualcuno trae perfino profitto dagli effetti collaterali delle loro infestazioni.
Carl picchiò la mano sulla superficie del tavolo, causando un sonoro rimbombo, e si girò di scatto per fronteggiare completamente Saul.
— È tutto molto bello, Saul. Se… se ci fossero soltanto una o due malattie, e se avessimo a disposizione delle generazioni, con milioni d'individui sui quali attuare tutto questo.
«Ma non è così! Mettiamo che tu sia come quel tipo verde su all'Idroponico Due…
— Il vecchio McCue? Quello i cui parassiti della pelle sembrano alimentarlo con delle sostanze nutrienti prodotte dalla luce del Sole?
— Già. Magnifica cosa. Ma, per citare il tuo stesso rapporto, la mente di quell'uomo è stata contemporaneamente ridotta al livello di un idiota da un peptide, un prodotto collaterale dovuto proprio a quel fungoide parassita!
Carl ansimava affannosamente.
— Sono lieto che tu abbia letto i miei studi — commentò Saul.
Carl sbuffò. — A parte Jeffers, e il computer di Virginia, tu sei il solo, ormai, che scriva qualcosa che valga la pena di leggere. Sono sicuro che sarai ancora più famoso, una volta che avrai mandato i tuoi rapporti sulla Terra.
Questa frase fece sussultare Saul. Com'era riuscito a farsi fraintendere un'altra volta da Carl? — Non è così.
— Oh? Allora, com'è, signor Grand'Uomo della Biologia? Dimmelo! Ti ho mostrato che so un sacco di cose, per essere un dilettante. Convincimi! Dimmi come diavolo tutte queste stravaganti teorie sulla simbiosi potranno costituire anche una sola fettina di differenza per una colonia minuscola, sopraffatta, dove ogni singolo membro è un sicuro e completo defunto!
La pausa si prolungò. Saul aspettò fino a quando il respiro affannoso dell'altro non si fu calmato, fino a quando Carl non si fu reinfilato dentro la ragnatela sul suo lato della scrivania, fissandolo furioso.
— Te l'ho già detto, ma non mi sei stato ad ascoltare — rispose con voce sommessa. — C'è una persona su questo planetoide che non corre assolutamente nessun pericolo. Qualcuno con degli attributi che lo mettono al sicuro in maniera totalmente nuova.
«Quella persona sono io, Carl.
Per la prima volta, il nocciolo di quella conversazione parve colpire lo spaziale. Carl si rizzò a sedere.
— Tu?
— Io. — Saul annuì. — I miei sternuti, il naso che mi cola in continuazione, sono soltanto le caratteristiche superficiali di quel «processo negoziale» di cui abbiamo parlato. E pare che il mio sistema immunitario sia un diplomatico perfetto. Salvo per il danno subito dalle mie cellule riproduttive, il mio corpo ha accettato i nuovi venuti quasi senza nessun problema. Accetta o respinge in breve tempo ogni nuova forma di vita, e ciascuna trova ben presto la propria nicchia.
Vi fu un altro silenzio.
— Sto parlando molto seriamente, Carl.
— Ma… come?
— Come? — Saul scosse la testa. — Finora ne capisco soltanto una parte. Tanto per cominciare, ho ereditato un raro enzima che qualcuno chiama Complesso N. Su Halley, oltre a me, c'è all'incirca un'altra dozzina d'individui che l'ha.
— E sono…?
— … più resistenti alle malattie? Pare di sì. Ma c'è anche qualcos'altro, qualcosa nel mio sangue, che vi è entrato laggiù, molto tempo fa, quando lavoravo con Simon Percell.
— Sì? — Adesso la voce di Carl era priva d'inflessioni, la sua espressione si era fatta controllata.
— Viene chiamata una unità di lettura. Le abbiamo usate soltanto per un paio d'anni, fino a quando non abbiamo trovato dei modi migliori per spogliare e analizzare il DNA dal vivo. Mi ero dimenticato quasi completamente di quelle piccole cose… fino a quando non le ho viste galleggiare quaggiù, dove hanno preso possesso delle mie cellule spermatiche.
Saul scosse la testa. — Non so davvero come abbiano fatto a entrarmi dentro. Devo essermi punto un giorno mentre facevamo un'analisi del gene. Ma in qualunque modo siano arrivate là, in qualche modo il mio corpo le sta usando.
«Adesso credo di sapere perché sono stato tanto fortunato, trent'anni fa, quando ho messo a punto i miei cianuti. In realtà non sono stato io a svilupparli, è stato il mio corpo.
A queste parole seguì un pausa di silenzio più lunga di tutte.
Finalmente, Carl parlò:
— Ho letto anche psicologia, Saul. Sai, naturalmente, che sostenere di essere invulnerabili è un sintomo di paranoia?
Saul scrollò le spalle. — Sono basilarmente, sotto ogni aspetto, completamente sano. Completamente. L'unico in tutta la colonia. Non mi credi?
— Certo che no! Per cosa mi prendi?
Saul gli porse la mano. — Prendila — disse con noncuranza. Dopo un attimo di esitazione, le dita callose di Carl si strinsero intorno a quelle di Saul, ancora morbide per essere rimaste così a lungo nel colombario…
Il sorriso truce di Carl si dissipò, diventando un'espressione d'intensa concentrazione quando Saul strinse, continuando a parlare con aria indifferente.
— Le malattie, il decondizionamento dovuto alla microgravità, la stanchezza causata dal colombario… vi hanno messi tutti a terra al punto che un boy scout drogato potrebbe battervi con un braccio legato dietro la schiena.
La fronte di Carl s'imperlò di sudore. Ostinatamente, grugnendo, cercò inutilmente di svincolarsi dalla stretta di Saul.
— Tu sai che non potete completare in tempo i propulsori per la sgomitata, neppure con tutto l'aiuto che vi potranno dare i mech di Virginia. Vi serve gente, e non l'avete, Carl. Duecento colombarizzati per sempre, un altro centinaio deboli come gattini appena nati…
Liberò la presa, e Carl si accasciò all'indietro, respirando affannosamente, gli occhi sgranati.
— Non ti ho fatto vedere questo per rinfacciarti la tua debolezza, Carl. Voglio soltanto che tu mi creda quando ti dico che potrebbe esserci un modo, un modo per offrire un'immunità simile a questa a molti, forse perfino alla maggior parte dei membri di questa spedizione.
«Carl, potremmo non essere condannati, malgrado tutto.
Non disse altro. Non valeva la pena di parlare ancora. Quando Carl avesse avuto delle domande, le avrebbe fatte. Lasciagli il tempo di assimilare la notizia si disse.
In quel momento il volto di Carl era come quello di una statua. Si alzò in piedi, oscillando incerto, fissando Saul mentre arretrava, scuotendo la testa. Con una mano toccò la piastra della porta, riversando la luce fosforica nella stanza oscurata.
Dal corridoio, Carl continuò a fissarlo fino a quando la porta non si fu di nuovo chiusa, escludendo la visuale, ma non l'immagine.
Un istante dopo, Saul sollevò lo sguardo verso il soffitto.
Oh, ti conosco, Ado-shem si disse, pensando al barbuto Dio di Abramo dall'occhio feroce. Stamattina ho aperto il tuo dono, ho lacerato la carta dell'imballaggio, e ho guardato dentro. E giusto adesso ho fatto vedere la sua temibile bellezza a un uomo che un tempo mi era amico.
Dapprima sembra un bellissimo dono. Come la roccia dalla quale scorreva l'acqua per i bambini degli ebrei nel deserto. Ma tu ed io lo sappiamo che dentro la scatola c'è un'altra scatola, e un'altra ancora, all'infinito.
Ed io non sono per nulla più vicino a una risposta alla domanda fondamentale, vero? Da dove è venuta la vita di Halley? Le comete hanno seminato la Terra molto tempo fa? Oppure noi siamo soltanto i più recenti invasori di questo piccolo mondo? Come ha potuto succedere tutto questo, in primo luogo?
Non c'era nessuna risposta, naturalmente.
Saul sorrise, con lo sguardo rivolto verso l'alto, attraverso mezzo miglio di ghiaccio roccioso, in direzione delle stelle.
Oh, sì, potrai goderti il tuo scherzo.
Carl e Virginia sedevano rigidi su due sedie a rete accostate l'una accanto all'altra. La ruota-G si era guastata molti anni prima e i sottili effetti collaterali della costante permanenza a bassa gravità erano palesi. Il salone era deserto, salvo per loro due. La vivida parete «climatica» scorreva via inosservata. Un sonnacchioso cammello avanzava ballonzolando lentamente lungo il crinale d'una lontana duna.
— Quello che intendo dire — dichiarò Carl, con franchezza, — è: tu pensi che abbia tutte le rotelle a posto?
— Ma certamente. Saul è perfettamente a posto — rispose lei, indignata, la tensione era ben visibile nel suo linguaggio corporeo.
Devo ricordarmi che lei ama davvero quell'individuo pensò Carl. E va bene, sarò diplomatico. — Sono preoccupato per la sua… salute.
Virginia non era affatto disposta ad accettare niente del genere.
— Vuoi dire… che tu pensi che la sua scoperta sia un'illusione?
— Be'… è qualcosa di estremo. — Carl gettò le braccia in aria e tuonò: — Io, Saul Lintz, sono un divino immortale. Immune! Invulnerabile! Inginocchiatevi, miseri mortali!
— Non è questo il suo atteggiamento.
— Oh… diciamo allora che si presenta come una tranquilla megalomania.
— Ti ha descritto una teoria.
— Con lui stesso come prova principale.
— Be', sì. Chi altri a bordo ha la costellazione-N?
— Una buona domanda. Potresti controllare il registro del DNA per vedere se ci sono altri…
Gli occhi di Virginia guizzarono di lato soltanto per un istante, ma questo bastò a Carl, che sapeva interpretarla molto bene. — Ce ne sono altri tre.
— Bene. C'è un modo facile per controllare la sua teoria, non ti pare? Decolombarizziamoli, e vediamo se si prendono un microbo.
— Saul ha detto la stessa cosa, ieri, quando gliene ho parlato.
— Uhmmm. Mi chiedo perché non mi abbia accennato a quel piccolo fatto.
— Era indaffarato. Immagino voglia riflettere un po' di più prima di… di fare esperimenti.
— Oppure, forse, vuol fare tutto da solo. Il grande Saul salva tutti.
Virginia si adombrò. — Tu non hai il diritto di dire questo!
Carl si affrettò a sollevare le mani. — Sì, d'accordo, forse hai ragione. Diciamo pure che ho avuto a che fare con un bel po' di matti, durante tutti questi anni. Ho preso l'abitudine di dubitare di tutto.
Virginia si morse le labbra. Per contenere la rabbia? Oppure per tenersi dentro il sospetto che io possa aver ragione?
— Se le inoculazioni di Saul dovessero funzionare — disse Virginia, misurando il tono di voce, — saremo in grado di salvarci. La spedizione avrà successo. Devi riporre in lui la tua fede. Darai il tuo assenso alle sue cure sperimentali iniziali sui volontari, non è vero?
Carl scrollò le spalle. — La mia autorità è limitata. Le «tribù» contribuiscono con il loro lavoro. Io mi occupo della direzione di routine e preparo gli elenchi dei turni di servizio. Non sono il capitano Blight. Non vedo come potrei impedirgli di reclutare… volontari. — Era stato quasi sul punto di dire gonzi.
— Bene. Capisci, Carl: questa è la nostra speranza.
Speranza. Fu tentato di parlare a Virginia dell'effetto collaterale della meravigliosa simbiosi di Saul: la sterilità. Ma se Saul gliel'aveva già detto, questo sarebbe servito soltanto a farlo apparire meschino.
Carl fece una pausa. Sopra la sua spalla una carovana di arruffati cammelli fulvi marciava infaticabile attraverso una vasta distesa di sabbia, diretta verso una verde chiazza di palme a metà strada dal bordo marcatamente inciso dell'orizzonte. Mercanti abbigliati di rosso dondolavano in cima a ogni cammello, guardando direttamente in direzione di Carl con palese sospetto. Le loro immagini tremolavano per il calore, increspando quella poderosa carovana come se fosse un sogno. Psicologicamente efficace, senza alcun dubbio, ma Carl si sentiva ancora i piedi freddi.
— C'è qualcosa che ti tormenta, Virginia.
— JonVon sta… male.
— Ho sentito. Lui… esso… è malfunzionante?
— Lui è una matrice organica, ricordalo. Saul pensa che sia stato infestato da alcune delle halleyforme. Spero che possa trovare una cura.
Quindi, cominciò a delineare il problema, l'analogia fra le sostanze organiche non viventi di JonVon e i comuni esseri di sangue e carne, e di come JonVon potesse «prendere un raffreddore» in maniera più che metaforica. Carl ascoltò guardandola negli occhi molto a lungo. Sentiva ancora quella vecchia attrazione, quel lento caldo anelito che sarebbe esploso in lui se l'avesse permesso. La sua bocca pensierosa, ansiosa, l'impronta regale dei suoi alti zigomi…
— JonVon è immortale come potrebbe esserlo Saul? — chiese Carl.
— Saul potrebbe renderlo così. Se si potesse trovare una cura. Se Saul ha ragione riguardo se stesso…
— Continuo a pensare che siano tutte balle.
Virginia replicò, compassata: — Dobbiamo fare subito un test con quei tre nei colombari.
Pare così sicura… Possibile che Lintz abbia ragione?
Virginia era troppo onesta per permettere che l'amore l'accecasse del tutto. Avrebbe dato qualche segno, se dubitava di Saul…
— D'accordo, presumendo un vero miracolo, dovremo attivare nuove aree agricole. Dovremo tirar fuori quasi tutti dai colombari. Forse, chissà? Saul potrebbe curare qualcuno di quelli listati di nero.
— Perfino il comandante Cruz?
Il pensiero colpì Carl con violenza. — Potrebbe essere — disse, per coprire la sua confusione. Far rivivere gli ufficiali anziani… Non sarò più un pezzo grosso, qui intorno. Ma sarebbe magnifico lavorare di nuovo con il capitano, con qualcuno che sa davvero come fare le cose…
— Sarà una corsa infernale, con pochi anni soltanto prima dell'afelio.
Virginia s'illuminò. — Possiamo farlo. So che possiamo.
— Maledettamente giusto. — E Carl si costrinse ad un sorriso di speranza.
Perché non essere ottimisti? Non potrà far male a nessuno, dopo quello che è successo. Nella peggiore delle ipotesi Saul Lintz risulterà un folle. Nella migliore… be', nella migliore, potremo perfino completare gli sgomitopropulsori, spostare Halley, portare effettivamente avanti la missione.
Ma Carl sapeva che perfino i miracoli hanno le loro sgradevoli conseguenze. Che effetto avrà la speranza sulla tribù? si chiese.
È allora che cominceranno le vere lotte intestine, sul dove punteremo questa vecchia palla di ghiaccio per farcela cadere fra trent'anni.
Virginia si asciugò gli occhi. Senza nessuna vera gravità, le lacrime si gonfiavano verso l'alto e rimanevano attaccate in bolle tremolanti tenute insieme dalla tensione superficiale. Bisognava scuotere la testa, oppure asciugarle. O così, oppure era necessario indossare piccole lenti di acqua salata e vedere il mondo rifratto attraverso il proprio dolore.
— Andrà tutto bene? — chiese. La voce le tremava come quella di una bambina, ma Virginia non provava vergogna. Moltissima gente provava verso certi oggetti lo stesso amore che aveva verso gli esseri umani. E JonVon era assai più di una bambola di pezza.
— Credo… — la voce di Saul si alzava e si abbassava. — La sua testa era immersa in un'olovasca, un metro cubo di simulazione ben squadrata che pareva un acquario pieno di uno strano intruglio, quello che per uno chef avrebbe potuto essere un incubo di pezzetti e pezzettini luminosi. Era la rappresentazione codificata a colori dell'intricata chimica di un computer stocastico colloidale, e a quel profondo livello tutta l'esperienza di Virginia era inutile. Virginia poteva anche essere una bravissima programmatrice, ma non sapeva praticamente niente di molecole, o di ciò che rendeva malate le cose pseudoviventi.
Saul mugugnò. Non riusciva a seguire quello che stava facendo con le mani, nelle profondità dell'olo, ma qualunque cosa avesse scoperto, pareva soddisfarlo. Saul tornò a sedersi. — Display off — disse al computer diagnostico.
— Allora? — Le gambe di Virginia si tesero nervose e dovette afferrarsi al tappeto con le dita dei piedi per evitare di venir proiettata sul pavimento. — Allora? Dimmelo, sono pronta.
Saul le prese la mano e i suoi occhi azzurri parvero splendere. Virginia cacciò un rantolo quando lesse in essi la risposta. — Guarirà! — Lanciò un evviva, si girò di scatto e si buttò fra le sue braccia. — L'hai riparato!
Oh, che uomo comprensivo pensò, tenerla stretta a sé e ridere, mentre i suoi occhi lacrimosi gli lasciavano per causa di forza maggiore delle tracce sulle guance, e lei gli respirava felice sul collo… Oh, com'è caldo, forte e gentile.
Le mani di Saul le accarezzarono i capelli, vicino al cerotto là sulla nuca, dove i suoi nuovi medicinali avevano ridotto l'irritazione. Una settimana prima, chiunque l'avesse sfiorata in quel punto l'avrebbe fatta gemere per il dolore. Ma adesso non le faceva più male. L'infezione era quasi scomparsa. Era bello venir toccati di nuovo.
— Penserai certo che sono un'idiota — disse Virginia alla fine, mentre prendeva il suo fazzoletto e si rizzava a sedere sulle sue ginocchia per soffiarsi il naso.
— No, non lo penso.
— Be', questo dimostra quanto capisci. Lo sono davvero. Fare tutte queste storie per una macchina.
Saul le accarezzò una ciocca smarrita di capelli, riassestandogliela. — Allora sono un'idiota anch'io. Ero tremendamente nervoso, per questo intervento. E anche Carl lo era.
Virginia tirò su col naso. — Carl è preoccupato perché Jon-Von è di lunga il miglior computer che ci rimane. Carl non può guidare la sgomitata senza di lui.
— E allora? Questa non è una ragione più che sufficiente?
— Suppongo di sì. Ma non è che gliene importi veramente.
Virginia serrò i pugni. In realtà, c'era qualche altra ragione per la quale Carl la faceva infuriare. Stava ancora ribollendo un po' di rabbia per quello che Carl aveva detto di Saul.
Mi è sempre piaciuto Carl pensò. Ma riesce ad essere così maledettamente cocciuto… Sono passate settimane da quando Saul ha cominciato a condividere il siero prodotto dal suo stesso sangue, e soltanto adesso, dopo una terapia incredibile dopo l'altra, Carl è disposto ad ammettere, finalmente, che è davvero avvenuto un miracolo.
Naturalmente, questo era altrettanto ingiusto. Carl era vissuto talmente a lungo, logorato dalla disperazione, con la premessa che ogni cosa era perduta, che gli ci sarebbe voluto un po' di tempo per riabituarsi alla speranza.
Avrebbero tutti dovuto riadattarsi un po'.
Molte cose erano cambiate dal giorno dell'esodo degli archisti. Adesso, grazie alle cure di Saul, un numero sempre maggiore di persone veniva tirato fuori dai colombari, curato e messo al lavoro a costruire e a provare i congegni che sarebbero stati necessari quando la cometa di Halley sarebbe stata trasformata da una palla di ghiaccio alla deriva in un'astronave.
Naturalmente, le tecniche di Saul non potevano riparare danni impossibili, oppure resuscitare i morti irreversibili. Ma speravano di riuscire ad elevare la popolazione attiva della colonia a duecento anime, all'incirca, più della metà rispetto al numero originariamente previsto quando la Edmund e le quattro chiatte a vela erano state lanciate dalla Terra.
Già il moribondo sito degli sgomitatori giù a sud era tutto un ronzare di attività. Pareva che gli archisti lavorassero con i tecnici di Jeffers, perfino con gli Uber di Sergeov, in una nuova atmosfera di collaborazone.
Se soltanto potesse durare si augurò. Per gualche motivo, malgrado lo desideri con tutto il mio cuore, non posso credere che sarà così.
— Lascia che dia un'occhiata al tuo braccio — insisté Virginia. Quando Saul glielo tese, rintracciò i segni di numerose punture che si andavano rimarginando. — Qual è quella dalla quale hai estratto il sangue per il siero di JonVon?
Saul si mise a ridere. — Come faccio a saperlo, Ginnie? Te lo dirò comunque. Devo ammettere che quello è stato il mio caso più difficile, finora. Non avevo mai immaginato che i processori bio-organici fossero così complicati. — La sua espressione divenne pensierosa. — In effetti l'agente infettivo era sottile; una molecola simile ad uno ione proteico, autoreplicante, che in qualche modo è penetrata dentro la custodia fredda di JonVon negli anni durante i quali eravamo addormentati. Se fosse andata avanti ancora un po'… — Scrollò le spalle.
— Ma sei arrivato in tempo? — Virginia, ancora in preda al nervosismo, pronunciò la frase come una domanda, malgrado la sua fiducia in Saul.
Lui sorrise. — Oh, quel nostro figlio surrogato starà benissimo. Usando i metodi della simbiosi, ho trasformato la molecola in una variante che JonVon può usare nei suoi sistemi di autocorrezione. In realtà, sembra che lo renda anche più veloce. Naturalmente dovrai essere tu a valutare gli effetti.
Virginia aveva ammiccato più volte quando Saul si era riferito a JonVon come al loro «figlio surrogato». Naturalmente, adesso Saul era proprio come lei, incapace ormai di avere figli propri. Si rendeva conto, con un pizzico di senso di colpa, che ciò la faceva sentire ancora più vicina a lui. Adesso avrebbero potuto confortarsi a vicenda.
Oh, avremo i nostri problemi. A mano a mano che il tempo passa, il nostro rapporto non potrà mai essere perfetto… Questo accade soltanto nei romanzi.
Ma le venne alla mente la strofa d'una poesia, del tutto all'improvviso, com'era capitato con altre poesie, di recente, e con sempre maggior frequenza. Era un haiku:
Sotto la tenda dell'inverno.
I nostri figli, semi sotto la neve,
io afferro il tuo caldo profumo…
Lo sguardo di Saul era lontano. — In effetti, alcune delle tecniche per lavorare con gli organici colloidali sembrano applicabili alla clonazione biologica. Lavorando su JonVon, mi sono venute alcune idee…
Virginia scoppiò a ridere e gli scompigliò i capelli, i quali, sorprendentemente, adesso stavano diventando bruni alle radici, anche se Saul aveva detto che in realtà non stava diventando «più giovane», ma soltanto «un perfetto esemplare di uomo di mezza età».
— Ti vengono sempre idee nuove. Suvvia, Saul. Voglio parlare a JonVon.
Si spinse verso la ragnatela accanto alla sua stazione di controllo e tirò su i propri capelli con una mano. Staccò il cerotto, mettendo a nudo il connettore neurale.
— Uhm, forse faresti meglio ad aspettare…
Gli occhi di Virginia lampeggiarono minacciosi. — È un ordine, dottore?
Saul scrollò le spalle, sorridendo. — Immagino che lo faresti comunque, nel momento stesso in cui ti volterò le spalle.
Virginia sorrise. — Sono passate settimane. Troppo tempo per un'impenitente data-line come me.
Si sdraiò completamente sulla ragnatela. Il suo piccolo assistente mech, Wendy, si avvicinò ronzando e le presentò la fin troppo logora presa, che si fissò al proprio posto con un piccolo e sommesso suono soffocato.
Virginia sentì Saul che scivolava accanto a lei, mentre si adagiava all'indietro e chiudeva gli occhi, abbandonandosi alla familiare pulsazione che le arrivava direttamente al cervello.
Come stai, Johnny? chiese, articolando con molta attenzione le parole subvocaliche, come avrebbe parlato a un bambino convalescente.
EHI, VIRGINIA. HO QUALCHE POESIA PER TE.
Le parole tremolarono nello spazio sopra la loro testa, oltre ad echeggiare lungo il suo nervo acustico. Poteva dire, anche soltanto dalla chiarezza del tono, che le cose stava andando meglio, molto meglio.
Non ancora, Johnny. Per prima cosa voglio farti una diagnostica completa.
VA BENE, VIRGINIA. DO INIZIO ALLA SUBPERSONA DEL «SIGNOR RIPARATUTTO».
Saul non aveva mai visto prima di allora la simulazione di quella personalità. Scoppiò a ridere, mentre si formava l'immagine, limpida come il cristallo, di un uomo che indossava una tuta sudicia, il quale si stava pulendo le mani su uno straccio. Dietro a quel lavorante si affannavano degli aiutanti, i quali correvano su e giù, portando stetoscopi e voltametri ed enormi chiavi inglesi, verso una gigantesca impalcatura. All'interno di questa, vibrava e sferragliava una macchina colossale, ingombrante. Il vapore sibilava e un basso ronzio permeava ogni cosa.
Una tavoletta per appunti comparve dal nulla. Il mastro meccanico sorrise mentre s'infilava un paio di bifocali ed esaminava la lista.
STIAMO CONTROLLANDO, SIGNORINA.
I RISULTATI PRELIMINARI SEMBRANO MOLTO BUONI.
LA CONDIZIONE DELL'INSIEME DEI SISTEMI È TORNATA NORMALE.
LE ROUTINES DI AUTOCORRELAZIONE ADESSO FUNZIONANO SULLA BASE DEL «DIMMELO TRE VOLTE» RILASCIATO DAL CONTROLLO QUINTUPLO RICHIESTO DURANTE L'EMERGENZA.
IL SERVIZIO MANUTENZIONE SOFTWARE RIFERISCE CHE I PROGRAMMI GIRANO SECONDO L'EFFICIENZA NORMALE O MIGLIORE.
ADESSO SEMBRA CHE CI SIANO PROBLEMI SERI IN UNA SOLA AREA.
Be'? Di che si tratta? chiese.
Il signor Riparatutto la fissò da sopra il bordo degli occhiali.
HO QUALCHE POESIA PER TE, VIRGINIA.
Per la sorpresa, la sua testa ebbe uno scatto. Le stesse esatte parole…
Qui stava succedendo qualcosa.
— Cosa c'è, Ginnie? — chiese Saul, percependo parte della sua preoccupazione attraverso il collegamento.
— Niente, probabilmente… — borbottò Virginia. Si concentrò, per inviare delle sonde lungo parecchi percorsi contemporaneamente, per scoprire da sola cosa c'era dietro a tutta quella storia.
Pareva così facile! Era forse un confronto che stava facendo con il precedente stato lesionato di JonVon? Oppure adesso le sembrava più facile che mai incrociare per quei canali, in mezzo a quei fiumi di dati? Era quasi come se potesse entrarvi con il pensiero vero e proprio, invece di usare le simulazioni che il computer forniva per mimare l'esperienza. I blocchi di memoria erano rappresentati da metafore: schede di catalogo, classificatori, scaffali di libri lunghi molti chilometri, e file di vecchi e rugosi narratori di storie…
Ecco. S'imbatté in una barriera. Qualcosa di custodito dietro un alto muro ed una porta sbarrata. Un blocco. Un grande accumulo di dati, nascosti, inaccessibili.
— Credo sia soltanto un pochino costipato — disse. Saul esplose in un'improvvisa risata abbaiante, ma s'interruppe con altrettanta prontezza quando avvertì la serietà della sua voce.
È grosso… Cos'è mai, che JonVon ha ammucchiato qui dentro?
Cercò d'introdursi in quell'ingorgo con leve metaforiche che in realtà erano subroutine matematiche abilmente elaborate.
Prova con una Trasformazione Kleinfeld… una mappatura ruotante… sì.
Una routine ricorrente si manifestò come una chiave che continuava a cambiare forma fino a quando non scivolò dentro la serratura, e girò. Un fiotto di luce sgorgò fuori.
Oh, che io sia una mangusta dal naso azzurro!
— Cinquecento terabyte di poesia — rantolò Virginia ad alta voce. — E la metà è contrassegnata con dati di priorità tripla-A!
— Poesia? Dati prioritari? — domandò Saul. — Non capisco.
— Neppure io. — Virginia tacque, poi: — Oh!
Stupita, si girò verso Saul e aprì gli occhi. Lui la guardò a sua volta.
— JonVon sapeva di star male! E così ha isolato parte di se stesso per mettere in salvo delle informazioni importanti per me. Ha usato una submemoria-cache che io già avevo doppiamente salvaguardato… le mie poesie!
Virginia risollevò lo sguardo mettendosi a fissare il soffitto. — Cinquecento terabyte… l'eccedenza si è riversata dentro qualunque cosa JonVon facesse. Non c'è da stupirsi che Carl continuasse a incappare in quelle che parevano poesie aleatorie, mentre faceva calcoli di routine.
La voce di Saul suonò confusa: — Ma… poesie!
Virginia annuì. — Vediamo cosa sono tutti questi urgenti scarabocchi.
Presentarci un campionario di poesie con priorità triplo-A, per favore chiese al signor Riparatutto.
La figura in tuta scrollò le spalle.
GRAZIE, SIGNORINA. COMINCIAVA AD ESSERE AFFOLLATO QUA DENTRO.
La figura svanì, e d'un tratto cominciarono a scorrere le parole:
Dov'è la primavera,
qui ai confini di Sol?
Dove…
Dove le stelle, senza batter ciglio,
dominano un buio…
dominano un buio regno…
Per Virginia era una delle più bizzarre versificazioni che avesse mai visto. Era come se la macchina avesse intrecciato la poesia con una specie di documento. Stava cominciando a preoccuparsi, pensando che questo potesse essere il segno di un'altra malattia ancora, rimasta fino a quel momento nascosta, ma poi sentì Saul che scoppiava sonoramente a ridere, battendo le mani.
— Ma certo! — esclamò Saul. — I dati urgenti sono stati mescolati alla poesia per proteggerli.
— Sìììì — annuì lei, afferrando subito quello che lui voleva dire. — Ma… ma cosa sono i dati? Cosa c'era di così importante da doverlo nascondere nella mia speciale memoria, per tenerlo al sicuro?
— Guarda i dati, cara. Soltanto sette anni fa. Questa roba è stata spedita da casa! E così, a occhio, pare siano molti volumi, biblioteche intere di questa roba!
Virginia si sentì confusa. — Carl non ha mai detto niente di tutto questo.
— Non lo sapeva. Era Ould-Harrad al comando, allora, e Carl era ancora nel colombario. Ould-Harrad deve averlo semplicemente ignorato. Già allora cominciava a voltarsi al mistico.
— Ma il Controllo Terrestre è stato così avaro di aiuti…
— Chi ha mai parlato del Controllo Terrestre? — Saul scoppiò in un'altra risata. — Ecco qua, scommetto che posso darci una scorsa e trovare la lettera di copertura.
— La lettera di copertura?
Ma Saul era già al lavoro. Trasmetteva gli ordini così in fretta, con tanta destrezza, che Virginia avvertì una strana contraddizione, una punta di gelosia per il fatto che qualcun altro fosse familiarizzato con il suo regno tanto quanto lei… ma questo si combinava con l'orgoglio che Saul avesse appreso così bene a farlo. Pagine singole, fascicoli, interi volumi guizzarono via davanti a loro in un vaglio automatico che tirava fuori i dati da risme e risme di poesie.
Alcune guizzanti strofe poetiche attirarono il suo sguardo. Non sono male pensò. JonVon ha migliorato, perfino quand'era malato. Se le trasmettessimo sulla Terra, qualcosa potrebbe anche venir pubblicato… ancora un altro test di Türing fallito.
— Ecco, ecco qui! — annunciò Saul. — È una lettera in forma video.
Vi fu una confusa macchia multicolore, e poi una nuova immagine tremolò davanti a loro. Virginia seppe subito che quella non era un'altra simulazione di JonVon. Quella era reale, una trasmissione registrata.
Una donna con i capelli tagliati corti sedeva a una consolle: indossava una pelletuta attillatissima. Il suo viso aveva quel gonfiore agli alti zigomi dovuto ad un lungo soggiorno a bassa gravità. Era abbigliata in modo strano, pennellate di colore simili a lampi le segnavano la fronte partendo dalle tempie secondo una moda che doveva essere stata corrente quand'era stato spedito il messaggio.
Dietro alla donna spiccava un'ampia parete-finestra che mostrava una scena di vasti deserti rossastri, visti da alta quota. Nubi rigonfie di sabbia soffiavano tempestose attraverso immense distese desolate. Per qualche motivo, Virginia sapeva che quella non era la rappresentazione d'una climaparete, ma la realtà.
— Colonia di Halley — intonò la donna. Virginia non riuscì a collocare esattamente il suo accento, ma la tensione della sua voce era inequivocabile. — Halley, qui è la base di Phobos. Abbiamo ascoltato la vostra storia, sentito l'angoscia delle vostre perdute speranze, che sono anche le nostre. Abbiamo constatato il trattamento improntato a un'assoluta insensibilità che avete ricevuto, e ne proviamo vergogna.
«Per alcuni di noi, questo crimine ha superato ogni sopportazione. Stiamo correndo il rischio di trasmettervi questo segno della nostra buona volontà, giacché non farlo significherebbe unirsi ad una generazione senz'anima, troppo compiaciuta e comoda per badare alle passate promesse, troppo perduta nei suoi piaceri per ricordarsele.
La donna fece una pausa. La sua ansia si coglieva chiaramente nel pallore delle sue nocche mentre stringeva con le mani i bordi della consolle.
— Se ci amate, non rispondete né preoccupatevi di ringraziarci in alcun modo. Non parlate di questo al Controllo della Terra. Questi doni sono il segno che qualcuno, sulla Terra e nello spazio, non si è dimenticato dei nostri simili, quelli che viaggiano attraverso le gelide distese lungo il fiume della disperazione.
«Possa l'Onnipotente guidarvi fino al vostro destino, popolo della Cometa, popolo dello spazio profondo.
L'immagine tremolò e scomparve. Seguì un flusso costante di indici, testi, disegni, brevetti, musica. Saul esaminò la lista tutto eccitato, ma per qualche istante Virginia, da parte sua, riuscì soltanto a sbattere e risbattere le palpebre, occhieggiando in qualche modo all'esterno delle proprie occhiaie, attraverso il velo di lacrime. Le pareva ancora di sentire la voce della donna di Phobos echeggiare nella sua mente.
— JonVon aveva proprio ragione — bisbigliò, anche se in quel momento Saul era troppo impegnato, lanciando urla di gioia alla vista di ogni titolo che zampillava fuori dall'ingorgo infranto della memoria del computer, per prestarle attenzione.
— JonVon aveva ragione. Questo andava classificato sotto «poesia». Non c'era nessun altro posto dove metterlo.