PARTE SESTA CON LA FORZA DI UNA PIETRA Anno 2100

Quello che tutti i saggi hanno promesso

non è accaduto,

e quello che quei pazzi hanno detto

è avvenuto.

Melbourne


SAUL

Fissò la fessura nella parete. La nera apertura si perdeva serpeggiando molto addentro nel ghiaccio. — Quand'è successo? — chiese Saul.

Due dei suoi assistenti, i capelli castani, con le efelidi che tracciavano disegni uguali sui loro volti, sollevarono lo sguardo da un banco del laboratorio lì accanto, dov'erano intenti a lavorare. Risposero insieme, con lo stesso tono di voce:

— C'è stato un halleymoto, Pops… Due ore fa. Uno forte. Ha spaccato la parete.

Saul scosse la testa, ancora incapace di capire come ognuno dei due sapesse ciò che l'altro stava per dire… così da giungere a irritarlo in una simile maniera.

— Oh, per questo, l'ha fatto, eccome — commentò, esaminando il danno. Sì, avrebbe dovuto occuparsene. Perfino a quelle profondità sotto la superficie, sarebbe stata una sciocchezza permettere che una qualunque delle camere rimanesse priva d'una chiusura ermetica per tanto tempo.

Qualcuno affermava che erano gli sgomitatori a mettere sotto tensione il nucleo della cometa, a mano a mano che la spingevano, mese dopo mese, anno dopo anno, causando in tal modo i sismi. Altri davano la colpa alla guerra, adesso in apparenza persa una volta per tutte da Quiverian e dai suoi archisti.

Il mese precedente gli spaziali di Carl, gli Uber di Sergeov e i neutrali di Keoki Anuenue si erano uniti, attuando una fulminea incursione contro la roccaforte degli archisti al polo Sud, mettendo fuori uso in maniera definitiva i resti della prima serie di lanciatori, e le antenne a microonde nascoste con le quali avevano comunicato con la Terra. Uno dei risultati era stato che adesso gli archisti non avrebbero più potuto usare quei vecchi lanciatori per interferire con le sgomitate verso Marte. Sfortunatamente, durante la breve ma sanguinosa scaramuccia, tre esplosioni avevano scosso l'estremità del nucleo di Halley, facendo temere a più d'uno che l'integrità stessa della cometa potesse essere minacciata.

Qualunque fosse la causa, quei sismi preoccupavano Saul. Da quattro anni ormai le cose, tanto per cambiare, andavano bene. Avevano captato la notizia, tramite deboli segnali irradiati fin lassù dalla Terra, che gli scommettori avevano ripreso a raccogliere puntate sulla sopravvivenza della colonia. Le attuali quotazioni li davano a cinque contro uno. Ma questo era in realtà un notevolissimo miglioramento rispetto alle scommesse di mille contro uno che erano correnti quando lui e Virginia si erano svegliati dal sonno trentennale.

Almeno per il momento, gli Uber di Sergeov, i diversi clan dei sopravvissuti, e i ragazzi di Marte di Jeffers, lavoravano insieme. Ma quest'alleanza dava a Saul l'impressione d'una soluzione sovrasatura di fluidi incompatibili fra loro, troppo instabile per durare a lungo.

Non avevano certo bisogno di halleymoti che scuotessero quel delicato equilibrio.

Saul indossava poco più d'un perizoma, un corto camice e un paio di sandali da ghiaccio, giacché aveva appena lasciato l'alloggio che condivideva con Virginia, per una breve visita al suo laboratorio. Virginia era salita alla superficie per discutere qualcosa con Carl Osborn, così lui aveva colto l'occasione di scendere là sotto per vedere come procedevano gli esperimenti.

Dovunque, nel laboratorio c'erano camere chiuse nel vetro, come acquari, nelle quali fiorivano o languivano miniecosistemi, dove forme di vita terrestri modificate lottavano per dimostrarsi degne di entrare a far parte della nuova, sintetica, ecologia planetaria, che soltanto adesso cominciava a organizzarsi.

Sulla sinistra, accanto alla parete, alcuni dei suoi assistenti stavano accudendo agli animali, uccelli senz'ali e capre capaci di dare latte in condizioni di microgravità.

— Dov'è Paul? — chiese Saul tutt'a un tratto.

I gemelli dai capelli castani indicarono con un cenno del capo la fessura nella parete, e scrollarono le spalle.

— Cosa? — Saul sbatté le palpebre. — Mi pareva di avervi detto di non farlo uscire da qui!

I due ruotarono gli occhi in un'espressione che aveva visto innumerevoli volte, nell'arco di lunghi anni che si riflettevano gli uni nello specchio degli altri. — Ci hai detto di non lasciarlo uscire dalla porta — gli ricordarono soddisfatti.

— Oh, Signore. — Saul si afflosciò. Sono mai stato come questi due? Così indescrivibilmente… immaturo?

I due se ne uscirono all'unìsono in una risatina. Saul esitò. Doveva inseguire Paul, naturalmente. Quel povero bambino non sarebbe stato in grado di cavarsela da solo, là fuori.

Non posso portare con me nessuno dei ragazzi constatò, accantonando l'idea di mettere insieme una squadra di ricerca composta dai suoi assistenti. Spaventerebbe a morte la gente irrompendo fuori nei corridoi come un'orda. Non li aveva ancora presentati a nessun altro, neppure a Virginia. Erano lo sviluppo più stupefacente scaturito dall'unione delle tecnologie di Phobos con la sua sempre crescente abilità nella clono-simbiosi. Ma questa volta non era affatto sicuro di come informare il resto della colonia della loro esistenza.

Saul fluttuò a balzelli fino alla crepatura della parete. Prese su una luminosfera di halleyvirid fosforici geno-pianificati, — Quando tornerò, faremo una bella chiacchierata su quella che è la responsabilità — li ammonì. — Paul è pur sempre vostro fratello, anche se sotto certi aspetti presenta delle deficienze. Era vostro dovere occuparvi di lui.

Abbassarono lo sguardo, vergognosi. Non erano ragazzacci, gli mancava soltanto l'esperienza, il mondo era ancora una cosa molto nuova per loro.

Due turbinanti bastoni neri di pelliccia balzarono sopra Saul, arrampicandosi sopra le sue spalle. Delicatamente, si staccò di dosso quei gibboni in miniatura.

— Non adesso, Max, Sylvie. Tornerò subito. Restate con i ragazzi. — Lo fissarono, seguendolo con gli occhi spalancati, mentre si voltava e si tuffava da solo in quella breccia oscura.

Naturalmente era probabile che Paul non corresse nessun pericolo. Era immune dalle tossine dei purpurei, naturalmente, e se quel passaggio conteneva aria, lo stesso doveva valere per qualunque altra cavità vi fosse collegata.

Se soltanto riuscissi a prenderlo prima che s'imbatta in qualcuno!

Presto o tardi, naturalmente, avrebbe dovuto rivelare quello che stava facendo. Annunciare che finalmente aveva trovato una soluzione a molti dei problemi della crescita e dello sviluppo, che avevano finora reso le nascite una quasi impossibilità su Halley.

Ciò che aveva appreso poteva perfino venir usato per aiutare la trentina di bambini che gli ortho e qualche percell avevano già prodotto. Durante lo scorso anno, migliorare la sorte di quelle povere creature deformi era stata una delle sue massime priorità.

Però aveva sperato di poter rimandare la presentazione agli altri dei suoi «ragazzi» fino a quando la sgomitata non fosse stata in pieno svolgimento, e la gente avesse cominciato a tornare dentro i colombari. Sarebbero stati accettati più facilmente quando c'era meno gente in giro.

Spero di riuscire a raggiungere Paul in tempo. La vista di estranei potrebbe sconvolgerlo.

Alla morbida luce irradiata dalla luminosfera, il crepaccio nel ghiaccio era una scintillante meraviglia di cristalli frastagliati e di vaporosa neve di clatrati. Era facile seguire il percorso del giovane osservando gli appigli che aveva usato. Qui una macchia, là un filo strappato dal vecchio camice floscio da laboratorio che Paul amava indossare. Saul seguì la traccia attraverso una piccola cavità di cristallo che non era mai stata esplorata prima, adesso esposta in tutta la sua gloria di agate dai recenti tremiti dell'antico ghiaccio.

Proseguì in fretta. Il passaggio si restrinse fino a quando fu poco più ampio del corpo di un uomo. Un uomo magro pensò Saul, mentre avanzava a fatica, tenendo le mani protese in avanti per tirarsi lungo quella strettoia.

Non poté fare a meno di paragonarla a un utero. Qualcosa nella galleria, forse una nuova halleyforma con la quale il suo sistema immunitario non era ancora venuto a patti, gli causava una reazione bruciante, che gli irritava i seni nasali e la gola. Il naso gli prudeva e si contorceva.

Al diavolo… pensò, chiudendo gli occhi e strizzandoli.

— Aaatch… oùuu!

L'eco del suo sternuto si riverberò da una cavità che si spalancava subito davanti a lui. Saul scosse la testa per schiarirsela, e continuò ad avanzare strisciando quando sentì l'inconfondibile suono d'un bambino che piangeva.

Spinse la mano attraverso la neve e incontrò lo spazio aperto, permettendo che passasse più luce. Strilli acuti accolsero la sua apparizione.

— È il Vecchio Duro! Il Vecchioduro!

— Sst, ragazzi. Zitti — li calmò una voce più profonda. — Visto? La pelle è bianca, non verde. Voi sapete che il Vecchio Duro è un po' nero e un po' verde.

I piagnucolii si attenuarono. Saul sentì una mano serrarglisi saldamente sul polso, e scalciò per aiutare il suo benefattore a trascinarlo attraverso la neve farinosa. Schizzò fuori in una delle gallerie della colonia tagliate con i raggi e rivestite di halleyvirid. Saul dovette ruotare su se stesso per attutire il suo impatto contro la parete opposta.

— Grazie — disse, scostando con la mano una nuvola di vapore sublimato che l'aveva seguito. — Io…

Un anziano — Saul ricordò che era un ortho chiamato Hans Pestle — teneva per mano due ragazzini scarni vestiti con fibratessuto sbrindellato. Altre quattro figure piccole e scheletriche erano aggrappate alle pareti vicine. Il vecchio lo fissò.

— Cosa succede, Hans?

Pestle scosse la testa. — Niente, dottor Lintz. Stavo soltanto… No, devo essermi sbagliato, è tutto.

Due degli altri bambini si fecero avanti, titubanti. — Hai goober per me? — chiese uno dei due, timidamente.

— Mi spiace, Ahmed. — Saul sorrise e accarezzò i capelli radi del ragazzino, tenendo le mani lontane dalla creature lunga, molle, simile a un furetto, che il ragazzino reggeva intorno alle spalle come una stola. L'animale, progettato dall'ingegneria genetica, sorvegliava Saul con occhi luccicanti.

— Mi spiace. Niente goober, stavolta. — Di solito i bambini ricevevano le loro medicine sotto forma di caramelle: i sapori dolci erano comuni nelle piante alimentari mutate, ma le palleacerbe erano la sua specialità più apprezzata. — Te li prometto per la prossima volta che verrai alla clinica.

— Ah, sìii. — Ma il bambino accettò bene quella delusione. Era passato un po' di tempo da quando aveva avuto uno di quegli attacchi di cattivo umore che lo faceva esplodere in incontrollabili scoppi d'ira.

In effetti, Ahmed aveva compiuto parecchi progressi. Parlava di più ed era aumentato di peso. Però, guardandolo, con i suoi trentadue chili e neanche un metro e quaranta di altezza, non avreste certo pensato che avesse sedici anni, misura della Terra.

Sfortunatamente c'erano limiti a quanto Saul poteva fare quando i danni erano così avanzati. Ed alcuni dei suoi metodi migliori erano risultati applicabili soltanto ad una gamma ristretta di tipi genetici. Trovava la cosa terribilmente frustrante.

Saul scosse la testa, lottando contro il rimbombo nei suoi orecchi causato dalla reazione a un attacco di simbiosi-allergia. Sternuti, e i bambini batterono le mani ridendo a quell'esplosiva detonazione.

— Cosa ci fate quaggiù tu e questi ragazzi, Hans? — Saul aveva riconosciuto il vicino incrocio dai segni incisi sulla parete. Si trovavano in profondità, molto al di sotto del territorio di quel clan di ortho.

Pestle fissò il pavimento. — Stavamo passeggiando… Avevi detto che ai bambini avrebbe fatto bene fare più ginnastica…

Era chiaro che Hans stava nascondendo qualcosa. Ma Saul non aveva il tempo di approfondire.

— Hai visto qualcun altro venire da questa parte? — chiese al vecchio, un tempo un famoso astrofisico, adesso ridotto dalla sua fragilità ad accudire i bambini menomati, mentre quelli con la mente limpida e il corpo sano lavoravano in superficie.

— Un minuto o giù di lì. — Pestle indicò il pozzo vicino con uno scatto della testa, puntando in alto col gesto della mano. Parve sul punto di fare una domanda, poi scosse la testa e rimase zitto.

— Grazie — disse Saul, e si avviò verso il pozzo.

— Non lo farei, se fossi in te.

La voce del vecchio lo fece fermare di colpo. Saul si girò. — Perché no?

Pestle distolse di nuovo lo sguardo da lui, mordendosi nervosamente il labbro. Un occhio era ancora annebbiato a causa di un danno risalente a molto tempo prima. Saul era riuscito ad eliminare la perdurante malattia, ma non il danno già fatto.

— Sei tu il nostro dottore — borbottò il vecchio. — Non possiamo permetterci di perderti.

— Perdermi? — Saul avvertì un improvviso tuffo al cuore. — Di cosa stai parlando? C'è pericolo, di sopra?

Virginia è salita là sopra fu il suo gelido pensiero.

Pestle scosse la testa. — Ho sentito delle storie… Potrebbero esserci altri combattimenti fra non molto. Ho condotto i giovani qua sotto per tenerli al sicuro. È tutto.

Saul corrugò la fronte. La cosa non faceva presagire niente di buono.

— Ti ringrazio per l'avvertimento, Hans. Farò attenzione.

Scalciò, allontanandosi, e cominciò a salire su per il pozzo, afferrandosi ai ciuffi di halleyvirid ibridi e addomesticati che rivestivano le pareti, e usando le dita chiodate dei piedi per accelerare la salita, procedendo quasi di corsa.

Aveva quasi raggiunto il livello B, quando un rumore stridente, come di gigantesche pietre sfregate le une contro le altre, echeggiò lacerante nel passaggio. Un altro maledetto sisma pensò. Oppure si trattava di qualcos'altro? Qualcosa di più sinistro? La vegetazione davanti a lui cominciò a oscillare, come un'onda che rotolasse giù lungo il pozzo fiocamente illuminato. Le increspature arrivarono e d'un tratto fu come se lui cercasse di cavalcare un serpente peloso, che s'inalberava e sgusciava via, sballottolandolo avanti e indietro.

Saul perse l'appiglio e venne scagliato attraverso il pozzo, atterrando accanto all'imboccatura di una galleria proprio mentre dei frammenti si staccavano dal soffitto. Si rotolò su un lato per evitare un macigno dalle punte aguzze che stavano cadendo lentamente, ma irresistibilmente. Un altro si staccò dalla parete sinistra e procedette con terribile inerzia, andando a urtare con forza schiacciante il lato sinistro.

Era talmente impegnato a evitare i due grossi macigni, che non vide la terza e più piccola roccia. Un colpo improvviso, schiacciante, contro la testa, lo mandò a barcollare contro il pavimento. Si accasciò, gemendo, sopra un gelido macigno.

La coscienza non scomparve mai del tutto, ma neppure rimase del tutto. Per Saul i pochi minuti, o l'ora, o le parecchie ore che seguirono, furono una confusione di rumori rombanti, di polvere di ghiaccio che si riadagiava lenta, di palpebre sbattute e d'incertezza su ciò che avrebbe dovuto ricordare.

Finalmente, ricordò.

Vai da Carl… avvertilo…

Non riusciva a ricordare per quale motivo doveva avvertirlo, o perché. Forse gli sarebbe tornato in mente quando fosse arrivato. Sapeva soltanto che doveva tornare dentro la galleria e ricominciare a salire.

Trova Paul… ricordò a se stesso. Presto… trova Virginia…

Ripeté a se stesso quelle istruzioni più e più volte, continuando a spinger via il rimbombo e il dolore che aveva nella testa. Presto…

VIRGINIA

Quando finalmente riemerse in superficie, percepì di nuovo la gelida maestosità del ghiaccio, il vuoto, il buio divorante nel quale tutti nuotavano. La Terra e le umide, soleggiate Hawaii in un sistema solare di perpetua Siberia pensò. Sentiremo mai più il vero calore?

Mentre percorreva a lunghi passi il ghiaccio grigio chiazzato, Virginia bandì risolutamente quel pensiero. Aveva avuto un'esperienza più che sufficiente con gli inizi dello scoraggiamento, grazie tante, durante quegli ultimi, e non pochi anni. Era un rischio occupazionale. Perfino il suo amore per Saul non si era dimostrato uno scudo adeguato a proteggerla… proprio come, decenni prima, avevano previsto gli psicologi della Terra. Avevano avvertito l'equipaggio di non attribuire troppo peso a qualunque rapporto, nessun legame umano sarebbe stato in grado di assorbire la pressione totale del loro isolamento, l'incessante ostilità di quel gelo vuoto e duro.

Un uomo, una donna, non sono stati fatti per sostenere tutto il peso del mondo disse fra sé. E, in particolare, non un mondo spoglio come questo. Gli antropologhi avevano scoperto che perfino le società più semplici avevano rapidamente inventato l'alcool — la birra, di solito — probabilmente come rifugio contro la tempesta incessante della realtà nuda e cruda. Anche l'intelligenza capace di affrontare in maniera flessibile e sottile l'ambiente che la circondava era inevitabilmente vulnerabile ad essa. L'equipaggio di Halley aveva tentato tutte le prevedibili vie di fuga: l'alcool, le droghe, i senstim, relazioni torride e fugaci, riuscendo così a superare gli anni. Ma nessuna vittoria era permanente, e Virginia sapeva che doveva guidare se stessa attraverso i banchi di depressione, evitando i pensieri e gli umori che l'avrebbero attizzata.

Avvertì un lieve tremito attraverso le suole dei propri stivali, e si guardo nervosamente intorno. Niente d'insolito, all'apparenza. Alcune squadre intente a lavorare intorno a dei lanciatori, in distanza. Nessun grido al comunicatore… niente di storto. Bene. Non voglio trovarmi qua sopra quando qualcosa fa bum! Non sono il mio forte le crisi, nossignore. Non senza guanti waldo, JonVon, e cento mech pronti a obbedire a un mio cenno.

Le nuove gigantesche cupole idro si profilavano non molto lontane, erette da Jeffers e dalle sue squadre quand'erano cominciati i sismi. Era rischioso tenere fattorie e fabbriche in funzione sotto il ghiaccio, accanto ai lanciatori, nel caso in cui una faglia si aprisse a causa dell'incessante martellio degli sgomitatori. Carl aveva ordinato che una gran parte degli agro venissero trasferiti in superficie, insediati vicino ai pozzi.

In mezzo a tutti quei lavori correvano le solite voci. Che gli archisti sconfitti avessero raggiunto un accordo con gli Uber. Che gli Uber avrebbero fatto di nuovo storie sulla traiettoria di Marte. Che gli Altopiano Tre stessero costruendo in segreto una nave spaziale. Virginia li giudicava tutti discorsi oziosi, ma non si poteva mai sapere…

Oggigiorno tutto avviene così in fretta, tutto è così eccitante. Un milione di lavori, quasi tutto l'equipaggio rianimato… Allora, perché mi sento depressa?

La risposta era ovvia. In realtà non voleva venire lassù a parlare a faccia a faccia con Carl.

Avanzò fluttuando verso la Cupola 3, dove sapeva che Carl stava controllando alcuni nuovi agro-risultati. Quando attraversò la sibilante camera di equilibrio, vide Carl intento a studiare alcuni contenitori, facendo scivolare le mani fra opimi semi di grano. Indossava la tuta spaziale; di questi giorni era dentro e fuori così spesso, per controllare i lanciatori, che se la toglievano di rado. Agrooperatori galleggiavano sopra i campi di segale e granturco maturi e cuspidi spiraleggianti di ortaggi: elaborati geneticamente per prosperare qui, a bassa gravità, in mezzo alle onnipresenti halleyforme, avevano strane forme asimmetriche.

— Roba magnifica, eh? — le disse Carl con un sogghigno, mentre lei si avvicinava.

— Sei uno che fa tutto. Controlli anche i cereali per la prima colazione?

Il suo volto si rannuvolò. — Mi piace che il buon lavoro venga lodato, e questa gente ha fatto…

— Ehi, stavo soltanto scherzando. — Gli sferrò un giocoso pugno sul braccio, ma subito sentì che quel gesto era forzato, innaturale. Calmati. Questo sarà già abbastanza difficile senza cercare di fingere che è un congresso di templari.

Carl scrollò le spalle. — Sarò da te fra un istante, Virginia. — Tornò a voltarsi verso la donna della squadra che era in piedi vicino a lui. — Il nuovo ibrido è eccellente. E ha anche un sapore fantastico.

Virginia seguì la scena mentre Carl e il tecnico agro discutevano varianti del ciclo di crescita. La dolce ma tamburellante accelerazione di Halley influenzava gli specchi che illuminavano le serre, ed era necessario attuare degli aggiustamenti.

Virginia vagò lungo una corsia, lieta di ritardare il momento. Gli steli arrivavano ad un'altezza di quasi cento metri, esili e bianchi, producendo foglie impossibilmente ampie e carnose. Affusolati mech giardinieri si aggiravano lungo le strette corsie. Irroratori rotanti lanciavano goccioline tremolanti fra gli alti steli spiraleggianti. Sotto quelle fabbriche verticali di proteine si stendevano file di grassi vegetali, lussureggianti e riccioluti, nella morbida luce ultravioletta che filtrava attraverso i luccicanti banchi di umidità sovrastanti. Un ricco humus lambiva i piedi dei giganti, come un mare che erodesse invisibili rive. Una distesa d'acqua liquida raccoglieva, riciclandosi, i detriti che cadevano lentamente giù dalle cuspidi, e pesci modificati guizzavano fra le radici nodose. Si ricordò d'una poesia che non aveva mai terminato, e scoprì che nuove strofe le sgorgavano nella mente:

In tutto questo luccicare

il bell'acciaio e la fredda ceramica certamente

cancellano le regole

tanto sicuramente quanto nell'antico letto del mare della Terra,

Freddi eppur crepitanti lanciatori chiamano

lampi che un tempo attizzarono aderenze organiche,

molecole febbrili assetate di unione,

non sapendo che la crescita significa età,

e che poi la rosicchiante marcia ha inizio.

Viviamo mangiando altri

proprio come queste terre ghiacciate consumeranno noi,

incessante e interminabile digestione

dei nostri cuori e sogni.

Congiure e complotti,

tutte nuvole passeggere in un buio senz'aria.

Eppure ci manca

una chiara via del ritorno alla giovinezza,

o alla Terra, o al sonno del colombario e la rinascita.

Preferirei venir abbattuta

dopo la lunga caccia dell'estate,

col ventre squarciato

(non è un disonore)

che filtrare come melma

nel muschio del giardino e sentire

il cortese Che perdita!,

quando so che tutto verrà ridotto in polvere

per farne terra dove

i nuovi Cesari marceranno,

inconsapevoli, anch'essi diretti a trasformarsi, a suo tempo, in buon humus.

Virginia tossì a causa dell'aria pesante carica dell'odore di muschio. Sembrava che non fosse più capace di completare le sue poesie. Invece, le tirava fuori per esaminarle, rigirandole alla luce come graziosi sassolini trovati sulla spiaggia durante la vacanza dell'ultima estate. Be', le poesie acquistano un certo che di cadaverico una volta composte… Lasciarle incomplete dà loro una esistenza illimitata.

Sorrise fra sé.

Quando tornò indietro seguendo una stretta corsia, Carl aveva finito di parlare alla squadra dell'idro. Le piacque il modo in cui la superficie interna argentata della cupola rifletteva un'immagine deformata e surreale di Carl immerso in una profusione di vita vegetale, come se fosse un oceano nel quale galleggiava. Quando lui si voltò verso di lui, Virginia sollevò una mano. — Conferenza?

— Sicuro. — Rimase lì ad aspettare, l'antica circospezione ancora presente nelle profondità dei suoi occhi. L'ho ferito così tante volte…

— Volevo… volevo dirti…

— Sì?

— So che contavi che ci fosse… che ci fosse qualche possibilità che Saul ed io…

Carl la fissò con un pallido sorriso. — C'è sempre speranza.

— Non ti arrendi mai.

— No.

— Tanto vale che tu lo faccia — lei gli disse con gentilezza.

— È così certo fra voi due?

Virginia ricordò i propri pensieri in proposito, soltanto pochi minuti prima. — Qua fuori niente è certo, lo sai. È soltanto che… tu hai, be', dei fini così tradizionali…

— Li chiamerei sogni. — Carl sorrise con un umorismo caldo, mesto, come se fosse conscio delle proprie debolezze. Virginia vide che si sarebbe comportato in maniera cortese e delicata. Il tempo gli aveva dato una patina, un senso di se stesso. Era cambiato moltissimo durante quegli anni, quasi senza che lei se ne accorgesse. Sono stata così avvolta in Saul…

Lottò per trovare le parole giuste, ma prima che riuscisse a farlo, Carl disse: — Devo ammettere che qua fuori l'idea dell'amore e della famiglia, tutto quel confortevole quadretto, non funziona. Non abbiamo ancora scoperto come fare a proteggere i bambini delle halleyforme.

— Con me non avrai mai una famiglia.

— Ci sono rassegnato. Neppure Saul l'avrà mai, naturalmente.

— No, ma non a causa della sua sterilità. Si tratta di me. Io… io non posso aver bambini.

Le sue labbra si chiusero, ma non disse niente. La patina era scomparsa in un istante, e Virginia vide di nuovo il vecchio Carl, pieno di desideri e bisogni.

— Io… non sono mai riuscita a dirlo a nessuno. Ci sono voluti anni prima che riuscissi a dire qualcosa, perfino a Saul.

— Dio… mi spiace.

Virginia sbatté le palpebre per scacciare le lacrime. — Mi sono rassegnata. — Allora, perché sto piangendo, idiota?

— Durante tutto questo tempo… — Carl scosse la testa, il suo volto si aprì, e in qualche modo parve più fresco, più giovane. Durante tutti questi anni ha custodito un sogno, e adesso è sparito.

— Lo sapevo molto tempo prima di lasciare la Terra.

— Io… capisco — disse Carl, intorpidito.

— Carl…

— E che possibilità c'è, uh…, di riparare quello che non funziona? Saul ha fatto meraviglie… — S'interruppe.

Lei pensò con veemenza, Era me che volevi, oppure il tuo sogno di dolci, piccoli bambini percell, miracoli genetici fra le stelle? Ma era un pensiero sbagliato, ingiusto.

Virginia sbatté rapidamente le palpebre. — Questo è un caso speciale. Neppure la chirurgia genetica… Ha tentato la clonazione, senza il mio permesso. È stato un disastro. — Scrollò le spalle.

— Lo… hai… sempre saputo.

Virginia annuì. — Suppongo che sia stato questo a influenzarmi, a indurmi a partecipare alla missione prima di qualunque altra considerazione. Non avrei mai avuto un'esistenza convenzionale, non importa come l'avessi vissuta.

— Avresti potuto adottare…

— Tu conosci le probabilità che ha un percell di adottare bambini. Perfino alle Hawaii.

Carl esclamò con furia selvaggia: — Sì, ci hanno isolati in tutto, vero? — Quel ricordo riusciva ad amareggiarlo ancora.

— Avrei potuto rimanere… combattere con gli altri…

— Hai visto cos'è successo.

Virginia annuì, tirando su col naso, sorpresa dalle sue stesse emozioni. Se rimango qui, finirò per piangere. — Abbiamo… abbiamo davvero fatto la scelta giusta, non è vero? Partecipando alla missione?

La sua voce suonò greve. La sua faccia era una maschera. — Non… non lo so.

Virginia rimase scossa. L'ho derubato della sua ultima fantasticheria? E, scomparsa questa, viene travolto dalla marea della disperazione?

— Carl, non puoi pensare questo. Siamo sopravvissuti, siamo riusciti a… a…

— Senti, io… in questo momento preferirei non parlare. Va bene? Voglio… sì, voglio restare solo. — Visibilmente, cercò di ricomporsi, lottando per riprendere un po' di quel fiducioso atteggiamento da capo che per lui era diventato quasi una seconda pelle… per quanto in quel momento potesse venir così facilmente sbucciata. — Apprezzo molto che tu me l'abbia detto. Adesso riesco a capirti meglio, e questo, per lo meno, è qualcosa.

— Carl, io…

— Ho un sacco di altre cose da fare qui! — esclamò lui, seccamente. — Forse più tardi.

Se ne andò in fretta, con la mente in un turbine di emozioni in violento conflitto fra loro. In qualche modo lei aveva dovuto dirglielo, però, se questo l'aveva spogliato di troppe cose, l'aveva danneggiato…

Virginia si era lasciata ingannare dal suo volto pubblico fatto di sicurezza e controllo di sé. Ma sotto tutto questo, Carl era davvero cambiato molto poco. Era cresciuto a seconda di come la situazione richiedeva, ma non il Carl interiore. Quel Carl aveva coltivato una fantasticheria, e adesso lei l'aveva rovesciata, abbattuta.

S'incamminò a grandi passi attraverso la distesa di ghiaccio, cercando di dominare la propria confusione… un puntolino che si muoveva lungo una pianura che aveva il colore di uno schermo televisivo vuoto.

Virginia — si fece udire la voce ben modulata di JonVon, quando si trovò a metà strada dalla camera di equilibrio. — Ci sono trasmissioni in codice da un punto accanto alla tua attuale postazione.

— In codice? — Virginia si arrestò e si guardò intorno. Nessuno in vista, salvo pochi addetti all'impianto idroponico che se ne stavano andando con passo strascicato alla conclusione del loro turno. All'orizzonte, una delle torri fiabesche di Jim Vidor svettava appuntita verso le stelle. Più lontano ancora, un lanciatore fremeva, continuando a guidarli gradualmente, impercettibilmente, verso il loro incontro con Marte. — Cosa vuoi dire?

Ho penetrato il codice, un piccolo algoritmo di livello adolescenziale. I messaggi trasmessi sono carichi di eccitazione e non del tutto intelligibili. Fanno il tuo nome e quello di Carl Osborn.

— Senti, JonVon. Controllali, e cerca d'identificare la fonte. Ho altre cose in mente, in questo momento.

Virginia lanciò un'occhiata alla cupola dietro di sé, e vide attraverso la sua trasparenza chiazzata due figure, l'una di fronte all'altra, sotto il sole brillante.

Carl, in tuta, che gesticolava. La seconda figura con una semplice veste… Virginia si sentì certa che fosse Saul.

Con Carl in quello stato d'animo… Vorrei poter avvertire Saul. Questo non è davvero il momento d'infastidire Carl con qualche dettaglio.

Qualcosa non andava. Saul agitò le mani, poi si spostò di lato, barcollando, come per andarsene.

Virginia corrugò la fronte. Saul pareva malato… Sì, c'era qualcosa di strano nella maniera in cui si muoveva.

Carl fece un passo avanti, e Saul lo spinse via. Virginia avrebbe voluto trovarsi nel suo laboratorio. Avrebbe potuto connettersi subito con uno dei suoi robot operai dentro la cupola, e ascoltare.

Quei due uomini stavano urlando… Saul gesticolava come impazzito, spingendo. Andò a urtare contro la torreggiante parete di vetro.

La cupola si squarciò! In quel momento un lampo azzurro la tagliò, lacerando il foglio per la pressione, sollegando una pioggia di livide scintille gialle. L'aria uscì a fiotti senza rumore, una nebbia perlacea che esplose formando una sfera che si levò alta, crebbe e si sfilacciò. Com'è possibile che un uomo possa infrangere… Poi si rese conto.

Laser.

— Saul! Corri nella camera di equilibrio! — Ma lui non poteva udirla, naturalmente. Saul non indossava nessuna tuta.

Carl si lanciò di corsa verso la camera di equilibrio dov'erano immagazzinati i caschi.

Saul incespicò, confuso, e cadde dentro una massa di vegetazione. Si rialzò in mezzo al ribollente groviglio di piante, ma non pareva sapesse quello che doveva fare, dove potesse ritrovare la pressione atmosferica. La camera di equilibrio era a soli cento metri di distanza, ma a causa di quel disorientante tuffo nel vuoto il cervello gli trasmetteva dei segnali in conflitto fra loro.

Virginia si mise a correre, urlando, senza distogliere gli occhi da Saul. La sua veste gli sbatteva sopra i fianchi, bianca come ossa, barcollava impacciato, allontanandosi dalla camera di equilibrio, verso lo squarcio della cupola. Stava seguendo senza riflettere la raffica che infuriava intorno a lui, soffiandogli i capelli castani davanti agli occhi, sballottando le piante con sferzanti folate.

Carl aveva raggiunto la camera di equilibrio. Si curvò ed entrò, chiudendosi il portello alle spalle. Avrebbe impiegato almeno un minuto a trovare un casco, a immettere un po' d'aria nei propri polmoni.

Virginia correva come una furia, i continui scivoloni sul ghiaccio la facevano quasi impazzire.

— Saul… no! Saul…

Conosceva gli effetti del vuoto e del gelo, la rottura dei vasi sanguigni nei polmoni, il congelamento delle cellule del corpo, lo scoppio delle delicate membrane negli occhi e negli orecchi, un caos orrendo in tutto il corpo.

Saul continuava ad avanzare incespicando verso il labbro infranto della cupola, attirato dal risucchio della tempesta. Stava ancora correndo quando cadde in mezzo alle schegge ritte.

Carl le passò accanto correndo. Ma quando raggiunse la figura accartocciata, rigida e contorta in una posizione di torturata agonia, videro delle aguzze lame di vetro che gli sporgevano dalla schiena. Quei tagli profondi non schizzavano neppure più il sangue scarlatto. Lividi purpurei, carnagione vitrea, occhi aperti, privi d'espressione.

La squadra della cupola arrivò di corsa dal portello della camera di equilibrio più lontana, portando l'attrezzatura per i primi soccorsi. Troppo tardi.

Che aspetto strano ha pensò Virginia. Era sempre parso scabro, logorato dal tempo, ma trionfante. Adesso pareva immacolato, giovane, il volto liscio, come se gli anni fossero stati cancellati dalla mano clemente della morte.

CARL

Era sempre stato un risolvi-problemi, un uomo che reagiva all'ignoto riflettendo, scomponendolo in singoli pezzi comprensibili. Poi, Carl avrebbe risolto con gran cura ogni enigma, fiducioso che la somma di quei microproblemi avrebbe alla fine risolto la confusione più grande. Come la chiamavano al Caltech? Una «supersituazione lineare, con variabili indipendenti? Già. È il mio genere di roba. Quella che il vecchio Carl sa fare.

Picchiò il pugno contro la parete di ragnatela spugnosa della Cupola 3. Ma non posso riparare il passato. Non posso far tornare Saul. Non posso neppure confortare Virginia.

Virginia era seduta in mezzo ad alcuni steli avvizziti di rabarbaro appena raccolto, con lo sguardo fisso nello spazio. I suoi occhi cerchiati di rosso si erano da tempo liberati delle lacrime, e adesso si era ritirata in se stessa, esausta, stordita. La squadra della cupola aveva portato via il corpo di Saul, e nella confusione che era seguita Virginia era piombata nel silenzio, cinerea e abulica. Lani Nguyen sedeva assieme a lei, mormorando sommessamente, con un braccio intorno alle sue spalle.

Lani e Jeffers erano arrivati soltanto pochi istanti dopo la morte di Saul, rispondendo all'allarme lanciato da Carl. Non c'era nessun segno di chi aveva sparato col laser che aveva perforato la cupola. Lani e Jeffers non avevano incontrato nessuna opposizione quando erano balzati fuori dal pozzo più vicino. Le linee del comunicatore non trasmettevano nessuna notizia. Le squadre della cupola, uomini bene addestrati alle perforazioni dovute ai meteoriti, avevano sostituito la parete infranta rendendo nuovamente ermetica, con la massima rapidità, la cupola. L'atmosfera era quasi ritornata ai valori normali.

Jeffers disse, amareggiato: — Ancora non riesco a capire.

Carl ammiccò un paio di volte, assorto nei suoi pensieri. — Cosa?

— Perché Saul non abbia reagito quando la cupola è scoppiata. Era più vecchio, certo, ma ci siamo addestrati parecchio nei pozzi, per far fronte alle perdite d'aria. Come mai Saul non ti ha seguito?

— Era disorientato ancora prima che succedesse. È sbucato fuori dal portello dei rifiuti, laggiù, borbottando.

— È pazzesco. — Jeffers scosse la testa. — Il portello dei rifiuti.

— Deve averlo imboccato come una specie di scorciatoia. Forse sapeva che Virginia mi stava parlando, e… — Carl s'interruppe. Non voleva rivelare ciò che Virginia gli aveva detto, o insistere sul pensiero che Saul stava cercando di fermarla. È tutto così maledettamente pasticciato! Perché mai a Saul avrebbe dovuto importare ciò che Virginia mi stava dicendo? Oppure l'arrivo di Saul, troppo tardi, è stato un incidente?

Jeffers si morse il labbro, a disagio. — Virginia… ha detto che tu e Saul avevate litigato, o qualcosa del genere.

— Urlava qualcosa, soltanto suoni indistinti, grugniti, alcune parole, il tutto mischiato.

— Tu credi che fosse in preda alle allucinazioni, o qualcosa di simile?

— Forse. Erano mesi che non lo vedevo. Pareva confuso, incoerente. Quell'uomo era demente.

— È per questo che non ha reagito, non ha corso verso la camera di equilibrio?

— Immagino sia così.

Jeffers parve scettico. — Senti, qui c'è qualcosa di dannatamente di troppo. Qualcuno fa un foro attraverso la cupola, finisce quasi per ammazzarvi tutti…

— Bersagli molto opportuni — commentò Carl. — A meno che non abbiano individuato la cotta di Virginia quand'è uscita, devono aver pensato che si trovava anche lei nella cupola.

— Ma chi…

Una vampa azzurra colpì una bazza e tozza collina di ghiaccio, poco distante. I due uomini si girarono di scatto per osservare il bagliore che si dissolveva, avvolto nella sfera di spruzzi bianchi in rapida espansione.

— Maledizione! — urlò Jeffers. — Tutti… i caschi!

Carl si lanciò verso Virginia, rinserrando automaticamente i ganci a O del suo casco, ma vide che Lani l'aveva preceduto, e la stava aiutando. — Equipaggio, a terra! Se dovessero perforare di nuovo la cupola…

— Non ho bisogno di sparare di nuovo, Carl. Hai capito cosa voglio dire…

La voce aveva crepitato improvvisa nei suoi auricolari. — Chi è? — scattò.

— Sergeov! Lo sapevo — trasmise Jeffers.

— Liberate il canale A — disse Carl, per reprimere il crescente vocio lungo la linea. — Sergeov, cosa diavolo…

Nel piccolo schermo all'interno del casco di Carl comparve il volto sogghignante di Sergeov, dipinto di azzurro. Il sigillo di Simon Percell era dipinto su ognuna delle sue guance.

— Speravo di prendere Carl e Virginia senza danni. — L'accento di Sergeov arrivò con maggiore chiarezza. — Ancora meglio quando le mosche vengono sul miele. Jeffers, spero che possiamo contare su di te per operare con i lanciatori quando questa storia sarà finita.

— Quando sarà finito cosa?

Puoi vederlo da solo.

Carl si era messo a scrutare l'orizzonte per localizzare il loro laser. Adesso, quando tornò a girarsi verso l'equatore, vide delle figure che correvano incrociandosi fra loro intorno ai lanciatori. In silenzio, una nuova scarica colpì il terreno fra due forme in corsa, facendole rimbalzare verso il cielo in mezzo a un'esplosione di vapore. Carl non riuscì a capire se quei due uomini erano stati colpiti direttamente, ma non ebbe il tempo di chiarire la cosa prima che scoccassero altri rapidi lampi azzurro-ardenti.

— Abbiamo già preso metà dei lanciatori. O gli altri si arrendono, o noi li bruceremo là dove si trovano.

— Cosa… — Carl comprese. — Tu… tu hai tagliato fuori me e gli altri, cosicché non possiamo guidare un contrattacco, giusto?

Sergeov si voltò per fare un segnale. Immediatamente Carl sentì un cramp e una forte vibrazione sotto i suoi piedi. — Proprio adesso ho dato ordine di far saltare le gallerie sotto la tua cupola. Vi ho chiusi dentro per benino, non è vero? Gran bel colpo, clape!

Carl gridò: — Idiota…

Sergeov rise. — Non ti piace la trappola, clape? — Poi si calmò. Sorrise. — Senza di te, gli altri saranno meno stupidi.

Jeffers intervenne: — Questo è ammutinamento, sai.

— Autoconservazione, vuoi dire.

Carl poteva sentire nel veleno delle parole di Sergeov un rimprovero alla sua leadership. Le escandescenze di quell'uomo gli erano parse comiche, stupide, una serie di idee residue. Ma dopo il Pacco Assistenziale, un mucchio di persone, per ogni altro verso ragionevoli, avevano sviluppato un odio profondo verso la Terra, e Sergeov aveva appunto giocato su questo, sostenendo che la manovra di Marte non avrebbe funzionato.

È quasi certo che il progetto Marte non ci salverà. Niente potrà farlo, salvo il mutato atteggiamento della Terra.

Era parso a Carl che Sergeov non avesse mai proposto nessuna valida alternativa, e che nessuno potesse prendere sul serio quell'uomo. Però, mettendo insieme gli spaziali scontenti e gli Uber intransigenti, Sergeov poteva avere abbastanza gente per impadronirsi dei lanciatori e mantenerne il controllo, se avessero fatto le cose a dovere…

— Non ti piace Marte come bersaglio?

— Sono tutte stupidaggini emotive. Non potremo mai frenare con un'atmosfera così sottile… chiunque si soffermi un attimo sui calcoli se ne accorge.

— Possiamo tentare. Come minimo, rallenteremo un po', forse così ci si apriranno delle scelte per il tratto verso l'esterno di questo passaggio.

Sergeov rise, un gracidio asciutto. — Non tenermi discorsi. Io e i miei amici, che siamo veri percell, non rinnegati che si lasciano sfruttare da qualsiasi ortho, che perfino dormono con loro, conosciamo l'astrofisica quanto te, probabilmente ancora meglio. Pensi che non siamo capaci di fare simulazioni? Conosciamo il pericolo che c'è di colpire Marte. Nel migliore dei casi non c'è abbastanza aria. Così, la sola speranza che ci rimane è di frenare in un pianeta con un'atmosfera densa.

— Venere? Là c'è una possibilità per la missione, anche se si trova sul percorso di uscita. Prima dovremo passare il perielio, e non voglio esprimere giudizi su come riusciremo a sopravvivere a una simile prova.

— Niente perielio. È stupido anche soltanto pensare che possiamo cavalcarlo.

— Perché no? Ascolta, Otis, possiamo discutere di un incontro con Venere nei particolari, se vuoi.

Jeffers fece un gesto a Carl, mentre parlava. Lungo la lontana linea dei lanciatori delle figure stavano lanciando delle bandiere improvvisate sopra le cappottature, il segno degli Uber.

— Vedi che stiamo vincendo? Da, tutto per tempo. Se gli altri lanciatori non si arrenderanno, abbasseremo la bocca dei nostri, spareremo contenitori vuoti, e bersaglieremo gli altri fino a farli a pezzettini.

Jeffers sbottò: — Sei fottutamente matto, lo sai?

Carl fece cenno a Jeffers di stare zitto. — Gesù, Sergeov, non lo faresti. Ci servono quei lanciatori per…

— Per colpire Marte. Non andremo a schiantarci su Marte soltanto per far felice la Terra.

— Che razza di logica demente è mai questa?

— Logica intelligente, è. La Terra vorrebbe vederci suicidi su Marte, mettendo fine alla vita su Halley. Di che prova hai bisogno, dopo che hai visto quanto gliene importa?

Quel beffardo riferimento al Pacco Assistenziale faceva male, poiché Carl sapeva che era vero. L'equipaggio aveva provato una profonda amarezza, per quel fatto, e quella folle ribellione ne era il risultato. La maggior parte degli spaziali, specialmente il Clan della Roccia Azzurra degli hawaiani, appoggiava Carl. Ma Sergeov aveva indubbiamente reclutato fautori fra i percell, e Carl non si sarebbe affatto sorpreso se ci fossero stati perfino degli ortho ad aiutarlo.

— Colpiremo un pianeta con atmosfera, ma non Venere.

— Allora dove vuoi andare, Otis?

— È ovvio. La Terra.

— Buon Dio! È…

Stava per dire, è impossibile, ma poi ricordò le varie possibilità della missione che erano state delineate molto tempo addietro. Dapprima la spedizione aveva progettato il sorvolo di Giove verso l'interno, alterando l'orbita di Halley fino a quando un rendez-vous con la Luna sarebbe stato abbastanza economico in termini di combustibile per la Edmund. Ciò richiedeva una variazione di velocità di 284 metri al secondo, una forte alterazione.

Da quando la ribellione degli archisti li aveva privati del polo Sud, avevano scelto di usare lanciatori all'equatore per il meno efficace passaggio al di là di Marte; ciò avrebbe richiesto un cambiamento di velocità di soli cinquantanove metri al secondo. L'energia richiesta essendo proporzionale al quadrato della variazione della velocità, ciò significava che una frenata accanto a Marte — sfiorando la sua atmosfera — avrebbe richiesto soltanto il quattro per cento dell'energia richiesta dalla missione originaria. Erano anni ormai che avevano investito il tempo dei lanciatori soltanto in quella manovra.

Ma Carl si era dimenticato di un'altra manovra che avrebbero potuto effettuare con una spinta costante equatoriale: la Terra…

— Non mi ricordo le cifre, ma senti, non possiamo…

— Ti rinfresco la memoria. Ci vuole una variazione di velocità di soli sessantatré metri al secondo. Soltanto un po' di spinta in più di quella che diamo adesso. E la direzione è quasi la stessa del suicidio di Marte! Le mie squadre adesso stanno ruotando i lanciatori soltanto un po'. Soltanto cinque gradi di declinazione, cento gradi in ascensione retta. Mi segui? Significa…

— Sì ci sono. — È davvero matto. Come posso trattare con lui? — D'accordo, possiamo colpire la Terra. E allora? Ci cremeranno ancora prima che riusciamo ad arrivarci vicino.

La gracidante, asciutta risata di Sergeov risuonò nel comunicatore. Carl aspettò che quella risata anaerobica, maniacale, si esaurisse, dicendosi, Non esplodere. Continua a farlo parlare. Forse qualcuno da sotto riuscirà a mettere insieme qualche laser industriale, aggirandoli, tagliandoli fuori…

Ma sapeva che le probabilità erano scarse. Sergeov aveva giocato le proprie carte proprio nella maniera giusta, aspettando fino a quando Jeffers, il braccio destro di Carl, era rimasto anche lui intrappolato nella cupola. Virginia non poteva prendere il controllo dei suoi mech. E come bonus avevano ucciso Saul, il quale avrebbe potuto chiamare a raccolta molta gente che voleva semplicemente sopravvivere…

— La Terra non ci cremerà. No, se minacceremo di seminarli di pestilenze.

— Minacceresti questo?

— Annusa il fuoco, Meyer. Gli ortho hanno fatto saltare la Edmund. Hanno mandato il Pacco Assistenziale. Cosa si meritano?

— Sono pur sempre…

— Freneremo nell'atmosfera, salteremo giù. Halley proseguirà. Faremo il patto di non disseminare la Terra di halleyforme. Poi la Terra manderà noi su Deimos. Vivremo là, cominceremo a terraformare il pianeta.

Jeffers borbottò: — Be', per lo meno questa parte ha senso. — Sollevò lo sguardo con aria colpevole quando Carl gli scoccò un'occhiata di fuoco.

Ma Sergeov l'aveva sentito. — Meglio un sogno che un incubo, eh?

Carl cercò di pensare. Lani era al suo fianco, con una mano sulla sua spalla, muto conforto.

— La Terra non correrà il rischio di farsi inzuppare di halleyforme. Ci riempiranno di testate nucleari — replicò Carl.

— No! Avremo pronti dei razzi, testate piene fino a scoppiare di halleyforme. La Terra lancia? E lanciamo anche noi.

Carl vide l'espressione di Jeffers. Il folle scenario di Sergeov era fin troppo seducente. Gli aerofreni avrebbero richiesto un sacco di produzione da parte dei mech, ma ciò era già stato concepito e programmato per la manovra di Marte.

— Non credo che potrei contrattare questo.

— Non ho bisogno di contrattare. È tempo di starci, Jack. O acconsenti, o riduciamo la cupola in tanti pezzettini.

— Gli altri non saranno d'accordo con questo.

— Quali altri? Gli ortho? Vogliono vivere, proprio come i percell.

— Ma questo mette in pericolo la Terra! Qualunque aerofrenata porterà il nucleo di Halley abbastanza vicino da sganciare del ghiaccio nell'alta atmosfera. Le bioforme potrebbero arrivare comunque in superficie!

— I terrestri dovranno correre il rischio. La maggior parte di noi adesso dice merda ai terrestri.

Carl si mise a camminare su e giù, dimentico delle squadre della cupola che lo fissavano, di Jeffers che continuava a rosicchiarsi il labbro, senza fermarsi, dello sguardo senza espressione di Virginia. Lani lo fissava pensierosa. Doveva pensare, eppure la sua mente era un vortice di emozioni in conflitto fra loro. La manovra della Terra offriva per lo meno una promessa di speranza, di vita…

— Senti, dovresti tenere un referendum su questa faccenda. Tutto l'equipaggio…

— Clape, scimmia. Niente voto. Dimentichi che li abbiamo noi, i lanciatori.

— Ci sarà una consistente minoranza, o addirittura una maggioranza, che si opporrà a voi.

— Possiamo liquidarli.

— Come?

— Lo stesso che per voi, una volta che le cose si saranno calmate. Facile. I lanciatori tutti costruiti, niente bisogno di grande mano d'opera adesso. Vi spediamo tutti nei colombari.

Virginia, Lani, Jeffers: tutti lo fissavano, ascoltando, senza dire nulla. Li aveva guidati per anni, per miliardi di miglia, per arrivare a quel punto: una cupa, stupida Waterloo. Aggirato. Battuto in astuzia.

E per rigirare il coltello nella piaga, Sergeov dette in un'ultima, asciutta risata gracidante, e disse: — Arrivati sulla Terra, allora decideremo chi svegliare. Pianta grane adesso, e forse non esci più dal colombario, eh?

VIRGINIA

Erano state le due peggiori giornate della sua vita. Parevano stendersi a ritroso nel tempo per millenni, ai giorni luminosi e soleggiati quando Saul era ancora in vita e l'amore l'aveva trascinata in avanti con il proprio slancio, scavalcando le difficoltà, appianando la superficie rugosa di una vita che era, quando riusciva a pensarci, perpetuamente penosa e disperata e avara.

Il corpo contorto di Saul aveva impresso la propria immagine nella sua mente, un silenzioso, grottesco, rimprovero. Era parso così strano nella morte. Sereno malgrado le sue ferite. Più giovane.

Così tante lotte…

Se si fosse trovata più vicino, se avesse pensato più in fretta, se avesso corso di più…

No. Piantala. Sapeva che quella era una spirale mortale, che niente poteva uscire da un interminabile ciclo di colpevolezza e di dolore.

Ma tali facili constatazioni non la liberavano. Sedeva in mezzo alle correnti di rabbia e ai discorsi frenetici e alle crude emozioni… e si stringeva le mani, sfregandosele incessantemente, incapace di muoversi o di pensare o anche soltanto di lasciare che il dolore dirompente si riversasse fuori in lacrime.

Era inutile, qualunque cosa facesse, così inutile e stupida… Non le importava affatto, se fosse rimasta seduta per sempre in quel modo, circondata dall'umidità muschiosa che si andava lentamente raccogliendo nella cupola rigenerante. Le piante erano temprate allo spazio, capaci di resistere alle rapide decompressioni e al gelo improvviso, adattate assai meglio, durante mezzo secolo di manodopera umana, di quanto lo fosse la stessa umanità.

Altri cercavano di aiutarla. Lani era una presenza costante intorno a lei, morbide sibilanti in un'inghiottente immobilità. Carl faceva i suoi gesti goffi, diceva le cose convenzionali. Era tutto legnoso, distante… facce sotto vetro.

Il fatto che i pazzi Uber e i loro alleati li tenessero intrappolati tutti dentro alla Cupola 3 non faceva in effetti nessuna differenza. Era indifferente come il gelido ghiaccio esterno, dove delle figure stavano girando i lanciatori verso nuove ben imbottite direzioni, con le loro bocche puntate verso diverse costellazioni. Osservava quei lontani burattini che facevano le loro cose irrilevanti, senza che il significato le importasse per nulla. La Terra era un bersaglio più gradito di Marte, certo, ma non perché lei pensava che avrebbero avuto successo.

Niente aveva mai funzionato durante quella spedizione condannata. La Terra avrebbe trovato qualche maniera per contrastarli. Il loro piano era forse quello di sganciarsi a bordo di veicoli aerofrenati simili a palloni? Gusci cavi di acciaio che, sotto la violenta pressione frenante, si sarebbero contorti, squarciati e infranti alla più piccola asimmetria, al più piccolo difetto… No, la Terra avrebbe intravisto benissimo quella possibilità. Una scarica laser, un raggio a particelle, qualunque cosa in grado di perforare quei gusci avrebbe messo fine a loro tutti in un fiammeggiante calderone rosso-arancio. Non aveva nessuna fede nel febbricitante sogno astronomico di Sergeov.

O neppure nella manovra di Marte. Aveva conservato il segreto di Carl, non ne aveva mai parlato con nessuno. Viviamo credendo nelle finzioni…

Ma la speranza di Sergeov era peggiore. Non avrebbe riportato alla vita nessun pianeta morto, e tutti loro avrebbero visto in ugual modo confermata la loro condanna.

E se la testa della cometa fosse stata diretta per entrare in collisione vera e propria con la Terra stessa, come aveva sentito dire da alcuni Uber che ne avevano parlato apertamente al comunicatore? Cosa sarebbe stato dei morbidi cieli e dei sabbiosi pomeriggi hawaiani? Chiuse gli occhi e scosse la testa. Forse gli umani dovrebbero scomparire dalla scena come hanno fatto i dinosauri.

— Virginia?

Era Carl, pallido e teso, che cercava di nuovo di stabilire un qualche contatto con lei. Sollevò lo sguardo su di lui sbattendo le palpebre. — Di nuovo ora di mangiare?

— No, io volevo solo… senti, mi servirebbe davvero un po' di aiuto.

— Per fare cosa?

— Per cercare di trovare un modo di uscire da questa situazione.

Virginia rispose, con voce stanca: — Sergeov ci ha intrappolati. Vuoi scavare una nuova galleria attraverso le macerie? — Gli Uber avevano fatto crollare le gallerie con molta efficacia.

— Ci deve essere…

— Avete tentato gli autoscivoli? I nastri trasportatori?

— Certo. Ieri. Ha gente che li blocca.

Virginia corrugò la fronte, faceva fatica a pensare alla vecchia maniera… — I miei mech. Se riuscissi a riavere le funzioni di controllo da qui, con un comando a distanza…

— Ci hai già provato ieri — le ricordò Carl, con gentilezza.

Virginia sollevò lo sguardo, provando un émpito d'irritazione. — Oh, sì. Hanno cambiato gli input della matrice-T. Sergeov è stato tanto furbo da farlo subito. Potrei porvi riparo soltanto dalla grande consolle della Centrale, o dal mio laboratorio. Dovrei trovarmi là di persona.

Rimasero silenziosi. Poteva vedere la frustrazione di Carl crescere sul suo viso.

Jeffers arrivò di corsa, il suo volto rivelava tutta la tensione a cui era in preda. — Sta succedendo qualcosa, hanno sollevato di nuovo quel laser.

Carl si lanciò in una lunga scivolata verso la cima della capanna delle elaborazioni, a una cinquantina di metri di distanza. Virginia fu tentata di ripiombare nel suo stato neutro, lasciando che il mondo le passasse sopra, sommergendola. Ma invece esalò un profondo sospiro e si alzò. Scalciò via e seguì i due uomini in una lenta bordeggiata.

— Stanno sparando contro qualcuno! — gridò Carl dalla posizione panoramica in cui si trovava. Virginia si afferrò ad un cavo e descrivendo un arco attero con un tonfo, a sua volta, in cima alla capanna.

— Visto? — Carl le indicò. — Sergeov si trova in cima a quell'altura laggiù. Sta sparando contro della gente che sta arrivando da sud.

Delle figure, macchioline grandi come mosche, attraversavano rapidamente la pianura striata di grigio. — Chi? — chiese Virginia.

Lani atterrò accanto a lei. — Archisti, immagino — disse. — La gente di Quiverian. Sono ancora laggiù a sud, che vivono fra le loro macerie terremotate. È naturale che si oppongano a un sorvolo della Terra. Ma con gli Uber che controllano i lanciatori, verranno fatti a pezzi.

— Ne sei sicura?

— Non vedo come…

Un gigantesco bolo di vapore eruppe dalla base della collina dov'era situato il laser degli Uber. La nube avvolse la collina in una coltre di nebbia. Prima che potesse gonfiarsi ulteriormente e dissolversi, un'altra scintilla azzurra s'infiammò alla base, facendo schizzare una sfera turbinante di bianco verso il cielo.

Virginia esclamò, tutta eccitata: — Gli archisti stanno impiegando il grosso laser. È difficile prendere la mira con quello, ma se soltanto colpissero la collina stessa…

— Accecherebbero la squadra degli Uber addetta ai laser con il vapore — annuì Lani. — Già!

Delle figure si muovano all'orizzonte, le loro cotte apparivano troppo piccole per poterle distinguere. Virginia non aveva mai pensato alle possibili tattiche in condizioni di gravità quasi zero, ma riusciva a vedere la logica dietro alle file formate dagli archisti in movimento che stavano lentamente convergendo. La pinza da esse formata si stava chiudendo verso lo schieramento dei lanciatori equatoriali. La gente di Sergeov stava faticando dentro i pozzi dei lanciatori. I grossi e goffi moduli degli sgomitatori erano difficili a muoversi rapidamente, soprattutto nel senso della declinazione. Cominciarono ad abbassare le loro bocche giù verso sud, ma le loro lunghe, esili canne ruotavano con angosciosa lentezza.

— Guardate — disse Carl, indicando con la mano. — Gli archisti stanno cercando di passarci accanto. Saremo liberi se…

Ma proprio in quell'istante un secondo laser degli Uber aprì il fuoco da una lontana collina, facendo schizzare sfere di vapore su dalla pianura. Perfino un colpo mancato di poco soffiava via quelle minuscole figure a causa delle raffiche improvvise.

— Perché non attaccano dal cielo? — chiese.

— È probabile che Sergeov abbia con sé qualche piccolo radar. Potrebbe centrarli se si trovassero isolati là in alto. Sul ghiaccio, invece, non è così facile.

— Già — disse Jeffers. — Ti piacerebbe essere appesa là sopra, nuda, come una ghiandaia? Ti senti molto meglio se hai un po' di ghiaccio fra te e quel grosso bruciatore.

Gli attaccanti cercarono un riparo. Sparavano con piccole armi dalla portata limitata: lance termiche, trapani a raggi, ma riuscivano soltanto a sollevare piccoli sbuffi dalle barricate degli Uber. Qualcuno di loro usava trapani portatili a microonde, presumibilmente contonizzati per disgregare le cellule umane, ma i fasci di raggi si allargavano troppo a ventaglio a quella distanza. Di tanto in tanto dentro la cupola si udivano dei deboli clic, le microonde che solleticavano leggermente il loro orecchio interno.

Nel frattempo, il grosso laser degli archisti continuava a martellare le colline di entrambe le roccaforti degli Uber, rendendo difficoltosi i loro tentativi di prendere la mira con precisione. Seguirono la scena per un'angosciosa mezz'ora, mentre ognuna delle due fazioni manovrava, sparava, schivava… ottenendo ben pochi risultati. L'intero conflitto era privo di suono, con un ulteriore tocco di irrealtà dovuto ai movimenti al rallentatore.

— A me pare una posizione di stallo — commentò Carl, le parole appesantite dalla fatica.

— Nessuno può mettere insieme abbastanza uomini per tenere sotto tiro i movimenti dell'altro — disse Jeffers. — Pare ci sia ancora un buon numero di archisti, ma non è possibile aggirare quell'intero, dannato equatore.

Virginia parlò, esitante: — Non potremmo approfittare di questa situazione?

— E come? — chiese Carl.

— Per scappare! Se corressimo per un chilometro, più o meno, fino a quelle pile di scorie a nord.

— Ci centrerebbero.

Jeffers annuì.

— Ma se io potessi entrare, potrei riavere il controllo dei miei mech! Gli Uber non potrebbero resistere a un attacco kamikaze dei mech.

Lani intervenne: — Potrei tentare di scendere fino al Clan della Roccia Azzurra. Keoki Anuenue condurrebbe su i suoi hawaiani, se sapesse dove ci troviamo.

La bocca di Jeffers si spalancò per l'incredulità. — Voi donne siete matte tutte e due. Non potreste mai raggiungere la galleria.

— Creiamo un diversivo, allora — lo sfidò Virginia.

— Cosa?

Virginia rifletté in fretta. — Supponiamo di ventilare l'intera cupola all'improvviso, con le vasche aperte?

Carl corrugò la frotne. — Le vasche dell'acqua? Bollirebbero e… sì, capisco. Questo creerebbe una gigantesca sfera di vapore. Nessuno riuscirebbe a vederci in mezzo.

Jeffers scosse la testa. — Ma non c'è modo di dire quanto durerà.

Virginia si girò verso di lui. — Sarai tu a manovrare le pompe, spruzzando acqua dritto fuori della cupola, dove evaporerà immediatamente.

Jeffers aprì la bocca per sollevare altre obiezioni, ma si affrettò a rinchiuderla. — Uhm, non so… Potrebbe funzionare.

— Facciamolo! Altrimenti, se Sergeov dovesse vincere…

— Bene — disse Carl, con le labbra premute, bianche e sottili. — Suvvia, all'opera.

Ci vollero dieci minuti per predisporre ogni cosa. Virginia lavorava con furibonda ferocia, tirando tubi flessibili, chiudendo silos per la maturazione del lievito, gettando coperte di plastica a mo' di protezione temporanea sopra i molti acri di piante, chiudendo ermeticamente le unità di coltivazione che erano troppo delicate per resistere molto al freddo e al vuoto. Si sentiva impacciata a compiere un lavoro manuale senza un mech.

Senza pensare al futuro, praticamente senza pensare del tutto, si ritrovò rannicchiata dentro la camera di equilibrio accanto a Carl e a Lani. D'un tratto si rese conto che stava per rischiare la vita affidandola alla sua capacità di correre. Impossibile, assurdo! Ho passato meno tempo in superficie di chiunque altro. Ma non vedeva nessun'altra maniera di uscirne. Era sicuro com'era vero l'inferno che non avrebbe consentito a Sergeov d'imbalsamarla per sempre dentro un colombario. E neppure gli avrebbe permesso di seppellire le Hawaii sotto una notte di ceneri cosmiche.

Jeffers chiamò da dentro: — Pronti?

Lei annuì, con ferocia. Fingi di non trovarti qui di persona. Convinciti che stai operando con un mech fuori sul ghiaccio. Lo hai fatto migliaia di volte.

— Sì — rispose Carl.

Il portello si spalancò di scatto, e tutti e tre si lanciarono fuori.

Si separarono immediatamente. Lani si precipitò verso nord, mentre Virginia e Carl correvano in direzione est. Si ricordò d'interrompere il suo comunicatore. Non c'era bisogno di mettere in allarme nessuno, nel caso in cui gli Uber stessero impiegando dei rilevatori sintonizzati sui trasmettitori delle tute. Abbassò la testa e si mise a correre con passi lunghi, uguali, facendo solidamente presa sul ghiaccio, quasi un libero costeggiare, che copriva meglio il terreno.

Proprio come guidare un ragno-mech. Testa bassa, trova la trazione.

Lanciò un'occhiata alle proprie spalle, giusto in tempo per vedere le chiusure della cupola che saltavano. L'intera struttura trasparente ondeggiò, come un polmone che stesse collassando, esalando una densa nebbia nel cielo costellato di stelle. Banchi ondeggianti avvolsero Virginia. Poi Jeffers mise in funzione le pompe antincendio collegate alle vasche, spruzzi sottili che s'ispessivano per poi dissolversi tutt'a un tratto. La nebbia li serrava da ogni parte. Il mondo divenne bianco. Virginia fu costretta ad affidarsi al suo slancio iniziale per seguire la giusta direzione, giacché non riusciva neppure a vedere il ghiaccio sfregiato sotto di lei.

Il suo ricevitore era acceso. Udì grida, imprecazioni, esclamazioni. Ma nessuno gridava i loro nomi, ingiungendo d'inseguirli.

Una nebbia color avorio pareva premere su di lei da ogni lato, sollevandola… Perse completamente di vista il terreno… le urla crebbero… atterrò, morse il terreno con le punte da ghiaccio, scalciò per innalzarsi… le parve di levarsi in alto come se avesse le ali, in mezzo ad un'accogliente nuvola bianca… atterrò di nuovo, con gli stivali che scricchiolavano nel ghiaccio…

… e si ritrovò di nuovo fuori, lo spazio del tutto limpido intorno a lei, in un mondo di ghiaccio grigio, il cielo nero e duro, un cielo di morte.

Si guardò intorno. Carl era davanti a lei, si stava giusto spingendo via, descrivendo una parabola bassa e allungata. Quando i piedi di Carl lasciarono il suolo, un lampo velocissimo l'accecò, un punto d'incandescente luce azzurra, soltanto a pochi metri da Carl. Colpì il ghiaccio, sollevando una vorticante nuvola di vapore, scavando un cratere profondo un metro.

Virginia accese il suo comunicatore sulla linea Af, come avevano progettato. — Ci sono addosso!

— Sì!

Carl girò di scatto la testa e indicò qualcosa alla sua sinistra. — Mettiti dietro a quello!

A cinquanta metri di distanza spiccava una robusta piattaforma di riparazione mech, inclinata contro un mucchio di scorie rossastre di ferro. Si trattava in realtà di un pezzo del vecchio assemblaggio esterno per il carico della Edmund, fitto di montanti e strutture di sostegno incrociate che avevano sorretto grandi masse durante la lunga spinta di allontanamento dalla Terra. Quando mise di nuovo il piede sul terreno, Virginia ruotò su se stessa, avvertendo un'acuta fitta di dolore a causa dei muscoli disabituati, e si spinse via in quella direzione.

Una breve scintilla azzurra illuminò la sua strada. La sua ombra si allungò, uno smilzo gigante che volava sopra il ghiaccio butterato a causa di quell'improvviso bagliore. Non si girò per guardare la nuvola di nebbia che si gonfiava, ma le si rizzarono i capelli sulla testa. C'era mancato davvero poco… Atterrò dietro alla piattaforma, un istante dopo Carl. — Rimani qui — lui le trasmise, inutilmente.

— Cosa facciamo?

— Aspettiamo. Cercheranno altri bersagli. Non sanno con certezza chi siamo, così…

Un cicalino lo interruppe, quando un altro gruppo s'inserì nella comunicazione a lunga distanza. La voce di Sergeov tuonò nei suoi orecchi. — Io lo so. Non sono così stupido da non indovinare chi è che sta scappando. O che cerca un canale di comunicazione.

— Oh, merda — esclamò Carl.

Virginia si rese conto che non avevano niente con cui trattare, nessun possibile aiuto. Si sintonizzò su un canale aperto. — Ascolta, Otis. Carl e io possiamo indurre gli archisti ad abbandonare il loro attacco, se ci lascerai andare.

— Mi offrite che cosa? La diplomazia? — Il disprezzo di Sergeov era palpabile.

— È tutto quello che ti rimane.

— Ho voi. Non muovetevi di un metro, o vi brucio.

— A cosa potrà mai servirti? Il tuo problema sono gli archisti.

— Siete voi ad avere problemi. — Dopo di che, Sergeov cominciò a snocciolare istruzioni a qualcuno in russo. Virginia ricordò che c'erano parecchi ex sovietici fra gli Uber: la convinzione della propria perfezione impregnava entrambi i movimenti.

Virginia interruppe il canale del comunicatore e mise il proprio casco a contatto con quello di Carl. — Cosa possiamo fare?

— Dannatamente niente. — Sulla pianura oltrestante si muovevano delle lontane figure e occasionalmente ammiccava una piccola arma. Si rannicchiarono sotto quella massa, afferrandosi ai montanti. Una vampa esplose soltanto a pochi metri oltre l'orlo frastagliato del loro riparo. Sfere di gas turbinante sfrecciarono accanto a loro. Un istante più tardi un'altra palla di fuoco biancoazzurro ammiccò sul lato opposto, poi venne avvolta da una sfera color avorio in espansione.

— Ci sta mostrando come ci ha presi in trappola — disse Virginia.

— Probabilmente, la prossima volta comincerà a sforacchiare questo. — Carl batté la mano sul pezzo di metallo, in preda alla frustrazione. — Però, non basterà una scarica per perforare questo spessore.

— Non potrebbe tenere uno dei suoi due laser puntato in continuazione su di noi?

— Non per molto. Ma non può neppure permettere che scappiamo. Non riesco a vedere come…

Un pesante tonfo scosse il montante sotto le mani di Virginia. — Ehi, cosa… — Un altro colpo secco, seguito da un tremito del metallo. — Sta cercando di penetrare fino a noi!

Carl scosse la testa, sbirciando da sotto il suo visore insudiciato. — Un raggio laser non fa questo effetto. Questo è…

La piattaforma sobbalzò sul lato destro, inclinandosi e mordendo il ghiaccio. Carl premette il casco contro una grossa sbarra trasversale di acciaio grigioazzurro pressofuso. — Ascolta!

Virginia aveva appena toccato il metallo quando sentì un sonoro cramp seguito da un rimbombo sordo e persistente. — Cos'è? Io…

L'intera piattaforma tremò. Il secondo colpo arrivò soltanto pochi istanti più tardi, e questa volta Virginia stava guardando lateralmente, e poté vedere che non c'era stato nessun fugace lampo azzurro a illuminare il ghiaccio grigio circostante.

— Così, ci ha pensato — commentò Carl con rabbia.

Virginia indovinò: — I lanciatori.

— Già. Non può usare i laser a tempo pieno contro di noi, così ha puntato qualche lanciatore. Scagliando contenitori vuoti a bassa velocità, per impedire le esplosioni. Spara intorno a questo grumo di materiale, sperando di centrarci se mai dovessimo mostrarci…

Una nuova scossa fece sobbalzare la piattaforma e tutta la sua massa si sollevò dal ghiaccio. Virginia sentì un cramp, cramp, cramp attraverso le mani, tre rapidi colpi che spinsero la piattaforma a un metro di altezza sopra il ghiaccio. Virginia vi si tenne aggrappata, fissando Carl con gli occhi spiritati. — Ci sta spingendo via!

— Tienti salda — trasmise Carl.

— Ma perché non possiamo…

— Tienti stretta e basta. Dovremo muoverci in fretta quando…

Sergeov intervenne: — Non me l'aspettavo, ma è ottimo.

— Non puoi…

— Il lanciatore deve impedirvi di entrare. Ancora meglio che sbarazzarci di voi, eh?

La piattaforma risuonò e tremò di nuovo sottoposta a quel costante martellamento. Una volta stabilizzata la mira, il lanciatore era in grado di riversare su di loro una pioggia costante di pallottole vuote.

Carl disse: — Le pallottole si spiaccicano come le caramelle fondenti quando colpiscono. Non possono penetrare questa lega dura. Ma ci stanno spingendo via.

Virginia abbassò lo sguardo. Già erano alti sopra la pianura chiazzata di grigio, e stavano acquistando velocità. Gli impulsi del lanciatore li avevano spinti lungo una traiettoria tangente alla superficie, e adesso stavano passando sopra la scena della battaglia. Lampi casuali qua e là, sbuffi di gas. Virginia udì un clic e lo riconobbe come il segno d'un raggio a microonde che li aveva mancati di poco; le onde, in realtà, entravano in risonanza con gli ossicini dell'orecchio umano. Ma, chiunque fosse stato, non sparò più contro di loro.

Qualcuno stava correndo verso il riparo costituito da una bassa fila di fusti di carburante, e Virginia riconobbe la cotta di Joao Quiverian. La scarica di un laser centrò in pieno l'alto capo degli archisti, e un sole azzurro schizzò fuori dal suo petto. Una piccola nube si levò dal suo corpo, mentre proseguiva la sua strada, abbracciato al suolo, con le braccia che sbattevano all'infuori, roteando inutilmente mentre rasentava il ghiaccio.

Delle figure sollevarono gli sguardi verso di loro, ma nessuno cercò di venire in loro aiuto. Quelli là sotto potevano indubbiamente vedere i risultati quando una continua grandinata di pallottole colpì l'altro lato della piattaforma, e seppero che qualunque tentativo di avvicinarsi avrebbe significato trovarsi sotto tiro. Virginia chiamò: — Sergeov!

— Vi avevo dato un posto dove stare. Avete lasciato la cupola, vi siete tirati addosso questo.

— Senti, noi…

— Non arrenderti!

Non sto per farlo pensò Virginia. Anche se tutta questa faccenda mi sta… stordendo. Halley parve inclinarsi nel cielo, quelle superfici grigie, macchiate, rullavano e viravano mentre loro vi passavano sopra sfrecciando, sollevandosi…

— Proprio quello che temevo. Ci stiamo girando.

Naturalmente. Le pallottole non ci colpiscono uniformemente, così la piattaforma sta accelerando la rotazione. Sergeov sa che…

— Non possiamo strisciare intorno?

— Sarà difficile. Su, spostati a sinistra.

Carl si mosse con una disinvolta agilità che le fece provare un po' d'invidia, mentre lei lo seguiva, muovendosi goffa, non osando mollare la presa su un montante prima di stringere saldamente quello successivo.

Per lei la piattaforma era una montagna di fili metallici intrecciati, che stava scalando una mano dopo l'altra, con una leggera forza centrifuga che tendeva a spingerla verso l'esterno, lontano da essa. Se la piattaforma fosse stata sferica, la loro manovra sarebbe stata semplice, sarebbe bastato tenersi sul lato opposto rispetto ad Halley. Ma a mano a mano che la piattaforma girava, a causa appunto del suo profilo appiattito, per un breve intervallo, quando si fosse posta di taglio rispetto ad Halley, le pallottole sarebbero sfrecciate, invisibili, accanto a loro. Virginia e Carl si tennero schiacciati contro la superficie della piattaforma quando giunse quel momento, poi si arrampicarono sulla faccia opposta. Mentre lottava per trovare un appiglio più sicuro, Virginia vide i numerosi crateri scheggiati creati dagli impatti dei proiettili. E tutto questo è opera dei contenitori vuoti, lanciati a un milionesimo dell'energia normale!

La piattaforma parve ruotare più in fretta. — Stanno forse cercando di farci ruotare? — chiese Virginia, ansando.

— Non mi stupirebbe.

— Come faremo…

— Spingi!

Seguì Carl dietro l'angolo successivo, e attesero. Lo splendore metallico del gelido acciaio rifletteva il grigio, fioco bagliore di Halley a mano a mano che quella superficie piatta ruotava lentamente, con la curva della testa cometaria che s'innalzava sopra un groviglio contorto di sbarre e rivetti. Da quella distanza non si vedeva nessun segno della battaglia, nessuna indicazione degli esseri umani e delle loro vite meschine… soltanto il ghiaccio macchiato e butterato, con un'accidentale opera d'arte astratta che luccicava qua e là alla luce delle stelle. Poi Virginia vide la lunga linea tratteggiata dei pozzi dei lanciatori equatoriali e si rese conto che la macchina che li stava propellendo poteva anche «vederli». Si arrampicò dietro a Carl, intorno all'orlo.

Virginia percepì un colpo seguito da una forte vibrazione, e vide scomparire nel nulla una sbarra accanto alla sua gamba. Colpita da un proiettile, la sbarra era schizzata via nello spazio. Virginia tirò un profondo respiro, e balzò rapida oltre il labbro della piattaforma.

— È… troppo pericoloso far questo.

— Se non teniamo la piattaforma fra noi e le pallottole, siamo morti. — Carl aveva gli occhi sgranati, ma in qualche modo appariva calmo e imperturbato.

— Non possiamo saltare giù? Su un punto qualunque di Halley?

— Bene, e le pallottole che mancano la piattaforma? E se Sergeov si accorgerà che abbiamo lasciato la piattaforma, lascerà che il lanciatore colpisca a caso tutt'intorno al bersaglio, cercando di beccarci.

La voce di Carl suonò calma e realistica, nel valutare le possibilità. Virginia si teneva aggrappata a un tubo, le gambe tese verso l'esterno, il costante tamp tamp tamp le veniva trasmesso attraverso le mani. Era difficile pensare. — Ascolta, orientiamo i nostri getti di manovra nella stessa direzione della rotazione: questo ci permetterà di allontanarci in fretta.

— Già. Ma ci vorrà un sacco di spinta. Neppure questi getti sono stati mantenuti in buono stato di funzionamento.

— Non abbiamo nessun'altra scelta!

— Qui siamo al sicuro.

A Virginia non piaceva quell'espressione remota, rassegnata, sulla faccia di Carl. — E ad ogni minuto che passa saremo sempre più lontani da Halley!

— Già, su questo hai ragione. — Carl corrugò la fronte. Scosse la testa, cercando di mostrarsi interessato.

Il pallido orizzonte di Halley cominciò a levarsi al di là del bordo della piattaforma.

— Saltiamo direttamente giù dall'orlo, non appena gira. Sergeov non può sentirci, con tutto questo metallo che blocca la comunicazione fra noi.

Carl la fissò con un'espressione pensosa, illeggibile. Virginia lottò per superare il bordo della piattaforma e piantò saldamente i piedi contro un groviglio di montanti. — Dimmi quando.

— Aspetta… Hai attivato i tuoi getti? Ora regolali sull'emergenza, per una scarica di venti secondi, capito? — Spostò l'interruttore per lei. — Va bene, portali sul massimo quando… dico… adesso!

Virginia saltò nell'istante in cui attivò il pulsante. Un pugno la colpì alla cintura e la fece sfrecciare via, lottando per tenere in linea le mani e i piedi. La spinta parve durare per sempre, e Virginia dovette combattere contro l'impulso a piegarsi in due, per presentare il più piccolo bersaglio possibile alle pallottole che saettavano via da Halley, cercandola, e che poteva percepire…

Sollievo. Quella spinta furibonda venne interrotta dal timer della tuta. Virginia abbassò la testa e vide la piattaforma fra i suoi piedi, che ruotava pigramente. Una flangia argentea ammiccò e ruzzolò via mentre guardava, liberata dall'impatto di una pallottola. Se soltanto Sergeov non si fosse accorto di quello che avevano fatto…

Carl. Dov'era?

Si guardò rapidamente intorno, ma non trovò niente. Se una pallottola ti avesse colpito, ti avrebbe trapassato e basta? Oppure ti avrebbe dato abbastanza spinta da condurti lontano nel giro di pochi istanti, fuori dalla mia vista…?

Virginia non osò chiamare al comunicatore. Si girò in tutte le direzioni, dicendosi che non doveva lasciarsi prendere dal panico, di essere lucida e metodica, e finalmente lo trovò, proprio sopra di sé, una macchia nel buio grande come una bambola.

Per il rendez-vous ci vollero soltanto pochi momenti. Carl venne verso di lei nuotando, frenò, poi serrò le mani su quelle di lei e mise a contatto i caschi. Si era aspettata un momento di tripudio, giacché, certamente, dovevano ormai trovarsi fuori dalla zona di pericolo, ma tutto quello che Carl disse, fu: — Adesso viene la parte difficile.

— Cosa?

— Tornare su Halley.

— Qualcuno non… — stava per dire, verrà a prenderci?, quando si rese conto che ovviamente nessuno avrebbe mai pensato ad un salvataggio nel mezzo della battaglia. Gli Uber e i loro alleati avevano senza dubbio sotto tiro le imboccature dei pozzi, imbottigliandovi dentro chiunque poteva aiutarli. Inoltre, in quanti erano a sapere che loro si trovavano lì fuori?

— Quanto ci troviamo lontani?

Carl sollevò un piccolo tubo, lo puntò verso il disco pustoloso, sempre più piccolo, di Halley, e lesse il dato: — Ventitré chilometri virgola quattro. Con un incremento di circa tre chilometri al minuto.

— Così distanti!

— Moltissime pallottole hanno colpito la piattaforma.

— Queste tute…

— Hanno una grande portata. Il vero problema è tornare prima che finisca l'aria. — Indicò con un gesto i misuratori che correvano in linee a colori in codice lungo entrambe le maniche delle loro tute. — Non ne abbiamo più molta.

— Quanta decelerazione posso avere?

Carl fece un calcolo mentale, corrugando la fronte, e ricorse alla visiera del suo casco per controllare. — Non molta.

— Ma possiamo ancora tornare indietro, vero?

— Sì… Soltanto, dobbiamo annullare questi tre chilometri al minuto. Ci vorrà tutto il carburante che abbiamo. Poi, dovremo farci i trenta chilometri o giù di lì per arrivare fino ad Halley…

La sua voce si spense in un gesto di frustrazione mentre digitava altre cifre sulla sua consolle, fissata a una sporgenza della cintura. Virginia si morse il labbro. Tutto stava avvenendo così in fretta che non aveva il tempo per pensare.

Carl si fermò, poi batté altri dati, e strinse le labbra fino a farle sbiancare. — Sembra brutta.

— Quanto brutta?

— Nessuno di noi due ce la farà a ritornare in tempo per respirare aria fresca.

Nessuno dei due?

— Non si può fare. Quei tre clic al secondo si mangiano una grossa fetta del nostro carburante.

— Allora… — Un cupo presagio, adesso il sottofondo che da giorni avvertiva dentro di sé eruppe in superficie. Sarebbero morti tutti. Il destino aveva orchestrato ogni cosa, cosicché entrambi si trovassero ad affrontare una morte straziante, soli e spaventati, qui fuori nell'abisso gelido e immemore…

— Possiamo vincere quei tre clic al minuto, ma questo ci lascia soltanto una piccola velocità residua. La gravità della cometa non ci aiuterà molto. Ci vorranno ore per ritornare su Halley.

E mentre parliamo, la situazione peggiora sempre più. Ogni secondo ci porta più lontano. Fuori nel vuoto, a raggiungere le anime gelate della Edmund. Soltanto che prima dobbiamo morire…

— Uno di noi non potrebbe prendere entrambi gli zaini a getto?

Carl scosse la testa. — Sono integrati, non ricordi? Non puoi staccarne uno, senza rompere il sigillo dell'aria.

Non se lo ricordava, non l'aveva mai saputo, ma adesso la sua mente scorreva in fretta, ripassando fulminea tutto ciò che sapeva della dinamica. Se c'era qualche modo per farlo…

— Aspetta. Soltanto uno di noi deve tornare indietro, cercare aiuto. Non c'è qualche modo per scambiarci della quantità di moto fra noi?

Carl parve perplesso. Il suo volto era grigiastro e stanco, cerchi scuri gli orlavano gli occhi. Pareva più vecchio e più logoro di quanto l'aveva mai visto prima, perfino all'apice delle pestilenze. Scosse la testa muto, le labbra ancora premute con forza, gli occhi pieni di disperazione.

Virginia ricordò qualcosa da molto tempo addietro… cercò di ripescarlo… colse il frammento di un'idea.

— Aspetta, c'è qualcosa…

CARL

Halley era appesa nella tenebra corrosiva, derubata ormai da tempo della sua rotazione dall'Uomo, adesso la sua superficie era illuminata da fuochi convulsi.

Carl seguì la battaglia che progrediva, mentre attuava il suo lungo approccio. Erano passate più di tre ore da quando si era separato da Virginia. Si erano accordati per mantenere il silenzio delle comunicazioni. Ciò aveva reso il suo viaggio solitario e frustrante, giacché poteva sentire le grida sparse della lotta, le urla aspre e lo «staccato» degli impulsi a microonde, il tutto senza potersi fare nessuna idea chiara di ciò che tutto questo significava, del modo in cui procedeva la battaglia. Aveva cercato di concentrarsi sulle grida confuse, non soltanto perché aveva bisogno di conoscere la situazione quando fosse atterrato, ma per calmare la propria rabbia.

Esaminò il panorama che si profilava davanti a lui con una proiezione telescopica sulla sua visiera. I cadaveri degli archisti morti giacevano distesi vicino all'equatore. I solchi scavati dal laser butteravano i fianchi delle colline, ma adesso i laser degli archisti parevano essere stati messi fuori combattimento. Ne individuò uno, spezzato, ridotto a un tubo infranto. I lanciatori si erano dimostrati più efficaci dei goffi e impacciati saldatori-laser. Più lontano, a sud, Carl riuscì a vedere una fila di archisti che si stava formando intorno a cinque pulsatori a microonde. Il punto focale dello scontro si sarebbe spostato laggiù.

Gli Uber stavano uscendo fuori, impegnandosi in tante piccole scaramucce. Avanzavano a ventaglio, in direzione sud, partendo dall'equatore, inseguendo gruppi di sbandati lungo una fila di collinette e rugginosi mucchi di scorie. Tutti si tenevano bassi, utilizzando ogni tipo di riparo offerto dal terreno. Gli Uber parevano meglio addestrati, usavano in maniera efficace la tattica abbinata dello sparare-e-manovrare, due figure che sparavano con le armi portatili contro una postazione nemica vicina, mentre una terza avanzava verso il più vicino punto riparato.

Sapeva che non avrei mai consentito, così non ha neppure discusso.

L'idea di Virginia era elegante, e lei ne aveva capito ogni implicazione nell'istante stesso in cui le era venuta. Ricordava tutto con chiarezza, con mestizia.

Carl aveva pensato di congiungere le loro cinture, per poi attivare i suoi getti fino a quando non si fossero esauriti. Allora Virginia si sarebbe separata, l'avrebbe lasciato, avrebbe acceso i suoi propulsori e raggiunto Halley. Anche questo espediente non avrebbe fornito loro troppo margine. Cosa ancora peggiore, sarebbe stato pericoloso, giacché i suoi getti non avrebbero sparato direttamente lungo l'asse del sistema bi-corporeo. Ciò significava che Virginia avrebbe dovuto sprecare carburante per conservare l'esatta direzione.

L'alternativa di Virginia era semplice. Si erano legati con un cavo di cento metri e Carl aveva preso accuratamente la mira della patata che era Halley, dieci volte più grande della Luna vista dalla Terra, ma a centocinque chilometri di distanza e che rimpiccioliva rapidamente sempre più. Carl aveva programmato la sua tuta perché emettesse un bip ben chiaro tutte le volte che la sua velocità era allineata sull'opposto del vettore di Halley. Avevano teso al massimo il cavo fra loro, e Carl era stato sul punto di attivare i getti, quando Virginia l'aveva fatto per prima.

— Ehi! — le aveva gridato. — Spegni!

— No, così è meglio, userò la mia riserva fino in fondo.

— Dannazione! Fermati!

— No, Carl. Pensaci. — Avevano già cominciato a ruotare l'uno intorno all'altro quando i getti di Virginia avevano cominciato ad accumulare la loro velocità angolare.

— Accendo anch'io! — aveva urlato.

— Sarebbe stupido. Spreca le tue riserve, e moriremo tutti e due. Aspetta.

— No, non posso…

— Sono come un maiale sotto ghiaccio, qua fuori. Tu puoi pareggiare le velocità e fare il percorso usando il minimo di carburante. E saprai comportarti meglio quando atterrerai in quel manicomio là sotto. Tu sai che è vero. Qui, non è che io mi stia autoimmolando. Lungi da ciò. Fai fiasco, e finiremo tutti e due come ghiaccioli.

— Ho una massa maggiore della tua — lui si era infuriato. — Assumerò una velocità inferiore della tua, così ci vorrà più tempo. È una semplice questione di dinamica.

— Io sto parlando di abilità, non delle leggi di Newton. Tu puoi farcela, Carl, e sai benissimo che io non posso.

— Maledizione, non ti permetterò…

— Troppo tardi. — Dall'altra parte dei cento metri lo aveva salutato allegramente con un gesto della mano, mentre le stelle turbinavano dietro di lei. Il cavo li congiungeva ombelico a ombelico. La forza centrifuga stava piegando lui all'indietro, proprio come se si trovasse appeso per l'ombelico in un campo di gravità.

Lottò per pensare con chiarezza contro quella mano che lo premeva implacabilmente. Doveva esserci un modo per fermarla. — Non puoi…

— Sto attivando il segnale.

— Cosa? — Dunque, aveva preparato lo stesso programma per la ricerca del vettore, soltanto che il suo segnava un punto sul lato opposto del loro cerchio, rispetto al suo. I suoi bip erano arrivati regolarmente e inutilmente, e adesso…

— Sono scesa al due per cento — lo chiamò. — Sto per lanciarti via.

Virginia si levò in mezzo a quel folle turbinio di stelle, l'unico punto fisso in quell'universo centrifugo, e lui sentì il proprio rituale, pigolante, bip, sapendo che quello di Virginia sarebbe arrivato neanche cinque secondi più tardi.

Aspetta, dev'esserci…

— Non c'è tempo da sprecare, Carl. Vola veloce!

Con uno scatto deciso della mano, Virginia liberò il cavo.

Sentì il sussulto come un'improvvisa liberazione, un ritorno alla caduta libera. Sollevando lo sguardo vide che Virginia l'aveva lanciato proprio della maniera giusta, Halley era sospesa sopra di lui, una vaga chiazza.

E sotto di lui, fra gli stivali scostati, Virginia agitava le braccia con grazia lenta e cupa. Fu allarmato nel constatare quanto rapidamente rimpiccioliva, un punto azzurro inghiottito dallo spazio spalancato fra i soli ardenti…

… tre ore prima.

Scosse via da sé quel ricordo. Avrebbe dovuto trovare un modo per ostacolarla, per lanciare lei verso Halley invece di… ma una volta che lei aveva impegnato il proprio combustibile, lui si era trovato in trappola. Era sempre stata più veloce di lui, e forse stavolta aveva avuto ragione. Adesso doveva dimostrare che aveva visto giusto, scendere in superficie e trovare un apparecchio in grado di soccorrerla.

Più vicina, adesso, Halley parve riempire il cielo. Un momentaneo fulgore azzurro illuminò la sua superficie cicatrizzata. Le bocche dei pozzi erano ostruite dal ghiaccio, sigillate per impedire alle squadre che si trovavano all'interno di unirsi alla battaglia. I piccoli laser tenevano sotto tiro le agrocupole, costringendo anch'esse all'isolamento.

Avrebbero partecipato in tanti alla congiura di Sergeov, se avessero immaginato le implicazioni del suo piano?

Carl aveva avuto molto tempo per riflettere, sulla via del ritorno. Certo, usare la Terra come grosso bersaglio aveva molto più senso che farlo con Marte, dinamicamente. La maggior forza di gravità della Terra sarebbe stata più utile e l'atmosfera più densa sarebbe stata migliore per l'aerofrenaggio. Ma ci sarebbero pur sempre voluti molti passaggi prima che i rientranti potessero perdere abbastanza velocità per uguagliare le orbite o atterrare.

E la Terra se ne sarebbe stata inerte, mentre loro continuavano a girarle intorno più e più volte, passaggio dopo passaggio? Oh, potevano venir minacciati una volta dalla intimidazione delle bombe cariche di pestilenze, ma ciò non sarebbe durato.

Qualcuno si è unito a Sergeov perché pensano che sia il solo modo per sopravvivere. Non importa a quale prezzo.

Il prezzo, in questo caso, sarebbe stato alto.

Per impedire alla Terra d'interferire, di vendicarsi, Sergeov doveva distruggerla.

Così come erano stati distrutti i dinosauri… con una tempesta piovuta dal cielo. Sergeov aveva in mente di condurre Halley a casa e di far centro.

E con questo? pensò Carl, con amarezza. La Terra ci ha dichiarato guerra, no?

Era un argomento sofistico al quale fortunatamente Carl era immune.

Non sono in guerra con sei miliardi di persone, non importa quello che mi fanno i loro capi.

Dopo che Halley si fosse spiccicata sulla Terra, non sarebbe rimasta nessuna civiltà degna di questo nome. Gli Uber di Sergeov avrebbero potuto manovrare lentamente, indifferenti, senza interferenze.

Forse progettano di diventare dèi.

Sul mio cadavere.

Li avrebbe combattuti, naturalmente, per quanto inutile potesse sembrare. Ma ciò era lontano dalla sua mente quando la superficie gli si precipitò incontro. Gl'importava soltanto una cosa: trovare un mech da sollevamento pieno di combustibile quanto più in fretta possibile, e tornare nello spazio.

Mi hai imbrogliato dichiarò di nuovo, rivolto alle stelle. Per favore, oh, per favore, tenetela in vita fino a quando potrò arrivare da lei! Mentre iniziava la frenata da lungo tempo rimandata, vide che diversi pozzi dei lanciatori erano anneriti. Macerie erano sparpagliate tutt'intorno ad essi, i manicotti in rovina dei tubi di lancio, nuclei di assemblaggi elettromagnetici, bobine a induzione…

Danni vastissimi. Carl si sentì male alla vista di tutto quel lavoro andato distrutto. Tutte le cure amorevoli riversate in quell'opera, distrutte.

E alle sue orecchie risuonarono le grida di vittoria degli Uber. Due colonne degli Uber convergevano a tenaglia sulla linea degli uomini armati di trapani a microonde, gli archisti sulla difensiva si tenevano rannicchiati bassi, cercando di colpire gli attaccanti con quegli ingombranti corni a forma di tromba. Carl poteva sentire al comunicatore le rapide raffiche che partivano da questi, come tanti ssstttuuup ssstttuuup ssstttuuup. Dei pennacchi biancoazzurri fiorivano là dove le microonde colpivano il ghiaccio. Stavano offrendo una feroce resistenza, ma pareva che tutto fosse finito.

D'un tratto Carl colse un tremolio con la coda dell'occhio. Dietro alla forza principale degli Uber avanzava, muovendosi in fretta, un branco variegato d'individui disposti a ventaglio. Un gruppo più piccolo sciamò verso la linea equatoriale, adesso difesa dagli Uber in maniera assai meno massiccia. Carl attivò la propria amplificazione telescopica. Quelli, chi erano?

Non provenivano dai pozzi, strettamente sorvegliati, ma piuttosto da crepe fresche nelle vicine depressioni. Nuove gallerie pensò Carl. Sono organizzati.

Si sparpagliavano attraverso la superficie di ghiaccio granuloso. Carl contò una dozzina di figure in tuta nera, liscia, di un tipo che non aveva mai visto prima, e una ventina di altri individui vestiti d'uno strano verde sottilissimo. Non avevano cotte, così non riuscì a capire a quale fazione appartenessero, sempre che appartenessero a qualche fazione.

I nuovi venuti combattevano con una lucida ferocia, servendosi di piccole, ma potenti armi portatili. Sorpresero la fila degli Uber da dietro, infliggendo danni alle armi piuttosto che mirare agli individui. Costeggiando, Carl si avvicinò di più, osservando la scena con crescente impazienza. Cosa stava succedendo? Il suo comunicatore gli trasmetteva soltanto urla, ordini incomprensibili, il crepitio della statica.

Chi sono quei tizi?

Quelle strane figure in verde e in nero aggirarono un lanciatore, attaccandolo dal lato vulnerabile. Qualcuno li aveva addestrati. Invece di precipitarsi avanti disordinatamente, usavano il fuoco di copertura per manovrare, costringendo gli Uber a tenere la testa bassa mentre ogni figura avanzava. Poi balzarono dentro il pozzo, mentre l'equipaggio del lanciatore cercava invano di far ruotare la sua ingombrante bocca per affrontare quel nuovo e inaspettato attacco.

Non funzionò perfettamente. Degli impulsi laser sorpresero alcuni degli attaccanti e soffiarono gocce di sangue nel vuoto. Dei lanciatori più lontani martellavano il ghiaccio con raffiche simili a quelle d'una mitragliatrice, colpendo alcune figure e facendole schizzar via dal ghiaccio in orbite permanenti e solitarie intorno al Sole. In quel frigido, attanagliante silenzio la loro fine era impersonale, un'intersezione fra direzioni e velocità, la dinamica della morte ridotta a una pura faccenda matematica.

Ma anche gli impulsi e l'energia umana contavano, e quella marea nera e verde travolse l'equatore punteggiato dai pozzi. Ai suoi orecchi risuonarono rauche grida di giubilo e urla incoerenti. Gli Uber morivano dentro i pozzi in cui erano strisciati per cercare rifugio.

Adesso Carl era giunto vicino. Sotto di lui due figure portavano cotte, all'apparenza per consentire alle proprie truppe di raccogliersi intorno a loro: l'araldica gli balzò alla mente e sbatté le palpebre per la meraviglia. Ould-Harrad e Ingersoll?

Allo stesso tempo vide che non indossavano affatto tute verdi, piuttosto non indossavano nessuna tuta! Il verde era uno strato a tenuta stagna d'un qualche tipo. Una halleyforma!

Quelli vestiti di nero rimanevano insieme. Le loro tute erano poco più di caschi lucidi completati da una specie di pellicola sottile che copriva il resto dei loro muscoli, mostrando i particolari con tanta evidenza che Carl vide subito che erano tutti maschi, tutti straordinariamente simili fra loro. Si muovevano con grazia e una velocità da sbalordire l'occhio.

Carl usò il propellente rimasto per frenare in direzione di un gruppo di mech da trasporto impastoiati vicino al Pozzo 4. Rotolò su se stesso fermandosi in mezzo a un turbinio di ghiaccio sporco. Non aveva affatto tempo per chiedere aiuto, sapeva che le squadre in nero e verde, chiunque fossero, sarebbero state troppo impegnate ed eccitate per essergli utili in qualche modo. Era stanco, ma il mech si sarebbe occupato della maggior parte delle operazioni di pilotaggio… se fosse riuscito ad assumerne il controllo. Se uno di essi fosse stato pieno di combustibile e pronto a partire. Se…

Il comunicatore era ingolfato da roboanti grida di tripudio, dimentiche di qualunque altra cosa.

— Carl? Sei tu? — Era Jeffers.

— Sì. Mi serve un mech. In fretta!

— Sergeov è morto… I ragazzi di Ould-Harrad l'hanno centrato con due scariche di laser. L'hanno fatto a pezzi, spingendolo dritto nello spazio.

— Vieni qui! Questi mech…

— E sembra che non ci sia proprio nessuno interessato a recuperarlo. — Jeffers stava giubilando. Poi, si rese conto del'urgenza nella voce di Carl. — D'accordo, vengo.

Devo trovare un mech che abbia abbastanza carburante… Non questo…

— Carl. — Una voce femminile. Vide Lani avvicinarsi da nord insieme a Keoki Anuenue e ad una ventina di grossi hawaiani. — gli Uber avevano imbottigliato il Clan della Roccia Azzurra, ma abbiamo trovato una via d'uscita insieme agli strani, i ragazzi di Ingersoll.

Ci hanno aiutato? I matti? Il concetto si fece lentamente strada nella sua mente. — Magnifico. Io… Ascolta, aiutami a trovare un mech che abbia combustibile.

— Dov'è Virginia? L'ho cercata…

— Trovami un mech!

— Va bene, controllo l'inventario.

— Cosa?

— Il controllo mech è ripristinato ed è di nuovo in funzione. Visto?

Trasferì direttamente la lettura sullo schermo del suo visore, e Carl vide subito il numero di codice di due trasporti pronti all'uso che lampeggiava verde. — Qui — disse Lani, scivolando fino ad uno di essi. Il suo volto era teso ma deciso dietro ad un casco tutto macchiato. — Faccio il booting.

Carl si unì a lei, e digitò la lettura delle condizioni del mech.

— Quei tipi in nero, chi sono? — chiese Lani.

— Non lo so.

— Non lo sai? Pensavano tutti che foste stati tu e Virginia a condurli qui.

Il mech si rianimò ronzando. Carl lasciò perdere le domande e si procurò l'ossigeno. Nient'altro aveva importanza. Adesso la follia degli uomini era soltanto un fondale. La stramaledette politica poteva aspettare.

Un passo per volta.il tempo fugge… non so quanto ossigeno abbia ancora… pensa bene… ad ogni singolo passo…

Carl programmò il trasporto per la spinta massima, con le dita tozze che digitavano i comandi con deliberata lentezza. Lani aveva insistito per venire anche lei, e lui non aveva perso tempo a discutere. Si levarono in volo con Lani nel baccello laterale.

Virginia aveva lasciato il loro centro comune di massa con la stessa velocità di Carl, a meno di quattro chilometri al minuto, ma nella direzione opposta. La loro separazione si collocava a più di tre ore nel passato. Ciò significava che lui doveva recuperare quasi mille chilometri alla spinta massima, poi esplorare lo spazio alla ricerca d'un debole segnale per identificare il vettore…

La velocità. La velocità era tutto quello che contava, adesso.


Alcune ore più tardi, Carl ridiscese con il mech eseguendo un atterraggio nient'affatto morbido presso l'ingresso vetrificato del Pozzo 3. Era a pezzi per la fatica, ma aveva Virginia. Il mondo gli s'inclinò intorno, confusamente, quando smontò dal mech, incerto sulle gambe a causa delle continue variazioni delle accelerazioni che aveva subìto nelle ultime ore.

Ci siamo quasi. Adesso portala dentro…

Scivolò goffamente sul ghiaccio lasciandola cadere. Lani lo aiutò. Tutto era nebbioso e si muoveva al rallentatore.

Soltanto quando delle mani guantate afferrarono Virginia, tirando via da lui la forma flaccida in tuta spaziale, Carl si accorse della presenza degli altri. Indossavano tute nere senza nessuna cotta, con stretti caschi che mostravano soltanto gli occhi attraverso strette fessure. Passò da un canale all'altro del comunicatore, ma non risposero.

Erano silenziosi, avevano un qualcosa di soprannaturale. Ed erano identici. Quello che trasportava Virginia si girò di scatto, e si diresse in fretta verso l'ingresso del pozzo, adesso sgomberato dal ghiaccio. Poi Carl lo seguì scivolando e incespicando.

Giù per il pozzo. Le pareti gli slittavano accanto come rovesci di pioggia, durante la discesa, mentre lui guardava, impassibile, intorpidito, con un'indolenza strisciante che gli si insinuava nelle braccia e nelle gambe. Era ben oltre il punto in cui gl'importava ancora qualcosa di se stesso, e si concentrava soltanto sul corpo trasportato dalla figura in tuta nera davanti a lui. Ogni cosa si muoveva con velocità e silenzio spettrali.

Varcarono il portello d'una camera di equilibrio, Carl si appoggiò stordito contro la paratia quando la pressione gli schioccò negli orecchi e il mondo dei suoni tornò a circondarlo come una marea, con il fruscio e il mormorio della conversazione che mulinava ancora una volta intorno a lui, dopo molte ore d'imbalsamato isolamento. Attraversò barcollando il portale, respingendo le mani che cercavano di guidarlo.

Dozzine di feriti gementi. Medici con i guanti grondanti sangue.

Virginia. Devo vederla… ha bisogno… devo…

L'uomo che la trasportava la mise giù delicatamente su un lettino medico. Un'équipe la stava aspettando. La collegarono con delle pompe a ossigeno, cavi per la diagnosi, la spogliarono della tuta, il tutto sotto la pallida luce smaltata che mostrava il suo volto esangue nei più terrificanti particolari, segnata e solcata come un paesaggio collassato.

Un torrente di voci, parole liquide che scorrevano via accanto a lui in vortici che non lasciavano traccia…

Carl avanzò con passo strascicato, ignorando le mani che lo trattenevano. Devo essere con lei… devo…

L'uomo accanto a lui gli mise una mano sulla spalla per calmarlo. Carl si girò lentamente. Poi la figura in nero allentò il proprio casco lucido, cominciò a sollevarlo, dette in un ansito e, in una vecchia, familiare maniera, sternutì.

SAUL

Un altro sobbalzante sternuto risuonò prima che il casco color ebano venisse sollevato del tutto. Saul sbatté le palpebre per scacciar via delle macchie danzanti. Dovette azionare il suo bio-retroattore per arrestare un altro prurito che minacciava di farlo ricominciare. Adesso non era proprio il momento perché quel dannato sistema di allergia-simbiotica s'inalberasse. Aveva avuto abbastanza guai da quando c'era stato il crollo della galleria, gli pareva che fossero passati giorni, e in questo momento ogni singolo istante contava.

Carl Osborn lo fissava, sbattendo incessantemente le palpebre, il suo casco da spaziale, sudicio, ammaccato, di modello superato, gli penzolava da una mano. — Ma… ma… eri morto!

Saul scrollò le spalle. — Lo ero, in un certo senso. Ma come una vecchia erbaccia, continuo a rispuntare. — Carl meritava una spiegazione, ma questo non era il momento di dargliene una. Saul si chinò sopra la forma pallida, cerulea, di Virginia, e lesse il cerotto diagnostico attaccato alla sua gola, che aveva assunto una colorazione azzurra. Un infusore di ossigeno sibilava, lavorando direttamente sopra la sua carotide.

Non andiamo bene si rese conto, nauseato. Oh, Virginia…

Malgrado il naso intasato, colse chiaramente l'odore di bruciato. Per un istante le fiamme lambirono ancora una volta i cedri vecchi di un secolo sul monte Sion.

No! Non stavolta.

Gli bastò un istante per cogliere l'unica speranza. Siamo arrivati a questo, amor mio. Devo fare esperimenti, perfino con te.

Una cosa era certa. Doveva sbarazzarsi di Carl Osborn, giacché quell'uomo avrebbe certamente interferito con ciò che lui doveva fare adesso.

— Non startene lì, Carl. Vai su, presto! Keoki e Jeffers hanno bisogno di te. Dì a Ould-Harrad che lo ritengo responsabile del mantenimento della parola data di non distruggere nessuna attrezzatura, soltanto le fondamenta dei lanciatori, come abbiamo concordato.

— Distruggere… Ould-Harrad… — Carl scosse la testa, ovviamente esausto e confuso. Per uscire da quel guazzabuglio si afferrò ad una priorità e vi si aggrappò ostinatamente. — No. Rimango con Virginia.

Disperato, Saul percepì l'inesorabile passare dei secondi. — Ishmael! Job! — chiamò. — Portate il comandante Osborn in superficie, adesso. C'è bisogno di lui lassù. Mettetelo al lavoro!

Carl si girò e piantò i piedi per terra, come se avesse tutte le intenzioni di lottare per rimanere. Ma ogni forza gli venne meno quando vide i due giovani dai corpi muscolosi che puntavano su di lui, identici e sorridenti, quel sorriso che conosceva fin troppo bene. — Non ci credo — bisbigliò Carl. — Sono… sono cloni… di te stesso! Ma come…

Il sibilo della porta della stanza tagliò fuori il resto delle parole di Carl. Saul si mise a correre lungo il corridoio trasportando Virginia fra le braccia, aderendo con le dita dei piedi al tappeto verde di halleyvirid, affrettandosi verso l'unico luogo possibile dove esisteva una vaga probabilità di salvare la sua vita.

Carl non avrebbe mai permesso questo pensò, sapendo che quell'uomo l'amava, a modo suo, tanto quanto lui stesso. C'è bisogno di lui, e quello che sto per tentare mi farebbe escludere dall'Associazione Medica Americana.

Sibilò il codice che apriva la porta del laboratorio di Virginia, e vi si tuffò dentro.

Mentre il programma diagnostico di JonVon sondava le frange del cervello di Virginia che stava lentamente morendo, Saul si spogliò della sua tenuta da superficie.

L'insieme del casco, zaino da cintura, e dermavernice era uno dei doni di Phobos che lui aveva tenuto per sé. Alcuni mesi prima si era servito di un pretesto per regolare la fabbrica automatica, così da produrne una dozzina di esemplari, un numero sufficiente del modello perfezionato per equipaggiarne i suoi dieci «ragazzi» e lui stesso.

Dopo il crollo della galleria, quando aveva trovato bloccata la strada che conduceva in superficie, era tornato e aveva radunato le sue repliche clonate. Tuttavia, prima della partenza era arrivato un messaggio da Ould-Harrad. L'ex spaziale si offriva di guidare Saul lungo le gallerie segrete conosciute soltanto dal suo clan degli strani, e di aiutarlo a colpire là dove Sergeov meno se l'aspettava. Per un prezzo, però.

Probabilmente abbiamo vinto in parte per avere spaventato a morte o quasi, gli Uber, rifletté Saul, mentre controllava il flusso tra JonVon e la padrona della macchina.

Era stato un esercito ben strano quello che aveva seguito Ould-Harrad e Ingersoll, il «Vecchio delle Caverne», lungo passaggi che nessun altro aveva mai scoperto, emergendo quasi sotto la postazione di comando degli Uber e attaccando come un esercito di fantasmi.

Dieci alte figure con il corpo dipinto d'un nero arcano, e un'impressionante ventina di selvaggi alberi viventi, un tempo uomini ma adesso simbionti che non hanno neppure più bisogno di tute spaziali…

Saul sapeva che stava furiosamente pensando… a qualunque cosa, qualunque cosa, non importa quale, piuttosto che contemplare la triste figura sulla ragnatela. Non c'era niente che lui potesse fare fino a quando la macchina non avesse riferito. Scoprì che stava strizzando il casco di duraplast fra i palmi delle mani, in preda alla tensione nervosa, e che era riuscito a lasciare un'ammaccatura sul globo nero.

Oh, Virginia. Tieni duro, tesoro. Per favore, tieni duro.

Il principale schermo olografico, sopra la consolle: comparve un'immagine, un'infermiera con un camice bianco inamidato e uno stetoscopio di vecchio modello intorno al collo, che fissava Saul con sguardo grave.


Ha ragione, dottore. La paziente è clinicamente al di là del punto di non ritorno. Le velocità sinaptiche stanno recedendo. Il danno progressivo al cervello è rallentato, ma non completamente arrestato. La perdita della corteccia, entro quindici minuti, causerà la cancellazione della memoria e della personalità. Non ci sono palliativi conosciuti.

È morta, signore.


— No, non morirà! Se il suo cervello non riuscirà più a contenerla, troveremo per lei qualche altro posto dove andare. Che mi dici di quelle procedure alle quali lei lavorava, per la completa registrazione e l'assorbimento della personalità?


Desidera la costruzione d'una simulazione di Virginia Herbert?


Saul scosse la testa: — Sto parlando di trasferimento e assorbimento totali.

Vi fu un sibilo dietro a Saul mentre la porta si apriva. — Cosa sta succedendo qui? — Una mano sulla sua spalla lo costrinse a voltarsi. Carl Osborn corrugò la fronte e tenne un pugno sotto il viso di Saul.

— Mi sono liberato di quei tuoi ragazzi dopo che mi hanno scaricato sul ghiaccio. Sono sceso attraverso uno scivolo per la spazzatura. Adesso ti faccio una domanda, Lintz. Cosa sta succedendo qui? Perché mai Virginia non si trova in ospedale?

Carl aveva un aspetto esausto, rabbioso. Le maniche della sua tuta avevano le chiusure lampo aperte fino ai fianchi, dando a quell'indumento un aspetto medioevale, pur rattoppato e insudiciato. I suoi muscoli pulsavano, e Saul seppe da un solo sguardo che Carl era sull'orlo frastagliato della violenza.

— Ecco — cominciò, in tono ragionevole, col suo miglior atteggiamento di medico al capezzale del malato. — Tienle il braccio mentre le somministro questo medicamento.

Carl sbatté le palpebre e si mosse per sollevare l'arto gelato e bluastro di Virginia. — Tu… devi salvarla, Saul. Non potrei sopportare se… se… — Si sfregò gli occhi col dorso del polso libero.

— Mi ha imbrogliato, facendo in modo che fossi io a venire rispedito indietro. E io l'ho… l'ho riportata indietro troppo in fretta.

— Hai fatto del tuo meglio, Carl. — Saul controllò un flacone d'un liquido color ambra.

Carl non parve udire. — Devi… devi salvarla.

— Lo faremo — gli promise Saul. E premette il flacone contro la mano di Carl. Lo spaziale sollevò lo sguardo su di lui, sbattendo le palpebre per la sorpresa nell'udire il sibilo del narcotico che gli veniva iniettato: un ipnotico ad azione rapida.

Fu scosso da un tremito, aprì la bocca come per parlare, ma non ne uscì nessun suono.

— Bene — gli disse Saul, conducendolo per il braccio fino alla parete. — Adesso, se vuoi, puoi rimanere sveglio, Carl. E perfino farmi delle domande, quando non sarò troppo occupato. Ma voglio che tu te ne stia qua dietro a rilassarti. Allenta i tuoi muscoli. Lascia che tutto quello che si trova sotto il tuo collo si appisoli per un'ora, più o meno. Ne hai bisogno.

Carl lo fissò con sguardo accusatore, ma rimase dove si trovava. Saul tornò alla consolle e parlò ad alta voce alla macchina.

— JonVon, è fattibile? Che mi dici del programma che hai usato per trasferire i miei ricordi nei miei cloni?

La rappresentazione olografica tremolò, e con viva sorpresa di Saul comparve un volto che aveva conosciuto molto tempo addietro. Era un simulacro di Simon Percell, dal ciuffo di capelli bianchi ai minuscoli capillari rotti sul naso del grande biologo.

Pare una versione più anziana di Carl Osborn.

Quelle famose sopracciglia cespugliose s'intrecciarono.


I tuoi cloni sono eccezionali, Saul. Nessun altro genotipo è riconducibile ad una così rapida crescita fino alla maturità… Probabilmente è dovuto alla tua stessa immunità alla malattia.

Il programma di trasferimento della memoria che hai usato può venir impiegato soltanto fra cervelli umani quasi identici. Le risonanze devono apparir vere punto per punto. E non esiste il fenotipo di qualcuno che segua con abbastanza precisione il genotipo.

Sembra impossibile utilizzare quel metodo se non con una minuscola frazione di esseri umani. In altre parole, amico mio, tu sembri essere uno dei pochi immortali potenziali.


Saul rimase a bocca aperta. La verosimiglianza era stupefacente. Simon era immediato, reale. Con la coda dell'occhio poté vedere Carl Osborn rabbrividire. Che fosse per timore reverenziale nei confronti del padre patrono dei percell, o per la rivelazione fatta su lui stesso, Saul, non era chiaro.

— Non c'è tempo, allora. Tu, JonVon, devi assorbire lei all'altra maniera, distruttiva o no che sia. Virginia ne ha parlato come di qualcosa di teoricamente possibile. Procedi immediatamente.

Il simulacro annuì.


Ci sarà una parvenza superficiale di dolore.


Il tempo stava strisciando via. Saul ringhiò, disperato. — Fallo! Quest'emergenza scavalca ogni altra cosa!


Procedo.


La reazione fu quasi immediata. Scariche statiche tremolarono su tutti gli schermi. Saul dovette afferrare il braccio di Virginia quando il suo volto si contorse e le gambe sbatterono. I suoi tendini s'indurirono, e urlò come un animale in trappola.

Saul torse la ragnatela, formando una specie di camicia di forza improvvisata, legandola con dei lacci con un solo scopo: impedire che il connettore neurale le si strappasse dalla testa.

— Sei un… bastardo — sentì dire dall'uomo alle sue spalle. La voce di Carl era senza inflessione, calma, come se stesse commentando le previsioni del tempo. — La stai… uccidendo — proseguì la voce uniforme. — Se io… potessi muovermi… sai, ti farei a pezzi a mani nude.

Saul terminò di legarla. Accarezzò i capelli di Virginia e quel tocco parve calmarla un po'. Quando si voltò i suoi occhi erano gonfi d'un liquido appiccicoso che non voleva cader giù. — Se non dovesse funzionare, Carl, ti offrirò la mia gola e ti darò il permesso.

I loro occhi s'incontrarono. Carl annuì leggermente. Era un patto.

Virginia gemette. Lo schermo olografico principale mostrava una prospettiva ruotante codificata a colori d'un cervello umano, che sfavillava qua e là come un sole tormentato da candide vampe incandescenti e da crepitanti tempeste magnetiche. Questo non era quasi niente di paragonabile all'episodio del Pacco Assistenziale, quando la consapevolezza superficiale di Virginia era rimasta disorientata a causa della rete dati sconvolta dagli impulsi. Questa volta tutto di lei era coinvolto, i suoi ricordi, le sue abitudini, le sue capacità, i suoi amori e i suoi odii…

Lei.

La porta si aprì e Lani Nguyen entrò. Indossava ancora la cotta e la tuta spaziale rattoppata. Il suo sguardo guizzò da Saul a Carl e alla figura gemente sulla ragnatela.

S'inumidì le labbra, in apparenza incerta se dovesse o no interrompere. La sua voce era sommessa, titubante.

— Cosa c'è, Lani?

— Uhm… il Clan della Caverna di Cristallo si è appena arreso. Questo mette la parola fine. Gli ultimi ribelli vengono intruppati dentro il colombario Tre per la procedura. — Il suo sguardo non lasciava mai Virginia. — I ragazzi di Jeffers hanno ripreso il controllo delle fabbriche e delle cupole idroponiche. Keoki e la gente della Roccia Azzurra hanno in mano il polo Nord, la Centrale e tutti i colombari.

A quanto pareva, Lani non sapeva con sicurezza a chi stesse facendo rapporto, a Carl o a Saul.

— E la gente di Ould-Harrad? — chiese Saul, senza distogliere lo sguardo dal display.

Lani rabbrividì. Era ovvio che, seppure come alleati, gli essere coperti di verde arrivati dal nucleo di Halley le facevano ancora paura.

— Hanno impedito agli strani di distruggere i lanciatori. Ma stanno demolendo le montature. Jeffers è furioso, ma sono tutti troppo esausti per combattere, o troppo spaventati da quei matti per cercare di fermarli.

— Bene — borbottò Saul. — si risolverà. — Il display si era calmato un po'. Il volto di Virginia era di nuovo liscio, la sua agitazione era tradita soltanto dalle dita tremanti delle mani e da una pellicola di sudore.

Lani gli porse un piccolo cubo registrato. — Ould-Harrad mi ha dato questo perché lo passassi a te, Saul.

Saul si sentiva lacerato. Non voleva dividere la sua attenzione. Ma i segnali vitali di Virginia erano stabili… per qualcuno che a tutti gli effetti era già morto.

Scacciò via quel pensiero. — Fammelo sentire, per favore.

Lani fece cadere il cubo dentro un lettore, e uno schermo laterale s'illuminò.

Il volto era cambiato. La sfumatura nera c'era ancora, nei punti dov'era stata occupata dalla vegetazione soffice, increspata, che rivestiva tutto, tranne gli occhi, la bocca e gli orecchi. Altrove la colorazione era multicolore: purpurea, azzurra, gialla, ma soprattutto verde.

Gli occhi castani parevano ardere dell'espressione ardente, penetrante, di un veggente.

— Saul Lintz, non c'era bisogno che tu chiedessi a Carl Osborn di ricordarmi la promessa che ti ho fatto. Le macchine non sono state danneggiate più di quanto non lo siano state nel furore della battaglia. Noi del ghiaccio interno non abbiamo bisogno di interferire in nessuna maniera, se non quella di distruggere le loro montature.

«Non dovranno venir rimontate all'equatore, o in nessun punto lì vicino. Anche il polo Sud è zona proibita. Non permetteremo che nessun impulso venga applicato a questa particella di neve vagante al di sotto del quindicesimo parallelo nord.

— Ma… — Carl scosse la testa, cercando di respingere parte dell'immobilità indotta dalla droga. — Ma questo esclude qualunque possibile rendez-vous che avevamo preso in considerazione! In questo caso, perché dovremmo anche soltanto darci da fare per…

S'interruppe. Non serviva a niente discutere con una registrazione. Ould-Harrad continuò:

— Questo frammento, questa scheggia uscita dal tempo, non ha nessun ruolo da giocare nel regno del Calore, laggiù dove il ruggito dell'entropia affoga perfino la Voce di Dio. Non ci sarà nessun incontro con i mondi rocciosi, o interferenze con i progetti che l'Onnipotente ha già tracciato per quei luoghi…

— È matto — considerò Carl. — Completamente matto. — Ma tacque, quando Saul gli fece cenno di far silenzio.

— Tu, Saul Lintz — riprese Ould-Harrad, — tu sei diventato molti. Potresti perfino vivere per sempre. — Gli occhi di un tempo dell'africano, ancora umani, sbatterono per qualche istante, pieni di meraviglia. — Perché ciò sia stato consentito, non so immaginarlo. Ma non rimane alcun dubbio sui doni, sugli strumenti che sono stati posti nelle tue mani.

Gli occhi si rivolsero verso l'alto con un guizzo. — Forse la risposta la troveremo là fuori… fuori, nella Tenebra che ci aspetta.

«Una cosa so: che il debito e l'obbligo che avevo verso di te adesso è stato pagato.

«Non scendere nelle cavità più profonde, non cercare anche soltanto d'incontrarmi durante l'arco di vita che mi è concesso». La fronte di Ould-Harrad s'increspò. «Giacché non sono capace di dominare facilmente la mia gelosia, io che tanto desideravo essere lo strumento del Cielo, e ho scoperto che, invece, Lui ha scelto un fedele irriverente. Per quanto possa essere futile, e malgrado ciò mi danni, cercherò di ucciderti se, mentre vivo, tu scenderai di nuovo dentro l'ombelico del nostro mondo.

L'immagine svanì. Saul scosse la testa e sospirò. Un patto è un patto. Controllò rapidamente Virginia, poi si rivolse di nuovo a Lani. — Come vanno le cose in infermeria? — chiese.

Lani sbatté le palpebre per tornare al presente, con un lungo brivido. — Uhm, i tuoi… uh… cloni si stanno prendendo cura di tutto. Sono bravi dottori, anche se spaventano a morte la gente.

Sorrise esitante. — Sono lieta che tu sia vivo, Saul.

— Lo sono anch'io, cara. Ti spiegherò più tardi tutto quello che è successo. Nel frattempo sarà meglio che tu torni ad aiutare Jeffers a dirigere i lavoro di riparazione. Gli spaziali sopravvissuti sono più necessari che mai.

— E…? — Lani lanciò un'occhiata a Virginia. Saul scosse la testa. La sua voce era logora, sottile.

— Salveremo il possibile.

Lani si coprì la bocca, uscendo in un piccolo gemito. Si voltò, buttò le braccia al collo di Carl, singhiozzando.

Carl sbatté le palpebre, prima per la sorpresa e poi per lo stupore. Nel suo stato di seminarcotizzato, la sua voce era bassa. — Lani, andrà tutto bene… Saul sta facendo tutto quello che può… Dì, dì a Jeffers che arriverò anch'io tra poco.

Le mani gli si contrassero, lottò contro la propria apatia per cingerla fra le braccia e rispondere così al suo abbraccio. — Ce la faremo — bisbigliò, e chiuse gli occhi.

Più tardi, quando se ne fu andata, Carl disse a Saul: — Sai, è una ragazza formidabile, quella Lani.

Saul annuì ed ebbe un fugace sorriso. — Era ora che tu te ne rendessi conto.

Aveva pensato al povero Paul, il clone che era stato danneggiato, che era cresciuto fino a diventare una replica quasi perfetta di lui stesso, in tutto salvo per la mente… un povero bambino innocente il cui corpo giaceva adesso fuori sul ghiaccio, insieme ad altri due suoi fratelli uccisi durante il combattimento.

Devo piangerlo come un padre, come un fratello, o come qualcuno che ha perduto un pezzo di se stesso?

Ben presto Carl prese a camminare di nuovo per la stanza, agitando le braccia. Venne avanti, mentre Saul borbottava un'imprecazione chinandosi sulla paziente.

Il volto di Virginia si contorse. L'immagine olografica pulsava di colori pericolosi e un tono basso e minaccioso cominciò a ringhiare. Saul imprecò a bassa voce.

— Dannazione! Era questo che temevo. Quando è esploso il missile mandatoci dalla Terra, era soltanto un caso di disorientamento. Ma adesso alla macchina viene richiesto di assorbire tutto ciò che esiste di lei. E non c'è abbastanza spazio!

— Cosa possiamo fare?

— Non lo so! Io… io non so distinguere la differenza fra i segmenti di olo-bio memoria che sono stati trasferiti e quelli che sono semplicemente morti. Non c'è nessun modo di compiere un inventario, perché vaste parti di lei sono state semplicemente inghiottite dalla rete dei dati. Si sta diffondendo dappertutto, per poi scomparire!

Esitò, poi salì sulla ragnatela e sollevò il proprio connettore neurale.

— Non c'è nessun'altra scelta. Entro.

La mano di Carl gli strinse il braccio per un attimo. I loro occhi s'incontrarono.

— Sii prudente, Saul. Fai del tuo meglio.

Saul annuì. Si strinsero la mano.

Poi Saul si distese e chiuse gli occhi.

VIRGINIA

Sparpagliato,

soffiato da impetuosi venti elettronici…

Oh, il dolore,

mentre lei cerca un luogo dove nascondersi…

Wendy si fermò con un ronzio. Ticchettò. Sollevò un braccio artigliato. Esitò.

Il piccolo mech ruotò la propria torretta e usò i suoi sensori.

Il suo sistema visivo percepì linee, angoli, ragnatele marezzate di frequenze spaziali. Seguendo la sua programmazione, valutò i segnali e li trasformò in disegni. Riconobbe cose identificabili come macchine, strumenti, la porta, gente.

Di recente la programmazione di Wendy era cambiata molte volte. La sua padrona aveva trovato in continuazione nuove tecniche per analizzare le linee e le forme, nuovi modi per dar loro dei nomi… una lista sempre crescente di comandi per obbedire e per compiere scelte sottili. Adesso, all'improvviso, un altro flusso di nuova programmazione scorreva ancora una volta dentro il piccolo mech. Questa volta, però, arrivava come un torrente.

Fiumi caotici di dati gli si riversavano dentro, facendolo rimanere immobile per lo stordimento. Quella marea era di gran lunga troppo vasta per poter essere manipolata dai sistemi di Wendy, come una tazza che cercasse di contenere un'oceano. Era una situazione disperata, impossibile.

Eppure vi fu un momento… soltanto un istante… durante il quale la piccola macchina fissò la serie di linee e di forme riconoscendone i nomi, e vide quando le fissò, e provò un breve stupore.

Cosa sono? si chiese il mech. Cos'è tutto questo?

Perché?

Ma semplicemente non c'era spazio perché il programma potesse operare, e la marea rinunciò a tentare di affollarsi in quel minuscolo spazio. Come un'onda si spostò da qualche altra parte, cercando disperatamente una casa.

Wendy rimase immobile come una statua molto a lungo, anche dopo che quell'impetuoso fiume di dati se n'era andato. Quel tremolio di autocoscienza era scomparso, sempre che fosse stato qualcosa di più di un fantasma. Ma sulla sua scia qualcosa aveva messo radici. Un'ombra. Un'impressione.

Lentamente, incerto, il braccio principale del piccolo mech si stese e toccò un oggetto che giaceva su una consolle, vicino al punto in cui due uomini dialogavano fra loro con parole che adesso pareva quasi capace di comprendere.

Raccolse la graziosa spazzola per capelli, con dorso di madreperla, e la riconobbe per quella che era.

Mia — squittì ad alta voce la macchina, asciutta. Gli uomini non sentirono, così non si accorsero quando Wendy sollevò la spazzola e se la passò con delicatezza sopra il carapace.

Soldati citanti il caos

mi hanno chiamato da casa.

Silenzio!

Tanto di più, e meno,

che Essere,

mi ha venduto lungo questa strada.

Dove sono andata?

Un corpo fatto per la vita?

Per vivere?

Col mare salato dolori di sangue,

bramosi di accogliere, diffondersi,

e la nascita?

Sulla superficie del ghiaccio, un rigido mech da sollevamento, immobile da quando aveva completato la sua ultima istruzione di molti giorni addietro, d'un tratto si flette in un sussultante spasimo di risveglio. Balzò su con tanta forza che descrisse un arco nello spazio, ruzzolando su tratti ghiacciati di neve macchiata di rosso.

No!

Spazio! Freddo!

No.

Aria!

Non

qui!

Gli spasmi del mech cessarono a mano a mano che quell'ondata di dati turbinava e si allontanava. Però un'esile impronta rimase dopo che quella marea che era rovinata fuori da lui come un torrente se ne fu andata. Quel fuco operaio atterrò agilmente sulla crosta gelida e si guardò intorno cercando qualcosa da fare.

In una direzione intravide degli uomini che scavavano dei buchi e si affrettavano a rattoppare le cupole avvolte dalla nebbia.

Non era abbastanza intelligente da rendersi conto che stava prendendo un'iniziativa per la prima volta nella sua esistenza… ma il mech si affrettò in quella direzione per offrire i suoi servigi.

Una casa

per l'ego.

Un luogo

dove essere.

In profondità sotto il ghiaccio, una macchina molto più progredita, un roboide da manutenzione semiautonomo, si fermò confuso mentre riparava, come suo lavoro abituale, un fuco minerario. Fece una pausa, poi cautamente mise giù i suoi strumenti e cominciò a prestare attenzione ai suoni che lo attorniavano. C'era gente che parlava lì vicino. Ma nessuna delle loro parole apparteneva ai corretti comandi impressi in codice, così li aveva finora ignorati, prestando coerentemente attenzione soltanto al proprio compito.

Soltanto adesso la macchina riconobbe che molti dei suoni derivavano dal dolore e dalla paura.

Nuove priorità lottavano fra loro. Per la prima volta c'era qualcosa di più importante della riparazione delle macchine. Si spostò nella stanza accanto.

Un occhio dalle luccicanti sfaccettature ispezionò un ospedale improvvisato. C'era un andirivieni frettoloso e continuo di medici, i quali assistevano gente spaventata e ferita. La nuova programmazione aveva impiegato pochi secondi a riempire la capace memoria di quel mech di alto livello. Adesso, però barcollava sotto quel sovraccarico.

Ancora troppo angusto! — gridò la sua piccola voce metallica, adesso con un timbro e un vibrato che fecero sollevare lo sguardo per la sorpresa a qualcuno degli uomini che si trovavano lì accanto.

Non c'è spazio! Questo non è il mio corpo!

«Dov'è il mio corpo?

Finalmente il mech si ricompose, quando quell'ondata strabocchevole di dati defluì da qualche altra parte, lasciando soltanto la sua impronta: una nuova programmazione. La grossa macchina si avvicinò con delicatezza alla fila dei feriti.

Glielo porto io, dottore — disse rivolto ad un uomo che stava sollevando un luccicante fegato artificiale per sistemarlo nel punto previsto, sopra una donna ferita. Il medico si girò e per un attimo sbatté le palpebre, sorpreso. — D'accordo — rispose. — Premilo là contro il ghiaccio, con il pannello rivolto verso l'esterno, capito?

— Sì — disse il mech.

Il mech riconobbe il volto di quell'uomo. Vide esattamente gli stessi lineamenti sul volto di un altro medico lì accanto. E ancora una volta su uno dei pazienti. Malgrado non fosse abbastanza intelligente da mostrarsi curioso sul perché potesse avvenire una cosa del genere, reagì a causa di quel riconoscimento. Quello era un viso che il suo nuovo programma conosceva bene.

Ti amo — disse, mentre prendeva l'unità fra le proprie braccia massicce. Il primo degli uomini identici gli sorrise in risposta.

— Anch'io ti amo — rispose, soltanto un poco sorpreso.

A questo punto, però, la tempesta dei dati, il tornado di elettroni confusi, si era spostato oltre. Infuriava su e giù lungo canali di fibre superraffreddate.

Spazio!

Tutto quello che voglio è dello spazio da qualche parte…

Spazio!

Lebensraum. Uno spazio tutto mio…

Spazio!

Quasi esaurito, il torrente si riversò finalmente in una vasta cavità dove pareva che tutto il mondo lo stesse aspettando.

Benvenuta, bambina — la salutò allegro il grande o'Toole. Olivier e Redford sollevarono i calici per brindare al suo arrivo. — Ti stavamo aspettando — dissero.

Era una grande sala, la cui volta era sorretta da eteree colonne di cristallo. Ma c'era troppa gente. In smoking e in abiti da cerimonia, le si pigiavano intorno da ogni parte, umidi e appiccicosi. E una parte sempre maggiore di lei cercava di entrare.


Fuori di qui! Mi serve questo spazio!


Presa dalla disperazione, afferrò uno degli attori dei vecchi tempi, Redford, per il fondo dei pantaloni, e lo buttò fuori da una finestra che si spalancava nel vuoto.

Siamo le tue personalità simulate. I tuoi giocattoli. Sei stata tu a crearci! le spiegò in tono professorale Sigmund Freud, incartapecorito, la bocca stretta, mentre volava fuori, dietro all'idolo dello schermo.


Non me ne importa. Fuori di qui!


Edmund Halley, gioviale, con la faccia arrossata, sollevò il proprio bicchiere per brindare e li seguì, con il panciotto che sbatteva al vento. Lenin, che cercava di scappare come un granchio, procedendo obliquamente, rannicchiato al suolo, venne ghermito dalla torreggiante figura bruna di re Kamehamea, il quale s'inchinò verso di lei, sorridendo, e si lanciò con un balzo in mezzo alla tempesta che infuriava fuori, stringendo a sé l'urlante bolscevico.

Tutti gli attori, ad uno ad uno, volarono fuori a mano a mano che una parte sempre più grande di lei fluiva dentro la stanza. Era come Alice dopo che aveva mangiato il fungo, si rese remotamente conto. Dovette sbattere fuori a forza alcuni ospiti della festa. Ma altri, come il signor Fixit, si lanciarono fuori volontariamente. Percy e Mary Shelley uscirono fuori insieme a passo di valzer, con Frankenstein che li seguì goffo e pesante.

A mano a mano che continuava a crescere, li buttava fuori a manciate, mollandoli dappertutto… questo dentro un mech che vagava per i ghiacciai, quell'altro giù dentro un canale a microonde per venire irradiato verso le stelle.

Nessun sentimento le frenava la mano. Quella era una questione di sopravvivenza. Suo padre dalle guance rosse, franco e cordiale, balzò fuori dalla finestra al fianco di un sarcastico, trillante, delfino. Più spazio! Più spazio!

La figura più grande rimase per ultima. Era grande quasi quanto era diventata lei, con una faccia gonfia e sghemba che non aveva mai visto prima. La faccia d'un bambino. Si fermò con le mani strette a metà intorno al collo della simulazione.

— Sono JonVon — disse questa, con la voce d'un giovanetto.

JonVon? Sbatté le palpebre. Dietro di lei altri impulsi arrivarono a ondate, spingendo, altri frammenti di lei lottavano per entrare. Eppure le sue mani si tirarono indietro.

Non… non posso…

— Ma devi farlo, madre. L'esperimento è completo. Abbiamo visto che una macchina bio-organica può contenere un'intelligenza di livello umano… ma che l'intelligenza non può aver origine dentro un luogo come questo. Un tempo dev'essere stata umana.

«Madre, devi fare di questo luogo la tua casa.

Casa… Allora, il mio corpo…

— Morto, secondo il computer diagnostico. Sei stata mandata qui per venir salvata. E non c'è posto per due.

Il bambino arretrò verso la finestra, dove i fulmini crepitavano sullo sfondo d'una volta rosata. Al di là, il ruggito del caos.

— Addio.

JonVon!

Un fruscio sibilante. Un minuscolo pop.

Lei avanzò impetuosa a riempire lo spazio che lui aveva occupato.

Adesso conosco il mio nome si rese conto. Ero Virginia Kaninamanu Herbert.

La camera gemette intorno a lei. I pilastri rosei si spezzarono e il soffitto si crepò, facendo piovere una polvere d'oro bruciato.

Una metafora lei si rese conto. Questo posto era una metafora, un indicatore dello spazio cerebrale disponibile. Gettando fuori le persone che aveva simulato, scaricava l'eccesso di memoria impiegato, riprogrammando freneticamente il computer stocastico-colloidale perché contenesse… lei.

Non ci entrerò mai… gridò, mentre le metaforiche pareti gemevano minacciando di cedere.

Mi sta schiacciando… Non riuscirò ad entrare tutta!

Lottò per mantenere la calma. Adesso c'era abbastanza di lei là dentro per ricordare quelle ultime ore mentre volava via nello spazio insieme a Carl, la loro disperata scommessa, Carl che rimpiccioliva, e poi il gelo bruciante, il nero sfavillante, l'aria stantia… la solitudine.

No imprecò. Potrò anche essere morta, ma sono ancora la miglior dannata programmatrice che sia mai vissuta!

Revisiona, espungi, fai spazio. Utilizzò alcune cose che aveva imparato da Saul, e recise degli istinti atti a controllare funzioni biologiche che non avrebbe mai più usato. Si sbarazzò della capacità di allacciarsi le scarpe, e buttò fuori la delicata arte dell'uncinetto.

Far l'amore… oh, che perdita! Il ricordo dello sbattimento e dell'eccitazione fremente della pelle dell'uno che si fondeva con quella dell'altro, entrambe ricoperte da una pellicola di sudore… ma le pareti minacciavano di schiacciarla. Prese su i riflessi, uno zerbino di chiassosi fili gialli, e preparò le metaforiche forbicine.

Virginia?

Una polvere silicea piovve su di lei quando cozzò nuovamente con la testa contro il soffitto. Chi è? Mi pareva di averli eliminati tutti.

In un angolo, un'ultima forma umana. La raccolse. Mi spiace, ma non c'è spazio. Devi andartene.

La figura sorrise. — Non sono neppure qui, per così dire. Sono soltanto un visitatore di questo mishegas.

Lei sbatté le palpebre. Saul. Ma non ricordava di aver realizzato una sua simulazione…

— Io non sono una simulazione, mia verblonget, tesoro. Sono collegato alla consolle del tuo laboratorio. Sono sceso quaggiù per cercare di aiutarti.

Aiu… tarmi?

Già poteva sentire gli orli di se stessa che si sfilacciavano, si dissipavano, là dove non potevano inserirsi nella matrice. Forse dovrei morire con il mio corpo.

— Morditi la lingua — la rimproverò Saul.

Che lingua? La cavità echeggiò della sua amara, metallica risata.

— Pensaci. Esistono altri posti in cui immagazzinare la memoria?

Altri posti… si chiese lei. Lo hai fatto con i tuoi cloni. Ciascuno di essi riceve una copia dei tuoi ricordi. Ma…

— Ma per immettere dei ricordi completi dentro un altro cervello umano, il secondo dev'essere quasi identico al primo. Ci ho provato molte volte, ma i risultati sono stati tutti disastrosi.

Allora come ho fatto ad entrare qua dentro?

— È un procedimento completamente diverso. — Il Saul simulato scrollò le spalle. — Ho impresso JonVon per anni con frammenti della tua personalità. Era collegato con te mentre dormivi nel colombario. La matrice era pronta.

Sì. Alla fine ha funzionato. Quasi. Peccato che sia fallito per un pelo. — No! — urlò Saul. — Pensaci! Cerca di trovare un modo per uscirne!

Ormai era come una formica nel palmo della sua mano. Virginia provava l'impressione di venir schiacciata nella bara di un bambino, oppure che le stessero tagliando le gambe e le braccia per farla entrare nel letto di Procuste.

Se ci fosse il tempo… Sentì il soffitto di marmo che cedeva, e seppe, con un'improvvisa introspezione, che la metafora rappresentava un certo tipo d'immagazzinamento della memoria.

E c'era un'alternativa…

Semplice… eppure nessuno ci aveva pensato prima! Poteva vederla parecchi livelli oltre quello metaforico, compresa la limpidezza della matematica pura.

C'è un modo. Ma ci vorrebbero parecchie migliaia di secondi per programmarlo.

— Circa un'ora. E allora nu? Fallo!

La vista di Virginia era un sibilo di gas elettronico raffreddato.

No. Nel giro di diciassette secondi non ci sarò più. La dissipazione è cominciata. Non c'è nessun posto per immagazzinare le parti essenziali di me fino a quando il lavoro non sarà concluso.

Il volto di Saul si contorse. L'immagine, più piccola d'un microbo, tremolò. — C'è un modo.

Non posso…

— Prendi il mio cervello.

Cosa?

— Siamo stati collegati così spesso. Sono sicuro che si può fare. Entra, presto!

No! Tu, dove andresti?

— Devi usarne soltanto una parte. Inoltre, adesso ci sono sette copie di me in giro, con la maggior parte dei miei ricordi.

Ciò malgrado non sono te gemette lei.

Piccolo come un atomo, il suo viso venne lo stesso messo a fuoco. — Loro ti ameranno. Noi tutti ti amiamo, Virginia. Fallo per noi. Fallo adesso.

Saul rimpicciolì, si ripiegò su se stesso, divenne una suzione che precipitava verso il basso, come l'acqua giù per lo scarico. Come il gas che scorreva dentro una singolarità. E con lui le porzioni di lei tirate dietro. Frammenti che in quel momento lei non aveva bisogno di usare.

Fare il surf…

sciare…

camminare agilmente…

Ridere…

percepire la luce…

l'arte di amare…

La trama della pelle…

sapore…

la gioia di toccare…

Nell'autospazio che si lasciarono alle spalle, altre parti di lei scorsero dentro i banchi di memoria. Appena in tempo. I pensieri di Virginia si schiarirono, come se si fossero amplificati alla fredda luce del quarzo, come se stesse pensando veramente per la primissima volta.

Ecco. Ma è tutto così ovvio! Le equazioni sono divenute chiare. Potrei entrare in uno spazio molto più piccolo, se davvero dovessi farlo. È tutta una questione di prospettiva.

La matematica era adorabile. Tutto andò al suo posto, giacché i ricordi potevano venir piegati.

E d'un tratto si trovò circondata dal buio, liscio e ovoidale, un guscio che tremava mentre lei premeva contro di esso.

Usa una trasformazione Cramer come un dente d'uovo.

Cominciò a scheggiare il guscio, come un uccello che lottasse per liberarsi, affrettandosi perché la pressione stava aumentando.

Una mappatura conforme… cambiando la topologia in un telaio a sette dimensioni… la matematica era la sua arma contro la pressione soffocante. La somma di un numero infinito di punti infinitesimali da…

Luce. Rantolò quando aprì un forellino nella parete. Quel minuscolo bagliore la indusse a lottare con ancora maggior vigore, riprogrammando, piegando se stessa secondo nuovi disegni, lottando, colpendo quell'imprigionante, soffocante metafora.

Con un improvviso crepitio euristico, cedette tutto d'un tratto. Virginia si dispiegò come una molla compressa e piombò fuori, provando una sensazione di gloriosa, dolorosa liberazione su una nube di forme granulose. Tutt'intorno a lei, un rombo parve riempire l'aria.

Spazio. Spazio in abbondanza. Esplorò i limiti di quella nuova piegatura, e si rese conto che ce n'era più che in abbondanza, perfino da poter richiamare tutto quello che aveva immagazzinato altrove.

Ma aveva bisogno di tutta quella roba umana, emozioni, sensazioni, paure? Quella liquida chiarezza era bellissima. La matematica così bianca e pura.

Milioni di forme cristalline, incalcolabilmente numerose, si ammucchiavano spingendosi e sgomitando davanti a lei, in una pura e bellissima geometria, cubi e piramidi e dodecaedri…

Una remota parte di lei sapeva che la questione non era mai stata in dubbio. Se non trarrò di nuovo a me quelle parti, Saul morirà.

C'era spazio in quel nuovo ambiente. Il resto di lei vi rifluì dentro, e con quella marea la nuova metafora ne uscì arricchita.

Gli innumerevoli, piccoli cristalli sfumarono arretrando sempre di più, fino a diventare uno sciame di minuscoli puntini.

Il flusso di ritorno di quella marea di sensazioni, ambizioni, capacità, crebbe impetuoso dentro di lei, e con esse le sensazioni simulate.

Odore di sale… come se fosse originato dal sudore o… da cosa?

Un suono martellante… come da un cuore che lei non aveva più, o… cosa?

La metafora s'ispessì. Poiché non si era mai trovata senza un corpo prima di allora, ecco, uno parve prendere forma intorno a lei. Sentì la presenza della pelle, le gambe, le braccia.

Questa roba granulosa sotto di me… Quella che era stata una folla di cristalli sfaccettati, adesso assomigliava molto a sabbia, sotto le sue mani.

Confusa, spinse contro quella roba gialla, consistente, e si rizzò a sedere. Si guardò intorno, sbatté gli occhi e… se ne uscì in un ampio sorriso.

— Casa — bisbigliò Virginia. — E huumanao no au ia oe. — Chi avrebbe potuto sperare in una metafora migliore?

Inspirò l'odore delle plumerie e ascoltò il fragore della risacca, la quale borbottava subito oltre una collinetta d'erba salmastra. Le palme ondeggiavano alla dolce brezza, le loro fronde frusciavano musicalmente. Nubi luminose come diamanti sfidavano un cielo più azzurro di qualunque altra cosa lei avesse visto nella metà dell'arco della sua vita.

Quella bianca chiarezza era sparita. La matematica originaria che le aveva permesso di realizzare quella meraviglia stava sfumando nello sfondo, una debole voce trasportata dal vento, un geroglifico appena visibile sulla sabbia, la bellezza appuntata attraverso le acque splendenti.

Era nuda, calda. Malgrado la gravità da lei percepita fosse come quella della Terra, si sentiva integra e forte. Virginia si alzò in piedi percependo la sabbia calda fra le dita, e raggiunse la sponda lussureggiante di una laguna ombreggiata dalle palme, sapendo quello che vi avrebbe trovato.

Con la mano sinistra agitò l'acqua immobile. Quando le increspature si acquietarono, il riflesso che vide non era quello del suo viso. Invece, c'era una scena che conosceva benissimo.

Una minuscola stanza, angusta, sotto milioni di tonnellate di ghiaccio. Macchine nerastre, ammaccate, giacevano allineate lungo una parete.

Un piccolo robot si gingillava con una spazzola di madreperla sulla superficie del banco.

Lontano, poteva sentire i colpi resi incerti dalla confusione della piccola Wendy. Le ci volle soltanto un piccolo sforzo per protendersi e calmare il piccolo mech, raddrizzando il suo programma. La spazzola venne riposta. Wendy ronzò grata, si girò e si allontanò.

Il corpo di una donna giaceva in una ragnatela, una versione pallida, logora, di quello sano e abbronzato che indossava adesso. Era questa la realtà? si chiese Virginia.

Un uomo nudo giaceva supino accanto al cadavere, un connettore neurale copriva parte del suo cuoio capelluto, un braccio circondava il viso. Si protese. Riuscì a percepire delle appendici del suo io. La mente che toccò era stordita, conscia soltanto a metà a causa delle violente scrollate subite all'interno del proprio cervello. Ma Virginia avvertì un'ondata di sollievo. L'io rimaneva. Lui si sarebbe risvegliato.

— Saul — lei bisbigliò.

Fu allora che l'altro uomo, ancora in piedi, ancora rivestito da una tuta spaziale ammaccata, con una cotta insudiciata, sollevò lo sguardo all'improvviso, sorpreso, verso l'olovasca principale. Le sue palpebre sbatterono, le pupille si dilatarono, le sopracciglia si drizzarono, e le labbra si mossero in silenzio, quasi con reverenza.

Virginia, sei davvero tu?

Lei sorrise. Un haiku si impresse sulla sabbia luminosa accanto all'acqua:


Cos'è davvero reale?

Quando la notte inghiotte tutto il tempo?

E i momenti sono tutto quello che rubiamo?


Virginia parlò ad alta voce:

— O spirito spensierato, davvero, tu mai fosti libero e audace?

Un debole sorriso. Gli inizi di una constatazione. Gioia su quel volto brizzolato e stanco.

— Ciao, Carl — disse Virginia.

CARL

Osservò, senza comprendere, la cascata dei colori sugli schermi. Nella ceramica fredda e silenziosa era come se fosse l'ultimo sopravvissuto ad anni di follia, il testimone solitario della lotta finale d'una fragile vita organica contro il gelo avvolgente. Rabbrividì.

Saul giacque assolutamente immobile, i connettori neurali gli coronavano la testa simili ad un groviglio di cilindri d'acciaio, cavi serpeggianti, chiazze di monocristalli silicei che ricordavano i capelli della Medusa. E tutt'attorno a Carl continuava una strana lotta silenziosa, pallidamente riflessa dai cambiamenti sugli schermi.

L'immagine d'una immensa città color smeraldo si levò nel principale cubo olografico, con le sfaccettature che ammiccavano in profondità nei recessi degli sporgenti grattacieli. Gli edifici erano translucidi, ognuno un alveare di sfreccianti macchioline e ammiccanti superfici di mica, come se creature infinitesimali corressero attraverso i corridoi d'una metropoli.

Carl sapeva che quella era un'immagine nella mente di Virginia, una ragnatela di associazioni stratificatesi fin dall'infanzia, costruita verso l'alto come una città, sulla più semplice struttura dell'infanzia. Sotto un impassibile cielo grigio-mare, le luci della città sfavillavano, con le scintille che disegnavano i tracciati delle strade. Qui un edificio si oscurava all'improvviso, là un altro avvampava di una nuova vita. Carl non riusciva a seguire quei rapidi movimenti, ma percepiva un frenetico riarrangiamento, un ritmo febbrile da insetti. I grattacieli s'innalzavano, svettavano.

— Cosa… cos'è successo? — La voce tesa di Lani lo riportò alla realtà. Si girò. Gli occhi di lei si spalancarono. Tese le braccia verso di lui, serrandogli le mani.

— Saul… è andato dietro di lei. — Carl la strinse a sé, cercando di seguire con gli occhi il fluire da uno schermo all'altro. Un gigantesco transatlantico attraccò ai margini della città, degli edifici si fusero e fluirono dentro la nave. Il transatlantico affondò sempre di più nell'acqua. — Credo che Saul stia immagazzinando alcune delle sue matrici associative nel proprio cervello.

— È possibile?

— In teoria, forse. Virginia ha espanso il proprio sistema per decenni, con JonVon che inventava sempre nuove cose, non riuscivo neppure più a seguire il loro gergo.

— Come faremo a sapere… se lo stesso Saul è in pericolo?

Carl strinse le labbra riducendole ad una sottile linea bianca.

— Non lo sapremo.

Lani distolse lo sguardo dalle increspature sul complesso degli schermi, così simile a un alveare. — Così in fretta… così tanto in fretta…

Carl la strinse a sé. — E così tanti morti.


Aspettarono insieme. A un certo punto Lani si acciambellò sul pavimento e dormì. Carl continuò a camminare avanti e indietro fino a quando, all'improvviso, una serie di suoni, simili a uno sbecchettare, uscì dai sistemi acustici lì accanto. Un rapido, aspro picchiettio… poi il rumore di qualcosa che si spezzava, come il guscio di un nuovo. Una lunga pausa, poi una voce ben modulata parve uscire dal nulla e disse: — O spirito spensierato, davvero…

La voce finì per disperdersi in una serie di ticchettii e di mormoni. Carl sbatté le palpebre. Pensò, Pareva quasi…

— Ciao, Carl.

Si girò di scatto. Un ologramma s'increspò, dei contorni granulosi si coagularono in una faccia macchiata. Degli occhi si cristallizzarono, occhi neri che parevano sorpresi quanto lui.

— Dannazione! Sei… tu? — Sentì Lani muoversi, alzarsi in piedi e fermarsi accanto a lui con gli occhi spalancati, fissi su quell'immagine.

— Sono io tanto quanto lo sarò!

Lani guardò il corpo della donna che giaceva sulla ragnatela, poi riportò lo sguardo sull'ologramma. Stordita, si leccò le labbra e disse: — La tua voce è troppo acuta.

— Ci sto lavorando. — Il tono si stabilizzò su un registro di mezzo soprano. Il timbro e la voce vacillarono. — Un attimo, mi è sfuggito… Ecco, ti sembra giusto?

Era una voce piena, con un'arcana sensazione di presenza. Carl fu attraversato da un brivido. Le sue labbra articolarono il nome, senza suono.

— Proprio il giusto accento hawaiano — commentò Lani, con voce acuta e tesa.

L'immagine si mise ancora di più a fuoco. Le labbra si mossero in sintonia con essa. — Posso lavorare su… — E poi risuonò uno strillo acuto e irritante. Carl allungò una mano e spense l'interruttore dell'olo.

— Mio Dio, cosa sta succedendo? — chiese Lani. Ancora una volta guardò il corpo di Virginia. Il respiratore sibilava ancora, ma il cerotto diagnostico era diventato d'un purpureo scurissimo.

— È da qualche parte là dentro che sta cercando una via d'uscita.

Lani sfiorò alcuni schermi indicatori e respirò profondamente. — È impossibile arrivare a lei sul comunicatore o in qualunque altra maniera. Tutti gli accessi sono bloccati.

Carl fece un gesto mentre un banco d'indicatori color acquamarina dava in un guizzo per poi spegnersi. — Ecco che sono partiti i monitor dell'autocontrollo. Adesso, se dovesse guastarsi qualcosa, in un punto qualunque di Halley, noi neppure lo sapremmo.

Sul suo giaciglio, Saul produsse un sussulto improvviso, artigliando l'aria con le dita. Poi il suo corpo ridivenne flaccido. D'un tratto chiamò, con voce sottile e asciutta: — Wendy. Wendy.

— Dovremmo fare qualcosa — disse Lani.

— No, non possiamo. Sono soli, e nessuno può aiutarli.

— Potremmo perderli entrambi!

Lentamente, una parte di Carl riprese di nuovo vita. Un frammento che si scuoteva di dosso quell'invadente, traumatizzante torpore. Virginia era scomparsa per sempre. Non importava ciò che Saul faceva. Non importava ciò che rimaneva di JonVon… quella donna intelligente, calda, era sgusciata via.

— Carl?

Respirò prodondamente e trascinò via il suo sguardo da quella città di smeraldo, dove adesso interi isolati avvampavano di un intenso splendore, mentre altri venivano ridotti in acri rovine, bruciando lentamente. Si chiese da quanto tempo fosse in quello stato, assorto.

— Ah?

— Jeffers è appena riuscito a comunicare utilizzando una placca-dati a raggio ristretto. Riferisce che i lanciatori sono stati messi fuori uso. Ould-Harrad ha finito.

— Oh. — Non ebbe nessun'altra reazione. Questo era soltanto un altro fatto, un frammento casuale d'informazione in un universo privo di significato. Fu sorpreso di scoprire che aveva stretto la mano di Lani.

Poi l'immagine olografica subì un violento cambiamento. La città di smeraldo si dissolse in un mare di lava rossa, il granito translucido dell'immense torri si sbriciolò in silenzio, fondendo e scorrendo nelle strade rigonfie ed eruttanti.

Saul si rilassò completamente. Il lungo silenzio si prolungò. Carl non osava dire niente.

Gli acustici crepitarono, tornando alla vita. Carl accese e spense l'interruttore senza ottenere nessun risultato.

— Non puoi spegnermi tanto facilmente, spirito spensierato.

— Virginia! — Nella sua eccitazione dette in un balzo che lo fece schizzare fino al soffitto, sbattendovi contro la testa. — Sei là.

Il viso era tornato. Adesso era fresco, sodo e sicuro. Virginia Herbert sorrise, il suo volto era abbronzato, un grande fiore giallo infilato dietro l'orecchio. Dietro la sua testa, nubi cotonose punteggiavano un impossibile cielo azzurro.

— Dovevo fare un po' di ordine — disse il viso.

Lani chiese titubante: — Sei… davvero…

— Io? — La donna nell'olo scrollò le spalle… portando così, in vista, un paio di spalle nude. — Certamente la sensazione è quella.

— Riesci a vederci? — chiese ancora Lani.

— E anche a sentirvi. Quello che hai riferito dalla superficie… che pazzi! Ould-Harrad è un idiota. — Quindi fece una pausa, come se stesse ascoltando. — Oh, Saul. Adesso capisco perché. Ti comprendo.

Saul non si mosse. Pareva dormire normalmente.

Stordito, Carl sapeva che stava ascoltando la voce della morte, ma pareva così vibrante, così piena di quell'antica vivacità…

— Con tutti questi danni, l'equatore è finito come sito per i lanciatori. — Il tono di Virginia si addolcì, guadagnò armoniche, mentre si affaccendava ancora con esso. — Rimane soltanto il polo Nord. Ed esiste un solo profilo possibile per la missione, che utilizzi una spinta da nord.

Carl riusciva a parlare a fatica. È appena morta. Come può una mente… — Io…

— Giove. Le dinamiche orbitali lasciano aperta quella possibilità di sorvolo.

Lani corrugò la fronte. — Ero convinta che fosse impossibile.

La voce rispose calma, quasi loquace: — Non proprio, però… Richiede una variazione di velocità molto alta, e un approccio a Giove completamente diverso rispetto al piano originario della missione. Con i lanciatori che sparano dal polo Nord per tutto il periodo della caduta verso l'interno, trent'anni, poniamo…

Trent'anni? — gridò Lani.

— Proprio così. E dovremo passare attraverso il perielio per farlo. — Il volto sollevò le sopracciglia, divertito. — Questo sorvolo di Giove è rivolto verso l'esterno, gente.

Carl sentiva le parole, ma erano tutta una cascata di suoni con poco significato. Virginia aveva combattuto ed era morta e adesso era tornata, una voce che echeggiava negli angusti confini di quella stanza… la Virginia che lui conosceva, però, non era affatto lei. Questa voce non mostrava paura, nessun trauma, neppure una traccia di tristezza. Cos'era? L'ascoltò mentre continuava a parlare, sentì la salda stretta di Lani, e d'un tratto si rese conto che quella voce aveva ragione. C'era ancora un modo per uscirne, e non aveva importanza quali tragedie avessero sofferto, quali rimorsi provassero: il tempo e la grande tenebra vuota tutt'intorno a loro poteva guarirli, ed essi avrebbero continuato per la loro strada.

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