Colui che non lascia niente al caso farà male poche cose, ma farà pochissime cose.
Kato morì per primo.
Si stava occupando dei mech da costruzione — robot che installavano le travi sul ghiaccio polveroso e grigio-nero della cometa.
Dal punto in cui si trovava Carl, su un'altura a un chilometro di distanza, la tuta di Kato appariva come una macchia arancione fra grandi e goffi e grigi fuchi operai. Non c'era nessun suono, malgrado le nubi di polvere e di gas soffiate verso l'esterno là, vicino all'uomo e alle sue macchine. Soltanto un po' di elettricità statica interferiva con un concerto di Vivaldi che aiutava Carl a concentrarsi nel suo lavoro.
Fu soltanto un caso che Carl sollevasse lo sguardo proprio un attimo prima che accadesse. Non lontano da Kato, ancorate vicino al polo Nord del nucleo solido della cometa, otto cuspidi fusiformi svettavano verso l'alto formando una torre piramidale. Al vertice si annidava l'antenna trivellatrice a microonde, una sorta di tazza rovesciata. Kato lavorava a un centinaio di metri di distanza, dimentico della furibonda energia che veniva scagliata dentro il ghiaccio proprio lì, accanto a lui.
Spesso, Carl aveva pensato che la trivella assomigliava a un grottesco ragno accovacciato. Dal foro sotto di esso uscivano fiotti regolari di vapore surriscaldato.
Come se stesse pazientemente scavando una galleria per inseguire la sua preda, il ragno sputava invisibili microonde giù nel pozzo, a raffiche di cinque secondi l'una. In risposta, qualche istante dopo ogni raffica, un getto giallo-azzurro di gas surriscaldato schizzava fuori dal foro sottostante, balzando su dalla galleria appena scavata. L'ondeggiante getto colpiva le lastre deflettrici e si divideva in sei pennacchi, che si disperdevano a ventaglio verso l'esterno senza danneggiare la cupola dell'antenna a microonde.
La trivella era intenta a quell'operazione da parecchi giorni, martellando pazientemente il nucleo della cometa per aprirvi delle gallerie, usando scariche di onde elettromagnetiche centimetriche, sintonizzate sulla frequenza che disgregava le molecole di anidride carbonica.
Carl avvertiva un debole tremore sotto i piedi tutte le volte che partiva una scarica. L'orizzonte di antico ghiaccio grigio s'incurvava in tutte le direzioni. Affioramenti di neve pura clatrata sorgevano in mezzo alla tenebra, polvere spugnosa, d'un bianco sbiadito contro i bruni chiazzati di rosso-ruggine.
Kato e i suoi mech lavoravano vicini alla trivella a microonde, spostandosi su pastoie subito sopra il ghiaccio grigio sporco. La debole gravità del nucleo cometario non era sufficiente a tenerli giù mentre si muovevano. Sopra di loro sottili getti di gas ionizzato ondeggiavano, animati da una debole fluorescenza, contro il nero totale della notte, dando l'impressione di accarezzare lo spaziale giapponese.
Kato supervisionava i suoi robot meccanici di acciaio e ceramica mentre svolgevano il lavoro pericoloso. Voltava la schiena al ragno.
Carl stava per tornare a occuparsi del proprio lavoro. La trivella scoppiettava metodicamente, trasformando il ghiaccio in vapore. Poi, una delle enormi zampe del ragno si liberò, schizzando fuori come un tappo, accompagnata da un silenzioso sbuffo di neve.
Carl sbatté gli occhi. Il generatore di microonde continuò a lanciare le sue scariche, quando la gamba si staccò dal suo ancoraggio, sollevandosi verso l'alto e facendo inclinare il complesso. Non ebbe il tempo di provare orrore.
Il raggio investì Kato solo per un secondo. Fu sufficiente.
Carl vide Kato girarsi con un sussulto, come per scappare. Più tardi si rese conto che quel movimento doveva essere stato un'ultima contrazione d'agonia.
Il raggio colpì il ghiaccio sotto l'uomo, riversando nella tenebra circostante fiotti di gas giallo e arancio. Vivaldi scomparve sotto un ruggito di statica.
Quello sferzante raggio invisibile stava tracciando un sentiero ardente. Traballò, ondeggiò, poi s'inclinò ancora di più. Si stava allontanando dall'orizzonte. Verso di lui.
Annaspando, Carl cercò il quadro di comando. Fece scattare il coperchio di sicurezza, e schiacciò ripetutamente il pulsante di contrordine. Le orecchie gli schioccarono quando la tempesta di statica s'interruppe. Ogni mech e ogni congegno ad alta energia su quel lato del nucleo della Halley fu disattivato. Quel sottile dito a microonde smise di scrivere sul ghiaccio a poche dozzine soltanto di metri da Carl.
Il ragno cominciò a crollare. Il decimillesimo di gravità della Halley era troppo debole per tener giù un generatore a microonde mentre «sparava», ma senza la spinta ascensionale del gas in espansione e della pressione delle radiazioni, la debole attrazione di quel mondo di ghiaccio tornava a imporsi. La struttura barcollò e cominciò la sua lenta e dolorosa caduta.
— Cosa diavolo stai facendo? Non ho più energia.
Quello doveva essere Jeffers. Altre voci farfugliavano attraverso la linea di comunicazione.
— Mayday! Kato è ferito. — Carl schizzò lungo il ghiaccio grigio-sporco. I suoi jet a impulsi fiammeggiarono con fulminea agilità, volando istintivamente col minimo spreco d'energia, come risultato di molti anni di addestramento. Attraversare la superficie corrugata di Halley era come salpare con consumata destrezza su un grigio mare ghiacciato sotto il cielo nero.
Contro ogni speranza, cercò di chiamare la figura avvolta dalla tuta spaziale arancione, distesa bocconi sul campo di neve sventrato. — Kato…
Quando si avvicinò di più, Carl trovò qualcosa che assomigliava, più che a un uomo, a un pollo annerito, contorto e male arrostito.
Poi toccò a Umolanda.
Il programma di lavoro non lasciò molto tempo per piangere Kato. Una squadra medica discese dall'ammiraglia, la Edmund Halley, per recuperare il corpo di Kato, ma poi tutti tornarono al lavoro.
Già da parecchi anni Carl aveva imparato a lavorare anche quando era afflitto da notizie sconvolgenti, incidenti, intoppi. Scordarsi della morte di un compagno di lavoro non era facile. Gli era piaciuta l'energia di Kato, e ancor più il suo vivido senso dell'umorismo e la sua sfacciata fiducia. Carl promise al suo amico almeno una festa in suo ricordo all'insegna d'una sbronza il più solenne possibile.
Lui e Jefferson fissarono il ragno, riancorando il piede e riassestando la gamba. Carl tagliò via la porzione danneggiata. Jeffers sorresse l'alimentatore dell'ossigeno mentre lui metteva in posizione un nuovo, affusolato segmento di trave. Ad un segnale di Carl, l'altro spaziale diresse un getto di gas sopra le giunture, e il metallo si animò, autosaldandosi in un abbagliante arco arancione. Completarono la riparazione ancora prima che il corpo di Kato venisse riportato sulla Edmund.
Umolanda giunse da oltre il bordo del nucleo della Halley, con i pallidi getti azzurri che la spingevano lungo il cavo che correva da un polo all'altro. Il modo più facile di spostarsi intorno a quell'irregolare palla di ghiaccio era di agganciarsi al cavo e attivare i getti della tuta, sorvolando la superficie a pochi metri d'altezza. Le ancore magnetiche venivano mollate automaticamente, durante il tragitto, per minimizzare la frizione. Umolanda era incaricata del lavoro interno, di rimodellare, cioè, gli scavi irregolari per ottenere stanze e gallerie. Incontrò Carl accanto all'ingresso del Pozzo 3, a un chilometro dal luogo dell'incidente. All'orizzonte, il ragno scavatore aveva ripreso a sgobbare.
— Brutta faccenda, quella di Kato — trasmise Umolanda.
— Già. — Carl fece una smorfia a quel macabro ricordo. — Un tipo simpatico, anche se era sempre appiccicato a quelle anticaglie di film a 3D tutto il tempo.
— Per lo meno è stato rapido — commentò Umolanda.
A ciò, lui non aveva da aggiungere nessuna osservazione, e comunque non gli piaceva parlare troppo, là fuori. Interferiva col suo lavoro, e basta.
Gli occhi liquidi di Umolanda lo studiarono attraverso il casco a bolla macchiato qua e là di sporco. L'anello del collo nascondeva il suo mento fesso. Fu sorpreso nel constatare come quella omissione la facesse apparire una donna per ogni altro verso straordinariamente attraente, la pelle color ebano tesa sugli alti zigomi in un artistico profilo ironico. Strano, come non se ne fosse mai accorto prima.
— Avete indagato sulla causa?
— Ho controllato il punto dove la gamba del ragno si è mollata — rispose Carl. — Pare che una faglia, là sotto, abbia ceduto.
Lei annuì. — Niente di sorprendente. Ho trovato delle cavità, sotto, formatesi quando il decadimento radioattivo ha riscaldato il ghiaccio, molto tempo fa, quando Halley si è formata. Se alcuni gas caldi liberati dalla trivellazione del ragno si sono aperti la strada verso la superficie attraverso una di quelle cavità, potrebbero aver minato l'ancoraggio del ragno.
Carl fissò l'orizzonte, strizzando gli occhi, sforzandosi d'immaginare l'intera testa della cometa crivellata di gallerie serpeggianti. — Sì, credo che tu ci abbia azzeccato.
— Ma il ragno non avrebbe dovuto interrompere la propria erogazione, non appena persa la messa a fuoco?
— Appunto.
— L'interruttore?
Carl scrollò le spalle. — Quel maledetto interruttore di sicurezza era difettoso. Semplicemente, non è scattato — dichiarò in tono amaro.
Le sopracciglia di Umolanda s'intrecciarono per la collera. — Ancora attrezzature difettose!
— Già. Qualche bastardo sul lato Terra si è fatto un piccolo extra sulle spese generali.
— Hai fatto rapporto?
— Certamente. Comunque, per andare a prendere dei pezzi di ricambio la passeggiata è piuttosto lunga. — Ebbe un sorriso sardonico. Vi fu un breve silenzio, prima che Umolanda parlasse di nuovo.
— Ci saranno sempre incidenti. Abbiamo perso gente anche su Encke.
— Questo non facilita affatto le cose.
— No… immagino di no.
— Comunque, Encke era un bel vecchio torsolo di cometa. Antica. Prosciugata. Un bel po' di bella roccia sicura. — Raschiò leggermente il suolo con la punta dello stivale. Neve e polvere si levavano a nuvolette al minimo tocco.
Umolanda si costrinse a sorridere. — Forse tutto questo ghiaccio avrà anche lo scopo di tenerci in vita sui tempi lunghi, ma su quelli brevi ci sta ammazzando.
Carl indicò con un gesto tre mech lì accanto, in attesa di ordini. Le macchine erano già tutte butterate e insudiciate dalla poltiglia di neve primordiale e dalla polvere sferzante di Halley. — È la tua squadra. Kato le stava regolando. Ma forse preferisci dargli lo stesso un'ultima revisione.
— Mi sembrano a posto. — Umolanda fischiò il codice colorato che compariva sul piccolo schermo dietro a quella più vicina, e annuì. — Almeno, con queste macchine un po' di fortuna l'abbiamo avuta. Il raggio a microonde non le ha colpite. Le porto giù con me ad allargare il Pozzo 3.
Impastoiò i robot multibraccia simili a scatoloni e li rimorchiò con grazia fino all'ingresso della galleria. Carl osservò mentre li metteva in fila, al sicuro, per poi scomparire dentro il pozzo, guidando i mech come un pastore, anche se in realtà i mech erano scaltri come un bambino di dieci anni per certe cose, e assai più coordinati.
Carl andò a controllare il resto dell'attrezzatura che gli altri membri dell'equipaggio stavano traghettando giù dalla Edmund. Era un lavoro monotono, ma erano giorni che lavorava dentro i pozzi, e aveva bisogno di un'interruzione, fuori da quelle interminabili pareti di ghiaccio venate di pietrisco.
In alto, sopra di lui, dei nastri trasparenti intessevano una danza lenta e solenne. Le scintillanti code gemelle di Halley erano come seta azzurro-verde. Adesso stavano sbiadendo, erano già passati molti mesi dalla breve vivacità estiva di cui la cometa godeva ogni settantasei anni. Ma gli immensi vessilli di polvere e di ioni si dispiegavano ancora, tracce impalpabili che ondeggiavano come davanti ad una pigra brezza, bandiere agitate da enormi angeli.
La spedizione aveva scelto l'appuntamento con la cometa di Halley dopo il suo passaggio al perielio del 2061, quando lo sfrecciante planetoide era ormai ben avanti nella sua traiettoria verso l'esterno. Qui, al di là dell'orbita di Marte, il violento surriscaldamento del Sole non faceva più ribollire selvaggiamente quei giganteschi getti di molecole d'acqua, polvere e anidride carbonica che rendevano Halley così spettacolare durante la sua breve estate.
Ma il calore dura. Per mesi, mentre Halley sfrecciava vicino al feroce Sole erosivo, ondate ad alta temperatura si erano diffuse verso il basso attraverso il ghiaccio e la roccia, concentrandosi in cavità volatilizzate e in agglomerati di roccia sparpagliati qua e là. Adesso, perfino quando la cometa stava risalendo nella gelida oscurità del sistema solare esterno, c'erano ancora riserve di calore dentro di essa.
Quella palla granuolosa, grigio-scura, era un frappé congelato d'acqua, anidride carbonica, idrocarburi, e acido cianidrico, dove ogni diverso tipo di neve sublimava in vapore a una differente temperatura. Inevitabilmente, in alcuni punti, il calore che vi filtrava, fondeva o vaporizzava il ghiaccio. Queste sacche erano in agguato.
Carl stava assemblando le componenti d'un filtro a centrifugazione quando un grido improvviso, lacerante, gli uscì dal comunicatore della tuta.
Poi, un silenzio sinistro.
Il suo minischermo da polso ammiccò giallo-azzurro, giallo-azzurro: il codice di Umolanda.
Dannazione. Due volte in un solo turno?
— Umolanda?
Nessuna risposta. Carl afferrò il cavo polare e, una bracciata dopo l'altra, raggiunse l'imboccatura del Pozzo 3.
I mech giravano intorno ad una frana, scavando il ghiaccio che si andava lentamente adagiando in mezzo a turbini di nebbia sfavillante. Nessun segnale da parte di Umolanda. Carl lasciò che i mech continuassero a lavorare ma tolse le pasticche della memoria dai loro ricettacoli per esaminarle mentre aspettava. Fu ben presto chiaro cos'era successo.
Immersi nel ghiaccio, i mech avevano obbedientemente scalpellato le pareti della prima cavità. Umolanda li controllava con un comando a distanza, rimanendo nella galleria principale per non correre rischi. Il relé TV le diceva quando far cambiare routine ai robot, quando ritoccare i dettagli, quando scavare e quando minare. Umolanda si teneva impastoiata e controllava le operazioni sullo schermo del quadro di controllo portatile, passando occasionalmente al completo servocontrollo di un mech per eseguire un lavoro di levigazione che richiedesse una particolare abilità.
Stava lavorando all'estremità opposta di quello che ben presto sarebbe stato un magazzino, quando un mech aveva colpito un vero e proprio macigno di due metri di diametro, costituito di scuro ferro nativo. Il capitano Cruz aveva loro chiesto di tenere gli occhi aperti nel caso in cui fossero saltate fuori risorse utilizzabili. Umolanda aveva messo all'opera tutti e tre i mech per recuperare il macigno. Sotto la sua guida, i mech avevano infilato delle leve sotto il blocco metallico cercando di liberarlo. Il cupo grumo nerastro aveva rifiutato di muoversi.
Umolanda aveva dovuto intervenire di persona per controllare. Carl poteva immaginarsi il problema: i mech erano bravi, ma spesso era difficile vedere se utilizzavano l'angolo migliore.
Carl ebbe una cupa premonizione. Il macigno aveva accumulato calore per settimane, lasciando che si diffondesse nella poltiglia subito dietro ad esso, una sacca di anidride carbonica e metano imprigionati. Questa zuppa spumeggiante sarebbe stata perforata nel suo punto critico, gli sarebbe bastata soltanto una temperatura un po' più alta o una frazione di pressione in meno per esplodere nella fase di vapore.
Oh, per l'amor di Cristo, Umolanda, non…
Un mech fece scivolare la sbarra che usava come leva intorno al macigno, penetrando nella riserva di poltiglia. Umolanda vide il robot che barcollava, si riprendeva. Gli disse di provare di nuovo e si avvicinò un po' di più per osservare.
Il mech era lento, cauto. La sua «giacca» d'alluminio era chiazzata e scolorita dopo parecchi giorni nel ghiaccio, ma il suo piccolo schermo con i dati mostrava che stava funzionando alla perfezione. Usando come punto di appoggio la propria pastoia alla parete, fece leva intorno al macigno, spinse… e il grumo di ferro si disincagliò.
No!
L'energia dei gas supercompressi si liberò di colpo con la violenza d'un maglio. L'esplosione scagliò via la sbarra utilizzata come leva, strappata al mech, come un missile sparato da un cannone.
Umolanda era a due metri di distanza. La leva le si piantò nel ventre. Il microschermo della pasticca mnemonica si spense. Carl sbatté gli occhi per scacciare le lacrime. Aspettò fino a quando i mech non ebbero riaperto la galleria. Non c'era proprio nessuna necessità di affrettarsi.
Il comandante della missione, Miguel Cruz, sospese le operazioni per due interi turni. La squadra d'insediamento aveva lavorato a tutto spiano per una settimana filata. Due morti in un giorno indicavano che stavano commettendo errori dovuti alla pura e semplice stanchezza.
Carl risalì con l'ultimo traghetto. La superficie chiazzata pareva oscurarsi con la distanza: il nucleo cometario rimpicciolì fino a diventare un punto nerastro che galleggiava in una nube giallo-arancione. Malgrado l'alone confuso della chioma fosse ancora visibile con un piccolo telescopio dalla Terra, lì, a poca distanza dalla testa quei sipari tremolanti di ioni risplendevano appena, come un delicato merletto. Gas e grani di polvere continuavano ancora a staccarsi dalla superficie di Halley, rendendo rischioso il lavoro dei piloti dei cargo. La maggior parte dei gas proiettati verso l'esterno non erano generati dalle stimolo ormai morente del Sole, bensì dal calore residuo degli umani.
L'incidente che aveva ucciso Umolanda aveva vomitato fuori una nebbia perlacea per un'ora, fino a quando il lago interno di poltiglia non era completamente evaporato all'esterno. Se qualcuno sulla Terra avesse guardato attraverso un potente telescopio, avrebbe captato un lieve rischiararsi sulla testa della cometa. Era un fugace monumento alla memoria. Quell'accecante tempesta aveva spinto i suoi mech dentro il pozzo, smuovendo abbastanza ghiaccio da seppellirla. Carl e gli altri avevano dovuto rimaner fuori fino a quando era stato troppo tardi per recuperarla e scongelarla a poco a poco per un possibile intervento medico. Umolanda era perduta.
Mentre il traghetto navigava verso l'esterno, le code gemelle, una di polvere e l'altra di ioni fluorescenti, si allungavano nello spazio, pallidi e scorciati resti della gloria che aveva affascinato la Terra soltanto due mesi prima. Nastri sbrindellati si biforcavano verso il puntolino ardente di Giove. Inconsapevole, Carl se ne stava lungo disteso, sonnecchiando, mentre il traghetto si sollevava sempre più per incontrare la Edmund.
Quando entrarono sferragliando nella camera di equilibrio, Carl si sfilò la tuta e scivolò in direzione della mormorante ruota gravitazionale di prua. Scese lungo una delle scale fisse a pioli e, barcollando, uscì in mezzo all'inusuale attrazione d'un ottavo di gravità, avvertendo la stanchezza scendergli fin nel profondo delle ossa con l'arrivo del peso.
Sì, il sonno pensò. Che venga pure a ricucirmi tutti gli strappi e le sfrangiature…
Virginia veniva per prima, però. Non la vedeva da secoli.
Era nel suo modulo di lavoro, naturalmente, a metà strada lungo la ruota. In quei giorni, era difficile che ne uscisse fuori. La porta si scostò con un sibilo. Quando Carl scivolò dentro quel mondo sferico di gusci di memoria incapsulati, c'era quasi un silenzio da cattedrale, una sensazione di presenza e di ronzante attività appena al di fuori della gamma uditiva. Carl prese posto con calma accanto al suo seggiolino su braccio snodabile, aspettando fino a quando lei non avesse potuto tirarsi fuori dallo stato interattivo. Collegata ai canali attraverso un'unione neurale diretta, e dei servomeccanismi applicati ai polsi, la donna si muoveva appena. Doveva senz'altro sapere che lui si trovava là, ma non ne dava nessun segno.
Di tanto in tanto, il suo magro corpo si agitava e sussultava. Come un cane che stia sognando pensò Carl, il quale cerca d'inseguire immaginari conigli.
I suoi lunghi lineamenti, mezzo polinesiani, erano rivolti verso i banchi d'immagini olografiche sospese sopra di lei, e i suoi occhi non guizzarono lateralmente neppure una volta per guardarlo. Fissava rapita scene multiple in movimento, masse slittanti di dati in continuo guizzare, diagrammi geometrici che mutavano e si evolvevano raccontando nuove storie.
Carl attese, mentre lei risolveva qualche indecifrabile problema. Il suo lungo volto si tese per un attimo, poi si rilassò, come se avesse saltato qualche ostacolo. Era delicata, anche lei con gli zigomi alti, come Umolanda. Come un terzo dell'equipaggio della spedizione, era una percell, un prodotto del programma genetico per la correzione delle malattie ereditarie di Simon Percell. Carl si chiese oziosamente se le ossa sottili, i lineamenti aristocratici, non fossero caratteristiche che lo stregone del DNA aveva introdotto alla chetichella. Era possibile. Quell'uomo era stato un genio. Però il volto di Carl era largo, e comune, e lui era stato «sviluppato» — come si diceva con quel gergo antisettico — a meno di un anno di distanza da Virginia. Così, era allora possibile che Simon avesse curato quei particolari soltanto con le donne. Viste le storie d'ogni genere che correvano su quell'uomo, non si poteva escludere la possibilità.
Secondo un'opinione da tutti condivisa, Virginia Kaninamanu Herbert era chiaramente un esperimento riuscito. Una mescolanza di razze del Pacifico su una base hawaiana, aveva un'intelligenza pronta e acuta, deliziosamente imprevedibile. C'era un'energia irrequieta nei suoi occhi mentre si muovevano lanciando rapidi sguardi sfreccianti verso la tumultuante miriade d'immagini impalpabili davanti a lei. Poco più in basso, la sua bocca mostrava una tranquilla tensione, leggermente contratta, pensierosa e assorta. Carl pensava che non fosse particolarmente attraente nel senso usuale della parola: il suo lungo volto finiva per darle un aspetto allampanato, anche se la serena levigatezza della sua pelle color mandorla compensava questo effetto, ma la fronte era ampia, la bocca troppo larga, il mento tronco e squadrato, non stucchevolmente arrotondato come la moda esigeva oggi.
A Carl non importava un bel niente. In lei c'era una verve compressa, una donna nascosta che lui bramava raggiungere. Eppure, da quando la conosceva, lei era sempre rimasta dentro il suo bozzolo di cortesia. Era amichevole, ma niente di più. Lui era deciso a cambiare quello stato di cose.
Sullo schermo principale, delle travi ruotate obliquamente combaciarono le une con le altre in un preciso incastro. L'intelaiatura s'immobilizzò. Fatto.
D'un tratto Virginia si animò, come se una qualche fluida intelligenza fosse tornata dai labirinti della macchina che le faceva da controparte. Si tolse gli imput dal polso. La bianca presa del suo connettore neurale lampeggiò brevemente quando la spina venne via. Scosse i capelli per rimetterli in ordine.
— Carl! Speravo proprio che aspettassi che io finissi.
— Sembra importante.
— Oh, questo? — Liquidò con un gesto della mano quelle strutture tridimensionali di dati. — Soltanto un lavoro di riordino. Controllavo la simulazione dell'attracco e del trasferimento, quando trasporteremo tutti sotto. Ci saranno irregolarità a causa dell'orientamento casuale dei getti di gas diretti verso l'esterno, e sarà necessaria una continua compensazione. Stavo programmando i mech più perspicaci per quel lavoro. Adesso siamo pronti.
— Non del tutto.
— Sì, qualche giorno ancora… Oh, già. — La sua espressione si fece contrita. — Ho sentito.
— Dannata sfortuna. — La sua bocca si torse per l'amarezza.
— La stanchezza, ho sentito.
— Anche quella.
Lei allungò la mano e gli toccò, titubante, il braccio. — Non c'era niente che potevi fare.
— Probabilmente. O… forse non avrei dovuto lasciarla scendere in quel buco subito dopo che Kato c'era rimasto. Cose del genere ti scuotono, alterano la tua capacità di giudizio. Rendono più probabili gli incidenti.
— Non eri suo superiore.
— Sì, ma…
— Non è colpa tua. Semmai sono le costrizioni alle quali lavoriamo. Questo orario di lavoro…
— Già, lo so.
— Su, vieni. Ti offro un caffè.
— Una buona dormita, ecco quello che mi serve.
— No, tu hai bisogno di parlare. Di avere contatti con la gente.
— Per scambiare battute arcane con quei tuoi specialisti di computer? — Fece una smorfia. — Ci faccio sempre la figura dell'allocco.
Con un movimento flessuoso lei lasciò il sedile della consolle, approfittando della bassa gravità per arricciarsi e sgomitolarsi a mezz'aria. — No davvero! — Qualcosa nella sua improvvisa, vivace allegria, sollevò il morale. — Spirito gioioso, quando mai un allocco tu fosti?
— Che orribile modo di esprimersi!
— Comunque, è vero. Su, vieni, il primo giro lo offro io.
Alla maggior parte della gente la creatura sarebbe parsa orrenda. Vagamente globulare, chiazzata di macchie gialle e ocra, con sporgenze aguzze tutt'intorno, aveva quel tipo di aspetto che soltanto una madre particolarmente indulgente avrebbe potuto amare.
Oppure un patrigno pensò Saul Lintz.
Milioni di minuscole, brutte creature sfrecciavano in ogni direzione dentro gli affollati confini di una singola, luccicante goccia d'acqua salata, incurvata a bolla dalla tensione superficiale fino a formare un alto e arcuato menisco sul vetrino del microscopio.
Saul regolò i comandi del sistema a fibre ottiche fino a quando il suo ingranditore non zumò su un singolo cianuto. — Eccoci — bisbigliò. — Tu andrai benissimo per la prova, ragazzo mio.
Premette un grilletto e lo strumento citologico lo sostituì, seguendo il piccolo microbo, rintracciandolo automaticamente dovunque nuotasse all'interno del suo minuscolo universo.
La creatura era una massa pulsante di microscopiche ciglia che s'increspavano più rapidamente di quanto l'occhio riuscisse a seguirle, generando iridescenze. Ma Saul conosceva comunque quella piccola creatura fin nelle sue parti più piccole. Riusciva a raffigurarsene ogni singolo, microscopico, variegato componente, ben oltre i limiti dello strumento; fino ai livelli degli acidi, delle basi, degli zuccheri e delle barriere lipidiche, il tutto finemente equilibrato.
Sfrecciava su e giù fra le altre migliaia di cellule ruvide e increspate, alla ricerca di ciò che le serviva per sopravvivere.
Non dissimile da noi. Soltanto che la nostra ricerca ha condotto noi umani a mezzo miliardo di miglia da casa.
Si sfregò gli occhi e si sporse in avanti, secondo un'abitudine acquisita molto tempo addietro, quando occasionalmente gli capitava di sbirciare attraverso le lenti di freddo vetro invece di lasciare che fossero le macchine a fare tutto il lavoro difficile. Rilassati si disse Saul. Non hai bisogno di allungare il collo sopra lo schermo.
Perfino qui, nella ruota gravitazionale della Edmund, che girava lentamente, non c'era un'attrazione sufficiente contro la quale lottare. Bisognava lasciarsi andare, oppure sprecare enormi energie soltanto per rimanere immobili.
Solo metà degli schermi e delle immagini olografiche nell'unità biologica traboccavano di luce. Su un'altra dozzina di superfici scure la pallida immagine di Saul veniva riflessa… folte sopracciglia sopra un naso generoso, e rughe che la maggior parte della gente, nell'incontrarlo, supponeva derivassero da una vita trascorsa sorridendo.
Soltanto quelli che conoscevano bene Saul, ed erano pochi, oggi, capivano la vera origine di quei solchi scoscesi: uno stoicismo che respingeva il dolore di molte, moltissime perdite.
Adesso, mentre Saul socchiudeva gli occhi per la concentrazione, quelle pieghe risaltarono. Azionando delicatamente un comando manuale, fece scendere una sottilissima scheggia di metallo cavo dentro quella piccola sfera di acqua salata appoggiata sul vetrino del microscopio. Sul principale schermo olografico, l'immagine del sottilissimo ago parve profilarsi come un giavellotto, mentre i computer lo guidavano verso il soggetto scelto per l'esperimento.
— Suvvia, meshugga, stupido animale — borbottò Saul quando il microbo cercò di schizzar via. — Rimani fermo per papà.
Il cianuto aveva un diametro inferiore ai cinquanta micron, così piccolo e innocuo che i suoi antenati erano vissuti pacificamente nei corpi umani per milioni di anni in tranquilla simbiosi, fino a quando non erano stati scoperti, più o meno una generazione prima. Per Saul quella minuscola creatura conteneva altrettante meraviglie della gigantesca cometa che richiamava tanta attenzione là fuori.
La videoparete principale del laboratorio era stata lasciata sintonizzata su una panoramica di Halley, non come appariva adesso — una nube che stava esaurendo la sua riserva di fluorescenza accumulata, la quale circondava un grumo di sei miglia di neve nerastra, ma com'era stata soltanto pochi mesi prima, in tutta la sua breve gloria, sfrecciando via davanti al Sole a metà della distanza orbitale della Terra, con la sua coda di ioni che danzava alla brezza protonica.
Erano ben appaiati in bellezza, il titanico messaggero cosmico che sarebbe stato la loro casa per più di un secolo e quella meraviglia microscopica che aveva reso possibile il soggiorno. Comunque non era sorprendente che, dei due, Saul si concentrasse su quella minuscola creatura vivente che si muoveva all'interno di quel piccolo globo acqueo.
Dopotutto, era stato lui a crearla.
Sh'ma Yisrael… ricordò a se stesso. Esiste un solo Dio, anche se dovesse porre i suoi strumenti nelle nostre mani, gli strumenti per plasmare la vita e forgiare mondi. Si tira indietro soltanto per vedere che uso ne faremo.
Nella sua attività, Saul giudicava saggio ricordarsene di tanto in tanto.
Quando l'ago si fu avvicinato al soggetto alla distanza di una cellula, Saul pronunciò una parola e attivò la sequenza del test. Una piccola nuvoletta indistinta disturbò l'acqua vicino alla punta dell'ago, dove minuscole tracce di una soluzione di acido cianidrico erano schizzate fuori.
Soltanto una manciata di molecole era coinvolta, eppure il minuscolo organismo reagì quasi all'istante. Le sue ciglia esplosero in un improvviso spasmo di attività, e la creatura balzò in avanti…
In avanti, verso l'ago. Inghiottì la punta, pulsando con evidente avidità.
Finora tutto bene. Saul sarebbe rimasto sorpreso se si fosse comportata in maniera diversa. I cianuti erano stati sottoposti ad un test completo sulla Terra, prima che la missione della cometa di Halley venisse approvata. Nessun fattore era più importante per il successo e la salute dei 410 fra uomini e donne, di quelle piccole creature.
Saul era fiducioso. Ma la vita, specialmente la vita i cui geni erano stati tagliati su misura, aveva un suo modo di cambiare quando meno lo si aspettava. La sopravvivenza di tutta quella gente dipendeva dal funzionamento di quei «nuti», dal fatto che si comportassero secondo le previsioni. Era stato lui a guidare la squadra che li aveva progettati, e non intendeva permettere che ci fossero insuccessi di nessun tipo. C'erano già abbastanza fantasmi della sua vita. Miriam, i bambini, la terra e il popolo della sua giovinezza… e, naturalmente, Simon Percell.
Povero Simon. Ricordava fin troppo bene come un solo errore avesse rovinato la vita del suo amico e quasi ogni cosa per la quale aveva lavorato. Continua a ricordarmi, Simon, continua a ricordarmi quali sono i pericoli che si corrono a voler fare la parte di Dio.
Adesso, tutto l'acido cianidrico era scomparso, stando agli schermi, succhiato da quell'avido organismo, e Saul annuì soddisfatto. Ogni essere umano che faceva parte di quella missione aveva milioni di cianuti che vivevano nel suo — di lui o di lei — flusso sanguigno e in quelle piccole sacche d'aria, spugne crivellate di alveoli, che erano i suoi polmoni. Quel campione prelevato a caso da uno dei membri dell'equipaggio, aveva appena dimostrato che sarebbe stato in grado di fare il suo principale lavoro: assorbire qualunque traccia del micidiale gas cianidrico disciolto prima che questo potesse entrare in contatto con i globuli rossi del suo ospite. Un'altra nuvoletta di anidride carbonica mostrò la sua capacità d'inghiottire il monossido di carbonio prima che questa sostanza chimica potesse legarsi stabilmente all'emoglobina umana.
Saul inizò la fase successiva del test. Minuscole tracce di un nuovo composto entrarono vorticando dentro la bolla salina. Questa volta il piccolo microbo sullo schermo si ritrasse rapidamente dall'ago, arricciandosi quasi come se fosse stato punto. L'acido cianidrico e il CO erano pascoli freschi per quella creatura, ma i componenti basilari dei tessuti umani sembravano rappresentare un deciso no-no.
Ancora una volta, buone notizie. Il secondo test dimostrava che il cianuto era del tutto avverso a considerare commestibili le cellule umane.
Questo per i punti fondamentali. C'erano innumerevoli altre cose da controllare. Saul fece scorrere mentalmente una lista, mentre attivava il sequenziometro per iniziare la fase automatica del test in programma.
… riproduzione autolimitante, benevola accettazione da parte del sistema immunitario umano, sensibilità al pH, un vorace appetito per altre potenziali tossine cometarie…
Non era tanto un catalogo di attributi quanto una litania di sfide affrontate e vinte. Saul non poteva fare a meno di sentirsi orgoglioso per la sua piccola compagine, là sulla Terra, che aveva dovuto superare pregiudizi, burocrazia, e aperte superstizioni, per riuscire a svolgere il proprio lavoro. Alla fine, però, avevano creato una meraviglia: un nuovo simbionte umano.
I cianuti sarebbero stati una parte permanente e benigna di ogni uomo e donna dell'equipaggio per il resto della loro vita… e forse, osava immaginare, parte dell'animale umano, d'ora in avanti, come la flora intestinale che l'aveva sempre aiutato a digerire il cibo, e i mitocondri all'interno delle sue cellule che bruciavano lo zucchero per lui, convertendolo in energia utilizzabile.
— Chi può paragonarsi a te, o Signore… — bisbigliò amaramente, stuzzicando se stesso per il suo inestirpabile angolino di orgoglio. Saul aveva concluso molto tempo addietro che lui e Dio avrebbero dovuto essere pazienti l'uno verso l'altro. Forse l'universo non era costruito in maniera conveniente per nessuno di loro due. Saul osservò i risultati del test scorrere sullo schermo: tutti in chiaro, quasi perfetti, fino a quando un sommesso squittio gli annunciò l'apertura del bio-lab dietro di lui.
— Allora? Stiamo ficcando di nuovo il naso fra i nostri animaletti, Saul? Non riesci a lasciarli tranquilli?
Non aveva bisogno di alzare lo sguardo per riconoscere la voce di Akio Matsudo. — Ciao, 'kio. — Agitò la mano in segno di saluto senza neppure voltarsi. — Stavo soltanto controllando. E tutto sembra andare per il meglio, grazie. Non sono delle creature adorabili?
Sorrise mentre l'alto e arzillo medico giapponese arrivava al suo fianco e assumeva un'espressione acida. Il capo della Missione delle Scienze della Vita non aveva mai nascosto la sua opinione sulle «creature» di Saul. Erano necessarie, assolutamente indispensabili per il successo del loro viaggio di settantotto anni. Ma il povero Akio non era mai arrivato a vedere il loro lato più estetico.
— Ugh — fu il commento di Matsudo. — Per favore, non ricordarmi l'infestazione che in questo momento sta sciamando nei miei fluidi corporei. La prossima volta che desideri iniettarmi dei parassiti alieni…
— Simbionti — si affrettò a correggerlo Saul.
— … contro i quali il mio corpo non ha nessuna capacità immunitaria… la prossima volta eseguirò io stesso l'incisione… dall'inguine allo sterno!
Saul riuscì soltanto a sorridere quando l'espressione imbronciata di Matsudo si spezzò e l'uomo si mise a ridacchiare. Era un «ki-ki-ki» che gli spaziali avevano già mimato, facendone una specie di squillo di tromba nel sottoponte. Akio faceva spesso quelle lievi battute sulle tradizioni dell'antico Giappone.
Forse era simile al modo in cui Saul lasciava cadere degli yddishismi nei suoi discorsi, di tanto in tanto, anche se aveva imparato la lingua soltanto dieci anni prima. È il dialetto perfetto per gli esiliati pensò.
— Cos'hai là, 'kio? — Indicò un foglio sottile nella mano dell'altro.
— Ah. S-sì. — Matsudo aveva la tendenza a pronunciare male le sibilanti. — Già che stiamo parlando di sistemi immunitari, sono venuto a chiederti di esaminare con me l'inventario degli stimolanti, Saul. Credo sia il momento di rilanciare una malattia attenuata nel sistema di sopravvivenza.
Saul trasalì. Non aveva mai aspettato con ansia quel momento.
— Così presto? Ne sei sicuro? I quattro quinti della spedizione sono ancora ibernati a bordo della Sekanina e delle altre chiatte da carico. Tutti quelli che abbiamo svegli, al momento, sono l'equipaggio della Edmund e il personale di supporto.
— Una ragione in più — rispose Matsudo. — Trenta spaziali sono vissuti insieme in questa nave angusta per più di un anno. Un'altra quarantina sono stati fuori dai portelli per più di due mesi, quando ci siamo avvicinati alla cometa. A quest'ora tutti i virus minori che si sono portati dietro quando sono partiti dalla Terra hanno fatto il loro corso.
«Ho fatto un censimento dei parassiti, ed ho scoperto che più di tre quarti degli organismi patogeni ambientali si sono già estinti! È ora di liberare una nuova sfida».
Saul sospirò. — Sei tu il capo. — In realtà, sarebbe stato compito di tutto il biocomitato decidere le sfide da lanciare al sistema immunitario. Ma ricordarlo ad Akio avrebbe significato offenderlo. E comunque, la procedura faceva parte della routine.
Però, il naso già prudeva a Saul al pensiero di quell'infelice prospettiva.
Allungò la mano verso la consolle della bio-biblioteca e batté rapidamente un codice. Una pagina di dati comparve nel vuoto davanti a un fondale nero.
Saul annuì, rivolto a quelle brillanti lettere verdi. — Ecco un affascinante spiegamento di nefasti batteri a tua disposizione, dottore. Con quale pestilenza desideri infettare i tuoi pazienti? Abbiamo vaiolo, varicella, rosolia.
— Niente di così drastico. — Matsudo agitò una mano. — Per lo meno non così presto.
— No? Bene, abbiamo l'impetigine, il piede dell'atleta…
— Amaterasu! Il cielo ce ne guardi, Saul! Con questa umidità? Prima che l'habitat nelle gallerie scavate nella cometa e i grandi deumidificatori siano entrati, in funzione? Tu sai come la pensa la Marina sulla presenza dei funghi a bordo di un nave spaziale. Cruz ci scuoierebbe…
Si arrestò di colpo e sorrise con la bocca storta. — Ah, ah. Molto divertente, Saul. Ti stai prendendo gioco di me, naturalmente.
Saul aveva conosciuto Matsudo superficialmente per molti anni, nel corso di conferenze scientifiche, e anche per la reputazione che si era fatto. Ma quell'uomo rappresentava ancora per lui, almeno in parte, un enigma. Per esempio, per quale ragione si era offerto volontario per quella missione? Fra tutti i tipi disposti ad arruolarsi per lasciare la Terra, passando settantatré anni su settantotto di missione in ibernazione nelle capsule, per poi far ritorno su un mondo divenuto del tutto estraneo, alieno, a quale categoria apparteneva Akio? Era un idealista, seguiva il sogno del capitano Miguel Cruz per ciò che la missione avrebbe potuto significare per l'umanità? Oppure era un esiliato, come molti membri di quella spedizione?
Forse è un po' di entrambe le cose.
Matsudo si passò una mano fra i lucidi capelli neri, folti come quelli d'un giovane. — Vuoi essere così gentile da scegliermi un virus del raffreddore, Saul? Qualcosa che sfidi abbastanza l'equipaggio così da mantenere attiva la loro produzione di anticorpi e il conteggio delle cellule T? Per quello che m'importa, non ci sarà neppure bisogno che se ne accorgano.
Saul pronunciò ad alta voce una successione di lettere, e comparve una nuova pagina. — Il cliente ha sempre ragione — ruminò ad alta voce. — E sei fortunato! Abbiamo otto varietà di raffreddore in vendita.
— Sono stupito — commentò Matsudo. Ma poi corrugò la fronte e sollevò entrambe le mani. — A ben ripensarci, lascia che sia io a scegliere! Non voglio che qualcuno dei tuoi mostri sperimentali si scateni proprio adesso, non importa quello che puoi dire sulle meraviglie della simbiosi!
Saul si tirò da parte, mentre Akio si chinava in avanti per sbirciare la lista delle malattie disponibili, borbottando sommessamente fra sé. Era ovvio che Matsudo aveva tralasciato ancora una volta di mettersi le lenti a contatto.
È più alto di suo nonno di tre buoni decimetri pensò Saul. E guarda con sospetto i cambiamenti. Uno scienziato, eppure è troppo conservatore per farsi fare un trapianto della cornea che gli permetterebbe di vedere di nuovo senza aiuto.
Cos'è successo ai giapponesi innovativi, affamati di futuro, di tanti anni fa?
Se era per questo, cos'era successo a Israele, la tua terra natale? Come avevano potuto i discendenti dei pionieri del Negev, i più possenti guerrieri di due secoli, declinare lentamente nell'occultismo e nella superstizione? Cosa aveva trasformato i sabra dall'occhio limpido in pecore spaventate, così da permettere ai fanatici leviti e ai salawiti d'impadronirsi, con tutta facilità, del controllo?
I misteri facevano parte di un mistero ancora più grande che sorprendeva tuttora Saul, il modo in cui l'umanità pareva perdere sempre di più il coraggio, perfino adesso che il Secolo dell'Inferno stava giungendo alla fine e tempi migliori si profilavano finalmente all'orizzonte.
Non era un pensiero che lo tranquillizzasse. La scienza biologica era in condizioni altrettanto brutte. Le luminose speranze offerte da Simon Percell e dagli ingegneri genetici nella prima parte del secolo erano quasi completamente crollate in una serie di scandali più di un decennio prima, lasciando dietro di sé soltanto una stolida industria farmaceutica e qualche operatore indipendente come lui, Saul, a portare avanti la battaglia.
La Terra stava diventando sgradevole per i dissidenti come lui, uno dei motivi che l'avevano spinto a partecipare a quella missione. L'esilio nel tempo e nello spazio non era certo la peggiore fra le prospettive che gli si erano presentate.
— Useremo il rinovirus TR-3-APZ-471 — annunciò Matsudo, in apparenza soddisfatto da quella selezione. — Sei d'accordo, Saul?
Saul già sentiva arrivare uno sternuto. — Una piccola, ingenua varietà, ma sono sicuro che la sua presunzione ti divertirà.
— Scusa?
— Oh, lascia perdere — grugnì Saul. — Come custode ufficiale dei piccoli animali, ti farò trovare una fiala incubata di quei cattivoni nel tuo box entro domattina. — Toccò un tasto, e quell'inventario luminoso scomparve.
Matsudo si rialzò con facilità all'ottavo di G presente nella ruota-laboratorio della Edmund, e si sedette sul banco. Sospirò, e Saul seppe che il suo amico stava per mettersi a filosofare. Durante il lungo viaggio dalla Terra avevano fatto innumerevoli partite a scacchi e si erano scambiati altrettanto innumerevoli opinioni sul mondo, e mai una volta si erano scostati di un solo millimetro dalle loro reciproche idee.
— Non è come quando eravamo alla scuola di medicina, non è vero, Saul? Tu ad Haifa ed io a Tokyo? Siamo stati educati a odiare i germi patogeni, i virus, i batteri e i protozoi infettivi, a volerli spazzar via dalla faccia della Terra. Adesso, li coltiviamo e li usiamo. Sono i nostri strumenti.
Saul annuì. Di quei tempi, metà del lavoro di un medico comportava proprio l'uso attento di quegli stessi orrori, che andavano elargiti con giudizio per creare delle sfide.
— Tieni in esercizio il sistema immunitario del paziente e lascia che sia lui a fare il resto — disse Saul, annuendo. — È il sistema migliore, Akio. Vorrei soltanto che tu capissi che i miei cianuti fanno parte della stessa progressione.
Matsudo roteò gli occhi. Lui e Saul avevano discusso di questo moltissime volte.
— Ancora una volta mi rincresce di non poter essere d'accordo con te. Nell'un caso noi insegnamo al corpo a rafforzarsi e a respingere ciò che è estraneo. Ma tu lo persuadi ad accettare un intruso, per sempre!
— Forse una buona metà delle cellule del corpo umano sono forme di vita ospiti, Akio… batteri dello stomaco, pulitori dei follicoli, loro aiutano noi; noi aiutiamo loro.
Matsudo agitò la mano. — Sì, sì. La maggior parte di ciò che definisci te stesso, non lo è! L'ho sentito altre volte. So che non ci vedi come individui, Saul, ma come grandi alveari sinergici di specie cooperanti. — C'era una nota tagliente nella voce di Matsudo che Saul non ricordava di aver mai sentito prima. L'esagerazione non faceva parte dello stile abituale di Matsudo.
— Akio…
Matsudo si affrettò a proseguire: — E se anche tu avessi ragione, Saul? Tutti questi organismi che condividono i nostri corpi con noi sono cresciuti in simbiosi con noi nell'arco di milioni di anni. Ciò è completamente diverso dall'iniettare di proposito dei mostri con i geni tagliati su misura in un tale delicato equilibrio!
Il suo volto si era leggermente arrossato. Saul considerò la possibilità di sforzarsi di spiegarglielo una volta ancora… di spiegargli che i cianuti discendevano da creature che erano vissute pacificamente nell'uomo per molti eoni. Ma naturalmente lui sapeva come avrebbe risposto Aiko. Dopo tutti i cambiamenti che erano stati operati, i cianuti erano una nuova specie, diversi dai loro cugini naturali allo stesso modo in cui gli uomini lo erano dalle scimmie.
— Saul, il Movimento Restaurare e Riflettere c'insegna che dobbiamo pensare con la massima attenzione prima d'interferire con la natura. Il Secolo dell'Inferno ci ha dimostrato quanto può essere pericoloso intromettersi là dove non siamo in grado di capire.
Sollevando lo sguardo allo schermo del microscopio, dove il suo minuscolo soggetto stava ancora subendo il suo test, Saul vide che la minuscola creatura pulsava ancora vicina all'ago: vessata ma in salute.
— Io… — Scosse la testa e tacque. Saul non aveva nessuna idea di cosa preoccupasse il suo amico.
— Non c'è ancora nessun segno della Newburn, vero?
Matsudo scosse la testa, lo sguardo rivolto al pavimento. — Il capitano Cruz e i suoi ufficiali stanno ancora cercando. Forse quando la cometa si sarà calmata un po' di più, quando gli ioni della chioma e della coda saranno meno rumorosi… Per fortuna c'erano soltanto quaranta persone a bordo di quella nave. Se fosse stato un altro di quei rimorchiatori, la Selenia, o la Whipple, oppure la Delsemme… — Scrollò le spalle.
Saul annuì. Non c'era da stupirsi che Matsudo fosse irritabile. Più di trecento fra uomini e donne erano stati spediti dalla Terra con cinque anni di anticipo rispetto alla Edmund, insieme alla maggior parte dell'enorme quantità di equipaggiamento della spedizione, raffreddati quasi al punto di congelamento a bordo di quattro sottili trasporti robotizzati, cavalcando la luce del sole dietro a vele sottili come garze, larghe mille chilometri.
Soltanto la squadra dei «fondatori» aveva scelto la corsia veloce, energeticamente dispendiosa, a bordo della vecchia Edmund Halley. Avevano esaurito il loro carburante fin quasi all'ultima goccia per tener testa all'orbita furiosamente retrograda della cometa. Quando fossero arrivati, il compito prioritario che aspettava l'equipaggio della nave-torcia era appunto quello di recuperare i giganteschi cilindri che contenevano la maggior parte del personale della missione, immerso nel sonno profondo.
Ogni sistema di viaggio presentava degli svantaggi, nave-torcia o chiatta che fosse. La maggior parte del personale della Edmund doveva fare lunghi turni, sopportando la noia e una vita in condizioni anguste per più di un anno nello spazio. Allo stesso modo condividevano i pericoli — recentemente manifestatisi nel modo più brutale — collegati alla costruzione della base.
Sull'altro versante, avevano un certo controllo sul proprio destino. Non dovevano salpare attraverso lo spazio per anni addormentati e quasi prossimi al congelamento, confidando che qualcun altro li raggiungesse, agganciasse le loro esili chiatte, e alla fine li svegliasse…
Gli uomini e le donne a bordo della Newburn sarebbero forse andati alla deriva per sempre? Se Cruz e il suo equipaggio non avessero mai localizzato la chiatta, ci sarebbe stata la probabilità che qualcun altro, in qualche lontana epoca, li raccogliesse? Cosa avrebbero trovato al loro risveglio, dopo un viaggio talmente interminabile lungo il fiume del tempo?
— Saranno ottanta lunghissimi anni, Saul. — Matsudo scosse pensosamente la testa, guardando la videoparete, sfavillante con la cometa di Halley al suo massimo splendore su un sontuoso fondale di stelle. Le code, l'una di plasma e l'altra di polvere, rilucevano come vessilli sbattenti, come plankton in un mare fosforescente. — Ci vorrà molto tempo prima che rivediamo casa nostra.
Saul sorrise, nascondendo i propri timori a beneficio dell'amico. — Per la maggior parte, trascorreremo il tempo addormentati, 'kio. E quando torneremo a casa saremo ricchi e famosi.
Matsudo sbuffò a quel pensiero, ma riconobbe l'intenzione di Saul gratificandolo d'un sorriso. L'ironia era il tratto comune che li rendeva amici malgrado tutte le loro divergenze.
Un campanello squillò, e Saul sollevò lo sguardo mentre l'ago della microsonda si ritraeva dall'acquosa goccia salina. Adesso il cianuto soggetto all'esperimento galleggiava grigio e flaccido. L'ultimo test doveva dimostrare come la piccola creatura potesse pur sempre venire uccisa con facilità, nel caso in cui fosse sorta la necessità di farlo.
La prerogativa del creatore? si chiese. Oppure le mie spalle si sono incurvate impercettibilmente sotto un minuscolo senso di colpa in più?
I predatori stavano già annusando il microscopico cadavere. Saul allungò la mano e spense il microscopio.
Il posto puzzava di uomo rancido, sporco.
Virginia arricciò il naso quando entrò nella palestra per il suo periodo di ginnastica obbligatoria.
Siamo strane creature. I mammiferi esalano degli odori che rendono i maschi aggressivi, e tutti noi nervosi quando siamo insieme, e poi impacchettiamo insieme tutta una folla di gente per un anno e più in una minuscola scatola, e gli chiediamo di essere simpatici.
In effetti, non è che a Virginia importasse poi tanto di quell'odore. Non le importava neppure degli uomini.
Non sono loro la ragione per cui ho accettato l'esilio nel ventiduesimo secolo, cavalcando un frammento di ghiaccio e polvere di stelle, diretto fuori verso la Grande Notte.
Virginia aveva le proprie motivazioni. Per lei, offrirsi volontaria per il Progetto Halley aveva poco a che fare con l'intruppare comete per il raccolto.
Si spogliò, rimanendo in calzoncini, e salì su una bicicletta ergonometrica attaccando le cinghie per il biomonitoraggio. Virginia spinse sui pedali accelerando fino a quando il piccolo schermo non le mostrò che stava soddisfacendo gli ordini del dottor van Zoon.
La palestra per gli allenamenti si trovava nella ruota gravitazionale della Edmund Halley, dove la maggior parte dell'equipaggio sonnecchiava durante i periodi di sonno in condizioni di peso. Virginia capiva la necessità di consentire al sangue e alle ossa di avvertire l'Antica Attrazione di tanto in tanto per mantenersi in forma. Ma quelle sedute trisettimanali con le cinghie, le pulegge e gli ergonometri le davano l'impressione di qualcosa davvero ai confini della logica.
Aveva considerato la possibilità di manipolare il flusso dei dati diretti al centro medico, inserendo un feedback simulato da parte di tutte quelle macchine per la ginnastica. E avrebbe anche potuto farlo. Virginia non aveva nessuna modestia circa la sua competenza nel campo dell'Intelligenza Dati. Lefty d'Amaria poteva anche essere il capo della sezione, ma là lei era la migliore.
Oh, be', immagino di averne bisogno pensò, mentre pigiava vigorosamente sui pedali. Il sudore cominciò a schizzarle dai pori, luccicando sulla sua pelle olivastra.
Di solito era orgogliosa del suo fisico sempre in forma e ci teneva a conservarlo. A casa, alle Hawaii, aveva avuto l'abitudine di fare il surf ogni secondo giorno. Ma adesso pareva che dovesse scrollarsi di dosso un'apatia che la sovrastava ancora dopo un anno di sonno ibernato. Ancora tre settimane prima era stata in animazione sospesa, con le funzioni vitali che ticchettavano appena al di sopra del punto di congelamento. Forse era la perdurante pigrizia dovuta ai farmaci assunti per la «bara» criogenica che la rendevano così riluttante a scendere in palestra.
Be', dal momento che sono qui, cerchiamo di fare le cose alla maniera giusta.
Ci dette dentro, fingendo di pedalare lungo il ponte di Linai-Maui. Il rombo onnipresente della ruota gravitazionale si dissolse in un sottofondo immaginario di acque e venti ruggenti. Virginia immaginò che la porta davanti a lei potesse farla uscire, spalancandosi di colpo sulla gialla luce del sole e il ricco profumo dell'ananas.
Dopo l'esercizio, i suoi muscoli erano caldi e tesi. Ed era bello dopo la doccia passare un po' di tempo a pettinarsi i lunghi capelli neri. Comunque, reinfilarsi il suo scialbo pullover fu un promemoria più che sufficiente. Maui si trovava a cento milioni di miglia da lì.
Ha fatto la tua scelta, ragazza. Ci sono cose da compiere, qua fuori… cose perfino più importanti, per te, che rimanere nella Terra del Popolo Dorato.
Decise di compiere una rapida passeggiata intorno alla ruota della gravità prima di tornare in quella porzione della nave in cui vigeva la caduta libera. Virginia s'incamminò con le sue lunghe gambe nella direzione contraria al senso di rotazione della ruota. Pareva che non ci fosse nessuno in giro. Il dottor Marguerite von Zoon non stimolava gli spaziali a visitare la palestra in quel periodo. In quel momento, i poveracci sudavano fin troppo ed erano esentati dall'ossessione del medico di Walloon per la ginnastica.
Il giro di Virginia lungo il corridoio periferico la fece passare davanti a una delle scale a pioli fissi e oltre, fino alla porzione della ruota occupata dai laboratori. Le porte erano tutte chiuse, così non avrebbe saputo dire se in quel momento la sezione delle Scienze Biologiche veniva usata. Si fermò accanto alla porta, la mano esitante, mezzo sollevata verso il campanello.
Oh, suvvia, Ginnie, Saul Lintz non ti morderà di certo. Perché tutti questi palpiti al cuore come se tu fossi ancora una ragazzina?
Tutto quello che lei sapeva era che quell'uomo l'affascinava, più di quanto avesse sperimentato nei confronti di qualcuno, da molti anni a questa parte. Era forse dovuto alla sua esperienza con la vita? Oppure l'espressione dei suoi occhi: perseveranza e una tranquilla energia?
Da quando era stata disibernata, aveva sperato che le dicesse qualcosa, che facesse una qualche prima mossa. Era stato frustrante, alla fine, rendersi conto che lui, semplicemente, supponeva che lei lo vedesse come una figura paterna. Ciò aveva ridotto Virginia a chiedersi se non avesse dovuto tentare lei stessa un primo approccio.
La sua esitazione, con la mano a mezz'aria davanti al campanello, durò fino a quando non si sentì ridicola.
Sembrerebbe così artificioso se adesso piombassi dentro. Cosa potrei dire?
Più tardi avrebbe avuto l'opportunità di organizzare qualcosa di più usuale. Dopotutto, se c'è una cosa che non ci manca, è il tempo.
Per lo meno, quella sarebbe andata bene come scusa. Oh, se soltanto fosse stata in grado di capire la gente anche solo la metà di come capiva le macchine! Girò su se stessa e se ne andò, senza disturbare il campanello.
Mentre percorreva il corridoio periferico, ebbe modo di osservare in quanti modi la Edmund Halley era invecchiata durante l'anno trascorso. I corridoi non risplendevano più. I pannelli alle pareti, un tempo lucidi e dai colori armonizzati, si erano incurvati, e in alcuni punti formavano vistose pieghe. La vecchia ragazza non aveva cominciato quella missione proprio nel fiore della sua giovinezza, e a nessun vascello delle sue dimensioni era mai stato chiesto prima d'ora di accelerare fino a una meta così lontana, e per tanto tempo. Lo sforzo era visibile.
Virginia era convinta che niente l'avrebbe più sorpresa, ma quando di avvicinò a un'altra di quelle scale a pioli, si fermò e la fissò.
Oh, non può essere così brutta!
Uno degli sfiatatoi dell'aria gocciolava sul corridoio curvo. Chiazze di muffa verde-scura scolorivano il pavimento dove l'effetto Coriolis aveva spinto una piccola pozzanghera contro la parete.
Le generose labbra di Virginia si contrassero per il disgusto mentre scavalcava con cautela quella muffosa infestazione e si arrampicava su per l'umida scala verso l'asse di rotazione, facendosi un appunto mentale di riferire la cosa al servizio manutenzione. Era difficile credere che fosse stata lei a scoprirlo.
I pioli premettero contro il suo corpo quando cedette velocità angolare alla rotazione della ruota. Il condotto lungo cui correva la scala a pioli fissi era malamente illuminato, umido e fin troppo puzzolente. Soltanto la metà dei pannelli fosforescenti di quel pozzo funzionavano, facendo assomigliare un po' quella salita ad un'escursione attraverso la fogna di una città.
È una buona cosa che gli habitat della Halley siano quasi pronti pensò. Questa chiatta scricchiolante ha bisogno di una lunga revisione.
I quattrocento membri della spedizione avrebbero avuto ben poco da fare durante tre quarti di secolo… soltanto indagare sui misteri di uno dei maggiori nuclei cometari… controllare la velocità di sublimazione e gli sbalzi direzionali provocati dalle influenze gravitazionali… un altro periodo impegnativo fra trent'anni o giù di lì, quando Halley fosse arrivata al punto più lontano dal Sole, e lei, Virginia, avrebbe dato una mano a calcolare i parametri per la Grande Manovra, la più importante… poi la lunga caduta verso Giove, e infine a casa.
Per la maggior parte del tempo intermedio, quasi tutti sarebbero rimasti addormentati, in animazione sospesa, quasi senza sognare, accumulando la paga sulla Terra. Sarebbe stato allora che le piccole squadre addette, a rotazione, ai turni di guardia, avrebbero lentamente rimesso in sesto la povera Edmund.
Sette decenni avrebbero dovuto essere un periodo più che sufficiente. Avrebbero fatto meglio ad esserlo. Una volta che Halley avesse eseguito il suo prossimo fiammeggiante tuffo dentro la parte interna del sistema solare, quella vecchia tinozza avrebbe dovuto essere in condizioni abbastanza buone da riportarli a casa.
Salendo, una mano dopo l'altra, Virginia sentì il suo peso filtrar via dentro la scala, nell'avvicinarsi ai borbottanti cuscinetti a sfera, dove la gravità nulla dello spazio ritornava. Le quattro gallerie con le scale a pioli si congiungevano in una piccola stanza rotante di forma ottagonale.
Poco prima di raggiungere il fulcro, tuttavia, Virginia sbatté gli occhi stordita per la sorpresa nel vedere una piccola perdita di lubrificante, che spruzzava un sottile vapore untuoso dentro il corridoio.
So che la maggior parte degli spaziali della Edmund sono stati chiamati a lavorare nel nucleo di Halley, comunque non c'è nessuna scusante per una cosa del genere! Avremo bisogno della ruota ancora per parecchio tempo!
— Disgustoso — mormorò a bassa voce. — Semplicemente disgustoso.
Fu allora che una voce parlò da un punto oltre il sottile spruzzo oleoso.
— Sono d'accordo, Virginia.
Virginia sollevò lo sguardo di scatto. Un uomo leggermente obeso, con la divisa grigia della nave, fluttuava accanto a una delle due uscite. La sua ampia bocca slava era atteggiata a un'espressione amareggiata. Un berretto di lana era calcato sopra i radi capelli castani chiazzati di grigio. Le sue braccia erano lunghe e possenti, ancora di più dal momento che non aveva gambe.
Lo spaziale di seconda classe Otis Sergeov non era mai parso particolarmente impacciato dal suo handicap. Al contrario, pareva che questo lo rendesse più veloce in condizioni di microgravità. Virginia aveva sentito dire che adesso Sergeov era stato assegnato come aiuto a Joao Quiverian e agli altri astronomi che studiavano la cometa di Halley.
Era il percell più vecchio che Virginia avesse mai incontrato.
Essere uno dei primi aveva i suoi svantaggi. I famosi primissimi lavori di Simon Percell nel campo della chirurgia genetica avevano permesso ai genitori di Sergeov di avere dei bambini. Ma un difetto cromosomico gli aveva dato soltanto dei moncherini sotto i calzoni.
— Oh, ciao, Otis — lo salutò Virginia. — Bisognerà far qualcosa. Qualcuno ha già fatto rapporto?
Lo spaziale russo scrollò le spalle. — Cosa diavolo serve riferire cosa del genere? Nessuno fa niente, di sicuro — brontolò amareggiato, in un misto di russo e d'inglese. — Quei stchahai… cretini!
Virginia ammiccò più volte a quell'apparente non sequitur. Naturalmente il capitano Cruz avrebbe subito ordinato che venissero fatte le riparazioni, quando gliel'avesse detto…
Poi notò che Sergeov neppure guardava la perdita di lubrificante. Virginia si lasciò trasportare dalla lenta rotazione dell'asse fino a trovarsi alla stessa altezza dell'uomo, poi passò di fianco allo spruzzo intermittente e si spinse via con forza.
La stanza ottagonale parve roteare intorno a lei. Dovette afferrare due volte un appiglio gommato per riuscire a stringerlo saldamente, e anche così il suo corpo andò a sbattere contro la parete imbottita. Non mi riuscirà mai di farlo alla maniera giusta! pensò mentre cercava di riorientarsi.
Sergeov le indicò qualcosa. — Pensi che i burocrati ortho faranno qualcosa per questo, eh? — sbottò. Questo?
Virginia ammiccò di nuovo. Sergeov stava fissando, furioso, un graffito tracciato sulla paratia vicino ai borbottanti cuscinetti a sfere dell'asse.
— Arco del sole. — Sergeov identificò il simbolo in tono caustico. — Quei kakashkiia bastardi ci hanno seguito, perfino qua fuori!
— L'ho visto altre volte — disse Virginia, con voce sommessa. Si sentiva un po' col fiato corto davanti a quella vista inaspettata. — Perfino alle Hawaii…
— E allora? — l'interruppe Sergeov, sprezzante. — Perfino nella Terra del Popolo Dorato? Perfino nel vostro paradiso tecno-umanistico?
Virginia corrugò la fronte. Sulla Terra, durante il periodo di addestramento per la missione, aveva sviluppato una viva antipatia nei confronti di Sergeov, percelliano o no che fosse. Lui aveva passato quasi tutta la sua vita nello spazio, trasformando i suoi inconvenienti fisici in vantaggi in caduta libera, eppure tutte le volte che lo incontrava si sentiva a disagio, come se quell'uomo irradiasse un'amarezza da troppo tempo repressa.
Promise a se stessa che avrebbe usato il proprio computer per insinuarsi tra le file del personale. Avrebbe fatto in modo di non condividere mai lo stesso turno fuori dalle capsule ibernanti durante i settant'anni che li aspettavano.
— Arrivederci, Otis. Ho del lavoro da fare. — Ma lui la fermò, afferrandole il braccio.
— Tu sai che questo non è il primo incidente — disse. — È soltanto quello più appariscente. Alcuni archisti — aggiunse, in tono beffardo, — si rifiutano anche soltanto di parlare ai percell che si trovano a bordo. Ci evitano come se fossimo xherobiy… impuri!
Virginia scrollò le spalle. — Tutti si sono trovati in condizione di forte stress, di recente. Ciò cambierà non appena gli habitat saranno stati completati, e una volta che la gente avrà trovato di nuovo lo spazio per muoversi. Quando avremo sgelato un po' di gente dai trasporti e avremo modo di vedere qualche faccia nuova, tanto per cambiare…
La stretta di Sergeov era ferrea, dopo aver trasportato per anni apparecchiature spaziali. — Potrà alleggerire i sintomi — insisté, — ma la malattia continuerà. Hai visto com'era la Terra quando siamo partiti. Uno dopo l'altro, quei shlyoocha dei paesi della Cintura Calda hanno approvato leggi che restringono i nostri diritti… i diritti di tutta la gente geneticamente migliorata!
Virginia voleva soltanto che quell'uomo le lasciasse libero il braccio. Si sforzò di ragionare con lui.
— Le nazioni dell'America e dell'Africa equatoriale hanno vissuto un secolo infernale, Otis. Neppure a me piace la svolta speciosa assunta dalla loro ideologia negli anni più recenti, ma per lo meno oggi sono ambientalisti. Se sono diventati un po' fanatici in quella direzione, be', chiunque ammetterà che è un miglioramento rispetto al modo in cui si comportavano i loro nonni. Il pendolo tornerà indietro un'altra volta.
A Virginia non piaceva l'espressione della faccia di Sergeov. La guardava come se lei fosse penosamente, perfino criminalmente ingenua.
— Tu lo pensi davvero? Ma no, mia cara, giovane percell. Questo è soltanto l'inizio. Sono già in guerra con noi!
Il suo volto non rasato si fece più vicino. — E chi può biasimarli? Quando l'Homo Sapiens si sveglierà accorgendosi di ciò che sta succedendo, una repressione sempre più violenta si scatenerà contro di noi, la Razza dei Successori. Qui sono in gioco nientedimeno che le generazioni future!
— Oh, suvvia, Otis. — Virginia scoppiò in una risatina secca, cercando di alleggerire il tono. — Non è che pochi percell rappresentino il passo successivo dell'evol…
— No, ascolta tu, ragazza! — Gli occhi di Sergeov si strinsero. — È questa la ragione principale di tutta questa paranoia, di questa persecuzione! È difficile biasimare i neanderthal per aver cercato di proteggere la loro forma obsoleta, dopotutto. Le specie proteggono se stesse.
«Ma ciò non significa neppure che possiamo permettere che dei bastardi ci schiaccino. Sta a noi agire per primi, o perire!
Anche se erano chiaramente soli, Virginia si guardò rapidamente intorno. Non voleva trovarsi in giro se quei discorsi sediziosi potevano venir ascoltati da qualcuno. Senza sprecare nessun movimento, usò una mossa di judo per liberarsi da quella stretta, districando il braccio con forza e mandando l'uomo a roteare all'indietro. Sereov batté la testa contro la paratia nuda.
— Auh! — protestò, stupito e offeso. — Yayatamiy! Govenka! Perché l'hai fatto?
— Voi estremisti uber non avete la risposta — sibilò Virginia. — Voi finite soltanto per procurare ai percell una cattiva fama parlando così. Noi non siamo i superuomini di Nietzsche. Siamo soltanto esseri umani fraintesi. È tutto!
Sergeov fece una smorfia, sfregandosi la testa. — Chiedi agli esseri umani regolari, gli ortho, se ci considerano fratelli — borbottò.
Spingendosi lungo le pareti con le mani, Virginia arretrò come un pesce davanti a uno squalo, anche se Sergeov non mostrava nessuna inclinazione a seguirla. Una volta in fondo al pozzo, a pochi metri da lì, si girò di scatto a prendendo lo slancio con un calcio infilò il corridoio fiocamente illuminato diretta al suo rifugio.
Ogni cosa, nalla capsula privata da lavoro di Virginia, era ordinata, pulita, efficiente. Gli schermi e le immagini olografiche opalescenti che circondavano il suo letto a rete, tutto funzionava alla perfezione. Lontano da casa e da tutto ciò che aveva conosciuto, perfino sfrecciando fuori dal sistema solare a trenta chilometri al secondo, quello era il centro del suo universo. Si accertò una volta di più che tutto funzionasse a dovere.
Ufficialmente il suo ruolo era quello di fornire un aiuto specialistico alla Sezione di Calcolo. Ma in realtà aveva intrigato per riuscire a partecipare a quella missione con la speranza di riuscire a portare avanti parte della propria ricerca. Nel tipo di ambiente scientifico che si stava sviluppando sulla Terra, il genere di cose che le interessavano venivano guardate con sospetto.
Computer bio-organici, macchine in grado di pensare sul serio… Quelli erano campi che erano stati diagnosticati come improbabili, perfino pericolosi, da una scienza del ventunesimo secolo sempre più conservatrice. Perfino nelle sue natie Hawaii i suoi superiori si erano mostrati sempre più a disagio a causa dell'attenzione che il suo lavoro attirava dal mondo esterno.
Ma io so che i bio-organici potranno alla fine battere il silicio e l'arseniuro di gallio! E le macchine possono fare di meglio che limitarsi meccanicamente a pompare l'acqua o a tagliare il legno come tanti idioti. I processori stocastici possono essere indotti a pensare.
A destra, ficcata sotto il ripiano d'una scrivania, c'era una tozza scatola che conteneva la sua speciale unità di simulazione; l'organo Keimar computerizzato le era costato quasi tutta la piccola dotazione di effetti personali concessa a ciascuno di loro, ma ne era valsa la pena.
Le luci sul pannello s'incresparono quando il portello sibilò e si richiuse dietro di lei, e lei si lasciò scivolare sul letto a rete. Quindi si affibbiò la cintura e parlò, con voce sommessa:
— Ciao, JonVon.
Lo schermo dell'olo principale brillò:
CIAO, VIRGINIA.
OGGI SI LAVORA O SI GIOCA?
Virginia sorrise. Senza dubbio, negli ottant'anni che l'aspettavano, sarebbero stati compiuti molti progressi. Doveva succedere — perfino in mezzo al più ostinato conservatorismo scientifico.
Ma in quel momento il suo protetto era il migliore che ci fosse, non convenzionale: usava una tecnologia assolutamente bandita a casa, ma a suo giudizio la migliore di tutte come efficienza.
Aveva chiamato l'unità col nome di John von Neumann, l'inventore della teoria dei giochi. Il programma-mainframe poteva mimare dieci modelli di reazione umana tanto bene da superare un test di Turing del terzo stadio… ingannando una persona che non fosse al corrente nel corso d'una normale conversazione di cinque minuti al videotelefono, inducendola a pensare che il volto e la voce all'altra estremità fossero quelli d'una persona reale, e non di un computer.
JonVon poteva perfino raccontare barzellette sporche, ridacchiando maliziosamente al momento giusto.
Senza precedenti, sì. Ma esibizioni come quella non rappresentavano una vera «intelligenza della macchina», non alla maniera che Virginia riteneva possibile.
L'hardware molecolare di quella scatola da cinque litri avrebbe dovuto essere sufficiente a modulare un'onda complessa dello stesso tipo di quella presente in permanenza in un cervello umano. Ne era sicura. Naturalmente, là sulla Terra non erano d'accordo, e così non gli era mai stata data una vera possibilità.
Durante le prossime settimane avrebbe avuto poco tempo per impegnarsi nei propri esperimenti privati. Avrebbe dovuto usare tutta la sua attrezzatura, JonVon compreso, per integrare il mainframe della nave. Quasi tutte le sue energie erano dedicate a preparare quei modelli matematici che gli spaziali del capitano Cruz continuavano a esigere.
Più tardi, però, durante i suoi anni del turno di guardia, avrebbe avuto il tempo di farlo. Il tempo per lavorare e per pensare senza dover diluire i propri pensieri.
Nel ventesimo secolo sapevano come osare, realizzando i sogni più audaci pensò. Non credevano che vi fossero limiti.
Era una delle ragioni per cui le piacevano i vecchi film su schermo piatto… le piaceva simulare le stelle cinematografiche dei vecchi tempi e i poeti di tanto tempo fa.
Quella gente ha quasi distrutto il mondo a causa della sua avidità, ma loro credevano nell'ambizione. Non si sarebbero fermati fino a quando non avessero avuto delle macchine in grado di pensare.
Lanciò un'occhiata all'orologio inciso in maniera indelebile sotto l'unghia del pollice sinistro. — Che ne diresti di venti minuti di distrazione, Johnny? — Virginia sollevò un cavo dalla consolle e mise allo scoperto un bozzolo biancastro sulla sua nuca. Una volta stabilito il collegamento, con un «clic!», i simboli sullo schermo furono accompagnati da una ricca voce dentro la sua testa:
POESIA, VIRGINIA?
Lei si affrettò a rispondere, d'impulso, con una sfilza di versi:
Ka Honua
— La Terra, mia patria,
E hoomanao no au ia oee
— Mi ricorderò di te.
Mi chiedo cosa
gli piaccia fare.
E se può concedermi
il tempo del giorno?
La linea del suo nervo acustico ronzò:
STILE MISTO, VIRGINIA?
LA SECONDA PARTE SI APPLICA ALL'AMORE?
Virginia arrossì. — Oh, zitto, sciocco. Suvvia, adesso, diamo un'occhiata alle sottoroutine della tua conversazione.
Le lastre di ghiaccio polveroso erano chiazzate e venate di marezzature e iridescenze, butterate e graffiate.
Carl Osborn fece ruotare la sua navetta da lavoro e si propulse verso il nucleo di Halley. Volò via dalla linea dell'alba nitida come un rasoio, dirigendosi verso il polo Nord, dove la loro base stava finalmente prendendo forma.
Adesso la superficie granulosa grigia e bruna stava cambiando rapidamente. Come minuscole, grasse formiche i mech si muovevano su di essa, prepara'ndo le aree dei moli e delle torri di attracco. I ragni trivellavano i fori dentro il ghiaccio, l'interminabile zzzzzttts delle microonde tracimava debolmente su alcuni canali dei dati. Carl borbottò un rapido comando correttivo al filtro del comunicatore della sua tuta, e l'interferenza cessò.
Il Pozzo 3 era quasi terminato, un foro simile a un'occhiaia morta. Il primo gruppo delle capsule ibernanti sarebbe stato portato là sotto tra non molto. Un chilometro di ghiaccio avrebbe fatto da scudo ai dormienti, proteggendoli dal pungolo fatale dei raggi cosmici e dal grandinare delle tempeste solari.
Qua e là incisioni casuali circondavano il pozzo. Le scariche delle celle di combustibile dei mech avevano butterato la crosta ghiacciata. Apparecchiature rotte giacevano là dove le squadre le avevano abbandonate. Le perdite chimiche si erano condensate in polverulente chiazze verdi e gialle. Travi, cartucce soniche, giacche antiurto scartate giacevano dovunque. Ciò che l'umanità ha intenzione di studiare pensò Carl con amarezza, per prima cosa lo insudicia.
Appena visibili al di sopra dell'orizzonte curvo, cominciavano ad apparire lentamente, adesso, al di sopra della linea dell'alba, i neri pannelli per la soppressione del gas. Rappresentavano un esperimento in corso, corazzati contro gli sciami di polvere ad alta velocità, e concepiti per generare elettricità dalla luce solare. La loro ombra riduceva la dispersione dei gas verso l'esterno da un ottavo della superficie del nucleo di Halley, introducendo un'asimmetria nell'evaporazione. I pannelli potevano venir ruotati, così da imprigionare anche il calore, aumentando la dispersione verso l'esterno sul lato notturno del nucleo. L'effetto netto era una debole spinta persistente che, col tempo, avrebbe potuto alterare in maniera sensibile l'orbita della cometa.
O per lo meno, era quello che si diceva. Per Carl, quei grandi pannelli neri avevano costituito una settimana di lavoro noioso e impegnativo: erano troppo delicati per consentire che i mech facessero qualcosa di più che tenerli fermi, mentre lui e Lani Nguyen e Jeffers li avevano montati sulle robo-braccia che li avrebbero fatti ruotare. Gli astroingegneri si stavano ancora arrabattando con i congegni che accumulavano dati da analizzare durante il lungo viaggio verso l'esterno.
Era difficile distinguere fra le attrezzature d'un esperimento tuttora in corso e la spazzatura lasciata dal giorno prima. Carl si chiese fino a qual punto il nucleo di Halley avrebbe finito per insozzarsi. In quasi ottant'anni avrebbero potuto benissimo ridurre a un'immensa pattumiera perfino tutta quella vasta distesa di ghiaccio.
Carl riusciva a intravedere una sottile striscia nera che sbucava dall'ombra lungo la linea dell'alba: il cavo polare. Avvolgeva il nucleo di Halley da un polo all'altro, e incrociava il cavo equatoriale formando un esatto angolo retto, ma separato da esso di parecchi metri per motivi di sicurezza. Quei binari fornivano un modo veloce per sfrecciare intorno alla superficie. Comunque, Carl li usava assai raramente. Gli piaceva liberarsi del tutto dal tetro giogo del ghiaccio, nuotando nella serena oscurità che sovrastava il tutto.
Fra lui e quel mondo di ghiaccio, a forma di patata, che ruotava lentamente, c'era uno sciame di mech sotto la sua supervisione. Digitò alcune istruzioni sulla consolle che teneva sulle ginocchia, borbottando automaticamente frasi in codice, inducendo quei punti lontani a girare il loro fardello: un gigantesco cilindro arancione. La sua superficie levigata rifletteva il lontano bagliore del Sole.
— Canale D a Osborn. Davvero grazioso, no? — trasmise Jeffers da sotto.
— Be'…
Colore orrendo pensò. Ed è il rivestimento interno del corridoio. Dovremo guardarcelo per settant'anni. I mech scesero più in basso, inclinando il cilindro verso il Pozzo 3, seguendo le sue istruzioni. Il nucleo di Halley compiva una rotazione completa ogni cinquantadue ore, abbastanza velocemente per rendere necessarie delle regolazioni mentre si avvicinavano. A quella distanza, 8,3 chilometri diceva il suo quadro di controllo, c'era anche una sottile nebbia dovuta alla chioma cometaria in dissolvimento che offuscava le immagini e rendeva difficoltoso l'impiego del suo programma di allineamento automatico.
In caso di cattivo funzionamento, aveva un sistema di appoggio a bordo della Edmund. Ottimo, in teoria, ma nel tempo che avrebbe impiegato per avere qualcuno in linea, i mech potevano benissimo, in perfetta obbedienza, cercare di ficcare il cilindro dentro una collina di ghiaccio. Malgrado la fervida fede di Virginia, i computer non potevano fare più di tanto. Da lì in avanti bisognava navigare a vista.
— Lo porto dentro piano — trasmise.
— Pare si sia orientato verticalmente giusto di un pelo. Ma due clic troppo in alto lungo l'asse y locale — rispose Jeffers.
Carl abbassò lo sguardo, ricalibrò, vide che Jeffers aveva ragione. — Maledizione.
— Sei okay?
— Sì. Continua a tenere accesi quei fari.
I quattro allineatori laser inquadrarono chiaramente il Pozzo 3, e Carl fece assumere ai mech la configurazione usando quei segnalatori luminosi. Una lieve variazione di velocità, una torsione compensatrice. Il quadro di comando approvò lo spostamento. Bene. Ma adesso il ghiaccio frastagliato si stava avvicinando in fretta, e…
La gravità. Si era dimenticato della dannata forza di gravità. Il nucleo di Halley esercitava un'attrazione che era soltanto un decimillesimo di quella della Terra… ma durante la sua mezz'ora di discesa dal trasporto a vela solare la velocità era aumentata… di poco, ma costantemente… Digitò una correzione, osservando l'equazione numerica scorrere via, increspandosi, sul suo quadro di comando.
Le luci lampeggiarono rosse. — Sto frenando — trasmise, e accese i retrorazzi dei mech.
Maledizione alla gravità, comunque. Carl era stato su Encke, aveva lavorato intorno al nucleo roccioso della cometa per settimane, un sacco di brontolamenti e di sudate nei momenti cruciali. Comunque, era sostanzialmente facile, se si faceva attenzione a far coincidere i propri vettori, se non si spingeva nessun altro punto salvo il centro della massa, e si lavorava con calma sempre con la testa sulle spalle.
Ma Encke era un nanerottolo… una antica cometa sfrondata, abbrustolita dal sole a causa del suo lungo soggiornare nel sistema solare interno. Halley aveva molta più massa, per la maggior parte di ghiaccio. Sulla sua superficie non ci si accorgeva mai della leggera attrazione, ma avvicinandosi così dall'esterno, prendendo il tempo necessario a mirare con cura, gli effetti di quel decimillesimo di gravità potevano sommarsi.
I getti azzurri dei mech si aprirono a ventaglio contro il fondale di ghiaccio, rallentando il carico. D'un tratto Carl vide che non era sufficiente. Quel poderoso cilindro lungo cento metri si stava avvicinando troppo in fretta.
Ordinò al mech che si trovava più in basso a babordo di girarsi e attivare i getti alla massima potenza. L'unità ruotò e accese la propria riserva.
— Cosa diavolo fai… — cominciò Jeffers.
— Sgombra il pozzo!
— Cosa…
— Sgombralo!
La procedura standard consisteva nel far adagiare il carico a una cinquantina di metri di distanza, per poi spingerlo dentro. Il suo pannello gli diceva che una manovra del genere era impossibile. L'istinto gli suggeriva di tentare qualcos'altro.
Azionò i propri getti, scattando in avanti e quasi raggiungendo il cilindro. Un tocco da parte del mech di tribordo situato più in basso, due rapide torsioni, una scossa laterale per allinearlo…
Una freccia che cadeva dall'alto, puntata contro un cerchio nero raggrinzito.
Il cilindro arancione colpì il labbro del Pozzo 3, rallentò, frantumò un bordo di ghiaccio, e proseguì dentro, seminando fiocchi dello spazio.
Come un pesce in un barile! gioì, mentre il cilindro scompariva dentro il foro.
Jeffers urlò: — Ehi! Cosa ti viene in mente?
— Mi è scappato.
— Col cavolo! Ti stai soltanto esibendo.
Carl fece pulsare i propri getti e atterrò agilmente sui piedi. — Vorrei proprio! Niente da fare, l'ho corretto all'ultimo momento. Ho pensato che fosse meglio tentare di far centro piuttosto che bruciare del carburante per decelerare. Specialmente considerando che in ogni caso non avrei potuto fermarlo.
Jeffers scosse la testa esasperato. — Esibizionista — insistette. E andò a controllare che non fossero rimasti in giro brandelli del materiale.
Non ce n'era nessuno. Liscio e a prova di spuntoni, l'intreccio di filofibra poteva flettersi intorno agli orli aguzzi, il che lo rendeva eccellente per rivestire le gallerie serpeggianti all'interno del nucleo di Halley.
I quindici membri del Gruppo per l'Installazione dei Sistemi di Sopravvivenza avevano dieci giorni per traforare una frazione della regione del polo Nord, rivestire i pozzi e le gallerie con isolante ad alta pressione, e poi riempirli d'aria. Non sufficientemente lungo. E durante tutto quel tempo gli scienziati da poco risvegliati a bordo della Edmund avrebbero morso il freno.
Anche con 112 mech sarebbe stato un programma molto impegnativo. Non c'erano più di tante mani a guidarli. Al momento, l'intera spedizione disponeva soltanto di 67 membri «vivi». Quasi 300 aspettavano nelle capsule del sonno, le loro temperature corporee erano all'incirca di un grado al di sopra del punto di congelamento.
In alto, le lunghe e sottile chiatte spaziali aspettavano con il loro carico umano. Le loro immense vele solari, sottili come garze, adesso erano ammainate, non più necessarie per altri settant'anni. Accanto alla Edmund, simile ad una balena, le argentee Sekanina, Delsemme, e la Whipple, parevano pazienti barracuda.
Ancora nessuna notizia della Newburn, pensò Carl. Com'era possìbile che si fosse persa?
— Voi ragazzi state bene? — arrivò da qualche parte la voce leggera e tintinnante di Lani Nguyen.
Carl si guardò intorno e scoprì un puntolino che diventava rapidamente più grande a mano a mano che si avvicinava sfrecciando lungo il cavo polare. Aveva un braccio serrato sul cursore del cavo, mentre agitava l'altro, assomigliando straordinariamente a un uccello a volo radente che sbattesse un'ala soltanto.
— Sì, bene — trasmise Jeffers.
— Mi era parso di sentire che c'era un guaio…
La donna si staccò dal cavo balzando verso di loro, girandosi con destrezza per spostare il proprio baricentro ed evitare di mettersi a ruotare su se stessa a causa della spinta dei propri getti. È in gamba pensò Carl. Maledettamente in gamba. La delicatezza eterea di Lani mascherava un fisico saldo e muscoloso. Ma perché venire a controllare di persona un malfunzionamento di poco conto?
— Niente di speciale — rispose.
— Be', io avevo già finito, stavo giusto per tornare dentro. — Atterrò con l'agilità di un gatto a dieci metri di distanza, sollevando soltanto una nuvoletta di polvere. — Volete fare una sosta?
— Non possiamo — replicò Jeffers. — Dobbiamo controllare il tubo, assicurarci che si fissi bene.
Lani guardò Carl. — È un lavoro di routine, non dovrebbero volerci due persone.
Carl disse: — Se non stiamo attenti alla sicurezza, Cruz ci farà una testa così.
La donna lo studiò attraverso il suo casco sporco di polvere. — Sei sicuro? Non è già passata l'ora in cui dovevi smontare?
— Ehi, non ho intenzione di lavorare solo, ragazzina — dichiarò Jeffers, bonario ma fermo.
Lei scrollò le spalle. — D'accordo. Volevo soltanto un po' di riposo e relax. Sono in anticipo di una frazione sul programma.
— Ci vediamo stasera, allora. — Jeffers le lanciò un'occhiata di apprezzamento, ma lei parve non accorgersene.
— D'accordo — lei disse, rivolta a Carl. — Stasera. Decollò con altrettanta grazia e puntò verso il pozzo principale.
— Non me ne dispiacerebbe affatto — commentò Jeffers con aria sognante, su un canale chiuso. Carl l'ignorò.
— Presto dovremo pensare ad accoppiarci.
— Fra un mese sarai un ghiacciolo.
— Bisogna pensarci in anticipo.
— Pensi di riuscire a convincerla a fare un turno con te? — gli chiese Carl.
— Potrei. Poi sarò solo e gelato.
Carl scoppiò a ridere. — La tua idea dei preliminari sono sei birre e una partita a biliardo. Lei non è il tuo tipo.
— La necessità può creare degli strani compagni di letto. Non è stato Shakespeare a dirlo?
— Limitati al lavoro mugugnoso: è la tua forza. — Diede a Jeffers un'amichevole spinta verso l'ingresso del pozzo.
— Non puoi biasimare qualcuno soltanto perché vuol provarci.
— Su, vieni. Sei con la lingua penzoloni.
Si fecero precedere dai loro mech, in volo, giù attraverso l'asse cavo del cilindro arancione, liberando i ganci di arresto a mano a mano che passavano. Il tubo di filofibra s'irrigidiva, articolandosi in singole guaine lungo l'asse originario. Ogni due minuti, estrudeva da se stesso un nuovo segmento di cento metri, automaticamente pressurizzato e sigillato alle estremità, per poi cominciare a spingerne fuori un altro, ogni tratto successivo più stretto del precedente. Per Carl, tutto il complesso assomigliava a un anellide che si rigenerasse in continuazione, scavando una galleria dentro una mela.
Le gallerie laterali richiedevano maggiori cure. I mech tagliavano dei fori per le intersezioni, le saldavano garantendo una chiusura ermetica, e vi installavano gli estrusori dei tubi più piccoli. Carl e Jeffers dovevano manovrarli fino al punto stabilito, accoppiandoli e disaccoppiandoli, controllando giunture e saldature ermetiche, assicurandosi che niente s'impigliasse negli affioramenti di roccia o negli spuntoni di ghiaccio. Nelle gallerie, a volte si staccavano frammenti di agglomerato di ghiaccio, talvolta i mech erano maldestri, e fluttuavano liberi negli spazi bui, generando aloni multicolori intorno alle torce elettriche impiegate dagli uomini. Era un lavoro metodico, meticoloso, faticoso, perfino in condizioni di gravità quasi nulla.
L'intervallo per il pasto lo fecero in un segmento di galleria recentemente riempito d'aria. Aprirono il casco e si ormeggiarono a una parete, godendosi quella libertà, anche se l'aria fredda e pungente pareva colpire le loro narici come tante stilettate.
— Credi che ti abituerai mai — chiese Jeffers, masticando metodicamente una sbarretta di razioni autoriscaldate, — a vivere qua dentro?
Carl scrollò le spalle. — Ma sicuro. La ruota della ginnastica e la stimolazione elettrica si prenderanno cura della bassa gravità, così dicono i medici.
— Fidarsi di lor per ottant'anni? — Il volto magro di Jeffers pareva fatto apposta per esibire un'espressione scettica. La sua bocca si inclinava verso un mento appuntito, gli occhi si stringevano a punto interrogativo. — Comunque intendevo parlare del ghiaccio tutt'intorno. Senti come fa freddo? E questo con tutto l'isolante e il riscaldamento delle nostre tute che funziona a tutto spiano.
— Sarà un inverno mooolto lungo — Jeffers sogghignò. Ben presto avrebbe galleggiato beatamente nella sua capsula ad animazione sospesa, ed era chiaro che accarezzava quel pensiero. Jeffers era rimasto sveglio durante il volo verso l'esterno. Era stato noioso, e adesso il lavoro era duro e pericoloso. Era pronto perché altri prendessero il suo posto. Il primo turno.
Anche così, Carl non riusciva a capire l'atteggiamento di quell'uomo.
— Ci sono dei rischi in quelle capsule, sai. Malfunzionamenti del sistema, o anche…
— Lo so, lo so. La mia biochimica potrebbe incasinarsi in qualche maniera che gli esperti non hanno previsto. Oppure voi di guardia potreste toccare l'interruttore sbagliato, togliermi la corrente, e verrebbero a mancarmi le salvaguardie. Oppure un asteroide potrebbe colpirci tutti. — sogghignò un'altra volta. — Comunque, fra un paio di decenni sarà un altro viaggetto a senso unico.
Carl corrugò la fronte. — E allora?
— Preferisco dormire durante la parte monotona, accumulando la paga sulla Terra. — Il volto sottile di Jeffers si torse in un sorriso sardonico. — La colonizzazione delle comete nel sistema esterno… quello sì che sarà divertente. Ma posso saltare la politica del baciaculo.
— Cosa vuoi dire?
— Suvvia, anche tu sei percell. Sai com'è stata impostata tutta questa spedizione.
— Uh… come?
— Gli ortho! Sono loro che dirigono tutto. — Jeffers spuntò i nomi con le dita. — Cruz, poi Oakes, Matsudo, d'Amaria, Ould-Harrad, Quiverian. Ogni caposezione è un ortho.
— E allora?
— Loro pensano che noi siamo dei mostri… degli scherzi di natura.
— Oh, suvvia.
— Ma è così! Pensa a come gli ortho trattano i nostri sulla Terra. Credi che questi siano diversi?
— Non sono come quella masnada che ha incendiato il centro del Cile la settimana scorsa, se è questo che vuoi dire. Certo, ho letto di quella faccenda, e di quello che è successo negli altri posti. È una delle ragioni per cui lavoro nello spazio. Proprio come te.
— Lo spazio non è diverso.
— Certo che lo è. Questi ortho, questa gente, sanno che in realtà sono uguali a noi.
Jeffers ribatté in tono trionfante: — Ma non lo sono.
Carl sorrise senza umorismo. — Adesso, chi è che ha pregiudizi?
— Diavolo, sai benissimo che non siamo affatto come loro. — Jeffers si sporse in avanti, parlando con fervore. — Il nostro corpo è migliore, questo sicuro. E siamo più intelligenti. I test lo dimostrano.
— Col cavolo.
— Non puoi mettere in discussione le statistiche!
Carl grugnì irritato. — Ascolta, eravamo dei ragazzi-meraviglia là sulla Terra quando stavamo crescendo, prima che la gente cominciasse a mettersi contro noi tutti. Tutti i percell lo erano. Non ricordi le borse di studio? Tutte le attenzioni speciali?
— Ce le siamo meritate. Eravamo intelligenti.
Carl scosse la testa. — Ne siamo venuti fuori intelligenti grazie al trattamento da VIP che ci hanno riservato.
— Nooo. Io sono sempre stato più veloce dell'ortho tipico, anche se non mi preoccupo di parlare come si deve.
— E lo sei. Ma non sei meglio di gente come il capitano Cruz o il dottor Oakes. — Carl si alzò in piedi troppo in fretta e la sua presa velcro si strappò dal filofibra. Schizzò attraverso la galleria e sbatté la testa contro il soffitto.
— Dannazione!
Jeffers ridacchiò ma non disse niente. Carl si sfregò la fronte mentre ritornava veleggiando, ma rifiutò di lasciar trasparire la sua irritazione ulteriormente. Jeffers era come troppi percell, invischiato nella sua mania di persecuzione, cogliendo ogni immaginario affronto come se fosse una piaga purulenta. Discutere con loro serviva soltanto a incoraggiarli.
— Apri gli occhi — insistette il suo amico. — Chi hanno messo a fare dei lavori pericolosi come il nostro? I percell!
— Perché molti di noi sono addestrati ad operare a gravità zero. Abbiamo ricevuto delle borse di studio per poterlo fare.
— Allora, perché non affidare a un percell la direzione delle nostre operazioni manuali?
— Be'… non siamo ancora abbastanza vecchi. Nessun percell ha l'esperienza di Cruz o di Ould-Harrad, o di…
— Suvvia! Guarda chi sta facendo gli esperimenti sulla fuga dei gas verso l'esterno! E chi si fa i periodi più lunghi di sonno nelle capsule: tutti ortho.
— E allora?
— È là che ci saranno i quattrini, quelli veri! Impara come si fa a guidare le comete con la loro evaporazione, dimostra che puoi dormire e lavorare in turni di dieci anni… e potrai vendere il tuo talento dovunque nel sistema.
Carl non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Non c'era dubbio che Jeffers stesse adottando la prospettiva lunga. — Suvvia, è…
— E la Sezione Chimica? Se qui dovessimo scoprire qualcosa che valga anche soltanto la metà dell'Enkon, sai chi ci guadagnerà? E anche lì sono tutti ortho, salvo Peters.
— Abbiamo firmato tutti un accordo sui brevetti. Qualunque tecnica venga scoperta, a tutti noi spetta una fetta, dopo aver recuperato le spese.
Il volto di Jeffers si contorse in un'acida maschera sardonica. — Gli ortho troveranno il modo di aggirare anche questo.
Carl sentì vacillare la propria convinzione. E se avesse ragione? Ma cancellò subito quel pensiero. — Senti, abbandona quel binario. Non possiamo continuare anche qua fuori nello spazio le stupide lotte della Terra.
— Non siamo noi a farlo, sono loro.
Esasperato, Carl fissò i resti del suo pranzo nella borsa. — Andiamo, preferisco lavorare piuttosto che litigare.
Comunque, quella sera si avvicinò preoccupato al bar del salone ricreativo, cercando Virginia. Lei era una percell ragionevole e poteva capire ciò che quel pomeriggio aveva con riluttanza ammesso a se stesso: che era in parte d'accordo con alcune delle accuse di Jeffers. Era il tono usato da Jeffers, quel suo modo di mettere ogni cosa in bianco e nero, che lo aveva irritato.
Prese un drink, si voltò per allontanarsi, e vide la scritta, sulla porta del bar, CHINATEVI O LAMENTATEVI, giusto in tempo per ricordarsene. Si chinò ed entrò nel salone. La prima settimana che erano a bordo, lui e gli altri percell avevano sbattuto la fronte contro l'architrave della porta una dozzina di volte; a quanto pareva i progettisti della Edmund avevano ritenuto che soltanto gli ortho socializzassero.
Lani Nguyen lo intercettò vicino al busto sorridente in tungsteno di Edmund Halley. — Ah, finalmente sei comparso.
Lani dava l'immediata impressione d'una efficiente progettazione aerodinamica, spaziale dai piedi alla radice dei capelli. I magri muscoli guizzavano sulle sue braccia nude color mandorla, ma il resto del suo corpo era avvolto in un abitino azzurro-ghiaccio che si muoveva nella lieve pseudogravità con graziosa e modesta indipendenza. A Carl piaceva l'effetto di quel tessuto rilucente che si attardava dietro i suoi precisi e delicati movimenti.
— Uhm, già, abbiamo avuto dei problemi con l'articolazione della galleria. — Esibì un sorriso cordiale, ma cercò di dare un'occhiata generale al salone senza farlo vedere.
Il dottor Akio Matsudo stava parlando animatamente con il tenente colonnello Ould-Harrad, il capo delle Attività Manuali. Attraverso l'oblò il nucleo di Halley risplendeva e fluttuava in sincronismo con le ruote-G della nave. Il capitano Cruz si teneva dritto come una bacchetta contro lo sfondo stellato, dominando facilmente la sala, circondato dal solito branco di signore ipnotizzate.
Dov'era Virginia?
— Oh? — chiese Lani con un sorriso lontano, in tutto simile a quello della statua del Buddha dietro di lei. — Ma non dovrebbe essere automatico?
Carl sbatté gli occhi. — Ehm… ci siamo imbattuti in un affioramento di macigni.
— Di solito, io mando un mech in avanscoperta a tagliarli via con una lancia termica. Poi…
Jeffers comparve dal nulla e Carl lo intrappolò. — Farai meglio a dirlo a questo tizio. È lui l'uomo di punta della nostra squadra. Ho una cosina da sistemare… — E fu libero, prima che la sorpresa stizzita di Lani si estrinsecasse in una protesta. Che anche Jeffers abbia una possibilità pensò Carl. Se la merita. Un po' ingiusto nei confronti di Lani, forse, ma c'erano pur sempre delle priorità, no? Vediamo, a quest'ora il suo turno dovrebbe essere finito…
Passò accanto al gruppo che circondava il capitano Cruz e d'impulso rallentò il passo. S'insinuò nel grappolo. Cruz parlava sempre a tutto il gruppo, senza mai consentire che qualcuno fosse escluso, e sorrise a Carl. — Come va laggiù, Osborn?
Carl rimase sorpreso nel sentirsi rivolgere la parola di persona. Aveva avuto soltanto l'intenzione di starsene lì ad ascoltare. — Uh, piuttosto dura, signore, ma possiamo farcela.
— Ho visto quel giochetto al Pozzo 3. — Cruz sollevò leggermente le sopracciglia e il suo sguardo spazzò il cerchio degli astanti. Malgrado fosse un ortho, un essere umano naturale, era alto come la maggior parte dei percell.
Carl sentì che il volto gli si surriscaldava. Doveva dire qualcosa, ma cosa? — Be', immagino di aver…
— Meraviglioso! Un centro perfetto! Mi è venuta voglia di applaudire. — Il comandante ridacchiò.
Carl era confuso. — Oh, io…
— È bello vedere un po' di audacia — dichiarò Cruz con calore.
Carl sorrise imbarazzato. Sa che era un errore? — Be', abbiamo un programma da rispettare.
— È vero. Vorrei soltanto che altre sottosezioni si muovessero altrettanto rapidamente.
Carl si chiese se fosse una critica velata. Ma Cruz sollevò la sua bolla di bourbon per brindare e, con viva sorpresa di Carl, la folla fece altrettanto. Carl nascose la sua confusione mandando giù una sorsata, scrutando la folla per vedere se vi fossero segni d'ilarità. No, facevano sul serio. Provò un improvviso piacere. Aveva sbagliato la manovra, certo, ma si era ripreso nel migliore dei modi. Era quello che importava al capitano.
Cruz colse lo sguardo di Carl, e fra loro passò un fugacissimo istante di reciproca comprensione. Lui sa che ho preso un granchio. Ma premia l'iniziativa rispetto all'indecisione. Perché? Carl aveva cercato di lavorare bene durante il volo della Edmund fuori dal sistema, ma fino a quel momento Cruz non gli aveva prestato niente di più che una remota, seppure cortese, attenzione.
Ecco: Kato e Umolanda. Non vuole che la gente si spaventi. Sa che sono state delle apparecchiature difettose e la pura sfortuna a ucciderli, molto più che la negligenza.
— Rispetteremo le nostre scadenze, signore — dichiarò Carl con fermezza.
Cruz annuì. — Bene. — Con consumata disinvoltura, il capitano rivolse adesso la sua attenzione a una donna, un ufficiale addetto alle comunicazioni, lì accanto. — Le nuove antenne a microonde sono state erette entro i tempi previsti, vero? Avete problemi a ricevere i segnali attraverso la coda di plasma? — chiese Cruz.
— Sì, un po'.
— Quanto tempo ancora prima che possiamo installare un radar a microonde per cercare la Newburn?
— Le farò avere una stima entro domani, signore.
Carl ascoltò il modo amichevole e aperto con cui Cruz estraeva informazioni dalla donna, le commentava, faceva una piccola battuta che suscitò le risate della folla. Ora, questo sì che è il modo di comandare pensò. È in contatto con tutto e tutti e non appare mai preoccupato. Chissà se imparerò mai il trucco.
Gli sarebbe piaciuto rimanere più a lungo, ma voleva trovare Virginia. La scoprì in un gruppo di hawaiani dalle varie carnagioni, intenti a ridere. Il suo abito era di un azzurro luccicante che suggeriva senza rivelare. Lo stato semiautonomo delle Hawaii aveva finanziato il venti per cento del costo della spedizione. Vera capitale del complesso economico pan-Pacifico, le Hawaii investivano moltissimo nello spazio. I loro rappresentanti davano un'atmosfera di allegria alla maggior parte delle cerimonie.
Carl aspettò che ci fosse una pausa nella conversazione, attirò lo sguardo di Virginia e la condusse con sé in una nicchia. Le descrisse rapidamente le lamentele di Jeffers. — Pensi che possa aver ragione? — le chiese.
— Vuoi dire, se gli ortho cercheranno di rastrellare tutto quello che possono? — Ebbe un sorriso d'intesa. — Ma certo. Questa non è un'opera di carità.
— Io non sono venuto solo per fare soldi. — Carl si tirò indietro incrociando le braccia. Sapeva che probabilmente si sarebbe mostrato più scaltro se fosse apparso più urbano, perfino un po' cinico, o per lo meno riteneva che fosse questo ad attirare la maggior parte delle donne sulla Terra. Ma in qualche modo il suo vero io finiva sempre per emergere.
— Offeso? — Virginia sorrise, le sue labbra piene si chiusero rivelando dei denti d'uno stupefacente splendore. — Non essere così austero. Perfino gli idealisti devono mangiare.
— Non hai firmato qualche piccolo accordo riservato sulla Terra?
Virginia corrugò la fronte. — Certo che no. Ascolta, ci saranno sempre delle voci secondo cui il tale o il tal altro hanno un contrattino extra per far filtrare fuori qualche scoperta. Chi lo sa, forse qualcuno trasmetterà qualcosa sulla Terra su raggio ristretto prima che noi torniamo, e troverà una bella mazzetta ad aspettarlo su un conto svedese.
— Non mi sorprenderebbe. Con quattrocento persone che faranno i turni di guardia nell'arco di settant'anni, ci saranno possibilità in abbondanza per imbrogliare.
Virginia agitò imbronciata il suo calice a bolla pieno di pina colada, con una cannuccia rosa. A Carl i festosi colori del salone parevano fuori posto dal momento che il nudo acciaio e il vuoto si trovavano soltanto a pochi metri da là. Era probabile che gli psicologi avessero pensato che chiazze tropicali di ambra, verde e oro potessero strappare la gente dalla cruda realtà, ma con lui non funzionava.
Virginia disse lentamente: — C'è un vecchio detto: Le persone normali scelgono i propri amici, ma un genio sceglie i propri nemici.
Carl fece una smorfia: — Cosa vuoi dire con questo?
— Sono gli ortho a dirigere questa spedizione, concesso. Se noi creiamo un attrito, essi potranno fare molto di più per renderci difficile la vita.
Carl ci rifletté un momento: — D'accordo. Concesso. Questo, comunque, non cambia i miei scopi.
Virginia annuì. — Ah, sì. La Terza Fase.
Carl si rendeva conto del fatto che, per lei, le sue opinioni erano troppo semplicistiche, un'approvazione troppo pedissequa della dottrina delle colonie della Terra Vicina. Tuttavia, onestamente, non riusciva a vedere come lei non potesse essere d'accordo.
Un secolo di lotte aveva finalmente dato all'umanità la tecnologia per sfruttare il sistema solare: mezzi di trasporto efficienti, apparecchiature meccanizzate per l'assemblaggio e l'estrazione mineraria, biosfere artificiali integrate di qualunque dimensione necessaria.
Adesso, argomentavano i coloni, era il momento di spostarsi fuori.
I satelliti senza equipaggio erano stati il primo livello dello sfruttamento dello spazio: Altopiano Uno. Molto indietro nel tempo, negli anni intorno al 1980, la gente aveva fatto miliardi con i satelliti per le comunicazioni. Avevano salvato molte vite umane con i satelliti metereologici.
Le fabbriche spaziali automatiche che utilizzavano i materiali luaari erano state il successivo gradino: Altopiano Due.
Ognuno degli altopiani era stato scalato dai pochi che ne avevano capito i vantaggi molto in anticipo e avevano corso enormi rischi a causa di quella visione. Altopiano Due era quasi fallito, prima di trasformarsi in un rampante miracolo economico, contribuendo a districare il mondo dal Secolo dell'Inferno.
Ogni ascesa pareva provocare un'apprensione terrocentrica: prima, che l'investimento potesse fallire; poi, che la culla dell'umanità venisse relegata a un ruolo di pura periferia. Ciò era aggravato dagli interminabili problemi sociali della Terra: malesseri che le colonie spaziali, com'erano progettate, non condividevano. Le Norme sulla Nascita e l'Infanzia, le quali imponevano che ogni bambino nato nello spazio dovesse passare almeno cinque anni a terra, erano un'espressione legale delle paure latenti.
Altopiano Tre era un sogno, un problema politico, un punctum dolens economico, un atto di fede: tutto contemporaneamente. Ma adesso le grandi colonie rotanti erano possibili. Adesso i coloni consideravano le Norme sulla Nascita e sull'Infanzia come simboli dei lacci di un grembiule che ormai, da tempo, stava loro piccolo. Volevano sfruttare gli asteroidi rocciosi e la Luna, ma avevano anche bisogno delle sostanze volatili per i propellenti e la biosfera. Avevano perfino finanziato una minuscola miniera di ghiaccio su Ganimede, ma non aveva funzionato molto bene.
Alcuni vedevano nelle comete la chiave, e credevano ferventemente che gli esseri umani potessero sparpagliarsi per il sistema solare come i semi d'un soffione, se soltanto avessero imparato a intruppare quelle antichissime palle di neve entro orbite dove potessero venir utilizzate.
Virginia si abbandonò languidamente sulla sua sedia a rete. — Non puoi aspettarti che Mamma Terra molli l'osso facilmente.
— Hanno tutto da guadagnare. Gli porteremo asteroidi a iosa, materiali grezzi, gli forniremo nuovi mercati…
Virgina lo fermò sollevando una mano. — Per favore, conosco a memoria la litania. — Un'espressione divertita di finta pazienza a lungo sopportata le passò fugacemente sul volto, disarmandolo all'istante. Forse non era intesa in quel modo, ma con un singolo gesto lei riusciva a farlo apparire, agli occhi di se stesso, goffo, lento di comprendonio, troppo ovvio nei suoi discorsi. E, forse, lo sono davvero. Ho vissuto nello spazio più della metà della mia vita da adulto.
— Soltanto perché ti è familiare, non significa che sia sbagliata.
— Carl, pensi davvero che estrarre sostanze volatili dalle comete possa portare il millennio?
— Dove altrimenti, possiamo trovare fluidi a basso costo? — Per lui, quello era l'asso nella manica, un freddo fatto economico. Proprio agli inizi del sistema solare, quel giovane sole caldo aveva soffiato via la maggior parte degli elementi leggeri verso l'esterno, lontano dalle zone interne. Soltanto la Terra aveva conservato abbastanza elementi volatili da rivestire il suo mantello roccioso di una sottile pellicola d'aria e d'acqua. Quando gli esseri umani si erano avventurati nello spazio per sfruttare le risorse che vi si trovavano, gli asteroidi, la Luna, Marte, avevano dovuto trasportare i propri fluidi dalla Terra.
— Sicuro — disse Virginia. — Prendi il ghiaccio dalle comete! Fra ottant'anni saremo di ritorno, gloria agli eroi, ai conquistatori! Ma per allora qualcuno potrebbe aver scoperto dei laghi ghiacciati nelle viscere della nostra Luna. Oppure aver trovato un sistema economico per intaccare i crio-asteroidi fuori dalle lune gioviane… chissà?
Carl la fissò stupefatto. — È pazzesco! Non c'è nessun modo di affrontare il costo per calarsi nel pozzo gravitazionale di Giove, soltanto per recuperare acqua e ghiaccio. Il progetto Giove lo sta dimostrando.
Lo sguardo di lei ebbe un guizzo. — E allora? È forse più facile dare la caccia alle comete?
I suoi occhi scuri lo stuzzicavano, Carl lo sapeva, ma non poteva desistere.
— Vale la pena di provare, Virginia. Nessuno ha ancora trovato il modo di guidare le comete, a meno che noi non riusciamo a far funzionare il sistema della dispersione dei gas verso l'esterno. Nessuno troverà i volatili sulla Luna o su Venere perché sono stati prosciugati. Non è possibile esplorare gli asteroidi ed estrarre i minerali soltanto con l'aiuto dei mech, perché trovare i metalli è ancora un'arte, non una scienza. Comete inaridite come Encke non possono venire intruppate proprio perché non c'è alcun modo di usare con esse, per guidarle, la dispersione dei gas verso l'esterno. Così…
— Mi arrendo, mi arrendo! — Virginia sollevò in alto entrambe le mani.
Carl sbatté le palpebre. Oh, per l'inferno! pensò. Perché mi lascio sempre trascinare?
Una profonda voce maschile disse, da dietro le spalle di Carl: — Non accettare così in fretta la sconfitta, Virginia. Prima chiedi i rinforzi.
Carl si girò di scatto mentre Saul Lintz prendeva posto su una morbida poltrona verde, a rete, lì accanto, e infilò il suo bicchiere dentro un incavo a pressione sul loro tavolo. Era magro e stagionato. I suoi movimenti della bassa gravità misurati e decisi.
— Sei arrivato troppo tardi — replicò Carl, cercando qualcosa di sagace da dire, per redimersi. — Ho già ammesso che sono noioso.
— Allora il mio aiuto è inutile. — Saul ridacchiò mentre lo diceva, ma Carl avvertì un fugace sussulto d'irritazione.
— Stavo dicendo che diverremo tutti ricchi dopo questa spedizione, se avremo pazienza — riprese Carl, misurando le parole. — E dovremmo lasciarci la politica alle spalle.
Saul annuì. Bevette una lunga sorsata. — Ammirevoli sentimenti.
— Ma noi dobbiamo farlo. Il nucleo di Halley è troppo piccolo per quel genere di…
— Infila la moneta per la Conferenza numero Dodici — esclamò Virginia in tono allegro.
— Be', è vero. — Carl non sapeva come prenderla, non gli piaceva il modo in cui la sua attenzione si era spostata su Saul Lintz nel momento in cui si era unito a loro. Si era mezza girata sulla sua sedia, quasi di faccia a Saul, e accennò appena a guardare Carl quando lui ebbe finito. — E qualunque accenno che qualcuno ne trarrà un profitto maggiore rispetto al resto di noi… be', finirà per causare guai.
Saul sollevò un sopracciglio, interrogativo. Pareva molto esperto nel fare un commento su quello che la gente diceva con un gesto minimo o una scrollata di spalle, un'economia di espressione che Carl gli invidiava.
— Si riferisce ai pettegolezzi del sottoponte — gli spiegò Virginia. — Il fatto che… sì… i non-percell occupino tutti i posti importanti.
— Non-percell come me?
— Adesso che lo dici — annuì Carl.
— Anzianità. Dopotutto, nessuno di voi geneticamente preselezionati ha più di quarant'anni.
— Sei sicuro che non ci sia altro? — Carl si protese in avanti, le mani intrecciate, i gomiti sulle ginocchia.
L'uomo più anziano corrugò la fronte percependo qualcosa nella voce di Carl. — Naturalmente. Che altro pensi che ci possa essere?
— Non potrebbe darsi che la Terra non abbia voluto nessuno di noi là dove potevamo creare problemi?
Saul rimise giù con cura il suo bicchiere e si rilassò sullo schienale. — Gli esiliati sono troppo malconci per causare affanno al faraone — disse, come se stesse parlando fra sé.
A Carl quell'osservazione parve in qualche modo irritante. — Perché non ti limiti a rispondere alla mia domanda?
— Era una domanda? Mi pareva un'accusa.
La voce di Carl era stata più aspra di quanto fosse sua intenzione, ma che fosse dannato se adesso si sarebbe tirato indietro. — Considera l'Installazione del Sistema di Sopravvivenza, il mio gruppo. Il capo della nostra selezione è Suleiman Ould-Harrad, un…
— Ortho? — lo imbeccò Saul con calma.
— Be', sì, è quello in gergo.
— Lo è. Geneticamente ortodosso. — Saul si rilassò ancora di più contro lo schienale, accostando una mano all'altra a V. — Intendendo una mescolanza zigotica non manipolata uscita dal mare dei geni umani, niente di più. I geni non hanno opinioni.
Carl scosse la testa. Non gli piacevano i modi pedanti che gli scienziati adottavano sempre, come se tutto quel gergo li rendesse migliori, più intelligenti, più saggi. — Ascolta, il tuo lavoro con i gas, le direzioni di tutti i laboratori, tutto in mani… vostre.
— Tu supponi che terranno questi frutti per sé? Per vendere le loro competenze una volta tornati sulla Terra?
Virginia interloquì con voce pacata: — Non è un'ipotesi impossibile, Saul.
Saul parve sorpreso a sentirselo dire da lei. — Temo che per me lo sia. L'implicazione diretta è che ci possa essere una cospirazione da parte del contingente «normale»…
— Visto? — scattò Carl. — Chiama i suoi «normali», allora noi non lo siamo.
Saul replicò, rigido: — Non intendevo dirlo in quel senso.
— È così che è saltato fuori.
Virginia s'intromise: — Carl, non puoi saltare addosso ad ogni…
— Non lo sto facendo. Sto soltanto cercando di vedere se dove c'è fumo, c'è arrosto. — Si sentiva caldo. Buttò giù il suo drink.
Saul fece una pausa, passandosi pensosamente la lingua sul labbro inferiore. — Lascia che cominci daccapo. Carl, se tu sapessi qualcosa su di me, capiresti che non vi sono ostile. Esattamente il contrario, in realtà. — Fissò Carl con sguardo fermo. — Suppongo che finiresti per scoprirlo comunque, presto o tardi… Io ho lavorato per anni insieme a Simon Percell.
Carl lo guardò stordito. Virginia rimase a bocca aperta, e poi disse: — Lo hai fatto? Avevo sentito delle voci, ma… non ci credevo.
— Soltanto come specializzazione postlaurea. — Saul scrollò le spalle. — Il nostro ultimo progetto comune studiava le deviazioni nei livelli di attivazione del lupus erythematosus. Ricorderete che quella è stata una della malattie principali dalla quale Percell vi ha liberato. Quell'orrenda affezione inguaribile che attaccava la pelle, i tessuti connettivi, la milza e i reni.
Virginia annuì. — Mia madre è morta per causa sua.
— Sì — annuì Saul. — E anche tua nonna.
Virginia contrasse la labbra per la sorpresa. Saul scrollò le spalle. — Mi ricordo il tuo caso. Simon effettuò le indispensabili alterazioni del DNA di tua madre, mentre io imparavo le tecniche per la prima volta.
Virginia si sporse in avanti. — Hai…
— … fatto il lavoro vero e proprio? Onestamente non riesco a ricordarmelo. Ho svolto i compiti di assistente per molte tecniche di sartoria genetica, alcune sperimentali, altre abbastanza dirette.
— Allora tu… potresti… essere…
Saul sbatté gli occhi, rilassandosi sullo schienale, evitando il suo sguardo estatico. — A quell'epoca era ormai un compito puramente meccanico. Assai poca ricerca, al di fuori della mai parte. Ho compiuto studi su come le cellule risultanti reagivano alle incursioni chimiche che, per il lupus normale, causavano un insorgere spontaneo della malattia.
Virginia disse lentamente: — E la mia… no?
— È ovvio che tu sei stata uno dei nostri successi. Credo proprio che tu non abbia nessuna traccia di lupus.
Virginia scosse la testa. — Per merito tuo.
— No. Di Simon Percell. Io ero andato da lui soltanto per imparare le sue tecniche. Fu durante quei pochi anni, quando godette dell'appoggio più completo, quando tutte le cose erano possibili. O così pensavamo.
Carl disse: — Comunque… non sapevo che tu avessi lavorato con Percell. — Si sentiva addolorato. Era probabile che Saul fosse stato presente quando i geni di sua madre erano stati delicatamente risistemati, liberati da quella microscopica costellazione molecolare che trasmetteva la leucemia. Poi, gli stregoni della genetica avevano aggiunto preziosi frammenti di DNA per dargli quel bagaglio di miglioramenti fisici che adesso contrassegnavano ogni percell. Per lui, Carl, quella piccola, coraggiosa banda d'ingegneri genetici era leggendaria. Non ne aveva mai incontrato uno prima di allora.
Saul incrociò le gambe, si lisciò i calzoni, visibilmente a disagio. Carl si rese conto che quell'uomo doveva aver avuto spesso incontri come questo, ed era attento alle emozioni represse che potevano esplodere da qualsiasi percell.
— Mi… mi dispiace per quello che ho detto — mormorò.
Saul annuì in silenzio. Anche lui tratteneva i suoi sentimenti dietro la diga delle sue labbra serrate.
Gli occhi di Virginia traboccavano. — Tu… potresti essere…
Carl vide che avrebbe voluto dire Anche tu sei mio padre, ma non riusciva a trovare nessun modo per esprimere la complessa combinazione di emozioni che provava. Saul aveva contribuito a dare la vita a migliaia di bambini che sarebbero stati menomati, uccisi, storpiati. Quegli anni non potevano venir dimenticati, salvo che dalla ragliante, sospettosa maggioranza della Terra colma di odio.
Quella stessa gente che aveva ucciso Percell, come se avessero personalmente premuto la canna del revolver calibro 32 contro la sua tempia. Era stato lo stesso Simon Percell a schiacciare il grilletto spinto a una crisi depressiva a causa di quello che adesso risultava, con tutta ovvietà, un errore inevitabile.
Un errore nella modificazione renale ereditaria aveva ucciso un intero stock di bambini programmati. Cosa ancora peggiore, essi non erano morti fino all'età di tre anni, dopo che il male li aveva colpiti all'improvviso.
La vista di tanti bambini che si torcevano nell'agonia, la pelle ingiallita e raggrinzita, le funzioni dei reni e del fegato improvvisamente cessate, era stata una tortura. I bigotti dei mezzi di comunicazione avevano diffuso quelle immagini in tutto il globo. Il crescente coro del pubblico contro di lui, la minaccia di venir legalmente perseguito, e gli improvvisi tagli dei finanziamenti destinati alla sua ricerca, tutto questo era stato troppo per un uomo che imponeva a se stesso gli standard più alti. Carl si riscosse. Era ancora così facile ridestare i ricordi. Sua madre che moriva miserevolmente. Gli anni di attesa per vedere se anche lui avrebbe mostrato i sintomi. La liberazione finale, quando aveva saputo di essere a posto e che gli sarebbe stato possibile andare nello spazio con una fedina genetica pulita. Quei ricordi lasciavano ancora in lui un segno profondo.
— Io… senti, lascia che ti offra un altro drink — disse Carl, con voce esitante.
— Ma sicuro — annuì Saul con un sorriso incerto.
— Forse una partitina a scacchi più tardi?
— Certamente! — esclamò Saul con entusiasmo. — Questa volta, lotta senza quartiere. Difenderò l'onore della gente normale. — Tutti scoppiarono a ridere. Poi Saul sternuti.
Sia Carl che Virginia sussultarono leggermente. Sorrisero tutti. La tensione era sfumata.
— Oh, adesso — disse Saul, in tono cordiale, mettendo via il fazzoletto, — questa è una delle modifiche di Percell della quale accetto il merito. L'aver inserito a bella posta una soppressione della reazione istaminica. A me non serve a niente, ma voi gente non soffrite come me di fastidiosi raffreddori. Vi invidierò tutte le volte che Akio Matsudo libererà uno dei suoi dannati virus sfida!
Ma molti anni più tardi Carl si sarebbe ricordato molto bene di quella convulsa e sorprendente eruzione, la prima, ma certamente non l'ultima volta che aveva sentito l'esplosivo sternuto di Saul.
Flash; WorldNet4: il Comitato Olimpico Internazionale, durante l'odierno incontro a Tokyo, ha ceduto alla pressione della Lega dell'Arco del Sole e ha votato l'esclusione delle persone geneticamente mutate, i cosiddetti 'percell', dalla partecipazione ai Giochi del 2064 a Lagos.
I membri del Blocco Progressista sono state le uniche nazioni a opporsi col loro voto alla proposta. I capi del Blocco, Danimarca, Hawaii, Indonesia, Texas e l'Unione del Vicino Oriente hanno dato gran rilievo alle loro obiezioni ritirandosi dalla competizione, che adesso promette di essere la più controversa dai discussi Giochi del 2036.
Il presidente del CIO, Asoka Barawayandre, ha dichiarato: — La decisione di questi particolari territori non rappresenta una grossa sorpresa. Hanno accolto un maggior numero di 'percell' come immigrati da paesi che non danno più il benvenuto a quella razza. Le loro squadre nazionali erano già compromesse da questi discutibili elementi.
I membri astenuti comprendevano la Grande Russia, gli Stati Uniti d'America, il Regno del Galles, la Georgia Sovietica e la Federazione della Diaspora.
Gli osservatori ritengono che sarà presentato ricorso alla Corte Mondiale.
Saul finì di leggere il tabulato e sollevò lo sguardo sull'uomo che gliel'aveva cacciato sotto il naso.
— Sprechi carta per stampare questa roba, Joao? Avresti potuto trasmetterlo via fax-veloce con altrettanta facilità sulla mia consolle.
Joao Quiverian era un uomo magro dal volto olivastro, con un indomabile ciuffo di capelli neri e un naso romano, aquilino, che pareva quasi una decorazione. L'uomo non si lasciò sviare dall'ironia bonaria di Saul. Insistette per avere una risposta.
— Tu avresti ignorato un fax-veloce. Voglio sapere subito cosa ne pensi di questo voto, Saul.
— Che importanza ha la mia opinione? — Saul scrollò le spalle. — Mi delude che la Diaspora si sia soltanto astenuta. Una federazione mondiale di popoli profughi dovrebbe prendere posizione su una cosa del genere. Ma stanno cercando con tanta foga di farsi accettare, che la cosa in realtà non mi sorprende. — Gli restituì il foglio. — Per il resto, direi che il mondo non si smentisce.
Era ovvio che la risposta non soddisfaceva Joao, il quale era stato nominato capo planetologo soltanto tre settimane prima, quando un incidente anomalo aveva ucciso il professor Lehman. Saul sapeva che quello doveva comunque essere un periodo di frustrazione per il brasiliano. Si trovava là, a poche dozzine di chilometri da una cometa davvero splendida, e gli ordini stabilivano che la scienza doveva lasciare il passo agli ingegneri e ai tecnici ancora per parecchie settimane.
Quiverian doveva affidarsi ad un aiuto part-time da parte di Saul e di pochi altri “cometologi dilettanti” che erano stati addestrati in quel campo come seconda specializzazione. Senza alcun dubbio aspettava con ansia il risveglio di alcuni dei dormienti delle chiatte per poter discutere di arcane questioni cometarie con suoi pari completamente accreditati.
Di solito Saul andava d'accordo con quell'uomo, fintanto che discutevano di questioni basilari concernenti l'antico sistema solare. Questa volta, però, Quiverian era di umore politico.
— Suvvia, Saul. Questa notizia dalla Terra è importante, una pietra miliare! Mi aspettavo di più da te. Una protesta indignata. Forse la dichiarazione che i percell sono esseri umani veri e propri.
Saul si trovava là, nel laboratorio di planetologia, per aiutare ad analizzare i delicati nuclei di ghiaccio che gli spaziali stavano riportando a bordo della Halley: gli era stato affidato quell'importante incarico di rincalzo per la sua esperienza di laboratorio. Non era venuto là per farsi punzecchiare da Quiverian. Arcuò il piede sinistro sotto il supporto della sedia. — Suvvia, Joao, tu volevi che esaminassi con te alcune inclusioni organiche. Diamo un'occhiata al campione.
Tese la mano per farsi passare il sottile tubo sigillato lungo due metri che il brasiliano aveva appoggiato su banco alle proprie spalle.
Ma Quiverian insisteva. — Nessuno dice che questi poveri mutanti siano inumani. Soltanto che sono stati un orribile errore. Non puoi biasimare i popoli della Terra, con le nazioni dell'Arco del Sole alla loro testa, perché esigono dei controlli.
— Capisco — annuì Saul. — Controlli come quello di bandire i percell dalle Olimpiadi. Quale sarà la prossima mossa, Joao? Gabinetti separati? Abbeveratoi speciali? Ghetti?
Quiveran sorrise. — Oh, Saul. Non è questione soltanto di quei pochi record di atletica che i percell hanno infranto, esibizioni innaturali che hanno destato l'ira di milioni di persone. Quella era soltanto l'ultima goccia. Le tue creazioni…
— Non le mie creazioni. — Saul scosse insistentemente la testa.
Quiveran sollevò una mano. — D'accordo, le creazioni di Simon Percell, i suoi mostri, questa gente sono il ricordo vivente dell'arroganza della scienza settentrionale del ventesimo secolo, che ha quasi distrutto il mondo!
Saul sospirò. — Suvvia, Joao. Non puoi incolpare la scienza e il vecchio Nord di ogni cosa. È vero, hanno usato più della loro porzione di risorse, ma tu parli come se le nazioni dell'Arco non avessero nessuna colpa per il Secolo dell'Inferno. Dopo tutto, chi è stato ad abbattere le foreste tropicali malgrado tutti gli ammonimenti? Chi ha fatto aumentare il livello di anidride carbonica…
Quiveran lo interruppe, rosso in viso: — Credi davvero che io non lo sappia, questo, Saul? Guarda la mia terra, il Brasile. Soltanto adesso, dopo una lotta impari, cominciamo a riprenderci da un olocausto ambientale che ha spazzato via un terzo delle specie della Terra… tutte sacrificate sull'altare della cupidigia più incosciente.
— Molto bene. Allora la colpa è ripartita…
— Sì, certo. Ma la teconologia stessa era in parte in errore! Noi siamo semplicemente andati avanti quasi alla cieca con le migliori intenzioni. — Quiverian inarcò sardonicamente le sopracciglia. — Facendo il bene a detrimento della stessa natura!
Era ovvio che quell'uomo ci credeva, appassionatamente. Saul trovava ironica la cosa. Prima della fine del secolo, le nazioni del vecchio Nord avevano predicato la difesa dell'ambiente a un Terzo Mondo che non prestava nessun orecchio — dopo aver già trebbiato la maggior parte della ricchezza accesibile del pianeta. Adesso il pendolo aveva girato dall'altra parte. I popoli equatoriali dell'Arco del Sole parevano ossessionati da una mistica passione per la natura che avrebbe stupefatto i loro nonni avidi di terra.
Perché le conversioni devono arrivare sempre così in ritardo? Perché mai la gente si scusa con i cadaveri?
Gli venne risparmiata una risposta quando una voce dal marcatissimo accento si levò da dietro il banco sul quale erano ammucchiati ì campioni del nucleo.
— Ehi? Mi sono perso qualcosa? Esattamente… di quali crimini è stata responsabile la scienza dei bene intenzionati? Vi dirò quale! Forse il nostro amico brasiliano si riferisce a quei medici stranieri che vennero per ridurre la mortalità infantile in paesi come il suo. Boom! Sovrappopolazione. Per i nostri moderni archisti quello dev'essere stato l'orrore peggiore di tutti!
Il volto di Quiverian s'imporporò ancora di più. — Malenkov, russo grassone e ipocrita che non sei altro! Esci fuori di lì e vieni a discutere faccia a faccia, da uomo. Non devi nasconderti: non sono un cecchino ucraino!
— Siano ringraziati i santi almeno per questo. — Nicholas Malenkov girò intorno al banco impugnando un blocco di appunti, sorridendo, un gigante che si muoveva con la grazia di un lottatore, perfino nelle scomode maree di Coriolis della ruota di gravità.
Salvato pensò Saul con viva gratitudine e colse l'occasione per cambiare argomento. — Nicholas, ho sentito dire che Cruz e il gruppo dei tecnici hanno i risultati preliminari degli esperimenti con i pannelli a gas. C'eri anche tu?
Il massiccio slavo sogghignò. — Volevano avere intorno almeno uno di noi amanti delle palle di neve, quando li hanno provati. Tu, Joao e Otis eravate occupati. Così ci sono andato io.
Insieme a Saul e allo spaziale senza gambe, Otis Sergeov, il dottor Malenkov possedeva una seconda qualifica come cometologo… malgrado le frequenti proteste costernate da parte di Joao Quiverian. Il grosso russo allargò le braccia. — Amici miei, i risultati sono incoraggianti. Già con pochissimi pannelli installati abbiamo alterato l'orbita della cometa di Halley! L'effetto è piccolo, ma abbiamo dimostrato che il controllo della dispersione dei gas ci può permettere di compiere dei mutamenti d'orbita!
Saul annuì. — Naturalmente il metodo funziona soltanto in prossimità del perielio, nelle vicinanze del Sole.
— È vero. Questa serie di test ha mostrato soltanto un piccolo effetto, in diminuzione. Ben presto la sublimazione superficiale cesserà del tutto. Il progetto dei pannelli verrà sospeso per settant'anni. Ma la prossima volta — Malenkov sorrise, — quando ci tufferemo di nuovo verso l'interno, verso il Caldo…
Il Caldo. Era la prima volta che Saul sentiva qualcuno riferirsi al Sole il quel modo.
— … allora questo lavoro dimostrerà la sua utilità. Con i grossi propulsori a razzo a sgomitare all'afelio, e i pannelli di controllo dell'evaporazione che funzionano al perielio, avremo i mezzi per guidare questa antica palla di ghiaccio quasi su tutte le orbite che più ci piaceranno!
Quiverian corrugò la fronte, cupo, e scosse la testa. — Supponiamo che tutte queste interferenze funzionino. Esattamente, cosa faresti, dottore, cosa faresti tu, con… con una cometa intrappolata?
Oh, no. Saul aveva capito a che cosa stava mirando quella conversazione.
— Ma chi se ne frega? — esclamò Malenkov, in tono entusiasta. — Le idee sono rimbalzate qua e là per più di un secolo, su ciò che la gente avrebbe potuto fare con le comete.
— Idee eccentriche, vuoi dire.
Malenkov scrollò le spalle. — Il nostro attuale progetto consiste nel realizzare una grande svolta non appena superato Giove, fra settant'anni, usando al gravità del grande pianeta per intrappolare Halley in un'orbita assai più accessibile. Alla fine, questa palla di ghiaccio potrà fornire delle sostanze volatili a basso prezzo e aiutare il popolo della TerraVicina a creare il suo Terzo Altopiano nello spazio.
Quiveran scosse al testa. — Propaganda. L'ho sentita fin troppe volte.
Malenkov continuò imperturbato: — Le possibilità sono infinite. Una volta che avremo dimostrato la possibilità delle capsule del sonno a lunga durata, le comete potranno costituire degli splendidi transatlantici spaziali, per percorrere il sistema solare in assoluta sicurezza.
Saul vide che un piccolo pubblico aveva cominciato a radunarsi accanto alla porta aperta del laboratorio, attirata dai vicini uffici. Malenkov si accorse di loro e il suo entusiasmo crebbe ancora di più.
— Forse potremmo trovare delle sostanze chimiche ancora più utili, come quelle che Joao e il capitano Cruz hanno trovato su Encke. Diamine, potrebbe perfino esserci qualcosa che vale la pena prendere in considerazione nell'idea di utilizzare le comete per terraformare Venere o Marte! Alla fine, potrebbero essere resi adatti alla colonizzazione.
— Ah! — sbuffò Quiverian.
— Signori — si affrettò a intervenire Saul. — Suggerisco di…
Ma Quiverian lo ignorò, scuotendo un sottile tubo per campioni rivestito di plastica in direzione di Malenkov. — Questo è un atteggiamento che mi riesce insopportabile. L'idea originaria era di studiare le comete, le più antiche fra le opere di Dio. Ma adesso, la conoscenza soltanto per la conoscenza non sembra importare più. Adesso, non volete soltanto scremare a fondo questa cometa, ma anche modificare avventatamente interi pianeti, ancora prima che si riesca a capirli!
Malenkov ammiccò più volte, colto di sorpresa dalla collera di Quiverian. Saul sapeva che Nicholas aveva poche opinioni politiche. Era una delle persone più brillanti che Saul avesse mai incontrato, ma quell'uomo non pareva mai voler capire che per certa gente un disaccordo non era una partita a scacchi, né uno sport per gentiluomini; sotto questo aspetto era un russo assai poco russo.
Saul tentò ancora una volta di farli smettere. — Joao! Nick stava soltanto parlando di possibiltà. Fra trent'anni la Terra avrà avuto il tempo per decidere…
Ma l'infuriato brasiliano non l'ascoltava più. La mano sinistra di Quiverian stringeva la lunga carota col suo contenitore, e la sua mano destra si strinse formando un pugno. — Siamo appena emersi dal più terribile secolo della storia umana… il peggiore del nostro mondo sin dall'olocausto del pleistocene… e adesso ci sono degli idioti che vogliono mandare delle gigantesche palle di ghiaccio ad abbattersi sui pianeti?
— Non ho mai detto…
Quiveran avanzò minaccioso verso Malenkov. — Mi dica, dottore, quanto tempo ci vorrà prima che il bersaglio non sia Marte, o Venere, ma la Terra?
Le sue braccia tagliarono l'aria per dare enfasi alla frase, cosa assai poco saggia da farsi alla debole pseudogravità. Quiverian agitò le braccia per recuperare l'equilibrio e il lungo tubo andò a infrangersi sul ripiano del bancone, spezzandosi con uno schiocco assordante. Ghiaccio scuro, bruno, solcato da vene bianche e nere, si riversò sulla superficie.
— Idiota! Goyishe kopf! — Saul agguantò il brasiliano prima che la sua testa colpisse la grossa struttura del microscopio. Si girò in fretta e indicò la gente che si accalcava alla porta.
— Tutti voi, fuori! Chiudete quel boccaporto e attivate il sigillo dell'aria. Nick, Joao, andate a prendere le maschere!
Poi spinse Quiverian verso l'armadio con le attrezzature di emergenza, alla parete. Muovendosi rapidamente, afferrò un contenitore di plastica per il riciclaggio e lasciò cadere il suo fascio di tabulati arrotolati sul pavimento. Quando Malenkov tornò, allacciandosi una piccola maschera sul viso e porgendone un'altra, Saul stava spazzando via dal pavimento i frammenti di ghiaccio che stavano rapidamente fondendo, versandoli dentro la vasca.
La voce del russo suonava ovattata: — La tua maschera, Saul! Mettitela.
Saul scosse la testa e continuò a lavorare. Aveva una fiducia totale nei piccoli simbionti presenti nel suo sangue, nella loro abilità per proteggerlo dai cianuri e da altri veleni cometari. Sarebbe stato meglio, sì, che lo facessero, altrimenti la colonia non avrebbe durato a lungo all'interno di Halley. In quel momento lo preoccupava di più impedire la contaminazione degli altri campioni che il pericolo che lui stesso stava correndo.
I frammenti sparpagliati intorno parevano esalare un aroma gradevole… qualcosa che vagamente rievocava in lui i boschi di mandorli sul lago Kinneret, in Galilea, durante la primavera.
— La mia carota! — urlò Quiverian, quando fu di ritorno, armeggiando con la propria maschera. — Cosa stai facendo, ebreo impiccione? Quello era il campione più profondo che avevamo raccolto!
Saul spazzò via gli ultimi frammenti, buttò anche la spugna nella vasca, e ne chiuse ermeticamente il coperchio. C'erano quasi un trilione di tonnellate di ghiaccio là fuori, dentro Halley, pronte a venir studiate. Quella perdita non era una tragedia scientifica.
— Oh, ma non è vero, Joao — disse Malenkov, rassicurante. Il massiccio russo esaminò i tubi autoraffreddanti sul bancone. — Diamine, soltanto un'ora fa il mio compatriota, Otis Sergeov, è tornato con una nuova carota, presa a un chilometro di profondità dentro Halley. Vediamo se mi riesce di trovarla qui in mezzo.
— Sergeov! — imprecò Quiverian. — Quel mutante percell fanatico? Oh, numi! C'erano tanti bravi planetologi che avrebbero potuto venire con noi! Perché, oh, perché mi hanno accollato simili assistenti: un colossale russo sciocco, un percell senza gambe, e uno stregone genetico!
Malenkov scrollò le spalle e rispose amabilmente come se fosse la più ragionevole domanda del mondo: — Immagino che tu debba sopportarci perché quegli altri tizi non sono venuti, Joao.
Saul chiuse gli occhi, e se li coprì con le mani.
— Già! — Quiverian si lanciò verso la porta ignorando il segnale giallo di allarme per l'aria, e si aprì la strada tra la folla lì fuori.
— Ma cos'è mai che lo rode? — chiese Malenkov a Saul, dopo che la porta si fu nuovamente chiusa con un sibilo. Corrugò la fronte. — Saul? Cosa ti succede? Stai male?
Saul finalmente si scoprì gli occhi. Erano pieni di lacrime.
— Saul? Amico mio, io…
Saul picchiò sulla consolle, lì al suo fianco, e scoppiò in una fragorosa risata, incapace di contenersi ancora.
— Joao ha ragione — dichiarò, asciugandosi gli occhi. — Decisamente, la cometa di Halley merita di meglio. Ma dovrà sopportarci.
Saul non rimase sorpreso, un po' più tardi, quando arrivò un ufficiale a indagare sul ghiaccio versato. Ma neppure sbatté gli occhi quando fece il suo ingresso il tenente colonnello Suleiman Ould-Harrad, con un blocco d'appunti in una mano e un rilevatore di tracce di gas nell'aria nell'altra. Il mauritano dalla pelle scura era l'ultima persona che Saul si sarebbe aspettato.
La specialità di Ould-Harrad erano i grandi, enormi sistemi di sopravvivenza, del tipo che stavano installando su Halley proprio adesso. Ma doveva essere stato l'unico ufficiale disponibile al momento per indagare sull'incidente.
Tutti erano a conoscenza del motivo per cui Ould-Harrad partecipava a quella missione. Il giovane ufficiale aveva avuto degli amici nella Congiura del Temple Mount, e soltanto i legami che aveva avuto con la famiglia reale centroafricana gli avevano consentito di cavarsela con l'esilio invece che con la prigionia per il crimine di associazione sovversiva.
Durante gli ultimi tre anni il mauritano non aveva detto più di dieci parole a Saul. Quella cortesia era stata ricambiata.
La Terra è molto lontana alle tue spalle ricordò Saul a se stesso. E niente può cambiare il passato. Si fece da parte. — Entri, colonnello. Ho già dettato un rapporto sull'incidente. Proceda pure e dia un'occhiata intorno, mentre io le preparo una fotocopia.
Ould-Harrad pareva a disagio mentre seguiva Saul dentro il laboratorio, le sue ampie narici si allargarono nel percepire il debole odore dei gas cometari liberati. I suoi occhi continuavano a guizzare sugli indicatori dello strumento. La sua cupa espressione pareva ben poco rallegrata dall'ovvia buona salute di Saul.
— Dottor Lintz, non avrebbe dovuto rimanere qui dopo che era stato dato l'allarme.
Saul batte la mano sullo schermo d'un estensore. — Sì, sì, lo so. Ma qualcuno doveva pur rimanere a pulire. Comunque, tanto valeva che io fossi la prima cavia. È giusto che sia io ad offrire ai cianuti che abbiamo nel sangue la loro prima prova sul campo, no?
La consolle sputò fuori una scheda di dati. Saul la contrassegnò col proprio nome in codice. Sorrise a Ould-Harrad. — Se dovessi morire, tanto vale che tutti si arrampichino dentro le capsule ibernanti ad aspettare qualche secolo che ci raccolgano, perché questa spedizione sarebbe finita.
L'ufficiale annuì seccamente, accettando la logica. — Comunque ci sono norme… procedure concepite per la sicurezza e l'ordine collettivi.
Saul buttò all'ufficiale la scheda con i dati, ed ebbe una risata alquanto agra.
— Sicurezza e ordine, certo. Come le ricordo bene, queste parole. Il generale Lynchon non ha forse usato quest'identica frase quando le truppe dell'ONU sono penetrate fra le colline della Giudea?
Ould-Harrad scosse la testa. — È stata un'operazione basata sul consenso, dottar Lintz. Il governo di coalizione d'Israele-Inshallah le aveva invitate a intervenire.
Saul annuì. — Dopo che i leviti e i salawiti avevano assassinato abbastanza rappresentanti dell'opposizione per ottenere la maggioranza.
La voce dell'africano era bassa, come se temesse quell'argomento ma ne venisse attratto allo stesso modo di una falena verso la fiamma. — Il mondo era stanco di secoli di lotta in una regione che non aveva mai conosciuto la pace.
— E adesso è forse migliore? L'Alto Sacerdote di Gerusalemme governa un regno balcanizzato, con le sette che tendono agguati alle altre sette come mai vi era stato prima.
«E ha aiutato il pianeta? Dal Nilo all'Eufrate, Israele-Inshallah aveva piantato più alberi di quanti ne erano mai esistiti prima in tutta l'Africa a nord dell'equatore. L'ultima volta che ne ho avuto notizie, un terzo delle foreste erano scomparse… abbattute per erigere barricate.
La pelle di Ould-Harrad divenne ancora più scura della sua già abbondante sfumatura. Saul pensò di ritirarsi. È già stato punito.
Sì, ma abbastanza?
— Dottor Lintz, io…
— Sì?
Ould-Harrad scosse la testa. — Io non ho avuto nulla a che fare con il tentativo di far saltare in aria il Grande Tempio. È vero, avevo amici che facevano parte della Congiura, e come penitenza per quella mia associazione mi ritrovo a partecipare a questo viaggio nato sotto una cattiva stella, ma non ho mai voluto recar danno al sacro santuario di tre religioni. Le assicuro che avrei preferito strapparmi il…
— Oh, povero bastardo — lo interruppe Saul, provando una mezza pietà per quell'individuo e ridendo per soffocare i propri dolorosi ricordi. — Per dieci anni lei ha sentito ma non ascoltato, è stato punito, ma non ha capito. Quando, oh, quando gente come lei riuscirà mai a capire che i veri ebrei non volevano che quel dannato tempio venisse costruito, in primo luogo?
Il sensore dei gas penzolava da una mano di Ould-Harrad, come dimenticato. Il tenente colonnello lo fissava. — Qualche kibbutzim, qualche umanista laico si è opposto combattendo, lo so. Ma…
— Ma niente! — Saul si sporse in avanti. — La grande maggioranza degli ebrei in Isralele e dell'estero avevano votato contro, si erano dichiarati contrari, si erano opposti ad ogni passo. Ci è stato imposto da fanatici assassini e da un mondo ignorante fin troppo avido di pace.
Saul quasi sputò quella parola. — Pace! Non è stato sufficiente distruggere la mia nazione e la mia famiglia, colonnello Ould-Harrad. Hanno insediato dei preti che hanno addirittura la sfrontatezza di venirmi a dire come dovevo essere ebreo! Perfino Hitler non era arrivato a questo!
Nella debole spinta centrifuga della ruota gravitazionale, Ould-Harrad parve perdere la forza di reggersi in piedi. Affondò in un sedia a rete.
— Ma il capo del Nuovo Sinedrio fa parte de vostro clan sacerdotale dei Cohen. E l'Attendente Capo del Tempio è un levita… Il legato del Papa, gli altri cristiani e i musulmani devono rimanere in seconda posizione e dare la precedenza alla fede più antica!
Ould-Harrad scosse la testa: — I miei camerati obbiettarono a quella umiliazione, e alla rimozione della bellissima moschea che si ergeva dove avrebbe dovuto sorgere il tempio, ma non capisco di cosa avevano da lamentarsi gli ebrei. Due millenni di profezie non venivano forse esauditi?
Saul non rispose subito. Guardò sul lato opposto della stanza, dove la videoparete mostrava le cupole a forma di cipolla dell'antica Kiev. La luce del tramonto avvampava in tinte vivide attraverso le steppe, al di là delle mura della città. Nuove croci dorate sormontavano ancora una volta le punte dei campanili, indicando il ritorno della Grande Russia al suo mitico passato.
Dieci anni pensò. E sembra ancora impossibile riuscire a fare in modo che qualcuno capisca.
Forse, per spirito di carità, avrebbe dovuto fare un tentativo con quell'uomo. Ma come poteva qualcuno spiegare che il giudaismo era cambiato dopo duemila anni di esilio, da quando i romani avevano bruciato il tempio dei Maccabei, radendolo al suolo, trucidando i sacerdoti, e spargendo ai quattro venti quel popolo?
I sopravvissuti avevano vagato verso strani climi, adottando ideologie aliene. Gradualmente i contadini ebrei che avevano colonizzato le pianure polacche e russe erano stati spinti dai popoli giunti più tardi entro le anguste città, trasformandosi in una popolazione urbana. Le stirpi delle famiglie sacerdotali, i Cohen e i Levi, avevano perduto la loro influenza. Giacché, come potevano celebrare i loro riti senza un luogo centrale in cui compiere i sacrifici per quietare una terribile divinità?
La guida spirituale ricadeva sul rabbino, l'insegnante, un ruolo che non si ereditava, ma si imparava attraverso l'apprendimento e la saggezza.
Un ruolo descritto nei particolari da Gesù, se si deve dire la verità. Soltanto che lui aveva anche coloro che profetizzavano in suo nome. Anche lui era seguito dai sacerdoti.
Dopo cento anni di lotte e di successi, l'alleanza guidata da Israele aveva cominciato a sfilacciarsi durante la giovinezza di Saul. Il Secolo dell'Inferno aveva preteso il suo tributo perfino nella cintura che la gente chiamava «la Terra Verde». I profeti avevano cominciato a comparire agli angoli delle strade e i culti a proliferare.
Anche l'Islam aveva sofferto di cento scismi, e il cristianesimo era tartassato, diviso.
Poi, qualcuno aveva avuto un'idea brillante… una soluzione ovvia. E come tante soluzioni ovvie, era disastrosamente sbagliata.
La Diaspora ci ha cambiato pensò Saul. In esilio siamo diventati individualisti, un popolo di liberi, e non di sacrifici sui dorati altari. Piangevamo il tempio di Salomone. ma la sua distruzione ad opera del fuoco non era forse un segno che era giunto il momento di conoscere Dio in altre maniere?
Come avrebbe potuto capire Ould-Harrad che nessun ebreo moderno voleva che qualcuno interferisse con lui? Ognuno doveva arrivare a un proprio patto con Dio.
Ould-Harrad abbassò lo sguardo sulle proprie mani. — Quando i cospiratori hanno fatto saltare in aria la moschea di Al Aqsa per protestare, era nelle intenzioni che la colpa ricadesse sui Leviti, non i kibbutzim. Il piano… non avevano mai voluto che ci fosse un bagno di sangue…
Pareva incapace di continuare. Saul si rese conto che quell'uomo era ossessionato da un senso di colpa e anche, forse, dalla paura di non riuscire mai anche soltanto a capire il ruolo che aveva giocato.
Saul allontanò con un battito di palpebre un ricordo di fumo sopra le colline della Giudea. Scosse la testa, sapendo che non esisteva nessun modo in cui avrebbe potuto aiutare quell'uomo.
— Mi dispiace — cominciò a dire con voce sommessa. Poi si schiari la gola. — È tutto, colonnello? Se ha finito, ho alcuni esperimenti importanti in corso.
Il nero spaziale sollevò lo sguardo e annuì brevemente. — Riferirò che la situazione è sotto controllo.
Saul si era già avviato verso il suo microscopio quando sentì la porta sibilare alle sue spalle. Cercò di ritornare al lavoro che era stato interrotto, prima dalle insistenti domande di Joao Quiverian, e poi dall'addolorato Ould-Harrad, ma le sue mani parevano inchiodate sopra i comandi.
— Condizione ambientale, luci semi fioche — ordinò ad alta voce, e in risposta il laboratorio di oscurò.
Il lavoro, lo sapeva, era un modo per tener lontani i ricordi. — Campione AR 71B trattino 78s, sullo schermo dodici — disse rivolto al computer semisenziente e perennemente in ascolto del laboratorio. — Vediamo se quelle inclusioni sono davvero sospette, adesso, come stavo pensando prima che Joao appestasse questo posto.
L'ultima parte non era per il computer. E mentre si curvava sopra la oloproiezione per immergersi nei misteri, Saul scoprì che non gli dava affatto fastidio tutto quel lieve odore di ghiaccio e mandorle nell'aria.
Bussò titubante. Poi, quando non ricevette nessuna risposta ovattata, bussò con più forza. Questo causò un breve, querulo grugnito. Quando finalmente il pannello si aprì con un sibilo, Virginia entrò e si fermò appena oltre la soglia, mentre la porta tornava a chiudersi con un risucchio alle sue spalle.
Chiese, timidamente: — Ti si sono rotti dei campioni?
Pareva un buon inizio. Il pericolo, sempre che ci fosse stato, era passato da tempo prima che lei fosse venuta a saperlo. Saul aveva già lasciato il reparto di planetologia, dove il campione si era rotto, ed era sceso là nel suo laboratorio biologico. Ma l'ondata di preoccupazione che aveva percorso l'equipaggio l'aveva indotta infine a raccogliere il coraggio necessario per aggrapparsi a un pretesto.
— Uhmmm? — Saul era intento a studiare i suoi schermi, prendendo appunti con una calligrafia minuscola in un libretto con una matita di vecchio modello. Si meravigliò della sua eccentricità: la spedizione utilizzava marchiatori elettronici standardizzati e schede di registrazione. Saul doveva aver portato con sé un pacco di quaderni per appunti come parte del piccolo bagaglio personale concesso ad ognuno di loro e che non poteva superare il peso stabilito. Aveva sentito di gente che si era portata bottiglie di vino di annata, e caviale, ma non matite, per l'amor del cielo!
E guardate me pensò con tristezza. Ho usato la maggior parte del mio bagaglio per trascinarmi dietro hardware di computer che tutti sulla Terra hanno giudicato senza speranza, un vicolo cieco.
Non disse niente. Era meglio lasciarlo lavorare ancora per qualche istante, farlo riemergere dagli abissi. Camminò in mezzo a quell'intrico di trasparenze contorte, luccicanti provette, alambicchi, cavi aggrovigliati, un gorgogliare e uno scorrere di fluidi negli analizzatori microbiologici. Sono lieta di non essere un chimico. Gli elettroni raffreddati sono più facili da maneggiare.
— Pochi minuti ancora, Virginia, e sarò da te.
Saul neppure sollevò lo sguardo mentre scribacchiava, manovrava il suo analizzatore, corrugava le sopracciglia. Virginia s'incamminò lungo una solitaria corsia cercando di leggere gli indici sui banchi e di seguire la logica compatta e involuta del laboratorio. Qui Saul poteva smontare i geni come se fossero modellini di Lego, mescolare le molecole come carte da gioco. Trovava sempre bizzarro il modo in cui delle provette e delle soluzioni dall'aspetto innocente come quelle potessero estendersi, trasporre la vita umana lungo nuovi sentieri, e chiuderne altri. Come se quei macchinari addormentati nascondessero una forza mostruosa, inplacabile.
Continuiamo a farlo. Gli esseri umani impregnavano i loro congegni di una presenza e di un potere separati, proiettando incessantemente le loro emozioni su dei profili inanimati. Illogico, e i peggiori peccatori in questo campo erano quegli scienzati spassionati che si presumevano votati all'oggettività.
Pensa soltanto a come plasmo il mio software per farlo assomigliare ai miei processi mentali rifletté. Stampando me stessa nella griglia organica raffreddata da JonVon.
Quel pomeriggio, nel percorrere la strada fin là, era stata colpita dal modo in cui la spedizione fosse proprio così: stanze separate, idee immensamente potenti staccate le une dalle altre, tutte che davano il proprio contributo, eppure isolate. Uomini e donne insaccati in cilindri, cubi e sfere. Si muovevano attraverso la silenziosa, angusta geometria della Edmund, ansiosi di scendere e rintanarsi nelle nicchie, in un altro mondo scavato.
Si chiese se l'equipaggio avrebbe comunicalo meglio, una volta giù dentro il nucleo di Halìey. Molti di loro avevano lavorato durante l'intero anno impiegato dal viaggio verso l'esterno, ma lei era stata messa a dormire in una capsula per dieci mesi. Prima del lancio i problemi relativi al finanziamento avevano ridotto all'osso il programma preparatorio della spedizione; non c'era stato il tempo di conoscere o anche soltanto d'incontrare la maggior parte dell'equipaggio.
Aveva studiato i progetti dell'insedamento nel nucleo di Halley. Parevano splendidi come uno schema, un diagramma, una cianografia realizzati sulla Terra, ma adesso ognuno di loro sarebbe vissuto in un labirinto euclideo, in gabbia. Il lieve borbottio della ruota gravitazionale non faceva altro che sottolineare l'artificialità nella quale si trovavano incassati. Lei sentiva profondamente l'esistenza degli interni e degli esterni, delle sezioni e delle barricate.
Cosi, per opporsi a tutto questo, era venuta li. Aveva raccolto tutto il proprio coraggio. Era uscita dal suo guscio.
Passò irrequieta da una corsia all'altra. Ogni istante successivo era una separazione, che divideva un tormentato passato da un futuro che si spalancava vuoto: entrambe quelle immense distese di tempo premevano sul nervoso e traballante presente così trascurabile, ma non solo per ora.
Piantala con questa ispezione senza senso. Guarda in faccia il motivo per cui sei venuta qui. Ma era difficile saltare l'ostacolo e affrontare alla cieca il precipizio più oltre.
— Saul.
Lui risalì da imprecisate profondità. — Uh, cosa, sì? — Sbatté gli occhi, le rughe spiccavano ancora intorno ai suoi occhi assorti.
— Mi spiace…
— Cosa… hai scoperto?
Nel momento stesso in cui lo disse, Virginia sussultò. Esatto. Eludi. Chiedigli del suo lavoro, per l'amor di Cristo.
— Qualcosa di maledettamente strano. — Saul scosse la testa come se quasi sospettasse un errore. La sua matita rotolò sulle callosità granulose e macchiate della sua mano.
— Cosa?
— Contaminanti, credo. Carabattole della Terra dentro i campioni. Quel dannato Quiverian… — Si arrestò, il suo sguardo venne attirato da qualcosa sullo schermo. — Un secondo, forse questo…
Virginia guardò l'ingranditore mentre lui guidava le microsonde per separare ed estrarre minuscoli campioni da parecchie masse oblunghe e chiazzate. Come riuscisse a distinguere una macchia marrone da un'altra era un mistero. A quel livello gli esperimenti diventavano un'arte insondabile. I micromanipolatori traducevano i suoi minuscoli movimenti in grazia chirurgica, il suo tocco seguiva quel folle guazzabuglio di antichi cristalli, l'attorcigliarsi e il serrarsi repentino dei viscidi e sgargianti idrocarburi. Dita agili e una mente indagatrice. Mozart e Picasso erano stati ugualmente incomprensibili.
Lavorava metodicamente in silenzio, risucchiato dai suoi torbidi misteri. Va bene, prenditela con calma pensò Virginia. Non accelerare le cose. Non che tu abbia avuto tutto quel coraggio, eh? Comunque, i maschi sono lenti quando devono cambiare emisfero.
Si rilassò e osservò la sua «parete climatica». Il contratto dava ad ogni uomo dell'equipaggio il diritto di coreografare il proprio ambiente. Saul aveva scelto bene: un fiume azzurro scendeva divagando fino a una palude color smeraldo sotto uno stormo di bianchi uccelli dalle ali sbattenti che sfioravano la sua scintillante superficie. Le immagini erano ferme, precise; spruzzi luccicanti s'innalzavano là dove un uccello affondava un'ala nell'acqua e roteava su se stesso per atterrare. Più oltre, frammenti d'isole sparsi qua e là punteggiavano un pallido mare. Sulla sinistra candide distese di spiaggia costellavano quell'abbacinante giornata estiva. Il New England, forse il Massachussetts.
Sì, aveva letto che un tempo era stato ad Harvard. E d'estate, naturalmente. Aveva scelto un periodo dell'anno che portava con sé un confortante calore, qualcosa per tenere a bada il gelo dell'antico ghiaccio che ben presto li avrebbe circondati. Era il tardo pomeriggio, sulle pareti del laboratorio, e lentamente i raggi del sole stavano diventando sempre più obliqui col procedere delle ore. Il fronte di una tempesta sfregava il proprio muso sull'orizzonte, i venti sferzavano le ombre vellutate che si raccoglievano sotto gli alberi nodosi. Virginia sentì un calore rassicurante che s'irradiava da quella scena, anche se sapeva che era in realtà la lana che lei indossava a fare quell'effetto. Saul indossava un due pezzi di cotone, azzurro con strisce bianche, con un ampio colletto rinascimentale come unico strappo alla regola. Poteva vedere che Saul non era un uomo che badasse molto al vestire… sarebbe andato in giro nudo, se la natura e la società l'avessero consentito.
Mentre lei lo guardava pensosa, lui scosse la testa irritato, produsse un umpf! e spense di scatto lo schermo.
— Fatto?
— Sì, senza nessun risultato. — Tambureggiò con le dita la superficie della scrivania.
— Che cosa stavi cercando?
— Qualche contaminante che mi era parso di vedere. Era… be', no, niente più del solito.
— Faremo il primo turno insieme — azzardò lei. — Allora avremo tempo in abbondanza per lavorare alle nostre ricerche.
Lui annuì. — Non vedo l'ora. Sedici mesi di pace e di tranquillità, a scavare il ghiaccio e a badare ai nostri simili sotto ghiaccio.
— Ancora qualche settimana e cominceremo a ibernare la gente.
Lui annuì distrattamente. Poi disse a un tratto: — Sono un ospite ben scadente… Qualcosa dal bar?
— Ti rimangono ancora delle razioni alcooliche?
— In questo laboratorio? Posso fare tutto quello che voglio. Ho la mia birra, se te la senti di rischiare.
— Certo. — Sentiva il bisogno di rompere il ghiaccio, di raggiungerlo. Il suo volto era complesso, una lavagna sulla quale il tempo aveva scritto dappertutto, la bocca e gli occhi in conflitto fra loro. I suoi occhi parevano scrutare qualcosa di remoto, forse un problema che stava lentamente venendo a fuoco, un intelletto implacabile. Però le sue labbra tradivano quella concentrazione. Si torsero in una curva ironica, eppure erano piene e sensuali con un accenno di passione e d'energia. La mente gelida che governava quegli occhi non sapeva di quella soggiacente forza sommersa. Le contrazioni gareggiavano fra loro su quel viso, reso ancora più complesso dalla barba ispida, qui pallida, là chiazzata, una fronte luminosa la cui curva intercettava, riflettendo, un raggio dorato di quel tramonto nel New England. Con palese pregustazione fece schioccare i tappi di due bottiglie brune dal lungo collo, assomigliando d'uri tratto ad un robusto mercante un po' incanuito.
Virginia si morse il labbro mentre entrambi sedevano. Adesso che aveva superato i primi momenti e intrapreso i passi che aveva riconsiderato cento volte, scoprì che non riusciva a toglierli gli occhi di dosso.
— Sei qui a causa della nostra conversazione dell'altro giorno, non è vero? — lui disse. D'un tratto la sua espressione era più gentile, si stava aprendo verso l'esterno dopo essere uscito dalla sua autoimmersione. I suoi occhi incontrarono quelli di lei.
— Ah… sì, sì. — Tanto valeva che l'attribuisse a quello.
— Cos'è che aveva tua madre?
— Il… lupus.
— Ah, già. — Una fugace espressione di dolore guizzò nei suoi occhi. Si abbandonò sulla sedia a rete, si passò le mani dietro la nuca, si stiracchiò nella bassa gravità della ruota. — Mi ricordo quegli anni… In quel caso abbiamo trovato una soluzione pulita. Nessun effetto collaterale, come tu tanto chiaramente dimostri. Uhm. Hai mai visto un caso veramente grave?
— No, ho letto…
— Non è la stessa cosa. Sotto il microscopio le cellule non sono uno schieramento compatto di cilindri quasi regolari, sai, sono deformi, meshugenuh, piccole cose torturate. I tessuti connettivi del paziente s'intasano, le giunture si gonfiano, le infezioni si ripetono. Danni al fegato, morte prematura. C'erano dei buoni rilevatori per avvertire i genitori se un bambino ce l'aveva, certo, ma nessuno aveva toccato il vero aspetto: l'assetto genetico… fino a quando non l'abbiamo fatto noi. Scusa, fino a quando non l'ha fatto Simon Percell.
— Ma grande parte del merito può andare anche a te.
Lui rise. — Mia cara, la mia carriera negli ultimi decenni è dipesa dal non attribuirmi certo meriti.
— Con noi percell… è diverso.
Lui esibì uno stanco sorriso. Stanco e circospetto. — Tu, Virginia, sei la chiara espressione di come una mappa sia diversa dal vero territorio.
La donna corrugò la fronte.
— Scusa, non sono chiaro. È una mia abitudine. Abbiamo tracciato una mappa di tutti i nucleotidi del DNA già molto tempo fa. Sapevamo dove si trovava ogni cosa: una grande mappa. Soltanto, non sapevamo qual era il suo significato.
— I miei geni non portano il lupus, voi sapevate come farlo. E i miglioramenti percell sono efficaci.
— Ovviamente. — Un sorriso.
Si sentì arrossire a quel complimento. Frugò dentro la propria mente alla ricerca di qualcosa di adeguato da replicare. — Abbiamo ogni genere di vantaggio…
— È vero… — Era ancora pensoso, intento a riflettere su anni e periodi che lei non poteva conoscere. Eppure quei giorni non sarebbero morti, fintanto che ci fossero stati dei percell. E il retaggio viveva in ogni corridoio di quella spedizione.
Saul sospirò. — Ma non è abbastanza vero. Sicuro, abbiamo messo sotto controllo i disordini dell'emoglobina, la malattia di Huntington, tutti i bersagli facili. Stacca via qualche molecola. Spunta, pota. Cambia il criptogramma e… presto fatto.
— Ho letto che ci sono più di due milioni di persone che vi devono questo.
— Hai messo le mani sul giornale clandestino proibito dei percell? — chiese lui, con finta serietà. — Sì, giusto. Tu sei delle Hawaii. Là abbondano ancora i sentimenti pro percell, no? Chi ha indotto i servizi di sicurezza ad approvare il tuo arruolamento?
— Sono così in gamba che hanno dovuto accettarmi — replicò lei con un sorriso di orgoglio.
— Brava! — applaudì lui. — Brava, davvero. E sei in gamba… Ho dato un'occhiata al tuo dossier là, quando il capitano Cruz mi ha voluto nel comitato addetto al reclutamento.
— Davvero? — D'un tratto si era fatta seria. — Cosa… cosa c'è là dentro? Hanno…
Saul agitò la mano. — Niente sulle tue idee sovversive. Non una virgola.
I suoi occhi si spalancarono, la sua bocca formò un O sbalordito… e poi vide che Saul stava scherzando. — Ah… oh… eh.
— Non gli importa se tu pensi che i percell sono in gamba quanto gli… com'è il gergo?… sì, gli ortho, sai. — Abbassò la voce. — Dal momento che sono tutti maledettamente sicuri che non lo siete.
D'un tratto, Virginia si accorse di aver avuto ragione, il suo atteggiamento davanti agli altri era una maschera. — Loro… pensano questo, vero?
— Temo di sì. Molti di loro, comunque.
— Anche se hanno lasciato che alcuni di noi partecipassero a questa spedizione?
— Lasciato… — Saul cominciò, poi scosse la testa. — Avevano le loro ragioni.
— Ma…
— Virginia, ti è mai passato per la testa che togliersi dai piedi dei percell intelligenti, accaniti lavoratori, potenziali piantagrane, poteva essere un'idea molto attraente?
— Naturalmente. — Corrugò la fronte.
— E qualcuno di voi non è contento di essersi sbarazzato di tutto quel krenk, di quelle fesserie della Terra?
Lei dovette ammettere che Saul aveva ragione. Quando la Edmund si era sollevata fuori dall'orbita della Terra, lei si era sentita sollevata. — Oh… per certi aspetti.
— Quali, per esempio?
Saul si sporse in avanti dalla sedia, dando l'impressione di essere sinceramente interessato. Gli obliqui raggi arancione del tramonto sul Massachussetts colpirono la sua chiazza di calvizie, eppure non sembrava molto vecchio, soltanto saggio e gentile, e serenamente potente.
— Be'… mio padre pensava che fossi speciale. Che la nostra famiglia fosse unica, una specie di storico esperimento.
— Ah. Un comportamento comune.
— Io… io lo odiavo.
— Ti sentivi speciale?
— Mi sentivo… diversa.
— In realtà non lo sei.
— Prova a dirlo a loro.
— I tuoi genitori avrebbero dovuto proteggerti da questo.
— Loro… ascoltavano. Quand'ebbi undici anni, ero la sola ragazza nella mia classe senza le calze di nylon. Così andai ai grandi magazzini e ne comperai un paio. Non avevo nessuna idea su come infilarmele. Per sbaglio, non avevo preso un collant…
— Tua madre…
— È morta quando avevo dieci anni.
— Lupus.
Virginia annuì.
— Così, eri un monellaccio. Facevi il surf, ti crogiolavi nello splendore hawaiano.
— Sì. Era bellissimo, ma… Fu mio padre ad allevarmi. Ricordo un giorno, quando stavo giocando a catch in T-shirt con i ragazzi, di aver sentito delle risatine a proposito dei miei seni che rimbalzavano su e giù… Questo accadeva su Maui, dove nessuno è particolarmente riluttante a parlare di queste cose. Così, tornai ai grandi magazzini. Una commessa dovette spiegarmi cos'erano i reggiseni… non sapevo neppure cosa significassero i numeri. Poi, in seconda media, cominciai a indossare gonne invece di jeans, perché lo facevano le altre ragazze. Un ragazzo diede un'occhiata alle mie gambe pelose, e mi disse: «Per Natale ti regalerò un rasoio». Avrei voluto morire! Il giorno dopo presi a prestito il rasoio di mio padre e mi tagliai l'osso dello stinco così malamente che ancora oggi ne conservo la cicatrice.
— Capisco.
D'un tratto Virginia si sentì imbarazzata. Tutto quello che aveva detto, per qualche motivo le era saltato fuori senza che questa fosse la sua intenzione. — Non ero molto in gamba in queste cose. Avevo l'abitudine di dirmi che era dovuto al fatto che mia madre era morta e non c'era nessuno in grado di spiegarmi. Così mi concentrai sulla matematica, sui computer.
— E se tu non l'avessi fatto, oggi potresti essere una casalinga perfettamente felice, chissà dove, con i bambini che ti tirano i lacci del grembiule.
Virginia esibì un sorriso furbesco, soffocando un improvviso, intimo dolore, spinta da un vecchio riflesso. — Quello può anche andare al diavolo.
— Precisamente.
Inoltre non avevo nessuna scelta pensò. — C'era un quid per ogni quo. — Ecco, enigmatica e ironica. Mostragli che non sei una semplice scolaretta diventata maga del computer soltanto a causa d'una angoscia adolescenziale.
Ma il volto di Saul era diventato pensoso, i suoi occhi riflettevano qualche rimescolio interiore. — Vi amo tutti, sai.
— Tu…
La sua voce era molto bassa. — Tutti i percell. Voi… pagate per i nostri…
— I vostri cosa?
— I nostri peccati.
— Ma tu no! Voglio dire, noi non paghiamo! Io… Tu non hai fatto niente di sbagliato! Sono gli altri che…
Agitò una mano, azzittendola. — Mi spiace. Io… talvolta mi ricordo com'era un tempo. Quali erano le nostre speranze, quello per cui lavoravamo. Adesso è tutto finito. È una delle ragioni principali per cui mi sono arruolato. Per sfuggire a un'intera coorte d'insuccessi.
— Ma tu non…
— No, smettiamola… Quei giorni sono impossibili da dimenticare, ma è inutile ricordarli. Meglio lasciarli andare.
— Saul, io… io ti rispetto così…
Ma lui agitò energicamente le mani davanti al proprio viso, bandendo ogni discorso. — Sai che ti dico, ti riempio di nuovo il bicchiere e… e…
D'un tratto si girò di lato e sternuti.
— Dannazione! Non riesco a sbarazzarmi di questo affare.
— Prendi un anti.
— L'ho fatto.
Un'altra croce che dovrà sopportare lei pensò. Vivere in una palla di neve con il naso che gli gocciola senza sosta.
I percell non dovevano soffrire raffreddori. I «sarti» dei geni, mentre stavano fagliando via l'anemia e il lupus, e le altre malattie stabilite, avevano spuntato il complesso di molecole codificate che avevano offerto ai virus la libertà di scorrazzare, e all'umanità un milione di anni di raffreddore e influenzi,.
— Bene, allora… lascia che prepari un po' di tè.
Sorrise ancora, ma i suoi occhi azzurro acciaio erano remoti, pensavano a qualcosa di lontano nel passato che lei non riusciva a immaginare. — Sì, benissimo. Mia madre… faceva questo. Poi arrivava la zuppa di pollo. — Rise, ma non con gli occhi.
Represse una fragorosa risata. Il passo cruciale, l'inserzione dei moduli per l'animazione sospesa nella testa della cometa non pareva affatto il culmine di un pericoloso viaggio di cinque anni d'una nave a vela, una prodigiosa impresa d'ingegneria, una moderna meraviglia… Pareva invece l'accoppiarsi di mostruosi genitali.
L'esile chiatta, la Whipple, planò in avanti, con il muso all'ingiù. Spogliata delle sue vele solari e delie antenne, aveva l'uniforme colore rossastro scelto per massimizzare l'equilibrio termico durante gli anni di volo dall'orbita della Terra. Il carico utile della nave dei dormienti avanzò, la sua schermatura extra contro i raggi cosmici riempiva una protuberanza rigonfia, leggermente più spessa del corpo principale.
Sotto, si spalancava il Pozzo 4. Il ghiaccio circostante era stato esposto di fresco dalle abrasioni e dai graffi dei mech: un ghiaccio cremoso, vergine, che non aveva più visto l'aspro baglio della luce del Sole da quando i pianeti e le comete si erano formati per la prima volta.
Carl cominciò a ridacchiare, e tossì per nasconderlo. Con il sibilo del comunicatore della tuta, nessuno avrebbe saputo distinguere la differenza, probabilmente. Sbatté gli occhi, ma quell'illusione pornografica non voleva scomparire. Devo essere un po' più stanco di quanto pensavo.
— Ci vuole un piccolo riallineamento di tre gradi ai sessanta azimuth — trasmise Jeffers.
— Bene. Fatto — rispose Carl. I dati di Jeffers vennero integrati nello stesso istante in cui parlava, e poi cominciò a ruotare nello schermo, linee verdi contro lo sfondo, che mostravano come la Whipple appariva lungo tutti e tre gli assi. Poi comparve l'immagine desiderata, una copertura arancione drizzata ad angolo lungo i due assi. Carl digitò le correzioni.
Sapeva che un branco di alti papaveri stavano guardando attraverso la TV, e Ould-Harrad si trovava sulla superficie sottostante, con gli occhi gelidi e critici. Certamente avrebbero trasmesso alla Terra una versione manipolata, in forma di segnale supercompresso. Occhi in abbondanza per sorprendere un eventuale errore. Osservate Carl Osborn che incastra novanta o più anime a metà pozzo, magari.
Carl scosse la testa. Al diavolo questi pensieri. Stai attento ai vettori e fai il tuo lavoro. Non puoi permettere che i nervi ti confondano le sinapsi, come direbbe Virginia.
Accese quattro jet dietro l'alloggiamento del motore centrale della Whipple. Pulsarono rosso-rubino contro il nero dello spazio. Ognuno di essi s'interruppe in sequenza quando l'immagine arancione sullo schermo del suo casco si fuse con quella verde.
— Fatto.
— Ecco che andiamo — trasmise Andy Carrol. Andy sedeva a prua nella piccola cabina a bolla della nave, e ne aveva il controllo nominale. I getti avvamparono di un azzurro pallido a poppa.
La Whipple s'infilò senza sforzo nel pozzo, evitando con facilità i gialli rivestimenti protettivi.
— Perfetto! — Urlò Andy. — Prendo io la guida.
La protuberanza della chiatta s'inserì con precisione, serrandosi ai binari che le avrebbero impedito di andare alla deriva una volta all'interno. Al comunicatore della tuta, Carl sentì delle grida di giubilo e perfino degli applausi che filtravano da un canale aperto collegato al salone della Edmund.
Il modulo della chiatta si separò, discese. Quelle chiatte a vela erano esili e leggere come un classico veliero del diciannovesimo secolo. La loro struttura snella e argentea trasportava capsule di animazione sospesa, provviste e un equipaggio-robot. Il tutto in moduli cilindrici ben sistemati lungo il telaio tubolare, la colonna vertebrale delle grandi ali che raccoglievano il vento solare. Adesso quei fogli sottilissimi erano ammainati, in attesa di svolgere il monotono servizio di specchi per le serre della superficie. Rimaneva il telaio nudo, una grande bestia adesso spogliata secondo la logica riduzionista, diventata uno scheletro.
E da qualche parte là fuori la Newburn continua a viaggiare. Carl pensò alla quarta chiatta mancante. Perduti. Vittime delle gelide percentuali.
— Sto invertendo la direzione! — Andy fece arretrare la sua nave con cautela. Sarebbe scivolata giù lungo una pista diversa, dentro la propria cavità. Adesso Jeffers aveva preso il comando dei mech all'interno del pozzo per trainare in basso il modulo con i dormienti lungo quasi un chilometro di pozzo, dentro la camera che era stata preparata per accoglierlo.
Carl accese il suo trasmettitore a conduzione ossea: la quinta sonata per violino di Beethoven, l'ultimo movimento, il liquido frusciare dell note del pianoforte. Un premio. Trascinare in giro grandi masse era roba standard, ma dava una sensazione diversa quando c'erano novanta vite umane in gioco. Aveva bisogno di calmarsi, di rilassarsi. Lo spettacolo principale era finito, ma aveva ancora molte ore di lavoro davanti a sé.
Quel fluido e grazioso ondeggiare della musica da camera pareva a Carl una cosa naturale per lavorare a zero gravità. Non sarebbe mai riuscito a capire Jeffers o Sergeov, che ascoltavano quella roba rauca e pesante dei Clash Ceramic mentre lavoravano. Si lanciò verso il basso, facendo segno a quel punto lontano che era il colonnello Ould-Harrad.
Rallentò sopra il Pozzo 6 per accompagnare l'ufficiale africano, il quale era capace di muoversi nello spazio, ma assai meno abituato a farlo in velocità attraverso le gallerie. Un errore, qui, poteva spiaccicarti contro una parete con un impatto da fratturarti le ossa. Ci volevano anni perché i terragnoli si convincessero, finalmente, che la mancanza di peso non significava assenza d'inerzia.
Schizzarono verso il basso. Le pareti di filofibra sfrecciavano via accanto a loro, illuminate a intervalli regolari da pennellate di fosfori gialli elettrificati. Carl osservava il volto scuro di Ould-Harrad per cercarvi una qualche reazione, ma l'uomo teneva gli occhi fissi e attenti davanti a sé, senza dire niente. Carl avvertì una punta di delusione. Aveva rivestito lui stesso ì! pozzo, senza mech, impiegandoci quattordici ore al giorno per rispettare la scadenza. Ed era un bel lavoro. Ma che lui fosse dannato, se qualcuno aveva fatto anche un solo commento in proposito.
Naturalmente Ould-Harrad era un ortho, e piuttosto intransigente, stando a pettegolezzi di corridoio. Durante il viaggio verso l'esterno quell'uomo si era mostrato remoto, formale, il suo volto impassibile non rivelava nulla. Era chiaro che si aspettava che i giovani arrivati si ricordassero del proprio posto. Era improbabile che desse il benvenuto a un percell addetto ai lavori più umili.
Carl scrollò le spalle e alzò il volume della Quinta Sonata. Soltanto dopo un po' gli venne in mente che, dopotutto, stavano precipitando a testa in giù dentro un pozzo in cui le chiazze dell'illummazione fosforescente rimpicciolivano in distanza, convergendo… Perfino in quelle condizioni di microgravità era probabile che i campanelli d'allarme mentale di Ould-Harrad stessero squillando.
— Attivi i freni. La cavità è soltanto a poche centinaia di metri davanti a noi.
— Vedo. Bene — fu la sola risposta.
Rallentarono mentre la galleria si allargava in una camera spaziosa, già in parte rivestita di un brillantte isolante verde tiglio. Il modulo della chiatta dei dormienti stava già discendendo dall'intersezione con il Pozzo 4, un'intrusione dal profilo tronco che quasi riempiva la metà non ancora isolata della cavità. Dunque, quel ghiaccio primordiale produceva luccicanti riflessi neri e grigio-azzurri per effetto delle sciabolate di luce delle lampade degli uomini e dei mech. Carl aveva aiutato a scavare quelle pareti rozzamente intagliate usando grossi laser industriali. Vene di polvere carbonacea e rugginosi conglomerati tracciavano misteriosi disegni arabescati su quelle ampie distese di ghiaccio nero, come se fossero stati scritti da qualche mano biblica.
— Ahhh. — il suono sfuggì a Ould-Harrad quando si arrestò con una brusca frenata. Carl notò che l'uomo pareva sollevato. Forse avrebbero dovuto procedere più lentamente.
— Su — gridò Jeffers sul canale aperto. — Dobbiamo seppellire queste bare.
La voce autoritaria, dalla pronuncia difettosa, di Ould-Harrad, suonò inequivocabile. — Apprezzerei molto se voi uomini non vi riferiste in questo modo alle capsule.
— Sissignore — rispose Jeffers, secco. — Stia sicuro.
Carl trasmise: — Prendo i mech con la codifica azzurra. — E regolò il suo quadro dei comandi su una dozzina di forme che fluttuavano intorno. L'attrezzattura della chiatta delle capsule era quasi del tutto nascosta dai roboidi che le sciamavano intorno, un esercito di moscerini che montavano le varie sezioni.
I dormienti sarebbero stati immagazzinati in tre cavità ben distanti le une dalle altre per ridurre al minimo la probabilità che un unico incidente potesse paralizzare la missione. Le squadre tecniche — computer, scienze della vita, operazioni meccaniche — vennero suddivise in maniera uguale. Quelle capsule a forma di scatola vennero disposte verso l'esterno come le braccia d'una stella marina che si dipartivano dalla vertebra centrale degli apparati di sopravvivenza e controllo. Le apparecchiature del sistema di sopravvivenza si estendevano, perifericamente, formando una specie di zaino bitorzoluto su ciascuna bara. Carl non poteva fare a meno di vederle in quel modo, sia per l'aspetto, sia considerando il fatto che i dormienti, nel loro interno, erano quanto di più vicino alla morte avrebbero potuto essere… pur potendo ancora tornare indietro.
Ogni capsula doveva venir sistemata in nicchie di duroplastica che le proteggevano ma allo stesso tempo permettevano all'interno di scambiar calore con il ghiaccio vicino. L'idea originaria era stata quella di lasciare che il ghiaccio raffreddasse direttamente i dormienti, ma su Encke Carl aveva visto i risultati di quel sistema: c'era un sacco di anidride carbonica e di neve amorfa che potevano vaporizzare in maniera esplosiva, facendo saltare le valvole e i sigilli delle «bare». Non era una buona idea utilizzare sostanze volatili nel vuoto spinto. Così, i tecnici avevano dovuto predisporre dei paracolpi per proteggere i dormienti dai fremiti, dagli urti e dalla morte improvvisa per congelamento.
— Impacca quegli ortho come sardine — trasmise Jeffers sul comunicatore a corto raggio. — Non voglio che si sentano soli.
Jeffers stava sistemando dei tubi in un punto lì accanto, la sua trasmissione era schermata da quella degli altri. Carl attivò una morsa autoserrante, terminando il proprio lavoro. Poi si allontanò con un calcio.
— Riposati un momento. Qui ci sono anche dei percell.
— Non dannatamente molti. — Era stato Sergeov a parlare, il quale comparve alla vista sbucando da dietro l'argentea sfera d'uno scambiatore di calore. Lo spaziale russo era veloce, abile; mentre Carl guardava, si spostò di colpo, afferrò un cavo da un groviglio che assomigliava a un piatto di spaghetti e lo inserì in un armadietto di controllo.
Quell'agilità rendeva quasi invidioso Carl. Quasi. Il trattamento percell aveva eliminato le malattie del sangue che Sergeov avrebbe erditato dai suoi genitori… ma lo aveva anche privato delle gambe.
Effetti collaterali imprevisti.
Carl si chiese quante volte quella gelida frase analitica l'avesse fatto infuriare, diventare rosso in faccia, indotto a stringere la mano a pugno.
Sergeov era stato uno dei primi, fortunati, insuccessi… ancora vivi. Quei sopravvissuti avevano suscitato i primi timori. La plebaglia poteva vedere le gambe mancanti di Sergeov. Una piccola, sudicia domanda si era intrufolata come un verme nelle loro menti: cos'era che non si poteva vedere? Che ne era stato della sua mente? Era normale? Era ancora umano?
Se era normale riuscire a trangugiare una mezza bottiglia di vodka e anche così riuscire senza difficoltà a far stare in equilibrio i bicchieri vuoti gli uni sopra gli altri, fino a cinque, sì, allora Sergeov era normale.
Meglio che normale. Era andato direttamente nello spazio, dove le gambe, in effetti, erano un intralcio. Tutti quei muscoli e quelle ossa massicce erano inutili in caduta libera, esigendo cibo, ossigeno e tempo per tenerli in esercizio. Rimasugli della lotta contro la gravità. Sergeov era vissuto in orbita dall'età di dieci anni, guadagnando le paghe più alte come assemblatore. Le sue braccia parevano tronchi d'albero; una volta, quand'erano in orbita intorno alla Terra, Carl l'aveva visto trattare un impotente ispettore ortho come se fosse stato una bambola di stracci. L'uomo aveva borbottato un insulto, ma l'aveva prontamente pagato con cinque minuti di umiliazione totale. Eppure, Sergeov non era un sostenitore dell'Altopiano Tre; sprecava le sue energie a raffica, scaricando la sua avversione su tutti i terragnoli.
— Piantala di blaterare — disse Carl. — Vieni ad aiutarmi con questi paracolpi termici.
— Comunque, è vero — insisté Sergeov. — E tutto per delle buone ragioni, sicuro. I percell lavorano bene, così vanno nello spazio. Ciccia! Gli ortho pensano che noi siamo spazzatura, così noi restiamo nello spazio.
Jeffers intervenne: — e finiamo per fare gli autisti agli ortho al di là di Nettuno.
Sergeov sogghignò. Le sue mani, che apparivano eccezionalmente larghe anche attraverso i guanti da vuoto, lavoravano rapidamente in mezzo ai cavi, agili, efficienti, libere dal contrappeso a effetto-leva delle gambe penzolanti. — Da, non preferisco servire da fattorino per gli ortho.
Jefferson ribadì: — Hai dannatamente ragione. Quando potremmo, invece, fare il nostro lavoro.
Carl chiese: — Cosa, per esempio?
Jeffers si girò su se stesso con un braccio, afferrando con l'altro un laser a corto raggio che fluttuava libero. Lo attivò. Una scarica azzurro-bianca schizzò dentro il ghiaccio a molti metri di distanza.
— Ehi! — gridò Sergeov.
Una nebbia bianca esplose davanti a loro. Ribollì via dentro la cavità, diradandosi, ma Ould-Harrad aveva visto. — Ehi, non ho ordinato nessun lavoro di saldatura rapida qua dentro!
— Mi spiace. — Sergeov strizzò l'occhio a Jeffers e gridò: — Era un piccolo ritocco, c'era bisogno di rifondere la giuntura di un loculo.
— Quelle sono persone.
— Mi spiace.
Sergeov sorrise mentre lo diceva. Ould-Harrad era a centinaia di metri di distanza e non poteva vedere il disegno che Jeffers aveva tracciato nel ghiaccio con l'istantanea facilità dovuta alla pratica:
— Non sapevo che tu fossi un figlio di Marte, Jeff — trasmise Carl.
Un fiore-femmina racchiuso dal simbolo di Marte: la rappresentazione grafica di un sogno. Una volta che fosse stato possibile guidare le comete fin dentro il sistema solare interno, sarebbe stato possibile sfruttarle. Ancora più facilmente, una gomitata affibbiata ad arte a una cometa molto al di fuori di Nettuno, uno sbuffo di gas accuratamente calcolalo, avrebbe potuto mandare quelle palle di ghiaccio a schiacciarsi sulle pianure marziane.
Martellare Marte con i nuclei cometari sarebbe servito a creare un'atmosfera. Forse, questo avrebbe perfino indotto i vulcani marziani a eruttare di nuovo. La lenta erosione naturale si sarebbe fermata. L'inaridente marcia degli eoni sarebbe stata messa in fuga: il sogno di Prometeo. Facendo il cielo d'un azzurro aspro, ammantando le montagne di ghiaccio e fiamme, si sarebbero graffiate profondamente le terre, lacerando il permafrost, e liberando altro ghiaccio più antico, sottostante. Nubi, nebbie, e poi la pioggia: un clima sconosciuto da quando il debole calore del Sole aveva fatto evaporare gli ultimi pantani alimentati dai fiumi semiasciutti sul fondo delle intristite valli marziane, miliardi di anni prima, durante quella falsa primavera.
Fra un secolo o giù di lì, un essere umano adeguatamente adattato avrebbe potuto essere in grado di respirare su quella superficie. L'idea era vecchia, ma alcuni percell l'avevano fatta propria. Vedevano in Marte il solo luogo plausibile dove degli esseri umani geneticamente alterati potevano realmente trovare un posto dove vivere. Anche se era ancora arido e freddo e tormentato da strane tempeste, Marte poteva diventare un mondo in cui i loro discendenti, ancora più manipolati geneticamente, sarebbero stati la norma, mentre gli ortho avrebbero sputato fuori i propri polmoni nel giro di pochi minuti.
— Per chi pensi che stia lavorando? — rispose Jeffers.
— È folle — trasmise Carl. — La terraformazione impiegherà secoli. Non è la soluzione dei nostri problemi.
— Un percell può aspettarsi di vivere nello spazio, quanto?, cento anni? Duecento? — Il volto largo, sudato, di Sergeov, irradiò di nuovo il suo inevitabile sorriso.
Jeffers trasmise: — Buttiamoci dentro a un paio di bare. Potremo vederlo tutti.
— Non siamo qui per far questo — disse Carl.
— Jeffers sta soltanto guardando avanti — ribatté semplicemente Sergeov.
— Troppo dannatamente avanti.
— Non esserne troppo sicuro — disse Jeffers, con voce misurata.
Sergeov diede di gomito a Jeffers. — Anche tu sarai un Uber? Due idee non in contraddizione, penso.
Jeffers sbirciò Sergeov con attenzione. — Forse. O forse no.
Carl corrugò la fronte. Tutto questo si stava svolgendo nei comunicatori a corta portata, e ne fu lieto. Uber stava per Ubermenschen, i superuomini di Nietzsche, il passo successivo stabilito dall'evoluzione. Sì, stabilito, concepito. Progettato. Adesso non ci sarebbe stato più una lenta ascesa alla cieca, inciampando ad ogni passo, giudata dalle leggi casuali della natura. Molti percell ritenevano di esser loro il primo passo su una strada lunga e inevitabile.
Carl aveva saputo quali erano le opinioni di Sergeov, ma rimase scioccato nel vedere che anche Jeffers amoreggiava con esse.
Sergeov insistette: — Se gli ortho dicono no alla terraformazione di Marte, io dico sì, semplice.
— È proprio là, nella simulazione della chimica e della fisica, chiaro come qualsiasi cosa — aggiunse Jeffers. — Metti dei mech a spinger giù comete là fuori, oltre Nettuno… ci vorrà un secolo, sì. Noi possiamo farcelo tutto dormendo.
Carl trasmise: — Talvolta un uomo riesce a vedere con maggior chiarezza se tiene la bocca chiusa. — Indicò con un gesto Ould-Harrad che stava sfrecciando nella loro direzione.
— D'accordo, interrompiamo — trasmise Jeffers.
— Comunque, le cose stanno proprio così. Pensaci: il primo passo verso molto di più, forse — concluse Sergeov, scagliandosi lontano con un scrollata muscolare.
Ould-Harrad ispezionò i piani di lavoro per i mech, poi se ne andò. Carl approfittò dell'occasione per allontanarsi e mettersi a lavorare da solo. Non gli era mai piaciuta la politica, e i loro discorsi fuori misura lo avevano inquietato.
S'immerse nella dolce grazia planetare di Beethoven. Spostandosi attraverso le ombre color inchiostro e la gialla luce abbagliante dei fari, spingendo e rimorchiando, annusando l'odore acido della tuta, sentendo il rrrrtttttt delle controversioni vibrargli lungo il braccio, il pizzicare della tuta sulle sue spalle e alle ginocchia a causa del sudore… A Carl venne fatto di pensare alla California.
I suoi genitori lo stavano conducendo in macchina lungo la costa, quando lui gliel'aveva detto.
I quattro anni passati al Caltech erano trascorsi in un lampo di luce dorata e di notti di studio, scherzi di fine settimana e interminabili serie di problemi, laboratori, lezioni, e assai poco amore. Non ne aveva avuto il tempo. Sergeov era così sicuro che i percell erano speciali… be' d'accordo, sì, era magari anche logico che Sergeov dovesse pensarlo, per compensare ciò che non aveva mai avuto. Ma Carl sapeva che le cose stavano diversamente.
Lui se l'era cavata bene perché aveva lavorato, dannazione, non perché fosse più intelligente. Al Caltech aveva sentito una crescente fratellanza con tutti gli uomini e le donne che passavano lunghe ore in stanze solitarie. A differenza degli sgobboni inaciditi o dei ragazzi inesperti, non aveva mai creduto neppure per un momento che gli individui creativi sprecassero il proprio tempo oziando e poi, quand'erano mossi dallo spirito mistico, snocciolassero brillanti idee in preda ad attacchi di furiose e febbricitanti raffiche di travolgente ispirazione.
Per far bene qualcosa ci volevano sopportazione, costanza e uno stimolo continuo.
Questi li aveva. L'intelligenza brillante, no.
Così, mentre i suoi genitori lo conducevano lungo la costa, aveva lottato con quella verità interiore. Aveva presentato domanda a Berkeley per iscriversi all'istituto di astroingegneria e, contro tutte le aspettative, era stato accettato. Non gli avevano offerto nessuna borsa di studio, neppure un posto di assistente insegnante. Ciò significava che, comunque, non lo giudicavano un allievo eccezionale. Suo padre, in tutta onestà, aveva erroneamente scambiato questo per un altro sintomo del crescente pregiudizio contro i bambini creati da Percell. Carl sapeva che non era così. Le università sono bestie lente che non si lasciano smuovere dalla marea del pubblico pregiudizio. Il comitato di ammissione aveva indubbiamente considerato la sua media del 3,3 e avevano visto che era stato ottenuta soprattutto grazie ai buoni voti nei corsi di laboratorio e di disegno. La matematica e la fisica l'avevano messo alle corde più di una volta, stordendolo a colpi di integrazioni complesse a più variabili e di elettronica quantistica.
A nord di Ventura, l'allegro chiacchierio della sua matrigna traboccava di un entusiasmo che lui aveva sempre trovato un po' eccessivo. Non era mai stao capace di dimenticare la lenta morte di sua madre e di abituarsi a questa nuova donna nella vita di suo padre. Così, era rimasto lì, sul sedile posteriore, ad ammirare il paesaggio, cercando di pensare. Le fulve colline di agosto erano scomparse alle loro spalle, rivelando l'azzurro violaceo del mare. La Route 1 scivolava via mentre cercava di spiegare loro i propri dubbi. Le sue storie di remoti campi di battaglia intellettuali risuonavano vuote in contrasto con il solido mondo duraturo esterno. Granai consumati dalle intemperie, il loro legno reso argenteo dall'intensa luce del sole; file di eucalipti, lussureggianti frutteti sui fianchi delle colline, ponti ferroviari lunghi e sottili che scavalcavano su alti trespoli gole impervie, generatori a microfusione scolpiti dentro i pendii delle montagne, mucche che si tenevano immobili come statue all'ombra color inchiostro delle querce frondose. Tutta la spensierata, prodiga ricchezza della Terra.
La Morro Bay pareva una distesa di vetro quando si fermarono lì per la notte. La sua matrigna tutta una serie di «ohòoo» e «ahàaa» nel vedere un agile yacht di alabastro che stava passando via, veloce, al largo, oltre la lingua di sabbia che avvolgeva la baia. Grazioso, sì. Ma a Carl piacevano di più i pescherecci agli ormeggi, sporchi di olio, arrugginiti, scagliosi e ingombri di attrezzature. Si misero a discutere davanti a una zuppa di pesce in un ristorante sul molo. Suo padre era talmente agitato che aveva bevuto lo chardonnay come se fosse acqua, e ne aveva ordinato un'altra bottiglia, tutto rosso in viso.
La mattina dopo si era svegliato sapendo quello che doveva fare. Mentre passavano in mezzo ai pendii erbosi delle colline, girando verso l'interno in direzione di San Luis Obispo fra le basse montagne rocciose, lo disse: tutt'a un tratto e con chiarezza.
E adesso, nel ricordarlo, si avvide di essere stato anche brutale.
Suo padre aveva urlato. Hai intenzione di rinunciare a tutto questo? con un gesto drammatico della mano. E intendeva dire Berkeley, l'università, dove Carl sapeva che sarebbe affondato nei libri senza più emergerne vivo.
Oppure sarebbe anche riuscito a ottenere una laurea, e un ragionevole lavoro dietro una scrivania. E con incredibile fortuna, un dottorato.
Ma sarebbe rimasto perpetuamente di seconda categoria. E avrebbe sprecato molti anni.
Ricordava la mano di suo padre che fendeva l'aria, quel gesto offeso che abbracciava le colline più oltre. Hai intenzione di rinunciare a tutto questo?… e quel tutto era stato, in ultima analisi, la Terra.
Carl lo ricordava nei particolari, come la grana d'una fotografia, malgrado i sette anni affollati che erano passati da allora. Anni di apprendimento su come lo spazio funzionava veramente, non la geometrica certezza delle lezioni di fisica e di matematica, dove ogni problema aveva una soluzione pura e semplice in un universo ordinato. Non il mondo sereno di quel lontano e irraggiungibile yacht. Aveva imparato quello che era veramente lo spazio: sudicio, duro, con un mucchio di problemi che non avevano nessuna soluzione.
Era, per i percell, un luogo naturale in cui riunirsi, pattinando alti sopra le masse brulicanti e suppuranti che li temevano e li disprezzavano. C'era anche la bellezza nello spazio, certo, ma le nicchie che l'uomo si era scavato erano più simili alle chiatte arrugginite, ormeggiate alla Morro Bay, logore e puzzolenti, ammaccate e riparate alla meglio, in grado di funzionare bene ma dall'aspetto disastroso.
Attorno a lui planavano masse voluminose, i fari trafiggevano la gelida penombra. Le bare venivano spinte dentro i loculi scavati nel ghiaccio nero. Il violino di Beethoven cantava accompagnato dalle increspature d'un pianoforte attraverso lo sbadigliante silenzio dei secoli. Carl continuò a faticare ripensando ai lunghi anni che aveva passato nello spazio, lontano dalle verdi confusioni della Terra.
Era difficile ricordarsi che la sala era in realtà una grande camera di cristallo, scavata nel cuore d'una antica montagna di ghiaccio. Da nessuna parte era visibile il cupo scintillio dell'idrato di carbonio, venato da luccicanti filoni di gas ghiacciato. Dovunque il filofibra rosa e il vivido sigillante a spruzzo giallo nascondevano la materia primordiale del nucleo di Halley.
Per Saul Lintz assomigliava assai più a una vasta cattedrale kitsch.
La Grande Sala era il cuore del Complesso Centrale, il formicaio di stanze scavate là dentro molto in profondità sotto la superficie di Halley. Le gallerie si dipartivano da qui nelle sei direzioni cardinali, codificate secondo i colori stabiliti, ambra, tiglio, fragola, pesca, acquamarina… e un ampio viale verticale arancione: il Pozzo 1, quindici metri di diametro, che s'innalzava dritto per mezzo miglio fino all'intasato polo Nord della cometa.
I macchinari avevano odore di mandorle, per accogliere la gente mentre affluiva nella sala per l'inaugurazione.
Di tanto in tanto, quando mi si schiarisce la testa, perfino io riesco a sentirne l'odore.
Saul si soffiò il naso e mise via rapidamente il fazzoletto prima che qualcuno se ne accorgesse. Era per questo che sedeva appollaiato su una cassa da imballo vuota in fondo alla sala invece che nei pressi del podio dell'oratore. Era imbottito di antistaminici, ma il naso continuava sempre a gocciolargli e si sentiva perpetuamente sul punto di sternutire.
Drat Akio e i suoi dannati virus addomesticati!
Sollevò lo sguardo sul soffitto a volta. Durante i due giorni che aveva trascorso là sotto, a supervisionare il trasporto del laboratorio di biologia in un alloggio nuovo, più grande, non si era ancora abituato alle strane prospettive che vi regnavano.
Dall'altra parte della sala giaceva lo scheletro della Sekanina, simile alla fragile struttura interna d'un animale sezionato. Il suo incarico di macchinari e di rifornimenti e di ottanta uomini e donne addormentati era stato portato altrove. Ad una estremità penzolavano gli «alberi da pesca» che avevano contribuito a controllare le gigantesche e sottilissime vele a luce solare del vascello, a quanto pareva l'unica macchina che non era stata cannibalizzata o immaganizzata sotto le tende sulla pianura polare.
La sala si riempì lentamente a mano a mano che gli uomini e le donne entravano fluttuando da tutte le direzioni. Qui, quasi a un chilometro dentro il nucleo, la gravità sensibile era così bassa che chiunque cadeva nella galleria arancione là in alto impiegava parecchi minuti ad arrivare fin sul pavimento.
Agli spaziali esperti non piacevano i lunghi transiti. I veterani dello spazio schizzavano fuori dall'imboccatura della galleria sfrecciando attraverso i metri rimanenti nel giro di pochi secondi, ruotando su se stessi all'ultimo istante e toccando terra con le gambe piegate a metà.
Un giovane irruento, tentando un'esibizione spericolata (pensò Saul) aveva però sbagliato i calcoli. Lo stavano curando per un polso spezzato nella camera laterale in fondo alla galleria F, dove Akio Matsudo e i suoi medici avevano sistemato l'infermeria principale.
La gente stava arrivando a coppie e a terzetti. Si raccoglievano in piccoli gruppi per chiacchierare o semplicemente per sedersi sulle casse da imballaggio, prendendosi un momento di riposo.
Vicino alla Sekanina si era formato il gruppo dei capi della spedizione.
Miguel Cruz-Mendoza era di almeno una testa più alto di tutti gli altri: capitano, e forza-guida dietro a dieci anni di preparativi che avevano condotto a quel giorno. Lo spaziale cileno dalla voce affabile aveva delle ben visibili striature di grigio alle tempie le quali non facevano altro che accrescere il suo carisma. Correva voce — per la maggior parte sotto forma di battute — che avesse fatto ogni tipo di pressioni e manovre di corridoio, insistendo talmente perché venisse effettuata quella missione «perché venisse compiuto un grande balzo avanti nel tempo»… ma soprattutto per sfuggire all'accumulo delle amanti e di ogni tipo di donna che lo perseguitavano.
L'idea non era così assurda, in fin dei conti. Saul non aveva mai conosciuto un uomo più abile con le signore. Alcuni dei suoi nemici accreditavano i successi di Cruz alla sua amicizia con certe senatrici.
Non aveva importanza. Il capitano era anche il tipo di condottiero che la gente era disposta a seguire. Molti avevano contribuito a preparare la Missione Halley; ma nessuno, salvo Miguel Cruz, avrebbe potuto far diventare quel giorno realtà.
Il capitano colse per un breve istante l'occhiata di Saul e sorrise. Avevano imparato a conoscersi bene durante lo sviluppo dei cianuti e di altri simbionti ambientali. Saul gli sorrise in risposta e annuì. Quella era una grande giornata per il suo amico.
Cruz si voltò dall'altra parte quando la dottoressa Bethany Oakes gli disse qualcosa. La sua risata era profonda e ricca mentre partecipava alla battuta del suo secondo.
Saul non conosceva la Oakes altrettanto bene, ma ciò che aveva visto di quella donna dalla mascella volitiva e dai capelli castani l'aveva impressionato favorevolmente. Oltre ad assistere il capitano nell'amministrare quel vasto e complesso progetto, Bethany Oakes era anche il capo della Divisione Scientifica.
Accanto ai maggiori capi, c'erano i capi sezione: tutti salvo Matsudo il quale, presumibilmente, stava ancora curando il suo paziente. Nick Malenkov o la dottoressa Marguerite van Zoon avrebbero potuto occuparsi altrettanto bene di quella piccola emergenza. Perfino Saul, per quanto arrugginita fosse la sua esperienza clinica, avrebbe certo saputo cavarsela con una semplice ingessatura.
Ma il rango aveva i suoi privilegi. Di recente Akio si era annoiato. Gli incidenti che non fossero fatali all'istante erano stati rari. Con quell'equipaggio che scoppiava infernalmente di salute, non c'era molto che un medico potesse fare, se non supervisionare i colombari, e liberare di tanto in tanto dei parassiti-sfida per tenere in forma in sistema immunitario di tutti…
Dottore, guarisci te stesso pensò Saul. Aveva preparato una speciale provvista di maleato di dexbromfenilamina, un antistaminico da lungo tempo in disuso ma facile da sintetizzare, che non avrebbe dovuto prescrivere per se stesso attingendo alla farmacia della spedizione: così, non avrebbe lasciato nessuna registrazione nell'inventario.
Sapeva di essere un po' amorale, nascondendo questo a Matsudo. Ma Saul non aveva alcuna intenzione di farsi mettere nel colombario mentre soffriva di un altro maledetto raffreddore. No, in uno dei più eccitanti momenti della storia della scienza.
Più di cento persone si erano raccolte sul pavimento leggermente ricurvo della cavità. Salvo per una ventina o giù di lì che facevano il turno di guardia da qualche parte, tutto l'equipaggio della Edmund era presente, insieme ad una trentina di dormienti svegliati temporaneamente, identificabili dalla loro carnagione pallida e dai movimenti ancora sussultanti.
Qualcuno si era seduto per abitudine, ma la maggior parte era appoggiata sulle dita dei piedi, le ginocchia piegate e le braccia penzolanti davanti a sé nella posizione rannicchiata e quasi fetale degli spaziali.
Il capitano Cruz e Bethany Oakes salirono sulla piattaforma eretta sopra le travi della chiatta spogliata. Cruz sollevò le mani e il sommesso mormorio della conversazione si spense.
— Bene! — L'alto astronauta si sfregò le mani. — Qualcuno vuole un cono gelato?
Gli spaziali e gli scienzati raccolti lì attorno ridacchiarono. Malgrado tutte le diverse culture e le fedi rappresentate in quel luogo, era chiaro che quasi tutti amavano e ammiravano il loro comandante.
Cruz li riscaldò ancora un po'.
— Vorrei ringraziarvi tutti per aver fatto questi milioni di miglia per partecipare a questo incontro. Vi ho convocati quassù dalla Terra per dirvi che, ahimè, la missione è stata annullata. Dobbiamo fare le valige e tornare a casa stanotte stessa.
Questo ebbe l'effetto voluto: proruppero tutti in risate e applausi. Saul sorrise e batté anche lui le mani. Cruz era un genio nell'arte sottile di tenere alto il morale, di far emergere la parte migliore da un gruppo.
Naturalmente non c'era nessun modo perché qualcuno di loro potesse tornare sulla Terra… non prima che fossero trascorsi i settanta e più anni previsti. In questo momento stavano cavalcando Halley diretta fuori dal sistema planetario a più di trenta chilometri al secondo, sfrecciando via dal profondo pozzo gravitazionale del Sole. Quella velocità fulminea doveva attenuarsi e spegnersi, e la grande cometa avrebbe ricominciato a cadere, prima che anche uno solo di loro potesse riprendere il viaggio di casa.
Immerso nei propri pensieri, Saul perse la battuta successiva. Ma la reazione fu la stessa. Ridendo in coro parevano un equipaggio felice. Cruz era deliberatamente socievole, ammorbidiva la folla mantenendo nello stesso tempo la sua aura di completo e rilassato controllo.
Eppure, perfino in quel momento Saul poteva vedere le divisioni. Gli spaziali veramente esperti, ad esempio, si erano raccolti per la maggior parte sulla sinistra. Gli scienzati specialisti della divisione di Bethany Oakes tendevano a rimanere sul davanti del gruppo. Dietro di loro c'era la distesa dei tecnici e degli ingegneri di più di due dozzine di nazioni.
C'erano molti piccoli grappoli a seconda della geografia o della lingua nativa. E quasi ovunque c'era la sottile ma chiara separazione fra la maggioranza degli «ortho», e gli altri, i giovani e aitanti percell.
Naturalmente c'era una certa mescolanza, specialmente fra gli spaziali professionisti. Saul vide Carl Osborn sporgersi in avanti e bisbigliare qualcosa alla ragazza ortho Lani Nguyen. La giovane donna di mise a ridere con un singolo, acuto gorgheggio, e si affrettò a coprirsi la bocca arrossendo. Lani sollevò lo sguardo su Carl con occhi luccicanti, ma Carl era tornato a voltarsi, riportando l'attenzione sul suo capitano.
— Perché siamo venuti qui? — chiese Cruz, con i pugni sui fianchi, le gambe divaricate. Adesso che li aveva scaldati, stava passando a un tono più alto. — Molte sono le ragioni offerte. I filosofi parlano di ricerca scientifica pura, delle grandi domande relative alle origini del sistema solare che potrebbero essere risolte con la comprensione delle più fondamentali questioni dello spazio.
«Altri credono che noi ora siamo sulla cometa di Halley perché si trovava là… o meglio, qui!» Sorrise. «E perché non andarci soltanto perché è affascinante farlo? Questo iceberg volante è sfrecciato sopra le teste di noi terrestri per migliaia di anni, incantando tanti dei nostri antenati…» Cruz sollevò un sopracciglio, «e spaventando a morte non pochi di loro.
Ancora una volta quella deliziata ilarità. Saul osservò il contingente hawaiano, otto fra uomini e donne sui trenta inviati dalla loro terra vigorosa e affamata di futuro. Avevano indossato camicie floreali a colori vivaci sopra i loro mutandoni. Parimenti divisi fra percell e ortho, il gruppo era una sgargiante mistura di tipi e di colori. Mentre si univano anch'essi alle risate generali, una testa si girò. Virginia Kaninamanu Herbert sollevò gli occhi e, voltandosi, guardò nella sua direzione. Vide Saul e s'illuminò d'un brillante sorriso. Saul le strizzò l'occhio in risposta.
— … cercare nuovi composti chimici, o forse per venir usati nella terraformazione di mondi, donando la vita ai pianeti nostri fratelli che sono stati meno abbondatemente dotati rispetto alla nostra amata Terra.
«Forse qualcuno di voi si è offerto volontario per tutta la paga promessa in cambio del servizio richiesto, per la maggior parte settantacinque anni passati a dormire sul lavoro.
Applausi ed evviva, stavolta. Fischi di approvazione.
Cruz allargò le mani.
— Ma ci sono due ragioni speciali, per cui dovevamo venire qua, così lontani da casa, per una missione che separerà la maggior parte di noi in maniera permanente dalle nostre famiglie e dai nostri conoscenti tutti.
«Per prima cosa, e sarò franco con voi, molti sulla Terra guardano a questa missione, con i suoi molti membri di estrazione genetica alterata, come una prova della capacità dell'umanità di elevarsi al di sopra della superstizione e dei pregiudizi. Per cento anni la gente di buona volontà ha combattuto per svezzare la nostra specie dalle reazioni tribali più radicate, da quella paura dell'altro, del diverso, che ha causato un tale odio e orrore da tempi immemorabili…
Da tempi immemorabili… Saul chiuse gli occhi, ricordando Gerusalemme.
— … otterremo un grande risultato se dimostreremo alla gente della Terra che i cosiddetti ortho e i cosiddetti percell, vivendo e lavorando assieme in una lunga e pericolosa missione, possono fidarsi gli uni degli altri, semplicemente come esseri umani, e portare a casa grandi scoperte a beneficio dell'umanità intera.
«Lo stesso vale per i molti gruppi etnici e nazionali qui rappresentati. Noi siamo emissari del ventunesimo secolo inviati nel futuro. Per settanta e più anni, la gente laggiù a casa saprà che siamo qui, intenti a cooperare per il bene più grande.
Cruz lasciò che le parole si depositassero su di loro. Saul vide che molti fra i presenti si stavano guardando le punte dei piedi, d'un tratto a disagio come se non fossero sicuri di essere degni della sua fiducia.
— E, naturalmente, c'è la parte divertente. — Cruz si sfregò sogghignando le mani. — Siamo venuti qua fuori per provare un sacco di giocattoli tecnologici! Raccogliere le comete in orbite accessibili potrebbe spalancarci le porte dello spazio. Il nuovo appiglio alla prosperità che l'umanità ha riguadagnato, dopo il Secolo dell'Inferno, ce lo saremo assicurato per sempre.
«E se dimostreremo in maniera sensazionale che i colombari funzionano bene per più di settant'anni, come tutti i dati indicano che faranno, avremo stabilito che non c'è bisogno che l'umanità rimanga ingabbiata nel sistema solare. Le stelle, anche le stelle, saranno nostre!
Le parole rimasero sospese nell'aria gelida sopra il ronzio dei ventilatori.
E Saul vide ardere la convinzione su molti tra i visi dei presenti. La mascella eroica di Carl Osborn si protese in fuori in omaggio all'obiettivo del suo capitano.
Be', forse in parte è anche cocciutaggine pensò sardonicamente Saul. Quando Carl giocava a scacchi la sua metodica tenacia non voleva mai ammettere la sconfitta fino all'amara conclusione. Ma no pensò Saul, guardando la luce negli occhi del giovane. Lui crede nel sogno di Miguel. E ci credo anch'io, immagino.
Era ovvio che quella sensazione era condivisa da molti spaziali, sia percell che ortho. Quella era la passione di coloro che agognavano il Terzo Livello, il Terzo Altopiano… la gradinata che portava al cielo.
Però ce n'erano altri. Stavano zitti, ma si potevano leggere i segni. Dopotutto, quell'equipaggio non era stato reclutato interamente dai ranghi degli idealisti.
Perché mai un uomo o una donna si offriva volontario per andare in un pericoloso esilio, lontano da qualunque cosa gli fosse familiare? Per molti, compreso lui, Saul, la scelta non era stata del tutto volontaria.
Vide Marguerite van Zoon in piedi accanto ad Akio Matsudo all'ingresso della Galleria F e della nuova infermeria. L'Impero Francese le aveva dato la scelta di offrirsi «volontaria» per quella missione, oppure veder imprigionata tutta la sua famiglia per lesa maestà.
Come ultima cosa Saul aveva sentito dire che suo marito era andato in Indonesia e si era messo in animazione sospesa per aspettare il suo ritorno. Supponeva che fosse un ben piccolo conforto.
E poi c'era il tenente-colonello Suleiman Ould-Harrad. Potenti legami familiari gli avevano permesso di partecipare a quella missione invece di finire in una segreta della Mauritania. Ma lo spaziale nero non pareva per niente felice di trovarsi là. Si teneva sulla destra, insieme a Joao Quiverian e ad alcuni altri provenienti dalle terre equatoriali dell'Arco del Sole Vivente.
Percell e ortho, settentrionali e archisti, estremisti e moderati, e perfino qualche fanatico: Saul era certo che la situazione fosse all'incirca la stessa tra coloro che di trovavano ancora ibernati.
Cruz e Bethany Oakes erano condottieri capaci d'ispirare, e avrebbero ottenuto il meglio dai coloni, ma Saul non si aspettava affatto che quel lungo viaggio fosse privo di guai.
Mai niente lo è, Saul. L'esilio non equivale alla fuga.
Il capitano Cruz proseguì, con un tono cordiale:
— E adesso ho una sopresa per voi tutti. Parecchi di noi avevano molte speranze di grandi progressi scientifici durante questo viaggio, ma scommetto che nessuno di voi si aspettava che dopo poche settimane dall'arrivo avremmo già scritto un nuovo capitolo negli annali delle scoperte umane. — Saul vide agitarsi gli astanti. La gente si guardava a vicenda, un'ondata di scrollate di spalle e di occhiate confuse mostravano che il segreto aveva tenuto, pur con gli ultimi tre giorni di prove frenetiche, esperimenti e controlli raddoppiati.
Saul tirò fuori il fazzoletto e si soffiò quanto più silenziosamente possibile il naso che i suoi genitori gli avevano dato. Sapeva che quella avrebbe potuto essere la sua ultima possibilità per un bel po'.
Cruz sorrise al suo pubblico, spremendo al massimo la suspence per quello che valeva. Sollevò le mani e la folla si quietò un'altra volta.
— Certo non voglio appropriarmi dello spettacolo o rubare le luci della ribalta a qualcuno…
Oh, no si disse Saul. Aveva chiesto a Cruz di non farlo.
— … così, lasciate che chiami qui l'uomo che ha compiuto questa storica scoperta, il cui nome diverrà, nel giro di una settimana, oggetto di brindisi in tutto il sistema solare. Sali quassù, Saul Lintz, e descrivi quello che hai scoperto!
Sospiro.
Saul si spinse lontano dalla cassa da imballo mentre sparsi applausi si levavano da diversi punti della sala. Dopo che, incespicando una prima volta, si sollevò dal pavimento per qualche secondo, dovette sopportare di venir fatto passare di mano in mano da parte dei più esperti di microgravità.
Lungo il percorso, vide che la maggior parte degli applausi venivano da gruppi specifici: Matsudo e Malenkov, che l'avevano aiutato nelle analisi, gli hawaiani in prima fila, alcuni percell…
Altri invece, nei contingenti africani e latini, avevano distolto lo sguardo da lui, e avevano abbassato le braccia, incapaci, come lui, di dimenticare Gerusalemme.
Una donna gli passò le mani sotto il corpo, e lo spinse con forza: partì in volo, senza un minino accenno di rotazione, descrivendo un arco preciso che lo fece atterrare accanto a Bethany Oakes. Bel lancio pensò, quando la piccola donna lo girò in direzione del pubblico.
— Non preoccuparti, Saul — gli bisbigliò Cruz. — Verranno le gambe dello spaziale anche a te. Il tuo problema è che hai passato troppo tempo in quella dannata ruota.
Saul scrollò le spalle. — Alcuni di noi sono troppo vecchi per cambiare, Mike.
Cruz rise e con un gesto indicò che la parola era sua. Saul mise un piede avanti con cautela. Guardò l'assemblea.
— Uhm, sono sicuro che voi ricorderete…
— Più forte, Saul! — Una voce fortemente accentata gridò dal fondo della sala. — Non devi bisbigliare per dimostrarci che non sei un 'levita linguacciuto!
Dei rantoli si levarono dalla folla e parecchi volti scurì parvero d'un tratto impallidire. Saul riconobbe il grido di Malenkov e l'agitarsi della sua mano in fondo alla sala. Il sorridente orso russo aveva il tatto di un tornado. Ma Saul sorrise.
— Mi spiace. Cercherò di parlare più forte.
«Stavo per dirvi che sono certo che tutti ricorderete il fantastico spiegamento di composti organici trovato dalla spedizione sulla cometa di Encke mentre stavano sperimentando le tecniche necessarie a questa missione. Molti di quei composti erano sconosciuti fino a quel momento, e hanno condotto a cambiamenti rivoluzionari nel campo della chimica industriale.
«In effetti, qui, uno dei nostri obiettivi minori è di appurare se la natura non abbia cucinato per noi qualche altro meraviglioso polimero, o aggregato, destinati a diventare preziosi quanto e più dell'enkon e dei clatrati dello stagno.
Joao Quiverian, proprio sotto al podio, corrugò la fronte. Era stato lui a scoprire quei composti, durante la precedente missione, così, in un certo qual modo, era responsabile di alcune delle motivazioni ad esplorare ed a «sfruttare» le comete.
— Ma una delle più eccitanti scoperte su Encke fu che il nucleo di quell'invecchiata e quasi morta cometa conteneva una grande quantità di sostanze chimiche meglio definite come «prebiotiche»… un accumulo di purine, pirimidine, fosfati e amminoacidi quasi identici al tipo di miscuglio che i moderni biologi ritengono formasse la 'zuppa' primordiale che ha condotto alla vita sulla Terra. La speranza era, quando siamo partiti per questo viaggio, che studiando una cometa più grande e più giovane, avremmo potuto, sì, gettare un po' di luce su come erano le cose sul nostro mondo quattro miliardi di anni fa, quando tutto è cominciato.
Saul si schiarì la gola e sperò che il raschiare della sua voce venisse attribuito ad una raucedine ed eccitazione generali. Dieci file più in là, più o meno, fra i variopinti hawaiani, vide Virginia Herbert che gli sorrideva. L'ammirazione nei suoi occhi era piacevole, anche se un po' sconcertante.
Calma, ragazzo. Non immaginare più di quanto non ci sia. Non c'è dubbio che ti consideri una specie di surrogato del padre.
— Bene — riattaccò, — il dottor Malenkov, il dottor Quiverian ed io abbiamo studiato una delle ultime carote raccolte dal dottor Otis Sergeov…
— Non essere modesto, Saul — tornò a interromperlo Malenkov. — Sei stato tu a farlo: la colpa ricadrà su di te!
Stavolta, almeno, la gente rise e applaudì. Saul sorrise. Grazie, Nicholas. Dentro di sé si chiese se il russo non avesse ragione per davvero… se colpa avrebbe potuto, un giorno, essere la parola giusta. Guarda cos'è successo a Simon Percell, il cui nome avrebbe dovuto accompagnarsi a quelli di Galeno e Schweitzer. La fama era una signora volubile.
— … uh, bene, con l'aiuto di quei signori sono stato in grado di isolare…
Oh, suvvia, Saul rimproverò se stesso. Cosa penserebbe Miriam se fosse vissuta per vederti adesso, qui, in piedi, a balbettare, quando hai la possibilità di fare un annuncio del genere!
Saul drizzò la schiena, perdendo quasi l'equilibrio nel farlo. Guardò il suo pubblico e prese a prestito uno dei gesti di Miguel Cruz, allargando le mani.
— I segni sono netti. I campioni non si prestano ad ambiguità. Nessuna contaminazione può spiegare ciò che abbiamo trovato. Abbiamo lavorato per una settimana, per essere certi che non si trattasse di qualcosa portato dalla Terra.
«Come abbia fatto ad arrivare qui, nessuno riesce ad immaginarlo. Come abbia fatto a sopravvivere o ad evolversi… non abbiamo la più pallida idea. Ma quello che adesso sappiamo è che, a quanto pare, siamo inciampati su quello che l'umanità ha cercato fin da quando i nostri esploratori hanno messo piede su un altro mondo, quasi un secolo fa.
Sorrise. Che pensino quello che vogliono.
— Per la prima volta, signore e signori, per la prima volta abbiamo trovato i segni inequivocabili di vita al di fuori della Terra.