Uscendo dall’edificio del COMCON-2, Lev Abalkin senza fretta, con andatura pigra, percorse Via degli Aceri Rossi, entrò in una cabina videofonica lungo la strada e parlò con qualcuno. La conversazione durò un po’ più di due minuti, dopo di che Lev Abalkin, sempre senza fretta, incrociò le braccia dietro la schiena, svoltò per il viale e là si accomodò su una panchina accanto al monumento con il bassorilievo di Strogoff.
Mi parve leggesse con grande attenzione tutta l’iscrizione incisa sul monumento, poi si guardò distrattamente intorno e per una ventina di minuti sedette con l’aria dell’uomo che si riposa dopo un lavoro faticoso: aflargò le braccia sullo schienale della panchina, rovesciò all’indietro la testa e allungò le gambe incrociate. Gli si radunarono intorno gli scoiattoli, uno gli saltò sulla spalla e gli infilò il musetto nell’orecchio. Lui scoppiò a ridere forte, se lo prese sul palmo della mano e, tirando indietro le gambe, se lo mise a sedere sul ginocchio. E lo scoiattolo rimase seduto. Secondo me, si parlavano. Il sole era appena sorto, le strade erano quasi vuote, e sul viale oltre a lui non c’era un’anima.
Non mi facevo, ovviamente, nessuna illusione sul fatto che sarei riuscito a non farmi notare. Senza dubbio sapeva che non lo perdevo d’occhio, e, probabilmente, aveva già deciso come liberarsi di me, in caso di necessità. Ma non mi interessava. Mi preoccupava Sua Eccellenza. Non capivo che cosa stesse combinando.
Mi aveva ordinato di trovare Abalkin. Voleva incontrarsi con Abalkin per parlare con lui a quattr’occhi. Per lo meno, così era all’inizio, tre giorni fa. Poi si era convinto o, per essere più precisi, aveva convinto se stesso che Abalkin sarebbe senz’altro andato a cercare i detonatori. Allora aveva preparato la trappola. Di conversazioni tête a tête non se ne parlava più. C’era l’ordine di «prenderlo non appena si avvicinava alla sciarpa». E c’era la pistola. Evidentemente, nel caso non si fosse riusciti a prenderlo. Bene. Alla fine Abalkin va da lui. Ed è chiaro che Sua Eccellenza non ha niente da dire ad Abalkin. Niente di strano: Sua Eccellenza è convinto che il programma sia entrato in funzione e che perciò non abbia senso parlare con Abalkin. (È entrato veramente in funzione il programma? Le opinioni possono esser diverse, ma ora non ha importanza. Prima di tutto devo capire cosa ha in mente Sua Eccellenza.)
Allora, lascia andare Abalkin. Invece di bioccarlo direttamente nello studio ed affidarlo a medici e psicologi, lo lascia andar via. Sulla Terra pende una minaccia. Per scongiurarla, è sufficiente isolare Abalkin. Si potrebbe fare con i mezzi più elementari. E mettere finalmente il punto a questa faccenda. Ma lascia andare Abalkin e corre al museo. Può voler dire solo una cosa: è assolutamente certo che anche Abalkin al più presto si recherà al museo. A prendere i detonatori. Perché, se no? (Sembrerebbe la cosa più semplice, infilare quell’astuccio di ambra in un’astronave del tipo Spettro e spedirlo nello spazio nella notte dei tempi… Purtroppo, non si può fare: sarebbe un atto irreversibile.)
Abalkin compare nel museo (oppure si fa strada con la forza: ecco che lo aspetta Griša Serosovin)… Insomma, compare nel museo e incontra di nuovo Sua Eccellenza. Che quadro. Ed ecco che avviene il colloquio vero…
Sua Eccellenza lo ucciderà, pensai. Signore, abbi misericordia, pensai in preda al panico. Lui se ne sta qui seduto e gioca con gli scoiattoli e fra un’ora Sua Eccellenza lo ucciderà. È facile come bere un bicchier d’acqua. Proprio per questo Sua Eccellenza lo sta aspettando al museo, per vedersi il film fino alla fine; per capire, per vedere con i suoi occhi come avverrà ogni cosa; come il robot dei Nomadi cerchi la strada e trovi l’astuccio d’ambra (come? con gli occhi? a fiuto? con un sesto senso?), come lo apra e scelga il suo detonatore; che cosa si propone di fare con il detonatore… solo si propone, non di più, perché in quello stesso istante Sua Eccellenza premerà il grilletto, perché non sarà più possibile rischiare ancora.
Ed io mi dissi: no, non sarà così. Non si può dire che avessi attentamente considerato tutte le conseguenze del mio atto. Se devo esser sincero, non le considerai affatto. Semplicemente sbucai sul viale e andai dritto verso Abalkin.
Quando gli fui vicino, mi guardò con la coda dell’occhio e si voltò. Mi sedetti accanto a lui.
— Lev, — dissi, — se ne vada via. Subito.
— Mi pare di aver chiesto di essere lasciato in pace, — disse con la stessa voce di prima, bassa e incolore.
— Non la lasceranno in pace. La cosa è andata troppo avanti. Nessuno dubita di lei personalmente. Ma lei per noi non è più Lev Abalkin. Lev Abalkin non esiste più. Lei per noi è l’automa dei Nomadi.
— E voi per me non siete che una banda di idioti folli di paura.
— Non discuto, — ribattei. — Ma proprio per questo deve andarsene di qui, al più presto possibile ed il più lontano possibile. Vada su Pandora, Lev, ci rimanga qualche mese, dimostri loro che non c’è nessun programma dentro di lei.
— E perché? — disse. — In nome di che cosa devo dimostrare qualcosa a qualcuno? È umiliante.
— Lev, — dissi. — Se le capitasse di incontrare dei bambini spaventati, le sembrerebbe davvero umiliante fare lo sciocco davanti a loro per tranquillizzarli?
Per la prima volta mi guardò negli occhi. Mi fissò a lungo, quasi senza sbattere le palpebre, e capii che non credeva nemmeno una parola di quello che dicevo. Davanti a lui c’era un idiota folle di paura che mentiva ostinatamente per scacciarlo di nuovo ai confini dell’Universo, ma questa volta senza alcuna speranza di ritorno.
— E inutile, — disse. — La smetta di cianciare e mi lasci in pace. Devo andare.
Scostò con cautela lo scoiattolo e si alzò. Mi alzai anch’io.
— Lev, — dissi, — la uccideranno.
— Beh, non è così facile, — rispose con noncuranza e si allontanò lungo il viale.
Mi misi al suo fianco. Continuai a parlare. Dissi non so quali sciocchezze, che non era questo il caso in cui ci si potesse permettere di offendersi, e che è sciocco rischiare la vita solo per orgoglio, e che anche i vecchi li si può capire: sono quaranta anni che vivono sui carboni ardenti… Lui taceva o rispondeva caustico. Una o due volte addirittura sorrise: il mio comportamento, a quanto pare, lo divertiva. Arrivammo alla fine del viale e girammo per Via dei Lillà. Andavamo in direzione di Piazza della Stella.
Per la strada c’era ormai abbastanza gente. Questo non rientrava nei miei piani, ma nemmeno li disturbava particolarmente. Ci si può sentire male per strada, e in tal caso ci deve essere qualcuno che porti quello che ha perso i sensi dal medico più vicino… Lo porterò al nostro Razzodromo, è qui vicino, lui non farà nemmeno in tempo ad accorgersene. Là ci sono sempre pronte due-tre astronavi Spettro. Farò venire lì la Glumova, e tutti e tre atterreremo sulla verde Ruzhena, al mio vecchio campo. Per strada le spiegherò tutto, e che vada al diavolo il mistero della personalità di Lev Abalkin… Così. Ecco là, sul bordo della strada c’è un bioplano adatto. Libero. Proprio quello che serve…
Quando mi ripresi, la mia testa si trovava sulle ginocchia calde di una sconosciuta donna anziana, ed io ero come in fondo a un pozzo, e dall’alto in basso mi guardavano allarmati volti sconosciuti, e qualcuno invitava a non affollarsi troppo e lasciarmi respirare, e un altro ancora mi infilava premurosamente sotto il naso un’ampolla dall’odore penetrante, e una voce ragionevole diceva che non c’era nessun motivo di preoccuparsi, può capitare a tutti di sentirsi male per strada…
Il mio corpo mi sembrava un pallone gonfiato fino a scoppiare, che con un leggero tintinnio dondola sulla terra. Non sentivo dolore. A quanto pareva, mi era capitata una banalissima “giravolta in basso”, compiuta, per la verità, da una posizione da cui nessuno mai l’aveva compiuta.
— Non è niente, si sta riprendendo, va tutto bene…
— Rimanga sdraiato, rimanga sdraiato, o si sentirà male…
— Ora arriva il medico, il suo amico è corso a chiamarlo.
Mi sedetti. Mi sostenevano per le spalle. Dentro di me continuava il tintinnio, ma la testa era assolutamente lucida. Mi dovevo alzare, però non ce la facevo ancora. Attraverso il groviglio di gambe e di corpi che mi circondava, vidi che il bioplano era sparito. Però Abalkin non ce l’aveva fatta a portare la cosa fino in fondo. Se mi avesse colpito due centimetri più a sinistra, sarei rimasto senza conoscenza fino a sera. Ma o si era sbagliato lui, o all’ultimo momento aveva funzionato il mio istinto di conservazione…
Con un fruscio ed un fischio atterrò li accanto un bioplano, e un uomo ossuto si precipitò fuori e si fece largo attraverso la folla, chiedendo nel frattempo: «Cos’è successo? Sono un medico!».
E non so come mi ritornarono le gambe! Gli balzai incontro e, afferrandolo per una manica, lo spinsi verso la donna anziana, che fino allora mi aveva sostenuto la testa e che stava ancora in ginocchio.
— La signora si sente male, la aiuti…
La lingua mi obbedì appena. Nel silenzio calato all’improvviso mi feci strada fino al bioplano, mi buttai a bordo sul sedile e accesi il motore. Feci ancora in tempo a sentire un grido sorpreso e di protesta: «Ma aspetti un momento!…», e un istante dopo sotto di me si apriva Piazza della Stella inondata dal sole mattutino.
Tutto era come in un sogno che si ripeteva. Come sei ore prima. Corsi di sala in sala, di corridoio in corridoio, destreggiandomi fra stand e vetrine, fra statue e plastici simili a meccanismi senza senso, fra meccanismi e apparecchi simili a delle orribili Statue, solo che ora tutto intorno era inondato da una luce chiara, ed io ero solo e le mie gambe vacillavano, e non avevo paura di arrivare tardi, perché ero sicurissimo di arrivare troppo tardi.
Ero arrivato ormai troppo tardi.
Schioccò uno sparo. Lo sparo, basso e secco, di un “duca”. Mi arrestai nel bel mezzo della corsa. Tutto finito. Ripresi a correre con le ultime forze. Davanti, a destra, balenava fra orribili forme una figura in camice bianco. Griša Serosovin soprannominato Acquario. Anche lui era arrivato tardi.
Schioccarono ancora due spari, uno dopo l’altro… «Lev, la uccideranno» «Non è così facile…» Ci precipitammo contemporaneamente nello studio di Maja Glumova, Griša e io.
Lev Abalkin giaceva sulla schiena nel mezzo della stanza, e Sua Eccellenza, enorme, curvo, con la pistola nella mano che penzolava, gli si avvicinava cautamente a piccoli passi, e dall’altro lato, reggendosi al bordo del tavolo con entrambe le mani, si avvicinava ad Abalkin Maja Glumova.
La Glumova aveva un viso immobile, del tutto indifferente, ma gli occhi erano storti verso la radice del naso in modo terribile e innaturale.
La calvizie color zafferano e la guancia leggermente floscia di Sua Eccellenza erano coperte di gocce di sudore.
C’era un odore di polvere da sparo acuto, acido, insolito.
E c’era silenzio.
Lev Abalkin era ancora vivo. Le dita della sua mano destra senza forza e con ostinazione graffiavano il pavimento, come se cercassero di raggiungere il dischetto grigio del detonatore che si trovava a un centimetro da loro. Con un segno che sembrava una «Ž» stilizzata o il geroglifico giapponese “sandzju”.
Mi avvicinai ad Abalkin e mi accoccolai accanto a lui. (Sua Eccellenza mi gridò un avvertimento.) Abalkin con occhi vitrei fissava il soffitto. Il viso era coperto come prima di macchie grige, la bocca era sanguinante. Lo toccai sulla spalla. La bocca sanguinante si mosse e lui disse:
— Accanto all’uscio gli animali stavano…
— Lev, — chiamai.
— Accanto all’uscio gli animali stavano, — ripeté cocciuto. — Accanto all’uscio…
A quel punto, Maja Tojvovna Glumova cominciò a urlare.