Intorno alle 18.00 capitarono da me (senza preavviso) Andrej e Aleksandr. Nascosi la cartella nella scrivania e subito annunciai severo che non avrei tollerato discorsi di lavoro, tanto più che ora non dipendevano da me ma da Clavdij. Inoltre, ero occupato.
Loro cominciarono a lamentarsi perché non erano affatto venuti per ragioni di lavoro, ma perché avevano sentito nostalgia di me e perché così non andava proprio. Furono bravi a far la lagna. Cominciai ad ammorbidirmi. Aprimmo il bar e, per un po’, chiacchierammo animatamente dei miei cactus. Poi, all’improvviso, mi accorsi per caso che non stavano più parlando dei cactus ma di Clavdij, e la cosa era anche giustificata perché Clavdij era un tipo così spinoso e bernoccoluto che faceva subito venire in mente un cactus, ma non feci in tempo a dire «ah» che quei giovani provocatori Con grande abilità e naturalezza erano passati a parlare del caso dei bioreattori e del “Capitano Nemo”.
Facendo finta di niente, li lasciai riscaldare, e poi, proprio nel momento culminante, quando ormai avevano deciso che il loro capo era bello e spacciato, li pregai di levarsi di torno. E stavo per cacciarli via, perché ero proprio arrabbiato, con loro e con me stesso, quando (pure lei senza preavviso) apparve Alena. È il destino, pensai, e me ne andai in cucina. Tanto era ormai ora di cena, e persino i giovani provocatori si rendevano Conto che non era il caso di parlare di cose di lavoro davanti agli estranei.
La cena fu molto piacevole. I provocatori, ormai dimentichi di tutto, fecero la ruota davanti ad Alena. Quando lei tagliò corto, mi misi io a far la ruota, se non altro per mantenere animata la conversazione. Questo pavoneggiarsi sfociò in una lunga discussione: dove andare? Aleksandr pretendeva di andare all’Octopus, ed al più presto, perché le cose migliori lì sono all’inizio. Andrej si infervorava, come un vero critico musicale; i suoi attacchi contro l’Octopus erano appassionati e sorprendentemente privi di contenuto, la sua teoria sulla musica contemporanea colpiva per la sua freschezza e si riduceva al fatto che, quella notte, era proprio il momento giusto per provare le vele del suo nuovo yacht «Il saggio». Io ero per le sciarade o, al limite, per il gioco dei pegni. Alena, avendo capito che io quella sera non intendevo uscire e che avevo da fare, si risentì e cominciò a far casino. «Al diavolo l’Octopus! — gridava. — Ammainiamo le vele! Facciamo baldoria!» E così via.
Nel pieno di questa discussione, alle 19.33, fischiò il videofono. Andrej, che era il più vicino all’apparecchio, premette il tasto. Lo schermo si illuminò, ma l’immagine non apparve. E non si sentiva nulla, perché Aleksandr gorgheggiava a piena voce: «Le isole, le isole, le isole!…», accompagnando il canto con dei movimenti del corpo nel tentativo di imitare l’inimitabile V. Tuareg, mentre Alena gli contrapponeva la Canzone senza parole di Glière[17] (ma forse non è di Glière).
— Silenzio! — berciai, raggiungendo il videofono.
Ci fu un po’ più di calma, ma l’apparecchio continuava a tacere e lo schermo rimaneva vuoto. Difficilmente si trattava di Sua Eccellenza, perciò mi tranquillizzai.
— Aspetti, sposto l’apparecchio, — dissi rivolto allo scintillio azzurrino.
Nello studio misi il videofono sulla scrivania, mi accomodai in poltrona e parlai:
— Ecco qui c’è un po’ più di silenzio… Solo, tenga presente che io non la vedo.
— Mi scusi, ho dimenticato… — fece una bassa voce maschile, e sullo schermo apparve un volto stretto, bluastro-pallido, con delle profonde pieghe ai lati del naso fin giù ai mento. Un’ampia fronte bassa, grandi occhi profondamente infossati, capelli neri lisci che arrivavano fino alle spalle.
È curioso: lo riconobbi, ma non capii subito chi fosse.
— Salve, Mak, — disse. — Mi riconosce?
Ebbi bisogno di qualche secondo per riprendere il controllo. Ero assolutamente impreparato.
— Certo, certo… — tirai per le lunghe, pensando febbrilmente a come mi dovevo comportare.
— Lev Abalkin, — mi ricordò lui. — Si ricorda? Sarakš, il Serpente Azzurro…
— Signore! — esclamò il giornalista Kammerer, in passato Mak Sim, residente della Terra sul pianeta Sarakš. — Lev! Ma mi avevano detto che non era sulla Terra e che non si sapeva quando ci sarebbe venuto… Oppure è ancora là?
Sorrise.
— No, sono qui… Ma forse l’ho disturbata?
— Lei non mi disturba affatto! — disse sincero il giornalista Kammerer. Non quel giornalista che era andato a trovare Maja Glumova, ma piuttosto quello che era andato dall’insegnante. — Ho bisogno di lei! Sto scrivendo un libro sui Testoni!
— Sì, lo so, — mi interruppe. — È per questo che l’ho chiamata. Ma, Mak, ormai è molto tempo che non ho a che fare con i Testoni.
— Questo non ha importanza, — ribatté il giornalista Kammerer. — Ha importanza che lei sia stato il primo ad avere a che fare con loro.
— Veramente, il primo è stato lei…
— No. Li ho semplicemente scoperti e basta. E su di me ho già scritto. Ed ho raccolto i materiali degli ultimi lavori di Komov. Come vede, il prologo e l’epilogo ci sono già, manca una sciocchezza: il contenuto fondamentale… Senta, Lev, dobbiamo assolutamente incontrarci. Starà molto sulla Terra?
— Non molto, — disse. — Ma ci incontreremo senz’altro. Per la verità, oggi non vorrei…
— Ma certo, oggi anche per me non va bene, — afferrò al volo il giornalista Kammerer. — Cosa ne direbbe di domani?
Per un po’ mi fissò in silenzio. Mi accorsi all’improvviso che non riuscivo a capire di quale colore avesse gli occhi, perché erano troppo profondamente infossati sotto le sopracciglia spioventi.
— Straordinario, — disse alla fine. — Lei non è affatto cambiato. Ed io?
— Devo esser sincero? — chiese il giornalista Kammerer, tanto per dire qualcosa.
Lev Abalkin sorrise di nuovo.
— Sì, — disse. — Sono passati venti anni. E sa, Mak, ricordo quel periodo come il più felice. Tutta la vita era davanti, tutto era appena all’inizio… E sa, ora ricordo quel periodo e penso: che fortuna ho avuto a cominciare con capi come Komov e come lei, Mak…
— Ma no, Lev, non esageri, — disse il giornalista Kammerer.
— Che cosa c’entro io?
— Come che cosa c’entra lei? Komov dirigeva, Rawlingson ed io eravamo gli esecutori, ma il coordinamento lo faceva lei!
Il giornalista Kammerer fece tanto d’occhi. E così pure io, ed in più mi misi sulla difensiva.
— Ma Lev, — disse il giornalista Kammerer, — lei, mio caro, era molto giovane e, evidentemente, non ha capito nulla del rapporto di subordinazione di allora. L’unica cosa che feci per voi fu di assicurare la sicurezza, il trasporto e i generi alimentari… Tutto qua…
— E forniva le idee! — insisté Lev Abalkin.
— Quali idee?
— L’idea della spedizione al Serpente Azzurro non è sua?
— Beh, in un certo qual modo…
— Vede! Questa è una. E l’idea che con i Testoni dovessero lavorare non gli zoopsicologi ma i Progressori: questa è un’altra!
— Aspetti, Lev! Questa è un’idea di Komov! Ed inoltre io non mi interessavo affatto di voi! In quel periodo c’era la rivolta su Pandea! Le prime operazioni di sbarco dell’Impero Insulare. Lei sa bene che… Oh, Signore! Se devo essere sincero, allora mi dimenticai addirittura di voi! Di voi si occupava Zef, e non io! Ricorda un aborigeno dai capelli rossi?
Lev Abalkin si mise a ridere, scoprendo i denti bianchi.
— Non c’è proprio niente da ridere! — esclamò arrabbiato il giornalista Kammerer. — Lei mi mette a disagio. Che assurdità! No, mio caro, si vede che mi sono messo giusto in tempo a lavorare a questo libro. Guarda che razza di idiozie giravano!…
— Va bene, va bene, non lo farò più, — disse Abalkin. — Continueremo questa discussione di persona…
— Ecco, proprio così, — disse il giornalista Kammerer. — Solo che non c’è niente da discutere. E non ci sarà nessuna discussione. Allora…
Il giornalista si mise a giocare con i bottoni del suo bloc-notes da tavolo.
— Domani alle 9.00 da me… Oppure, forse, le fa più comodo…
— Facciamo da me, — disse Lev Abalkin.
— Allora, mi dia l’indirizzo, — ordinò il giornalista Kammerer. Era ancora su di giri.
— Stazione balneare «I Pioppi», — disse Lev Abalkin. — Cottage numero sei.