Lei tacque, come se si riprendesse, e anch’io mi ripresi, solo qualche secondo prima. Del resto, stavo lavorando. Il dovere. Il senso del dovere. Ciascuno è tenuto a fare il suo dovere. Parole stantie, aspre. Dopo tutto quello che mi era toccato ascoltare. Avrei voluto infischiarmene del dovere e fare tutto il possibile per tirar fuori quella donna infelice dal pantano della sua incomprensibile disperazione. Forse, era proprio questo il mio dovere.
Ma sapevo che non era così, che non era così per molte ragioni. Per esempio, perché non so tirar fuori la gente dal pantano della disperazione per il semplice motivo che non so come si fa. Non so nemmeno da che parte si comincia. E perciò più di tutto desideravo ora alzarmi, scusarmi e andarmene. Ma, ovviamente, non potevo farlo, perché dovevo assolutamente sapere dove si erano incontrati e dove si trovava ora lui…
Lei chiese di nuovo all’improvviso:
— Ma lei chi è?
Pose questa domanda in tono secco, e anche i suoi occhi erano freddi e lucenti, quasi febbricitanti.
Fino al mio arrivo se ne era stata là da sola, nonostante che intorno ci fossero tanti suoi colleghi e, con ogni probabilità, anche degli amici. Comunque era rimasta sola, forse qualcuno si era avvicinato e aveva anche cercato di farla parlare, ma poi era rimasta sola, perché nessuno qui sapeva né poteva sapere niente dell’uomo che riempiva il suo animo di una terribile disperazione — di una cocente delusione che la rendeva debole — e di tutto quello che si era accumulato in lei durante quella notte, che voleva esplodere ma non trovava via d’uscita. Ed ecco che ero arrivato io e avevo fatto il nome di Lev Abalkin. Avevo proprio messo il coltello nella piaga. E allora gli argini si erano rotti e per un po’ lei si era sentita sollevata, era riuscita finalmente a gridare, a liberarsi dal dolore; la sua ragione si era liberata, e allora io smisi di essere un guaritore, e diventai quello che ero in realtà, un estraneo incontrato casualmente. E però ora le era chiaro che, in realtà, non potevo essere capitato per caso, perché non esistono casi come questo. Perché non esiste che ci si lasci con l’innamorato venti anni prima, non si sappia per venti anni nulla di lui, non si senta per venti anni il suo nome e poi, dopo venti anni, lo si incontri e si passi la notte con lui, una notte amara e terribile, più amara e terribile di qualsiasi addio, e il mattino dopo, per la prima volta in venti anni, si senta il suo nome da un estraneo, incontrato casualmente…
— Ma lei chi è? — chiedeva lei in tono secco.
— Mi chiamo Maksim Kammerer, — risposi per la terza volta, cercando di fare la faccia sbigottita. — Sono una specie di giornalista… Ma, per l’amor di Dio… Evidentemente, non càpito a proposito… Vede, raccolgo materiale per un libro su Lev Abalkin…
— Che cosa sta facendo qui?
Non mi aveva creduto. Forse aveva capito che non stavo cercando materiale su Lev Abalkin, ma Abalkin in persona. Dovevo adeguarmi. E in fretta. Ovviamente, mi adeguai.
— In che senso? — chiese il giornalista Kammerer, un po’ perplesso e addirittura allarmato.
— Che compito ha?
Il giornalista Kammerer si mostrò stupito.
— Compito? Non capisco proprio… — Il giornalista Kammerer era pietoso. Senza dubbio, non era pronto a un incontro del genere. Stava facendo la figura dello stupido e non sapeva proprio come tirarsi fuori da questa situazione. Più di tutto il giornalista Kammerer avrebbe voluto scappar via. — Maja Tojvovna, ma io… Per amor di Dio non pensi che… Faccia conto che non ho sentito niente… Ho già dimenticato tutto!… È come se non ci fossi mai stato!… Ma se posso aiutarla…
Il giornalista Kammerer balbettava parole sconnesse ed era violaceo per l’imbarazzo. Non stava più seduto, ma proteso sul tavolo in una posa servizievole e scomodissima e cercava, per farle coraggio, di stringere il gomito di Maja Tojvovna. Probabilmente era disgustoso a vedersi, ma assolutamente innocuo e stupido.
— … Vede, il mio modo di lavorare… — borbottava nel misero tentativo di giustificarsi — probabilmente è discutibile, non so, ma prima mi era sempre andata bene… Comincio dalla periferia: i colleghi, gli amici… gli insegnanti, gli istruttori, naturalmente… E poi, tutto il resto, affronto l’oggetto principale del mio studio… Mi sono informato al COMCON e mi hanno detto che Abalkin sta per tornare sulla Terra… Con l’insegnante ho già parlato, con il medico pure… Poi ho deciso di parlare con lei… ma non era il momento giusto!… Mi scusi ancora… Non sono cieco, vedo che si è verificata una spiacevolissima coincidenza…
Ed in qualche modo quello sciocco e goffo giornalista Kammerer riuscì a tranquillizzarla. Lei si rilassò sulla poltrona e si coprì il viso con le mani. I sospetti sparirono, sopraggiunsero la vergogna e la stanchezza.
— Sì, — disse. — È una coincidenza…
Ora il giornalista Kammerer avrebbe dovuto girare i tacchi e sparire in punta di piedi. Ma non era un tipo così, questo giornalista. Non poteva lasciar così da sola quella donna estenuata e sconvolta, che senza dubbio aveva bisogno di appoggio e sostegno.
— Naturalmente si tratta solo di una coincidenza… — borbottò lui. — Dimentichiamo tutto, non è successo niente… Poi, quando lei vorrà… quando le sarà comodo… le sarò molto grato, naturalmente. Non è la prima volta che mi capita di parlare all’inizio non con il mio oggetto principale, ma solo dopo… Maja Tojvovna, forse è il caso di chiamare qualcuno? Faccio in un istante…
Lei taceva.
— No, non c’è bisogno, va bene così… E perché poi? Starò io qui con lei… per ogni evenienza…
Finalmente lei si scostò la mano dagli occhi.
— Non deve star qui con me, — disse con voce stanca. — Se ne vada piuttosto dal suo oggetto principale…
— Ma no! — protestò il giornalista Kammerer. — C’è tempo. L’oggetto è pur sempre un oggetto, e non vorrei mai lasciarla sola… Ho tutto il tempo che voglio… — Guardò l’orologio con una certa ansia. — Ma il mio oggetto non scappa certo! Ora lo prendo… E sicuramente adesso non sarà in casa. Li conosco questi Progressori in ferie… Ora se ne va in giro per la città e si dedica ai ricordi sentimentali…
— Non è in città, — disse Maja Tojvovna, che si controllava ancora. — Per andare da lui ci vogliono due ore di volo…
— Due ore di volo? — Il giornalista Kammerer si mostrò spiacevolmente sorpreso. — Scusi, ma avevo avuto l’impressione…
— Si trova sulle colline di Valdai! Casa di riposo «I Pioppi»! Sul lago Vel’! E si ricordi che il trasporto-zero non funziona!
— M-m-m! — disse forte il giornalista Kammerer.
Un viaggio aereo di due ore, evidentemente, non rientrava nei suoi programmi della giornata. Si poteva addirittura pensare che fosse un nemico dei viaggi aerei.
— Due ore… — borbottò. — Così, dunque… Mi immaginavo tutto diversamente… Le chiedo scusa, Maja Tojvovna, ma forse ci si può mettere in contatto con lui da qui?
— Probabilmente, si può, — disse Maja Tojvovna con voce spenta. — Non so il numero… Senta, Kammerer, mi lasci sola, Tanto, da me ora non ne caverà fuori niente.
E solo ora il giornalista Kammerer notò fino in fondo l’imbarazzo della sua posizione. Balzò in piedi e si precipitò verso la porta. Si riprese, ritornò indietro. Borbottò delle scuse incomprensibili. Di nuovo corse alla porta, facendo cadere la poltrona. Continuando a borbottare delle scuse, rialzò la poltrona e la rimise a posto con grande cautela, proprio come se fosse stata di cristallo e porcellana. Indietreggiò, si inchinò, spalancò col sedere la porta e sparì nel corridoio.
Chiusi piano la porta e rimasi fermo per un po’ a massaggiarmi col dorso delle mani i muscoli intorpiditi del viso. Avevo la nausea e mi vergognava di me stesso.