CAPITOLO OTTAVO

Cielo e Terra non sono umani.

Lao Tse: V

Nel corso della seconda guerra mondiale, l’unica parte del territorio americano che subì l’attacco del nemico fu lo Stato dell’Oregon. Alcuni palloni incendiari giapponesi appiccarono fuoco a una foresta, sulla costa. Nella prima guerra interstellare, l’unica parte del territorio americano che subì un’invasione fu lo Stato dell’Oregon. Si potrebbe attribuirne la colpa ai suoi uomini politici; la funzione storica di un senatore dell’Oregon pare quella di far ammattire tutti gli altri senatori, e le ruvidezze di questo Stato non sono mai state appianate da qualche lubrificante militare. Gli unici depositi posseduti dall’Oregon non erano di armi nucleari, ma soltanto di fieno; e non aveva nessuna piattaforma di lancio missilistica, nessuna base della NASA. Era chiaramente indifeso. I Missili Balistici Anti-Alieni (MBAA) che lo difendevano partivano dalle enormi installazioni sotterranee di Walla Walla, dello Stato di Washington, e di Round Valley (California). Dall’Idaho, la cui area apparteneva prevalentemente all’Aviazione degli Stati Uniti, enormi XXTT-9900 supersonici si lanciarono ululando in direzione ovest, spaccando i timpani a tutti, da Boise a Sun Valley, per attaccare ogni astronave Aliena che eventualmente riuscisse a filtrare attraverso l’infallibile rete missilistica.

Respinti dalle astronavi Aliene, che erano provviste di uno strumento che metteva fuori uso i loro sistemi di guida, gli MBAA cambiarono direzione nella stratosfera e tornarono indietro, cadendo ed esplodendo qui e là nello Stato dell’Oregon. Un olocausto si scatenò sulle asciutte pendici orientali delle Cascate. Gold Beach e le Dalles furono spazzate da tempeste di fuoco. Portland non venne colpita in pieno, ma un missile vagante a testata nucleare colpì Monte Hood, nei pressi del vecchio cratere, e destò il vulcano dormiente. Subito si ebbero terremoti e uscite di vapori, e a mezzodì del primo giorno dell’invasione Aliena, primo aprile, sulla parte nordoccidentale di Monte Hood si apriva già un nuovo cratere, in violenta eruzione. La lava arroventò il fianco senza neve, disboscato, del vulcano, minacciando le comunità di Zigzag e Rododendro. Cominciò a formarsi una grossa nuvola di ceneri, e in poche ore l’aria di Portland, a sessanta chilometri di distanza, divenne spessa e grigia. Quando giunse la sera e il vento cambiò direzione, volgendo a sud, l’aria si schiarì un poco, rivelando le luci rosso-cupe dell’eruzione, tra le nubi dell’est. Il cielo, piena di pioggia e di ceneri, rimbombava per il volo dei WWTT-9900 che cercavano invano le astronavi Aliene. Altri stormi di bombardieri e di caccia continuavano intanto ad arrivare dalla Costa Atlantica e dalle altre nazioni del Patto; spesso finivano con l’abbattersi accidentalmente tra loro. La terra tremava per il terremoto e per le percosse delle bombe e degli aeroplani caduti. Una delle astronavi Aliene era atterrata a poco più di un centinaio di chilometri di distanza da Portland, e così la periferia sudoccidentale della città venne polverizzata dai bombardieri che devastavano metodicamente l’area di trenta chilometri quadrati in cui doveva trovarsi la nave spaziale. In realtà erano già arrivati dei dispacci che comunicavano la sua sparizione dalla zona, ma bisognava pur fare qualcosa. Molte bombe caddero per errore anche su altre parti della città, come sempre succede quando sono di scena i bombardieri a reazione. In centro non rimaneva una sola finestra con ancora i vetri. Quei vetri giacevano per terra, nelle strade, ridotti a frammenti di pochi centimetri. I profughi provenienti dalla zona sudoccidentale di Portland dovettero passare su quei vetri; le donne portavano i figli in braccio e camminavano piangendo per il dolore, con le scarpe sottili piene di cocci di vetro.


William Haber era fermo accanto alla grande finestra del suo ufficio, all’Istituto Onirologico dell’Oregon: osservava i bagliori degli incendi provenienti dai moli, e i lampi sanguigni dell’eruzione. Quella finestra aveva ancora i vetri; nei pressi di Washington Park non era ancora caduto né esploso nulla, e i tremori sismici che spaccavano in due, giù al fiume, interi edifici, qui sulle colline non avevano fatto altri danni se non quello di scuotere un poco le finestre. Molto debolmente, si poteva udire il barrito degli elefanti dello zoo. A nord apparivano di tanto in tanto bagliori di uno strano colore rossastro: forse si trattava della zona in cui si univano i fiumi Willamette e Columbia; ma era difficile essere certi di qualcosa, in quel crepuscolo caliginoso. Grandi zone della città erano buie per la mancanza di energia elettrica; altre zone luccicavano debolmente, anche se i lampioni cittadini erano spenti.

Nell’Istituto non c’erano altre persone.

Haber aveva perso tutta la giornata cercando George Orr. Quando la ricerca si era dimostrata inutile, e quando la sua prosecuzione era stata resa impossibile dall’isterismo e dal progressivo sfacelo della città, era venuto qui in Istituto. Era stato costretto a percorrere a piedi la maggior parte del tragitto, e aveva trovato molto spiacevole quell’esperienza. Un uomo della sua posizione, con tante incombenze, aveva ovviamente un’auto a batteria. Ma la batteria si era esaurita, ed egli non aveva potuto recarsi alla ricarica perché le strade erano troppo affollate. Era stato costretto a uscire dalla vettura e a camminare contro la corrente della folla, fronteggiando tutte quelle persone, proprio in mezzo a loro. Era stata un’esperienza assai antipatica. Non gli piaceva la folla. Ma poi l’affollamento era cessato, ed egli si era trovato a dover camminare tutto solo per le vaste aree di prati, di boschetti e di foreste del Parco: e quest’esperienza sì era rivelata ancora più antipatica.

Haber si considerava un lupo solitario. Non aveva mai cercato il matrimonio e si limitava ad amicizie superficiali; aveva scelto come professione un’ardua ricerca, da condursi mentre gli altri dormivano; aveva evitato ogni legame. Limitava quasi sempre la sua vita sessuale a episodi di una notte, a pagamento, con partner che a volte erano donne, a volte adolescenti di sesso maschile; sapeva in quali bar, cinema e saune recarsi per trovare ciò che desiderava. Prendeva ciò che gli interessava e poi troncava la relazione, prima che in lui o nell’altra persona potesse sorgere una specie di bisogno reciproco. Attribuiva molto valore alla sua indipendenza, alla sua libertà.

Ma gli era parso terribile l’essere solo, completamente solo, nell’enorme, indifferente Parco, mentre camminava in fretta, quasi correndo, verso l’Istituto, perché non aveva altri posti in cui andare. Vi giunse e lo trovò deserto, avvolto nel silenzio.

Miss Crouch teneva una radiolina a transistor nel cassetto della scrivania. Haber la prese e la tenne accesa a basso volume, per ascoltare le ultime notizie, o, almeno, una voce umana.

Nell’Istituto c’era quanto gli occorreva; letti a decine, e cibo: i distributori automatici di panini e bevande gassate, usati da coloro che lavoravano tutta la notte nei laboratori del sonno. Ma non aveva fame. Anzi, provava una sorta di apatia. Ascoltava la radio, ma la radio non poteva ascoltare lui. Era solo, e nulla, in quella solitudine, pareva essere reale. Aveva bisogno di qualcuno, di una persona qualsiasi, con cui parlare: doveva dirle ciò che provava, per poter sapere se trovava davvero qualcosa. Questo orrore della solitudine era abbastanza intenso da indurlo quasi a uscire dall’Istituto per tuffarsi di nuovo nella folla, ma l’apatia era ancora più grande della paura. Non uscì, e la notte divenne più buia.

Sul Monte Hood, occasionalmente, il bagliore rossiccio si gonfiava in modo enorme, poi impallidiva. Qualcosa di grosso colpì la zona sudovest della città, che non era visibile dal suo ufficio; presto la parte inferiore delle nubi si accese di un chiarore livido, che pareva alzarsi da quella direzione. Haber si recò nel corridoio per vedere quel che si poteva vedere, portando con sé la radio. C’erano delle persone che salivano le scale: prima non se n’era accorto. Per un istante rimase a fissarle senza riuscire a dire nulla.

— Dottor Haber — fece una delle persone.

Si trattava di Orr. — Finalmente, lei arriva — disse Haber, con amarezza. — Dove diavolo si era cacciato? Entri!

Orr si fece avanti, zoppicando. La parte sinistra della sua faccia era gonfia e sporca di sangue; aveva un taglio sul labbro; uno degli incisivi era rotto. La donna che lo accompagnava aveva un’aria meno sbattuta, ma più stanca: occhi offuscati, ginocchia tremanti. Orr la fece sedere sul divano dell’ufficio. Haber, con voce profonda e dottorale, chiese: — La signorina ha ricevuto un colpo sulla testa?

— No. È stata una giornata faticosa.

— Sto bene — mormorò la donna, rabbrividendo un poco. Orr fu svelto e sollecito; le tolse le scarpe orribilmente infangate e stese sopra di lei la coperta di cammello che era ai piedi del divano; Haber si chiese chi potesse essere, ma non dedicò più di un pensiero a questo problema. La sua mente ricominciava a funzionare. — La lasci riposare, non ha niente. Venga qui, si ripulisca. Ho perso tutta la giornata, cercando lei. Dov’era finito?

— Tentavo di tornare in città. Siamo capitati in mezzo a un bombardamento, hanno fatto saltare la strada proprio davanti alla mia macchina. Ho perso il controllo, e l’auto si è rovesciata, credo. Heather era dietro di me, e si è fermata in tempo: la sua macchina non ha subito danni, e io sono salito con lei. Ma abbiamo dovuto prendere l’autostrada perché la statale era tutta rotta, poi abbiamo dovuto lasciare la vettura a un blocco stradale, vicino al giardino ornitologico. Così, abbiamo attraversato il Parco.

— Ma dove diavolo era andato? — Haber aveva preso dell’acqua calda nel suo bagno privato, vi aveva tuffato un asciugamano, e ora lo porgeva a Orr perché si pulisse la faccia.

— Ero nel mio villino, sulla Catena Costiera.

— Che cosa ha alla gamba?

— Me la sono contusa quando si è rovesciata la macchina, credo. Senta, gli Alieni sono già in città?

— Se i militari lo sanno, non lo dicono. Dicono soltanto che le grandi astronavi, dopo essere atterrate, questa mattina, si sono suddivise in piccole unità mobili, simili a elicotteri, e si sono disperse. La parte occidentale dello Stato ne è piena. Dicono che si muovono lentamente, ma non dicono di averne abbattute.

— Ne abbiamo vista una — disse Orr. La sua faccia emerse dall’asciugamano: era segnata di ecchimosi rosse, ma faceva meno impressione di prima, adesso che il sangue e il fango erano scomparsi. — Almeno, doveva essere una delle loro unità mobili. Non molto grande, di colore argenteo; volava a una quindicina di metri di altezza, su un pascolo accanto a North Plains. Pareva che saltellasse. Aveva un aspetto extraterrestre. Ma cosa fanno gli Alieni? Ci combattono? Abbattono gli aerei?

— La radio non lo dice. Non c’è notizia di vittime, salvo che tra i civili. Su, venga, prenda un caffè e mangi qualcosa. E poi, per Dio, faremo una seduta della Terapia qui, in mezzo all’inferno, e metteremo fine a questo stupido pasticcio da lei combinato. — Aveva preparato una siringa con pentotal sodico; ora prese il braccio di Orr e gli fece l’iniezione, senza preavviso e senza scuse.

— Sono venuto qui per questo. Ma non so se…

— Non sa se può farlo? Può farlo. Venga! — Orr si era chinato di nuovo sulla donna. — Sta bene. Dorme, la lasci stare, non ha bisogno d’altro. Venga! — Accompagnò Orr ai distributori automatici, prese un panino con arrosto, un altro con uova e pomodoro, due mele, quattro tavolette di cioccolato, due tazze di caffè. Si sedettero a una tavola del Laboratorio del Sonno A, togliendo di mezzo un gioco di pazienza che era stato abbandonato all’alba, quando le sirene si erano messe a suonare. — Bene. Mangi. Ora, nel caso lei pensi che rimettere a posto questo pasticcio sia un’impresa superiore alle sue forze, non se ne preoccupi. Ho fatto delle modifiche all’Aumentore, e può occuparsene la macchina. Ho il modello, il campione delle sue emissioni cerebrali durante il sogno efficace. L’errore da me fatto per tutto il mese è stato quello di cercare un’entità determinata, un’Onda Omega. Ebbene, quest’onda non esiste. È semplicemente uno schema formato dalla combinazione di altre onde, e in questi ultimi due giorni, prima che si scatenasse l’inferno, sono finalmente riuscito a scoprire le sue caratteristiche. Il ciclo dura 97 secondi. Questo per lei non significa nulla, anche se si tratta di un’attività del suo cervello. Mettiamola in questo modo: quando lei fa un sogno efficace, tutto il suo cervello è coinvolto in uno schema di emissione, complesso e sincronizzato, che richiede 97 secondi per completarsi e per ricominciare da capo; una specie di effetto a contrappunto che sta ai normali grafici dello stadio-d come la Nona di Beethoven sta a Siam tre piccoli porcellin. È incredibilmente complesso, eppure è uno schema coerente e si ripete con regolarità. Perciò posso rinviarlo direttamente al suo cervello, amplificato. L’Aumentore è già a posto, è pronto per lei, è proprio adatto all’interno del suo cervello, finalmente! Questa volta, mio caro, quando lei sognerà, sognerà davvero qualcosa di grande! Abbastanza grande da fermare questa invasione, e da trasportarci direttamente in un altro continuum, dove possiamo ricominciare tutto da capo. È appunto questo, ciò che lei fa; lo sapeva? Lei non cambia le cose, o le vite; lei sposta l’intero continuum.

— È bello poter parlare con lei della cosa — disse Orr; o, almeno, disse qualcosa di simile. Aveva mangiato i panini con una rapidità eccezionale, nonostante il taglio al labbro e il dente rotto, e adesso si stava dedicando alla cioccolata. C’era una punta di ironia nelle sue parole, ma Haber era troppo indaffarato per preoccuparsene.

— Senta, questa invasione. È successa, e basta, oppure è successa perché lei non è venuto alla seduta?

— L’ho sognata.

— Si è permesso di fare, senza controllo, un sogno efficace? — Il tono della voce di Haber era molto incollerito. Era stato troppo protettivo, troppo gentile con Orr. L’irresponsabilità di Orr aveva causato la morte di innumerevoli innocenti, aveva scatenato sulla città panico e distruzione: Orr doveva affrontare la responsabilità delle proprie azioni.

— Non era senza controllo… — cominciava a dire Orr, quando vi fu un’enorme esplosione. L’edificio sobbalzò, tintinnò, scoppiettò; congegni elettronici caddero a terra accanto alla fila di letti vuoti, il caffè si rovesciò dalle tazze. — Chi è stato? — fece Orr. — Il vulcano o l’Aviazione? — Nella nebbia del (comprensibile) sgomento causatogli dall’esplosione, Haber notò che Orr non pareva affatto spaventato. Ed era una reazione completamente anormale. Venerdì scorso, Orr aveva avuto un crollo a causa di una banale questione di morale; oggi, mercoledì, mostrava calma e freddezza in mezzo a una specie di Apocalisse. Non pareva avesse paura. Eppure doveva averla. Se aveva paura Haber, a maggior ragione doveva averla Orr. Rimuoveva la paura. O forse pensava, si chiese a un tratto Haber, che, per il fatto di avere sognato l’invasione, fosse tutto un sogno?

E se anche lo era?

Un sogno di chi?

— Meglio tornare in ufficio — disse Haber, alzandosi. Si sentiva sempre più impaziente e irritabile; l’eccitazione cominciava a essere insopportabile. — Chi è la donna con lei, tra parentesi?

— È Miss Lelache — disse Orr, guardandolo in maniera strana. — L’avvocatessa. Era qui venerdì.

— E cosa ci fa, con lei?

— È venuta a cercarmi; è venuta sulle montagne per vedere se ero lì.

— Me lo spiegherà dopo — disse Haber. Non c’era tempo da perdere in queste banalità. Dovevano uscire fuori, uscire fuori da questo mondo che scoppiava e bruciava.

Proprio mentre entravano nell’ufficio di Haber, il vetro schizzò via dalla finestra panoramica con un rumore secco e un grande risucchio d’aria; entrambi si sentirono trascinare verso l’apertura, come verso la bocca di un aspirapolvere. Tutto divenne bianco: ogni cosa. Entrambi caddero a terra.

Nessuno dei due sentì più alcun rumore.

Quando riacquistò la vista, Haber si rialzò, tenendosi alla scrivania. Orr era già chino sul divano; cercava di calmare la paura della donna. Nell’ufficio faceva freddo: l’aria primaverile che penetrava dalla finestra era umida e pungente, e puzzava di fumo, isolante bruciato, ozono, solfo e morte. — Dovremmo andare in cantina, non crede? — disse Miss Lelache in tono lucido, anche se rabbrividiva visibilmente.

— Lei vada pure — disse Haber. — Noi dobbiamo fermarci qui ancora per qualche tempo.

— Fermarvi qui?

— L’Aumentore è in questa stanza. Non si può spostarlo qui e là come un televisore portatile! Scenda in cantina; noi la raggiungeremo appena potremo.

— Lei intende farlo addormentare adesso? — disse la donna, mentre gli alberi del parco si trasformavano improvvisamente in palle di fuoco. L’eruzione di Monte Hood era nascosta da avvenimenti molto più vicini; la terra, comunque, aveva continuato a tremare debolmente negli ultimi minuti: una specie di tremore fondamentale, che portava le mani e la mente a tremare all’unisono con esso.

— Intendo fare proprio così, porco mondo! Lei vada, scenda in cantina, mi occorre il divano. George, si stenda… Senta, lei, in cantina, subito dopo la stanza del sorvegliante, c’è una porta con la scritta «Generatore d’emergenza». Entri dentro, cerchi la leva con la scritta ACCESO. Tenga la mano sulla leva, e se manca la luce metta in funzione il generatore. Occorre tirare la leva verso l’alto, con forza. Vada!

Heather uscì. Tremava ancora, e sorrideva; mentre usciva, strinse la mano di Orr per un attimo e gli disse: — Sogni felici, George.

— Non preoccuparti — le rispose Orr. — È tutto a posto.

— Zitto! — fece Haber. Aveva messo in funzione l’ipnonastro da lui registrato, ma Orr non prestava attenzione, e il rumore delle esplosioni e delle cose che bruciavano rendeva difficile l’ascolto. — Chiuda gli occhi! — ordinò Haber; appoggiò la mano sulla gola di Orr e alzò il volume. — RILASSATO — disse un’enorme replica della sua voce. — LEI È COMODO E RILASSATO. LEI ORA ENTRA NELLA… — L’edificio sobbalzò come una lepre marzolina, e ricadde un po’ di sghembo. Qualcosa apparve nel lucore rossastro e opaco al di là della finestra senza vetri: un grosso oggetto ovoidale, che si muoveva nell’aria in un modo saltellante. Si dirigeva verso la finestra. — Dobbiamo fermarlo! — gridò Haber, al di sopra della sua stessa voce; poi si accorse che Orr era già in trance. Spense il nastro e si piegò a parlargli nell’orecchio. — Fermi l’invasione! — gridò. — La pace, la pace! Sogni che siamo in pace con tutti! E adesso dorma! Anversa! — E accese l’Aumentore.

Ma non ebbe tempo di osservare l’EEG di Orr. La forma ovoidale si librava nell’aria all’altezza del davanzale. La prua smussata, illuminata dai riflessi della città in fiamme, puntava direttamente verso Haber. Cercò di nascondersi di fianco al divano, e si sentì spaventosamente molle e indifeso; cercò di difendere l’Aumentore con la sua carne impotente, allargando le braccia davanti ad esso. Si guardò alle spalle per sorvegliare il vascello Alieno. Si avvicinava. La prua, che pareva fatta di acciaio oleoso, color argento con chiazze violacee; riempiva tutta la finestra. Ci fu un rumore di macina quando si introdusse a forza nell’intelaiatura. Haber gridò per il terrore, ma rimase fermo dov’era, tra l’Alieno e l’Aumentore.

Dalla prua, che adesso si era fermata, uscì un lungo tentacolo sottile, che si mosse nell’aria come se cercasse qualcosa. La sua estremità, alzandosi come la testa di un serpente cobra, puntò qui e là, poi si arrestò nella direzione di Haber. A circa tre metri di distanza, sospesa nell’aria, lo fissò per alcuni secondi. Poi si ritrasse con un sibilo e uno schiocco, come un metro snodabile da falegnami, e dal vascello si alzò un acuto ronzio. La cornice metallica della finestra cigolò e cadde. La prua del vascello girò su se stessa e si ribaltò sul pavimento. Dal foro così formatosi, qualcosa emerse.

Si trattava, pensò Haber, in una sorta di orrore senza emozioni, di una gigantesca tartaruga. Poi vide che era chiusa in una sorta di tuta, che le dava un aspetto ponderoso, verdastro, corazzato, inespressivo, come se fosse stata una grande testuggine marina, ferma sulle zampe posteriori.

L’Alieno rimase immobile, accanto alla scrivania. Con estrema lentezza alzò il braccio sinistro, puntando su Haber uno strumento metallico, con un foro in cima.

Haber si vide morto.

Dal gomito dell’Alieno giunse una voce piatta, priva di intonazioni. — Non fare agli altri quello che vuoi gli altri non facciano a te — disse.

Haber lo fissò sbalordito, con un tuffo al cuore.

Il pesante braccio metallico si alzò ancora. — Noi tentiamo di fare arrivo pacifico — disse il gomito, tutto in un solo tono. — Prego informare gli altri che questo è arrivo pacifico. Noi non abbiamo nessuna arma. Grande autodistruzione originata da paura senza fondamento. Prego cessare distruzione di sé e di altro. Noi non abbiamo nessuna arma. Noi siamo una specie non aggressiva non bellicosa.

— Io… io… io non posso dare ordini all’Aviazione — balbettò Haber.

— Persone in veicoli volanti sono raggiunte adesso — disse il gomito della creatura. — È installazione militare, questa.

Dall’ordine delle parole sembrava una domanda. — No — rispose Haber. — No, niente del genere…

— Prego allora scusare intrusione non autorizzata. — La grande figura corazzata si girò leggermente; parve esitare. — Cosa è, macchina — disse, indicando col gomito destro gli strumenti collegati alla testa del dormiente.

— Un elettroencefalografo, una macchina che registra l’attività elettrica del cervello…

— Meritevole — disse l’Alieno, e fece un breve passo verso il divano, come se desiderasse dare un’occhiata. — L’individuo-persona è iahklu’. La macchina per registrare registra forse questo. È tutta vostra specie, capace di iahklu’.

— Io non… non conosco la parola, potete spiegarmi…

La figura si girò leggermente, alzò il gomito sinistro al di sopra della testa (che, come quella delle tartarughe, era poco più alta delle grandi spalle curve della corazza), e disse: — Prego scusare. Non comunicabile con macchina per comunicare inventata in fretta nel molto vicino passato. Prego scusare. È necessario che noi procediamo nel molto vicino futuro rapidamente verso altre persone responsabili colpite dal panico e capaci di distruggere sé e altro. Molte grazie. — E ritornò dentro la prua del vascello.

Haber guardò le grandi suole rotonde dei suoi piedi che sparivano nella cavità scura.

La calotta anteriore si alzò dal pavimento e si rimise con abilità a posto: Haber ebbe la vivida impressione che non agisse in modo meccanico, ma in modo temporale, ripetendo al contrario i movimenti di prima, come un film proiettato all’indietro. Il vascello Alieno, scuotendo l’ufficio e strappando gli ultimi rimasugli di finestra con uno schianto odioso, si ritirò e svanì nella sporca caligine del Parco.

Il crescendo di esplosioni, comprese Haber, era cessato; anzi, non si udiva più alcun rumore. C’era ancora un leggero tremito, ma doveva essere colpa della montagna, non delle bombe. Alcune sirene ululavano, lontane, strazianti, dall’altra sponda del fiume.

George Orr giaceva inerte sul divano; respirava irregolarmente, e i tagli e le ecchimosi risaltavano sul pallore del volto. Dalla finestra sfasciata continuavano a giungere ceneri e fumo, portati dall’aria gelida e soffocante. Non c’era nulla di cambiato. Non aveva cancellato niente. Che Orr non avesse ancora combinato nulla? Dietro le palpebre chiuse si scorgeva un leggero movimento oculare; stava ancora sognando; non poteva farne a meno, con l’Aumentore che comandava gli impulsi del suo cervello. Perché non cambiava continuum, perché non li portava tutti in un mondo pacifico, come Haber gli aveva ordinato? Forse la suggestione ipnotica non era stata abbastanza chiara o abbastanza forte. Dovevano ricominciare. Haber spense l’Aumentore e pronunciò tre volte il nome di Orr.

— Resti sdraiato, la cuffia dell’Aumentore è ancora collegata. Che cosa ha sognato?

Orr parlò in fretta e a voce bassa; non era ancora del tutto sveglio. — L’Alieno… un Alieno era qui dentro. Nell’ufficio. È uscito dal davanti di uno dei loro veicoli. Per la finestra. Voi due parlavate insieme.

— Ma questo non è un sogno! È la realtà! Santo Dio, bisogna ricominciare da capo. Ci dev’essere stata un’esplosione atomica, pochi minuti fa; dobbiamo trasferirci in un altro continuum… forse siamo già stati colpiti mortalmente dalle radiazioni…

— Oh, ormai non più — disse Orr, mettendosi a sedere e staccandosi elettrodi dai capelli come se fossero pidocchi. — Ed è certamente vero. Un sogno efficace è una realtà, Dottor Haber.

Haber lo fissò sbalordito.

— Credo che l’Aumentore abbia reso più immediata la cosa — disse Orr, sempre con una calma eccezionale. Parve meditare per un istante. — Senta, non può telefonare a Washington?

— E a che scopo?

— Be’, un famoso scienziato, proprio qui in mezzo a ciò che è successo, potrebbe farsi ascoltare. Probabilmente saranno alla ricerca di una spiegazione. Lei conosce qualcuno, al Governo, che potrebbe chiamare? Magari il ministro della Sanità? Potrebbe dirgli che tutta la cosa è un malinteso, che gli Alieni non hanno intenzione né di invaderci né di attaccarci. Che, semplicemente, non avevano compreso, prima dell’atterraggio, che gli uomini si basano sulla comunicazione verbale. Non avevano neppure capito che noi credevamo di essere in guerra con loro… Chissà se potrebbe dirlo a qualcuno che riesca a parlarne al presidente? Più presto Washington richiama i militari, meno persone saranno uccise qui. Gli unici che muoiono sono i civili. Gli Alieni non respingono i soldati: non sono neppure armati, e io ho l’impressione che siano indistruttibili, in quelle tute. Ma se qualcuno non la fermerà, l’Aviazione farà saltare in aria l’intera città. Provi, dottor Haber. Magari a lei daranno ascolto.

Haber sentiva che Orr aveva ragione. Non era una convinzione razionale, era la logica della follia, ma aveva ragione: ed era la sua occasione. Orr parlava con la sicurezza incontrovertibile dei sogni, in cui non c’è libertà di scelta: fai questo, devi farlo, occorre fare così.

Perché questo dono era stato dato a uno sciocco, a un individuo passivo, a una nullità d’uomo? Perché Orr era così sicuro e aveva così ragione, mentre l’uomo forte, attivo, deciso, era impotente, era costretto a usare, ad addirittura obbedire, il debole strumento? Questi pensieri si agitarono nella sua mente, non per la prima volta, mentre correva alla scrivania, al telefono. Si sedette e fece il numero degli uffici della Sanità, a Washington. La chiamata, avviata attraverso le centrali automatiche dello Utah, giunse subito alla capitale.

Mentre aspettava di essere messo in comunicazione col ministro della Sanità, Istruzione e Benessere, che era un suo conoscente di vecchia data, Haber disse a Orr: — Perché non ci ha trasferito in un altro continuum, in cui, semplicemente, questo pasticcio non sia successo? Sarebbe stato molto più semplice. E nessuno sarebbe morto. Perché, semplicemente, non ha eliminato gli Alieni?

— Io non scelgo — rispose Orr. — Non l’ha ancora capito? Io seguo.

— Lei segue le mie suggestioni ipnotiche, sì, ma non le segue mai completamente, mai in modo diretto e semplice…

— Non intendevo riferirmi a questo — disse Orr, ma ormai era già in linea il segretario personale di Rantow, il ministro. Mentre Haber parlava, Orr scivolò via; diretto al sotterraneo, senza dubbio, per occuparsi della donna. Niente in contrario. Mentre parlava al segretario e poi al ministro in persona, Haber cominciò a convincersi che ormai le cose cominciavano a mettersi a posto, che gli Alieni erano completamente inoffensivi, e che sarebbe riuscito a convincere Rantow, e, attraverso di lui, il Presidente e i suoi generali. Orr non era più necessario. Haber sapeva cosa occorreva fare, e avrebbe tolto dai guai la propria nazione.

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