CAPITOLO UNDICESIMO

Luce di Stella chiese a Non-Entità: «Maestro, tu esisti? o tu non esisti?». La sua domanda, però, non ebbe risposta…

Chuang-Tse: XXII

A un certo momento della notte, mentre cercava il modo di raggiungere la Corbett Avenue tra il caos della periferia, Orr venne fermato da un Alieno aldebaraniano che lo convinse a seguirlo. E Orr lo seguì, docilmente. Dopo un poco, gli chiese se era Tiua’c Ennebi; ma glielo chiese senza molta convinzione, e non parve dispiaciuto quando l’Alieno gli spiegò, piuttosto laboriosamente, che il suo nome era Gior Gior, e che lui (o esso?) si chiamava E’nememen Asfah.

Lo portò al suo appartamento nei pressi del fiume, al di sopra di un’officina per la riparazione di biciclette e a porta a porta con la Chiesa Evangelica dell’Eterna Speranza, che quella sera era notevolmente affollata. In tutto il mondo veniva chiesta alle varie divinità, in termini più o meno educati, la spiegazione di ciò che era successo tra le 18 e 25 e le 19 e 08, Ora Media della Costa Occidentale. Dolcemente discordante, una musica Rock suonava sotto i loro piedi mentre salivano le scale buie e giungevano all’appartamento del primo piano. Lì giunti, l’Alieno gli consigliò di stendersi sul letto, perché aveva un aspetto stanco. — Sonno che ricuce la manica sfilacciata dell’attenzione — disse.

— Dormire, forse sognare; sì, questo è il problema — rispose Orr. La strana maniera in cui gli Alieni comunicavano, si disse, ha una sua profondità; ma era troppo stanco per analizzarla. — Dove dorme, lei? — chiese, lasciandosi cadere pesantemente sul letto.

— Nessun posto — rispose l’Alieno. La sua voce senza intonazione lasciava aperti ogni sorta di significati.

Orr si piegò per slacciarsi le scarpe. Non voleva sporcare di fango la coperta dell’Alieno, che era così gentile con lui. Piegandosi, provò un senso di stordimento. — Sono stanco — disse. — Oggi ho fatto molte cose. Cioè, ho fatto una sola cosa. L’unica cosa che io abbia mai fatto. Ho premuto un pulsante. C’è voluta tutta la mia forza di volontà, la somma di tutta la forza di volontà della mia esistenza, per schiacciare quel maledetto pulsante di SPENTO. — Voi avete vissuto bene — disse l’Alieno.

Era fermo in un angolo, in piedi, e pareva intenzionato a rimanere lì eternamente.

Non era lì, pensò Orr: almeno, non era lì nel modo in cui lui, Orr, sarebbe potuto stare lì in piedi, o sedere, o giacere sdraiato, o esistere. Era lì come sarebbe potuto esserci lui in un sogno. Era lì nel senso che, sognando, siamo in qualche punto del sogno.

Si sdraiò. Avvertiva chiaramente la pietà, la compassione, il desiderio di proteggerlo di quell’Alieno, fermo nell’angolo oscuro. L’Alieno, non con gli occhi, vedeva in lui una creatura dalla vita breve, una creatura di carne, senza armatura; una creatura strana, infinitamente vulnerabile, vagante alla deriva tra i golfi del possibile: una creatura bisognosa di aiuto. E questo, a Orr, non dispiaceva. Egli aveva veramente bisogno di aiuto. La stanchezza lo vinse, lo raccolse come se fosse stata una corrente di quel mare in cui stava lentamente affondando. — Er’ perrehnne — mormorò, cedendo al sonno.

Er’ perrehnne — rispose E’nememen Asfah, senza parlare.

Orr dormì. Sognò. Non era un problema. Come onde del mare aperto, lontano da ogni costa, i suoi sogni andavano e venivano, si alzavano e cadevano, profondi e innocui, senza infrangere nulla, senza cambiare nulla. Danzarono la danza comune di ogni altra onda del mare dell’esistenza. E nel suo sogno si tuffavano le grandi, verdi testuggini, che nuotavano con grazia pesante e inesauribile nelle profondità, nel loro elemento.


All’inizio di giugno gli alberi avevano rimesso tutte le foglie, e le rose sbocciavano. In tutta la città la loro varietà grande, di gusto fuori moda, robusta come gramigna, chiamata Rosa Portland, fioriva carminia sugli steli spinosi. Le cose si erano messe sufficientemente a posto. L’economia riprendeva. La gente falciava di nuovo l’erba.

Orr era andato all’Ospedale Federale per Malati Mentali di Linnton, un po’ a nord di Portland. Gli edifici, costruiti poco dopo il 1980, sorgevano in cima a una grande altura che si affacciava sulla distesa del Willamette e sulla gotica eleganza del Ponte St. John. Erano stati spaventosamente affollati alla fine di aprile e per tutto il mese di maggio, per l’epidemia di esaurimenti nervosi che aveva seguito gli inesplicabili avvenimenti che ora venivano chiamati «La Frattura»; ma anche questo era passato, e l’attività dell’istituto era ritornata alla sua terribile normalità di poco personale e troppi pazienti.

Un infermiere alto e dalla voce pacata accompagnò Orr al piano superiore, alle stanze singole della corsia nord. La porta d’ingresso di quest’ala dell’istituto, e le porte delle stanze, erano massicce, avevano uno spioncino con una grata, all’altezza di un metro e mezzo, ed erano chiuse a chiave.

— Non che sia pericoloso — disse l’infermiere, mentre apriva la porta del corridoio. — Non ha mai dato segni di violenza. Ma destava una brutta reazione negli altri. Abbiamo provato a metterlo in due corsie. Niente da fare. Gli altri avevano paura di lui. Mai visto una cosa simile. Tutti i pazienti si influenzano a vicenda e si fanno prendere da paure e passano le notti in agitazione, ma non così. Avevano paura di lui. Picchiavano alla porta, di notte, per allontanarsi da lui. E lui non aveva fatto niente: si limitava a rimanere sdraiato sul letto. Be’, penso che chi lavora qui dentro, prima o poi, finisca per vederle tutte. Ma per lui non ha importanza dove sta, credo. Ci siamo. — Aprì la porta e precedette Orr. — Visite, Dottor Haber — disse.

Haber era dimagrito. Il pigiama azzurro e bianco gli stava largo. Barba e capelli erano corti, ma erano puliti e curati. Era seduto sul letto e fissava il vuoto.

— Dottor Haber — disse Orr, ma gli mancò la voce; provò una grande pietà, e anche paura. Sapeva cosa fissava lo sguardo di Haber. L’aveva visto anche lui. Fissava il mondo successivo all’aprile 1988. Fissava il mondo di una mente che non lo comprendeva: il brutto sogno.

C’è un uccello, in una poesia di T.S. Eliot, che afferma che l’umanità non può sopportare una dose molto forte di realtà; ma quell’uccello sbaglia. Un uomo può sopportare per ottant’anni l’intero peso dell’universo. È l’irrealtà, ciò che non riesce a sopportare.

Haber si era perduto. Aveva perso contatto.

Orr cercò di parlare ancora, ma non trovò parole. Indietreggiò, e l’infermiere, che gli stava al fianco, chiuse la porta a chiave.

— Non posso — disse Orr. — Non si può.

— Già, non si può — convenne l’infermiere.

Mentre percorrevano il corridoio, aggiunse ancora, con la sua voce pacata: — Il dottor Walters mi diceva che era uno scienziato molto promettente.

Orr ritornò in battello al centro cittadino. I trasporti erano ancora in una situazione di confusione; parti, residui e inizi di almeno sei diversi sistemi di trasporto pubblico riempivano la città. Reed College aveva una stazione del metrò, ma non il metrò; la funicolare per Washington Park terminava all’ingresso di un tunnel che passava sotto il Willamette, ma che si fermava a metà; intanto, un tizio intraprendente aveva adattato un paio di battelli che venivano usati, in precedenza, per portare gitanti su e giù per il Willamette e il Columbia, e li usava come linea regolare tra Linnton, Vancouver, Portland e Oregon City. Era un viaggio piacevole.

Orr si era preso un lungo intervallo a metà giornata per recarsi all’ospedale psichiatrico. Il suo datore di lavoro, l’Alieno E’nememen Asfah, non si curava dell’orario e s’interessava soltanto del lavoro compiuto. Le modalità con cui veniva fatto erano lasciate a Orr, il quale ne svolgeva la maggior parte mentalmente, a letto, semiaddormentato, nel corso di un’oretta, la mattina, prima di alzarsi.

Erano le tre quando fu di ritorno al Pozzo Domestico e si mise a sedere al tecnigrafo. Asfah era in negozio, ad aspettare i clienti. Il personale ammontava a tre disegnatori, inoltre c’erano dei contratti con varie fabbrichette che producevano ogni tipo di utensili da cucina, piatti, pentole, posate, ecc.: tutta roba leggera. L’industria e la distribuzione si erano trovate in una disastrosa confusione dopo la Frattura; il governo nazionale e quello internazionale erano rimasti così sconvolti per settimane che era forzatamente prevalso uno stato di lassez faire, e le piccole ditte private che erano sorte in quel periodo stavano facendo dei buoni affari. Nell’Oregon, un certo numero di queste ditte, che si occupavano prevalentemente di beni di consumo, erano dirette da aldebaraniani: gli Alieni erano degli ottimi direttori e dei venditori straordinari, anche se erano costretti ad assumere dipendenti umani per i lavori manuali. Il governo li aveva in simpatia perché accettavano senza protestare le restrizioni e i controlli governativi, e l’economia mondiale si stava rimettendo gradualmente a posto. La gente aveva ripreso a parlare di Prodotto Nazionale Lordo, e il Presidente Merdle aveva previsto un ritorno alla normalità per la fine dell’anno.

Asfah vendeva sia all’ingrosso che al minuto, e il Pozzo Domestico era apprezzato per la robustezza degli articoli e l’onestà dei prezzi. Dopo la Frattura, le massaie, che quella sera di aprile si erano trovate improvvisamente a far da mangiare in cucine che non conoscevano, erano accorse in numero sempre crescente a fare rifornimento. Orr stava osservando alcuni campioni di legno per costruire dei taglieri, quando sentì una donna che diceva: — Vorrei uno di quei vostri frullini — e poiché la voce gli ricordava quella di sua moglie, si alzò dallo sgabello per dare un’occhiata in negozio. Asfah stava mostrando qualcosa a una donna di media altezza, scura di pelle, sui trent’anni, con capelli neri e ricciuti tagliati corti, e un elegante profilo della nuca.

— Heather — disse, venendo avanti.

Lei si voltò. Lo osservò per un lungo istante. — Orr — disse. — George Orr. Giusto? Quando ci siamo conosciuti?

— Nel… — Esitò. — Lei non è avvocato?

Tra loro, immenso, nella sua armatura verde, c’era E’nememen Asfah, che teneva in mano un frullino.

— No. Segretaria di un avvocato. Lavoro per Rutt Goodhue, nel Pendleton Building.

— Dobbiamo esserci visti là, allora. Sono venuto nel suo ufficio, una volta. Le… le piace? L’ho disegnato io. — Prese un altro frullino dal cassetto e glielo mostrò. — Hanno un buon equilibrio, vede? E sono molto comodi. Di solito i fili sono troppo duri o troppo spessi, salvo che in quelli francesi.

— È bello anche come forma — disse lei. — Ho un vecchio frullino elettrico, ma desidererei comprare uno di questi, eventualmente per appenderlo alla parete. Lei lavora qui? Una volta no. Adesso ricordo. Lei era in qualche ufficio di Stark Street, ed era in cura da un dottore, in Terapia Volontaria.

George non aveva idea di cosa, e di quanto, ricordasse, né di come poterle venire in aiuto con le sue memorie multiple.

Sua moglie, naturalmente, aveva avuto la pelle grigia. C’erano ancora delle persone grige, a quanto si diceva; soprattutto nel Middle West e in Germania, ma quasi tutti erano tornati ai soliti colori: bianco, bruno, nero, rosso, giallo e gradazioni intermedie. Sua moglie era stata una persona grigia, una persona molto più tranquilla di questa, pensò. Questa Heather aveva una grossa borsetta con chiusura di ottone, e probabilmente, in essa, teneva una bottiglietta di brandy da mezzo litro; e tendeva a comportarsi in modo brusco. Sua moglie era stata una donna non aggressiva, e, anche se aveva molto coraggio, era un po’ timida. Questa non era sua moglie, bensì una donna più fiera, vivace e difficile.

— Proprio così — disse. — Prima della Frattura. Noi eravamo… In effetti, Miss Lelache, dovevamo vederci a colazione. Da Dave, sulla Ankeny. Ma non ci siamo mai andati.

— Non sono Miss Lelache; è il mio nome da ragazza. Sono Mrs. Andrews.

Lo osservava in modo strano. Lui rimase immobile e sopportò la realtà.

— Mio marito è morto nella guerra in Medio Oriente — aggiunse.

— Sì — disse Orr.

— È lei che disegna tutte queste cose?

— La maggior parte degli utensili e del vasellame. E anche delle pentole. Ecco, le piace questo? — Prese un bricco da tè, con il fondo di rame; era massiccio, ma elegante, e le sue proporzioni erano dettate dalle esigenze dell’uso, come quelle di una nave a vela.

— A chi non piacerebbe? — disse lei, tendendo le mani. George glielo porse. Lei lo alzò e lo ammirò. — Mi piacciono le cose — disse.

Lui annuì.

— Lei è davvero un artista. È bellissimo.

— Mr. Orr è un esperto di cose tangibili — li interruppe il proprietario, parlando senza tonalità, dal gomito sinistro.

— Senta, ora ricordo — disse d’improvviso Heather. — Naturalmente, è successo prima della Frattura; per questo è tutto mescolato nella mia mente. Lei sognava; voglio dire che credeva di sognare cose che poi diventavano vere. No? E il dottore gliene faceva sognare sempre di più, e lei non voleva che lo facesse, e cercava un modo per smettere la Terapia Volontaria con quel dottore senza finire in Terapia Obbligatoria. Vede che mi ricordo di lei? È poi stato assegnato a un altro analista?

— No. Me li sono lasciati alle spalle crescendo — disse Orr, e rise. Anche lei rise.

— E come ha fatto per i sogni?

— Oh… ho continuato a sognare.

— Mi pareva che lei riuscisse a cambiare il mondo. È questo il meglio che può fare per noi… questo pasticcio?

— Dovremo tenercelo — rispose.

Anche lui avrebbe preferito qualcosa di meno confuso, ma non spettava a lui farlo. E almeno, in quel mondo, c’era lei. L’aveva cercata come poteva, ma non l’aveva trovata. Per avere sollievo si era rivolto al proprio lavoro: non gliene aveva dato molto, ma era il tipo di lavoro che gli era congeniale, ed egli era una persona paziente. Ma ora l’asciutto e silenzioso dolore per la moglie perduta sarebbe terminato, perché Heather era lì davanti a lui: la fiera, recalcitrante e fragile estranea da riconquistare eternamente.

Lui la conosceva; conosceva la sua estranea, sapeva come farla parlare e come farla ridere. Disse infine: — Prenderebbe una tazza di caffè? C’è un bar alla porta accanto. È l’ora del mio intervallo.

— Cacchio, se è ora — fece lei; era un quarto alle cinque. Lanciò un’occhiata in direzione dell’Alieno. — E una tazza di caffè mi andrebbe proprio, ma…

— Torno tra dieci minuti, E’nememen Asfah — disse Orr al suo principale, mentre andava a prendere l’impermeabile.

— Prendete tutta la sera — rispose l’Alieno. — C’è tempo. Ci sono ritorni. Andare è tornare.

— Grazie davvero — disse Orr, e andò a stringere la mano al suo datore di lavoro. La grossa pinna verde era fredda nella sua mano umana. Uscì con Heather nel tiepido, piovoso pomeriggio estivo. L’Alieno li osservò da dietro la vetrina, come una creatura marina che osservasse dall’interno di un acquario, e li vide passare e scomparire nella nebbia.

FINE
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