CAPITOLO TERZO

Coloro che sono aiutati dal Cielo sono da noi chiamati figli del Cielo. Essi non imparano attraverso lo studio. Essi non elaborano mediante il lavoro. Essi non ragionano servendosi della ragione. Arrestare la comprensione a ciò che non può essere compreso è un grande conseguimento. Chi non saprà farlo verrà distrutto dalla Falce dei Cieli.

Chuang Tse: XXIII

George Orr lasciò l’ufficio alle 3 e mezza e si diresse alla stazione del metrò; a piedi, perché non possedeva un’auto. Forse, risparmiando, si sarebbe potuto permettere una VW a vapore e relativa tassa di circolazione, ma a che scopo? Il centro era un’isola pedonale, ed egli abitava proprio laggiù. Aveva preso la patente, ancora negli anni ’80, ma non aveva mai acquistato un’auto. Prese la linea di Vancouver fino a Portland. I vagoncini erano già affollatissimi; fu costretto a viaggiare senza potersi tenere a maniglie o mancorrenti, sostenuto solamente dalla pressione ugualizzatrice dei corpi umani che lo premevano da tutti i lati: ogni tanto i suoi piedi perdevano il contatto con il fondo della vettura ed egli veniva sollevato in aria, quando la forza di affollamento (simboleggiata da a) superava quella di gravità (g). L’uomo accanto a lui, che teneva in mano il giornale, per tutto il viaggio non riuscì ad abbassare il braccio e dovette rimanersene immobile, con la faccia immersa nella pagina sportiva. Il titolo «GRANDE SCIOPERO INTERVENTISTA AL CONFINE AFGANO» e il sottotitolo «Minaccia di intervento» fissarono Orr negli occhi per sei fermate. Poi il proprietario del giornale riuscì a conquistare l’uscita e venne sostituito da un paio di pomidoro in un contenitore di plastica verde, proprietà di una vecchia signora in impermeabile di plastica verde, la quale gli rimase sul piede sinistro per le ultime tre fermate.

Orr guadagnò l’uscita alla fermata di Est Broadway, e si fece strada per quattro isolati attraverso la folla crescente degli impiegati che uscivano dall’ufficio, fino a raggiungere la East Tower Willamette: un colonnone di vetro e cemento armato, brutto e pretenzioso, che lottava con l’ostinazione di un vegetale per rubare alla giungla di edifici similari che lo stringevano d’assedio la luce e l’aria. Ben poco di entrambe giungevano al livello del suolo, e quel poco era caldo e pieno di una fine acquerugiola. Per la città di Portland, la pioggia era un’antica tradizione, ma il caldo — 25 °C al 2 di marzo — era un fenomeno moderno, un effetto dell’inquinamento atmosferico. Gli effluvi urbani e industriali non erano stati messi sotto controllo in tempo, e le tendenze cumulative che erano già all’opera alla metà del ventesimo secolo non si erano mai invertite; sarebbero occorsi vari secoli perché l’anidride carbonica in eccesso sparisse dall’aria, ammesso che lo facesse. New York era una delle maggiori perdite dovute all’Effetto Serra, perché le calotte polari continuavano a sciogliersi e il livello del mare ad alzarsi; in realtà tutte le coste erano in pericolo. Tuttavia, c’era anche qualche vantaggio. La Baia di S. Francisco aumentava di livello, e avrebbe finito col ricoprire le varie centinaia di chilometri quadrati di terra di riporto e di spazzatura che vi erano stati gettati a partire dal 1848. Per quanto riguardava Portland, separata dal mare da un centinaio di chilometri e dalla Catena Costiera, non era minacciata dall’acqua che saliva: soltanto da quella che scendeva dal cielo.

Nell’Oregon occidentale era sempre piovuto, ma ora vi pioveva incessantemente; una pioggia continua e calda. Era come vivere sotto un eterno scroscio di brodaglia tiepida.

Le «Città Nuove» — Umatilla, John Day, French Glen — erano state costruite a est delle Cascate, in una zona dove trent’anni prima c’era il deserto. In estate, laggiù, faceva un caldo spaventoso, ma le precipitazioni atmosferiche erano soltanto 1350 mm l’anno, mentre a Portland si arrivava fino a 2900 mm. Era possibile praticare l’agricoltura intensiva: il deserto fioriva. Oggi French Glen aveva una popolazione di 7 milioni di anime. Portland, con i suoi 3 milioni e nessun potenziale per la crescita, era stata lasciata indietro dalla Marcia del Progresso. Per Portland era storia vecchia, ma che differenza faceva? La denutrizione, il sovraffollamento e un crescente deterioramento ambientale erano la norma. Nelle Vecchie Città erano in aumento lo scorbuto, il tifo e l’epatite; nelle Città Nuove la delinquenza organizzata, la criminalità e gli omicidi. I topi spadroneggiavano nelle une, la Mafia nelle altre. George Orr rimaneva a Portland perché ci era sempre vissuto e perché non aveva motivo di credere che la vita in un altro posto potesse essere migliore, o anche soltanto diversa.

Miss Crouch, con un sorriso privo d’interesse, lo fece entrare immediatamente. Orr avrebbe detto che gli uffici degli psichiatri, come le tane di coniglio, avevano sempre due porte: una d’ingresso e una d’uscita, ma quello di Haber aveva una porta sola. Però Orr dubitava che i pazienti corressero il rischio di scontrarsi mentre entravano e uscivano da lì. Alla Clinica Universitaria gli avevano detto che il dottor Haber teneva soltanto un numero limitato di pazienti, dato che, essenzialmente, era un ricercatore. Questo gli aveva fatto pensare a una persona affermata e un po’ ritirata, e il comportamento gioviale e sicuro del medico gli aveva confermato tale convinzione. Ma oggi, meno nervoso, si accorse di vari particolari che non aveva notato. L’ufficio non dava l’impressione cuoio e acciaio cromato caratteristica del successo finanziario, né l’impressione stracci e provette del disinteresse scientifico; il rivestimento delle poltrone e del divano era in vinile, la scrivania era un tavolo metallico con rivestitura in laminato plastico imitazione legno. Nulla, lì dentro, era genuino. Il dottor Haber, grosso, capigliatura folta e rossiccia, denti bianchi, esclamò con un gran vocione: — Buon giorno!

La cordialità non era fasulla, ma era esagerata. Il calore umano, l’espansività di quell’uomo erano veri, ma anch’essi avevano un rivestimento in laminato plastico di manierismo professionale, erano distorti dall’uso non spontaneo che il medico faceva della propria persona. Orr avvertì in lui un desiderio di farsi apprezzare e una bramosia di rendersi utile; il dottore, si disse, non era veramente certo che esistessero altre persone all’infuori di lui, e, aiutandole, voleva dimostrare la loro esistenza. Gridava «Buon giorno!» a voce così alta perché non era mai sicuro di ricevere una risposta. Orr desiderava scambiare qualche frase in tono amichevole, ma non gli pareva che qualcosa di personale fosse adatto; disse: — Pare che l’Afghanistan voglia entrare in guerra.

— Mmm, i giornali continuano a parlarne dal mese di agosto. — Avrebbe dovuto immaginarselo: il dottore era meglio informato di lui, sugli affari internazionali; Orr, di solito, era informato a metà, e le sue conoscenze erano vecchie di tre settimane. — Non credo che la cosa preoccupi gli Alleati — intanto continuava a dire Haber, — a meno che non trascini il Pakistan dalla parte iraniana. In questo caso l’India dovrà dare all’Isregitto qualcosa di più del sostegno verbale che dà loro attualmente. — Era la denominazione data dai commentatori politici alla recente alleanza tra Israele e Nuova Repubblica Araba. — Secondo me, il discorso fatto a Delhi da Gupta mostra che si sta preparando a questa eventualità.

— Si allarga — disse Orr, che si sentiva scoraggiato e fuori posto. — La guerra, voglio dire.

— Perché, la preoccupa?

Lei no?

— Irrilevante — disse il dottore, sorridendo con quel suo sorriso largo e irsuto, animalesco: una sorta di grande orso totemico; ma era ancora allarmato per la seduta del giorno precedente.

— Be’, io me ne preoccupo. — Haber non si era guadagnato quella risposta, ma chi interroga non può rifiutarsi di rispondere assumendo una posizione di obiettività, come se le risposte fossero degli oggetti. Orr tuttavia non espresse a voce queste considerazioni; era nelle mani del medico, e certo lui sapeva il fatto suo.

Orr aveva la tendenza a dare per scontato che gli altri sapessero sempre il fatto loro: forse perché egli, di solito, dava per scontato di non sapere il proprio.

— Dormito bene? — chiese Haber, accomodandosi a sedere sotto lo zoccolo posteriore sinistro di Tammanny Hall.

— Benissimo, grazie.

— Ha voglia di fare un’altra visita al Palazzo dei Sogni? — Lo stava sorvegliando attentamente.

— Certo, sono qui per questo, credo.

Vide Haber alzarsi e avvicinarsi a lui aggirando la scrivania, vide la grossa mano che si accostava al suo collo, e poi più nulla.

— … George…

Il suo nome. Chi lo chiamava? Non conosceva la voce. Terra asciutta, aria asciutta, il fragore di una voce estranea nelle sue orecchie. La luce del giorno, e nessuna direzione. Nessun modo di ritornare indietro. Si destò.

La stanza quasi familiare; l’uomo grosso, anch’egli quasi familiare, con la voluminosa chioma rossiccia, la barba tra il rosso e il castano, il sorriso chiaro e gli occhi scuri e opachi. — Sull’EEG pareva un sogno breve, ma assai vivace — disse la voce profonda. — Vediamo di cosa si trattava. Prima si racconta il sogno, più viva e completa è la descrizione.

Orr si rizzò a sedere: si sentiva un po’ stordito. Era sul divano, ma come ci era arrivato? — Ecco. Non era molto lungo. Di nuovo il cavallo. Me lo ha detto lei, di sognare di nuovo il cavallo, mentre ero sotto ipnosi?

Haber scosse il capo, in un modo che non indicava né sì né no; non disse nulla.

— Ecco, questa era una stalla. Questa stanza. C’era della paglia, una mangiatoia, un forcone nell’angolo e così via. Il cavallo era nella stalla. E…

Il silenzio pieno di attesa di Haber non permetteva evasioni.

— E ha fatto questa enorme pila di sterco. Marrone, fumante. Sterco equino. Il mucchio assomigliava un po’ a Monte Hood, con quella piccola gobba sulla parte nord e tutto il resto. Copriva tutto il tappeto, e stava per cascarmi addosso, così mi sono detto: «Ma no, è soltanto la fotografia della montagna.» Poi credo di essermi svegliato.

Orr alzò gli occhi e guardò dietro il dottor Haber, sulla parete alle sue spalle, dove c’era una fotografia col panorama di Monte Hood.

Era uno spettacolo sereno in un modo silenzioso, con una certa pretesa artistica: il cielo grigio, la montagna color marrone chiaro e un po’ rossastra, con qualche traccia di neve accanto alla cima e il primo piano indistinto, formato da cime di alberi.

Il dottore non stava guardando la riproduzione. Stava osservando Orr con quel suo sguardo cupo e acuto. Rise quando Orr terminò: una risata né lunga né forte, forse un po’ eccitata.

— Stiamo approdando a qualcosa, George!

— A cosa?

Orr si sentiva tutto sgualcito e molto sciocco, seduto sul divano, ancora stordito dal sonno, dopo avere dormito lì (probabilmente a bocca aperta e russando), impotente, mentre Haber osservava le giravolte e le impennate del suo cervello e gli ordinava cosa sognare. Si sentiva messo in mostra, usato. E a quale scopo?

Era chiaro che il dottore non aveva alcun ricordo della fotografia del cavallo, e neppure della loro conversazione sull’argomento; era già nel nuovo presente, e tutti i suoi ricordi ne facevano parte. Quindi non avrebbe potuto dargli nessun aiuto. Adesso stava camminando su e giù per l’ufficio, e parlava più forte del solito. — Benissimo! Lei: (a) può sognare, e sogna, a comando; e segue le suggestioni ipnotiche; (b) risponde splendidamente all’Aumentare. Perciò possiamo lavorare insieme, in modo veloce ed efficiente, senza narcosi. Io preferisco sempre lavorare senza farmaci. Ciò che il cervello compie da sé è infinitamente più affascinante e complesso delle risposte che può presentare con una stimolazione chimica; è per questo che ho inventato l’Aumentore, per fornire al cervello un sistema di auto-stimolazione. Le risorse creative e terapeutiche del cervello… sia nella veglia che nel sonno e nel sogno… sono praticamente infinite. Si tratta di trovare le chiavi adatte alle serrature. Già soltanto il sogno ha delle potenzialità che non ci sogniamo neppure! — E rise con quella sua immensa risata: non era la prima volta che faceva questa battuta. Orr sorrise un po’ a disagio, perché Haber aveva toccato un punto dolente. — Ora sono sicuro che la terapia più adatta a lei sia in questa direzione: usare i suoi sogni, invece di sfuggirli ed evitarli. Affrontare le sue paure, e, col mio aiuto, risolverle. Lei ha paura della sua mente, George. E si tratta di una paura con cui non si può vivere. Ma lei non ha bisogno di farlo. Lei non ha visto l’aiuto che la sua mente può darle, i modi con cui può usarla, impiegarla creativamente. Ciò che le occorre non è nascondersi ai suoi poteri mentali, reprimerli, bensì lasciarli agire. E questo possiamo farlo insieme. Ora, la cosa non le pare giusta, non le pare la giusta cosa da fare?

— Non saprei — rispose Orr.

Quando Haber aveva parlato di impiegare, di usare i suoi poteri mentali, per un istante Orr aveva creduto che il dottore si riferisse alla sua facoltà di cambiare la realtà con i sogni; ma adesso pensava che Haber, se avesse davvero inteso riferirsi a quella, si sarebbe espresso più chiaramente. Haber sapeva che aveva un disperato bisogno di venire rassicurato sulla sua facoltà: dunque, se il dottore avesse potuto dargli la buona notizia, non gliela avrebbe tenuta celata con tanta indifferenza, come se si trattasse di una cosa da nulla.

Orr provò un tuffo al cuore. L’uso di farmaci gli aveva deteriorato l’equilibrio emotivo; lo sapeva, e perciò si faceva forza di combattere, di controllare i propri sentimenti. Ma la delusione provata in questo momento era incontrollabile. Si era concesso il lusso di una speranza: soltanto ora lo comprendeva. Ieri aveva avuto la certezza che il dottore si fosse accorto del cambiamento della fotografia, da montagna a cavallo. Haber, a causa della scossa iniziale, gli aveva nascosto la notizia, ma Orr non ne era stato né sorpreso né allarmato; il dottore, senza dubbio, non era riuscito a capacitarsene in quel primo momento, ad ammetterlo, neppure a se stesso. Lo stesso Orr aveva impiegato molto tempo a convincersi di poter compiere l’impossibile. Comunque, si era concesso il lusso di sperare che Haber, conoscendo il sogno ed essendo presente durante il suo svolgimento, trovandosi proprio nel punto focale del fenomeno, avesse visto il cambiamento, potesse ricordare, confermare l’accaduto.

E invece, no. Un’altra strada senza uscita. Orr era ancora allo stesso punto in cui si trovava da mesi… lui solo; sapeva di essere pazzo, eppure, simultaneamente e profondamente, sapeva anche di non esserlo. Ce n’era più che a sufficienza per farlo impazzire.

— Le sarebbe possibile — chiese, guardingo, — darmi una suggestione postipnotica che mi vieti di fare sogni efficaci? Visto che la suggestione può indurmi a farli… Potrei abolire i farmaci che lei mi ha prescritto, almeno per qualche tempo.

Haber si accomodò sulla poltrona della scrivania e si sporse in avanti, curvo come un orso. — Dubito che la cosa possa servire, anche per una sola notte — fece, piano. E poi, tornando al solito vocione stentoreo: — È sempre la direzione inutile che lei ha seguito finora, George… Farmaci o ipnosi che sia, si tratta sempre di una repressione. Lei non può sfuggire alla sua psiche, e lo sa: ma non è ancora disposto ad accettarla. Niente di male, comunque. Proviamo a osservare la cosa da un altro punto di vista: lei ha già fatto due sogni, proprio qui, sul divano. Ed è stata forse un’esperienza terribile? Le ha fatto dei danni?

Orr scosse il capo, troppo abbattuto per rispondere.

Haber continuò a parlare, e Orr cercò di prestargli attenzione. Ora parlava dei sogni a occhi aperti, della loro relazione con il ciclo a 90 minuti dei sogni notturni, dei loro usi e della loro importanza. Chiese a Orr se c’era qualche tipo di queste fantasticherie che gli andasse a genio. — Per esempio — spiegò, — io faccio spesso delle fantasticherie a sfondo eroico. L’eroe sono io. Salvo una ragazza, o un mio compagno astronauta, o una città assediata, o tutto un porco pianeta. Sogni messianici, sogni da filantropo a tutti i costi. Haber, il Salvatore del Mondo! E le confesso, cacchio!, che sono un gran divertimento… a patto di tenerli al loro posto. Tutti noi abbiamo bisogno della valorizzazione del nostro Io fornitaci dai sogni a occhi aperti, ma se cominciassimo ad appoggiarci esclusivamente ad essi, allora vorrebbe dire che i nostri parametri della realtà stanno tentennando… Poi c’è il sogno ad occhi aperti del tipo «Isola dei Mari del Sud» : un mucchio di impiegati di mezz’età ne vanno pazzi. E il tipo del martire che soffre con nobiltà, e le varie fantasie romantiche dell’adolescenza, e i sogni sadomasochistici eccetera. Ognuno di noi li ha sperimentati tutti. Tutti siamo stati nell’arena ad affrontare i leoni, almeno una volta, o abbiamo messo una bomba per far saltare in aria un nemico, o salvato dal naufragio la bellissima ereditiera, o scritto per Beethoven la Decima Sinfonia. Lei, George, che tipo preferisce?

— Oh… d’evasione — rispose. Doveva cercare di prestargli ascolto e di rispondergli: Haber, dopotutto, cercava di aiutarlo. — Uscirne. Uscirne fuori.

— Uscire dal lavoro, dalla macina quotidiana?

A quanto pareva, il dottore non era disposto a credere ch’egli fosse soddisfatto del proprio lavoro. Senza dubbio Haber, che doveva nutrire molte ambizioni, trovava difficile credere che un’altra persona ne fosse priva.

— Be’, più che altro si tratta della città, dell’affollamento. Troppa gente, dappertutto. I titoli sui giornali. Ogni cosa.

— Mari del Sud? — fece Haber, col suo sorriso da orso.

— No. Qui vicino. Non ho molta immaginazione. Ho fantasticato di possedere una casetta da qualche parte fuori città, magari sulla Catena Costiera, dove c’è ancora qualche rimasuglio delle vecchie foreste.

— E non ha mai pensato ad acquistarne una?

— Il terreno residenziale costa cento dollari al metro quadro nelle zone più economiche, in mezzo alle foreste dell’Oregon meridionale. E per le zone con vista del mare si sale a mille.

Haber emise un fischio. — Vedo che ci ha davvero pensato… e che è tornato immediatamente ai sogni ad occhi aperti. Grazie a Dio non costano nulla, eh! Be’, si sente in forma per un altro giro? Abbiamo ancora quasi mezz’ora.

— Non potrebbe…

— Che cosa, George?

— Lasciarmi il ricordo di ciò che mi succede durante l’ipnosi?

Haber attaccò una delle sue scuse complicate. — Come lei sa, ciò che viene sperimentato dal soggetto durante l’ipnosi, comprese tutte le indicazioni dell’ipnotista, è inibito, normalmente, al ricordo cosciente, a causa di un meccanismo simile a quello che inibisce il ricordo del 99 per cento dei sogni. Togliere questo blocco inibitore significherebbe darle troppe indicazioni diverse, relative a una materia assai delicata: il contenuto di un sogno che lei non ha ancora fatto. Questo, il sogno, posso permetterle di ricordarlo. Ma non voglio che il ricordo dei miei suggerimenti si mescoli col ricordo del sogno definitivamente fatto. Desidero tenere separate le due cose, per avere una chiara relazione di ciò che ha sognato, non di ciò che crede di avere dovuto sognare. Non è d’accordo? Può fidarsi di me, lo sa. Io sono qui per aiutarla. E non è neppure mia intenzione esigere troppo da lei. Sì, la sto spingendo, ma né troppo né troppo in fretta. Non intendo farle avere degli incubi! Mi creda, voglio vedere la conclusione del suo caso, voglio giungere a comprenderlo, altrettanto quanto lei. Lei è un soggetto paziente e disposto a collaborare, e inoltre è una persona molto coraggiosa, per essersi portato sulle spalle, per tanto tempo, e da solo, un fardello d’angoscia così pesante. Ma penseremo noi a risolvere la cosa, George. Mi creda.

Orr non gli credeva completamente, ma non si poteva contraddire Haber più di quanto non si potesse contraddire un predicatore; inoltre desiderava potergli credere.

Non disse nulla; si limitò a stendersi sul divano e a sottomettersi al tocco della grande mano sulla gola.


— Benissimo! Ci siamo! Che cosa ha sognato, George? Me lo dica subito, caldo e appena sfornato.

Provava un vago malessere, e si sentiva sciocco.

— Qualcosa sui Mari del Sud… noci di cocco… Non ricordo. — Si toccò la fronte, si grattò sotto l’attaccatura della corta barba, trasse un respiro profondo. — Poi… ho sognato che lei camminava a fianco di John Kennedy, il presidente; per Alder Street, mi pare. Era come se venissi dietro a voi; credo di avere avuto in mano qualcosa di uno di voi due. Kennedy teneva l’ombrello aperto… lo vedevo di profilo, come nelle vecchie monete da mezzo dollaro… e lei ha detto: «Adesso non le serve più, Presidente,» e gli ha tolto di mano l’ombrello. Lui ha avuto un moto di fastidio, e ha mormorato qualcosa che non ho sentito. Ma aveva smesso di piovere, e così lui ha detto: «Credo che lei abbia ragione.»… Ah, ha smesso di piovere, veramente.

— Come fa a saperlo?

Orr sospirò. — Se ne accorgerà uscendo. Abbiamo terminato, per questo pomeriggio?

— Io sono pronto a continuare. Paga il governo, lo sa!

— Sono molto stanco.

— Be’, allora d’accordo, per oggi chiudiamo. Senta, che ne direbbe se svolgessimo di notte le sedute terapeutiche? Lei dormirebbe normalmente, e useremmo l’ipnosi soltanto per influire sul contenuto del sogno. Le lascerebbe libere le giornate lavorative, e, per quanto riguarda me, la mia giornata lavorativa, buona parte delle volte, è la notte; se c’è una cosa che i ricercatori sul sonno si concedono raramente, questa è il sonno! Ci permetterebbe di lavorare straordinariamente più in fretta, e le permetterebbe di fare completamente a meno dei farmaci per la soppressione del sogno. È disposto a fare una prova? Che ne direbbe di venerdì notte?

— Ho un appuntamento — si scusò Orr, e fu il primo a sorprendersi della bugia.

— Sabato, allora.

— D’accordo.

E uscì, reggendo sul braccio l’impermeabile umido. Non c’era bisogno di indossarlo. Il sogno kennediano era stato molto efficace. Ne aveva sempre la certezza, quando ne faceva uno. Per quanto blando potesse essere il loro contenuto, Orr, quando si destava da quei sogni, li ricordava con grande chiarezza e si sentiva esaurito e ammaccato, come dopo avere compiuto un enorme sforzo fisico per lottare contro una forza schiacciante, contro un rullo compressore. Per conto suo, la massima frequenza cui era arrivato era un sogno ogni trenta, quarantacinque giorni; era stata la paura di farne, che lo aveva ossessionato. Ora, con l’Aumentore che lo teneva nel sonno onirico, e con le suggestioni ipnotiche che gli comandavano di fare sogni «efficaci», ne aveva fatti tre su quattro in due giorni; anzi, lasciando perdere il sogno delle noci di cocco, che più che altro era stato un brontolio di immagini, per usare le parole di Haber, tre su tre. Era esausto.

Non pioveva. Quando uscì dall’atrio della East Tower Willamette, il cielo marzolino era chiaro e sereno, al di sopra dei canyon stradali. Si era messo a soffiare il vento dell’est: il vento secco del deserto, che di tanto in tanto spirava a rianimare il clima umido, caldo, melanconico, grigio della Valle del Willamette.

L’aria più chiara riuscì a sollevargli leggermente l’umore. Raddrizzò le spalle e si avviò sul marciapiede, cercando di ignorare lo stordimento, che probabilmente era l’effetto combinato della stanchezza, dell’ansia, di due sonnellini a un’ora inconsueta, e di una discesa in ascensore dal 62° piano.

Che il dottore gli avesse ordinato di sognare la fine della pioggia? O gli aveva ordinato di sognare Kennedy (il quale, ora che ci pensava, aveva la barba come Abramo Lincoln)? O di sognare lo stesso Haber? Non c’era modo di dirlo. La parte «efficace» del sogno era quella che aveva fermato la pioggia, era il cambiamento atmosferico; ma ciò non dimostrava niente. Spesso l’elemento «efficace» del sogno non era affatto quello che pareva più importante, o più sorprendente. Orr aveva il sospetto che Kennedy, per motivi che erano chiari solamente alla sua psiche inconscia, fosse un’aggiunta sua, ma non poteva esserne certo.

Entrò nella stazione del metrò di East Broadway insieme con l’infinita moltitudine. Infilò nella macchinetta la moneta da cinque dollari, prese il biglietto e salì sul vagoncino, che presto si immerse nella tenebra al di sotto del fiume.

Il suo capogiro fisico e mentale aumentò.

Passare sotto un fiume: che stranezza, che idea assolutamente balorda.

Attraversarlo su un ponte, passarlo a guado o a nuoto, usare una barca, una zattera, un traghetto, un aereo, risalire il suo corso, farsi trascinare a valle dall’eterna rinascita della corrente: questi, sono modi sensati. Ma l’andare sotto un fiume comporta qualcosa di perverso, nel vero senso etimologico della parola. Nella mente e all’esterno di essa ci sono cammini che, già per il solo fatto di essere così tortuosi, mostrano chiaramente che dobbiamo avere preso da tempo la svolta sbagliata, se ci siamo dentro.

C’erano nove tunnel, tra ferroviari e stradali, sotto il Willamette, sedici ponti che lo attraversavano, quarantacinque chilometri di cemento che ne accompagnavano il corso. Il controllo delle acque, su di esso e sul suo grande affluente, il Columbia, qualche chilometro a valle di Portland, era talmente rigoroso che nessuno dei due fiumi poteva salire di livello per più di venti centimetri, neppure dopo le più prolungate piogge torrenziali. Il Willamette era un utile elemento dell’ambiente, una specie di grande animale da tiro, enorme e docile, impastoiato da un’infinità di cinghie, catene, stanghe, selle, morsi, briglie. Se non fosse stato utile, ovviamente, sarebbe stato ricoperto di cemento, come le centinaia di torrentelli che correvano nell’oscurità sotto le strade e gli edifici cittadini. Ma, senza fiume, Portland non sarebbe stata un porto; le navi, le lunghe file di chiatte, le grandi masse di tronchi dovevano poterlo percorrere. Perciò i camion, i treni e i rari veicoli privati dovevano passare o sopra o sotto il fiume. Al di sopra delle teste di coloro che percorrevano il Broadway Tunnel sulla carrozza della metropolitana c’erano le tonnellate di roccia e pietrisco, le tonnellate di acqua corrente, le armature delle banchine e le chiglie delle navi oceaniche, i grossi piloni di cemento delle autostrade soprelevate e degli svincoli, una fila di camion a vapore carichi di polli di batteria surgelati, un aviogetto a 11.000 metri di quota, le stelle a distanze varie, dai 4,3 anni luce in su. George Orr, pallido nella tremolante luce al neon della vettura ferroviaria immersa nel buio infrafluviale, dondolava appeso all’impugnatura di acciaio di una maniglia, fra mille compagni di viaggio. Avvertiva il peso immane che lo sovrastava, la pressione che continuava eternamente a gravare sul tunnel. Vivo in un incubo, si disse, dal quale mi desto di tanto in tanto per dormire.

Gli urti e le spinte della gente che scendeva alla Union Station fugarono dalla sua mente questa importante considerazione; dovette dedicare tutta la sua attenzione alla difesa della maniglia. Nella sua condizione di malessere temeva che se l’avesse persa e si fosse dovuto affidare totalmente alla forza di affollamento (a), avrebbe vomitato nella vettura.

Il treno ripartì con uno sferragliamento composto in parti uguali da profondi, laceranti raschi e da cigolii acuti e stridenti.

L’intero sistema ferroviario metropolitano di Portland aveva soltanto quindici anni, ma era stato costruito tardi e in fretta, con materiali scadenti, nel corso — e non prima — del crollo dell’economia automobilistica. Anzi, proprio a Detroit erano state costruite le carrozze, e, sia per la durata, sia per il rumore, denunciavano chiaramente la loro origine. Orr, animale urbano e viaggiatore di metrò, non prestava orecchio allo sconvolgente frastuono, sia perché (malgrado i suoi trent’anni) le terminazioni nervose dei suoi organi dell’udito erano già notevolmente ottuse, sia perché quel fracasso non era altro che il normale accompagnamento sonoro dell’incubo. (Una volta consolidato il possesso della maniglia, Orr aveva ripreso il filo dei suoi pensieri.)

A partire da quando, volente o nolente, la cosa l’aveva toccato di persona, il fatto che la mente dimenticasse la maggior parte dei sogni l’aveva molto interessato. Il pensiero non cosciente — sia quello infantile, sia quello del sogno — non era disponibile, a quel che sapeva, alla memoria cosciente. Ma lui, Orr, era inconscio, durante l’ipnosi? Niente affatto: era completamente desto, finché non gli veniva ordinato di dormire. Perché allora non poteva ricordare? La cosa lo preoccupava. Si chiedeva che cosa stesse facendo Haber. Il primo sogno di quel pomeriggio, ad esempio; il dottore si era limitato a ordinargli di sognare ancora una volta il cavallo? E lo sterco di cavallo era quindi una sua aggiunta (il che risultava piuttosto imbarazzante)? Oppure, se era stato il dottore a indicare lo sterco, la cosa era ugualmente imbarazzante, ma in modo diverso. Forse Haber era stato fortunato a non trovarsi sul tappeto un’enorme pila di feci equine marroni e fumanti. Anche se, in un certo senso, era ciò che era accaduto effettivamente: la fotografia della montagna.

Orr si raddrizzò bruscamente, come impalato, mentre il treno entrava sferragliando nella stazione di Ander Street. La montagna, ripeté, mentre sessantotto persone urtavano, spingevano, pigiavano per imboccare l’uscita. La montagna. Mi ha ordinato di rimettere nel sogno la montagna. E io ho fatto ricostruire la montagna dal cavallo. Ma allora, se mi ha ordinato di rimettere sulla parete la montagna, Haber sapeva che era li prima del cavallo. Haber sapeva. Haber aveva visto che il primo sogno cambiava la realtà. Haber aveva assistito al cambio. Mi crede. Non sono pazzo!

Orr venne travolto da una tale ondata di gioia che, delle quarantadue persone che si erano costipate nello scompartimento durante la sua riflessione, le sette o otto che lo spingevano più da vicino godettero di qualche minuscola briciola della sua benevolenza e del suo sollievo. La donna che non era riuscita a rubargli la maniglia sentì — grazie a Dio — cessare un’acuta pressione su un callo; l’uomo spiaccicato sul suo fianco sinistro si ricordò tutt’a un tratto di quant’era bello un giorno di sole; il vecchio che sedeva rannicchiato davanti a lui dimenticò momentaneamente la fame.

Orr non era una persona che ragionasse in fretta. In realtà non ragionava affatto. Di solito arrivava alle idee nella maniera più lenta, senza mai azzardarsi a schettinare sul duro, trasparente ghiaccio della logica, senza mai veleggiare sulle correnti ascensionali dell’immaginazione, bensì avanzando a fatica, gravemente, sull’accidentato terreno dell’esistenza. Egli non vedeva le connessioni logiche, processo che pare essere il contrassegno dell’intelletto. Egli sentiva le connessioni: come uno stagnino. Non che fosse stupido: si trattava soltanto del fatto che usava il cervello a metà delle sue possibilità e a metà della sua velocità. Soltanto dopo essere sceso a Ross Island Bridge West, avere percorso vari isolati, essere salito con l’ascensore al diciottesimo piano, essere entrato nel suo appartamento monostanza 2 e 60 per 3 e 40 del Condominio Corbett (un casermone di venti piani in cemento armato senza nessun fronzolo, accessibile anche a chi campava col Sussidio Base: «Con Poca Spesa il Lusso del Centro»), avere messo nel forno a infrarossi una sottiletta di soia, avere preso una birra dal frigorifero pensile, essere rimasto per qualche tempo alla finestra (pagava un supplemento per avere un appartamento con vista) a rimirare il West Hill di Portland, gremito di torrioni illuminati, brulicante di lampioni e di vita, soltanto allora gli accadde di chiedersi: Perché il dottor Haber non mi ha detto di avere visto i miei sogni «efficaci»?

Rimuginò quest’idea per qualche tempo. Le girò tutt’intorno; provò a sollevarla e scoprì che era pesantissima.

Pensò: Haber sa, ora, che la fotografia è cambiata due volte. Perché non mi ha detto nulla? Sa che ho paura di essere pazzo. Afferma di volermi aiutare. Mi sarebbe stato molto utile sapere che anche lui vede quello che vedo io, sapere che non si tratta di una mia illusione.

Ed ora saprà anche, pensò ancora, dopo una lunga sorsata di birra, che ha smesso di piovere. Però non è andato a vedere, quando gliel’ho detto. Forse aveva paura di scoprirlo. Probabilmente. Questa cosa lo allarma; forse desidera conoscerla meglio, prima di pronunciarsi. Be’, non gli so dare torto. Sarebbe davvero strano che la cosa non lo allarmasse.

Però, una volta che si sia assuefatto all’idea, mi chiedo cosa farà… Chissà come riuscirà a fermare i miei sogni, a impedirmi di cambiare la realtà. E io devo assolutamente fermarli; quel che è successo è già abbastanza, è già più che sufficiente…

Scosse il capo e voltò le spalle al panorama brulicante di luci e di vita.

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