CAPITOLO SESTO

Ci resta forse ancora da imparare… che il nostro compito è soltanto all’inizio, e che non avremo mai neppure l’ombra di un aiuto, eccetto che quello dell’ineffabile e inconcepibile Tempo. Ci resta forse ancora da imparare che l’infinito cerchio della vita e della morte, da cui non ci è dato fuggire, è da noi creato, è da noi cercato; che le forze che cementano i mondi sono gli errori del Passato; che l’eterna angoscia non è altro che l’eterna sete del desiderio insaziabile; e che gli astri spenti sono riaccesi soltanto dall’inestinguibile passione delle vite consumate.

Lafcadio Hearn, Out of the East

L’appartamento di George Orr era all’ultimo piano di un edificio in legno, in uno dei primi isolati della Corbett Avenue, in una zona fatiscente della città dove la maggior parte delle case avevano cent’anni o più. Era composto di tre ampie stanze e di un bagno con vasca molto alta, a zampe di leone; dalle finestre, al di là di una teoria di tetti, si vedeva il fiume, su cui passavano navi, imbarcazioni da diporto, tronchi, gabbiani e grandi stormi di piccioni.

Naturalmente, Orr conservava anche un perfetto ricordo del suo appartamento precedente, il monostanza 2,60 per 3,40 col forno incassato nella parete, il letto pneumatico e il cesso in comune, al fondo del corridoio dal pavimento di linoleum, al diciottesimo piano del Condominio Corbett: un casermone che non era mai stato costruito.

Scese dal tram a Whiteaker Street e si avviò per la salita, poi salì gli scalini ampi e scuri; entrò, posò in terra la borsa, si stese sul letto e si rilassò. Era atterrito, angosciato, esaurito, sbalordito. — Devo fare qualcosa. Devo davvero fare qualcosa — continuò a ripetersi, ma non sapeva cosa. Non lo aveva mai saputo. Aveva sempre fatto ciò che gli era parso necessario, la cosa più immediata, senza fare domande, senza forzare se stesso, senza preoccuparsi. Ma questa sicurezza lo aveva abbandonato quando aveva cominciato a prendere farmaci, e ormai si sentiva sperduto. Doveva agire, era necessario agire. Non doveva più permettere a Haber di usarlo come uno strumento. Doveva prendere nelle sue mani il proprio destino.

Allargò le mani e le fissò, poi vi affondò la faccia: era bagnata di lacrime. Oh, merda, merda, si disse tristemente, che razza di uomo sono? Piango! Niente di strano che Haber mi usi. Non può farne a meno. Non ho la minima forza di carattere. Sono uno strumento nato. Non ho nessun destino. Ho soltanto dei sogni. Che adesso sono comandati da un altro.

Devo allontanarmi da Haber, pensò, cercando di essere fermo e deciso, ma già mentre lo pensava sapeva che non lo sarebbe stato. Haber lo teneva legato, e con numerose catene, per di più.

Una configurazione onirica così rara, davvero unica, aveva detto Haber, è preziosa per la ricerca: il contributo di Orr alla conoscenza umana si sarebbe rivelato immenso. Orr aveva pensato che Haber lo dicesse con sincerità, e con cognizione di causa. Per lui, infatti, l’aspetto scientifico della cosa era l’unico che lasciasse adito a qualche speranza: gli pareva che la scienza avrebbe potuto ricavare qualcosa di buono dal suo dono straordinario e terribile, volgerlo a qualche buon fine che avrebbe potuto parzialmente compensare l’enorme danno da lui provocato.

L’uccisione di sei miliardi di persone inesistenti.

Orr aveva l’impressione che la testa stesse per scoppiargli. Riempì d’acqua fredda il lavandino alto e incrinato, e vi affondò la faccia per mezzo minuto alla volta, uscendone rosso, cieco e grondante come un bambino appena nato.

Haber lo teneva con una catena di tipo morale, certo, ma quella che lo legava di più era la catena legale. Se Orr avesse sospeso la Terapia Volontaria, si sarebbe reso passibile di arresto per uso illegale di farmaci, e sarebbe finito in carcere o all’ospedale psichiatrico. Non c’era via d’uscita. E se non avesse interrotto il trattamento, ma si fosse limitato a sabotare le sedute rifiutando di collaborare, Haber avrebbe avuto a disposizione ugualmente un efficace strumento di coercizione: i farmaci per la soppressione del sogno, che Orr poteva ottenere soltanto con ricetta medica. Orr era allarmato più che mai alla prospettiva di sognare spontaneamente, senza controllo. Nello stato in cui era, dopo essere stato condizionato a sognare in modo efficace ogni volta, in condizioni di laboratorio, preferiva non pensare a ciò che sarebbe potuto succedere se avesse sognato efficacemente senza i freni razionali imposti dall’ipnosi. Ne sarebbe scaturito un incubo: un incubo peggiore di quello che aveva appena avuto nell’ufficio di Haber; ne era assolutamente certo, e non osava correre il rischio che succedesse. Doveva prendere assolutamente i farmaci che sopprimevano i sogni. Questa era l’unica cosa che sapeva di dover fare. Ma poteva farla soltanto finché Haber gli permetteva di farla: dunque doveva collaborare con Haber. Era preso nella rete. Un topo in trappola. Correva nel labirinto per ordine dello scienziato pazzo, e non c’era uscita. Non c’era uscita.

Ma non è uno scienziato pazzo, si ostinò a dirsi. È sano di mente, o almeno lo era. A farlo cambiare, è stata la prospettiva di potere che gli danno i miei sogni. Egli si limita a recitare la sua parte, e la mia facoltà gli ha assegnato una parte enorme. Cosicché egli ha finito coll’usare perfino la sua scienza come un mezzo, anziché come un fine… Ma i suoi fini sono nobili, no? Desidera migliorare la vita dell’umanità. Sbaglia, forse?

La testa stava per scoppiargli di nuovo. L’aveva messa nuovamente sott’acqua quando squillò il telefono. Cercò di asciugarsi in fretta faccia e capelli, ritornò nella camera da letto buia e cercò a tastoni l’apparecchio. — Pronto, parla Orr.

— Pronto, sono Heather Lelache — disse una voce di contralto debole e allarmata.

Un’irrilevante e penetrante sensazione di piacere sorse in lui, come un albero cresciuto e fiorito in un istante, con le radici nei suoi lombi e i fiori nella sua mente. — Salve — disse.

— Che ne direbbe di vederci da qualche parte per parlare di tutta la faccenda?

— Sono d’accordo, certo.

— Be’, non voglio farle credere che si possa fargli causa perché usa quella macchina, quella faccenda dell’Aumentore. La macchina pare completamente a posto. È stata provata in laboratorio in modo esauriente, e lui la tiene sotto controllo nel modo dovuto e ha seguito la giusta trafila; adesso l’ha anche brevettata presso il Controllo Sanitario. È un vero esperto in queste cose, come c’era da aspettarsi. Non avevo capito chi fosse, quando lei me ne ha parlato. Un uomo non arriva a una posizione come la sua, se non è eccezionalmente bravo.

— Che posizione?

— Be’, la posizione di direttore di un istituto di ricerche patrocinato dal governo!

Gli piaceva il modo con cui lei cominciava sovente certe frasi violente e sdegnose con un debole, conciliante «be’». Tagliava loro i ponti sotto i piedi ancor prima che fossero cominciate, le lasciava sospese nel vuoto, senza sostegni. Quella donna aveva del coraggio. Molto coraggio.

— Oh, sì, capisco — rispose in tono vago. Il dottor Haber aveva ottenuto il posto di direttore l’indomani del giorno in cui Orr aveva ottenuto la sua villa in montagna. Il sogno della villa si era svolto durante l’unica seduta notturna da loro tenuta; non le avevano più ripetute. La suggestione ipnotica sul contenuto del sogno non era sufficiente per tutta la notte; alle 3 del mattino Haber aveva rinunciato, e, dopo avere collegato Orr all’Aumentore, gli aveva trasmesso segnali di sonno profondo per il resto della notte, in modo che si potessero rilassare entrambi. Ma il pomeriggio successivo c’era stata un’altra seduta, e il sogno fatto in quell’occasione era stato talmente lungo, talmente confuso e complesso, che Orr non aveva mai capito esattamente cosa fosse cambiato, cosa Haber avesse combinato di positivo. Orr si era addormentato nel vecchio ufficio e si era svegliato nell’ufficio all’Istituto Onirologico; Haber si era concesso una promozione. Ma c’erano anche delle altre differenze: il clima era un po’ meno piovoso, gli pareva, dopo quel sogno. Forse erano cambiate delle altre cose ancora. Orr aveva protestato con Haber perché lo aveva costretto a sognare in modo efficace così tante cose in una singola seduta. Haber aveva subito consentito a rallentare il ritmo, e per i cinque giorni successivi non c’era stata nessuna seduta. Haber, dopotutto, era una persona benevola. E inoltre non desiderava uccidere l’oca dalle uova d’oro.

L’oca. Precisamente. Questa parola mi descrive con esattezza, pensò Orr. Una maledettissima oca, bianca, stupida e insulsa. Ma intanto si era perso una parte del discorso di Miss Lelache. — Mi scusi — disse, — non ho capito cosa diceva. Ho la testa frastornata, in questo momento, temo.

— Si sente bene?

Sì, abbastanza. Soltanto un po’ di stanchezza.

— Lei ha fatto un sogno sconvolgente, sulla Peste, vero? Aveva un aspetto terribile, quando si è svegliato. Le fanno sempre questo effetto, le sedute?

— No, non sempre. Questa è stata particolarmente brutta. Credo se ne sia accorta anche lei. Mi stava dicendo di incontrarci?

— Sì. Lunedì a colazione, dicevo. Lei lavora in centro, mi pare, alle Industrie Bradford.

Con una sorta di leggera meraviglia, Orr comprese che era vero. Il grande progetto idrico Bonneville-Umatilla non esisteva, per portare acqua alle gigantesche città di John Day e French Glen, che non esistevano. Non c’erano grandi città nell’Oregon, salvo Portland. E lui non faceva più il disegnatore progettista per la Regione, ma per una ditta che fabbricava macchine utensili, in centro; lavorava in un ufficio di Stark Street. Naturalmente. — Sì — disse. — Sono libero dall’una alle due. Potremmo vederci da Dave, sulla Ankeny.

— Dall’una alle due va bene. E anche Dave. Allora ci vediamo laggiù lunedì.

— Aspetti — disse. — Senta. Lei… non le spiacerebbe dirmi cosa ha detto Haber, voglio dire cosa mi ha ordinato di sognare mentre ero ipnotizzato? Lei ha ascoltato tutto, penso.

Sì, ho ascoltato, ma non posso parlare, altrimenti interferirei con la cura. Se Haber volesse farglielo sapere, sarebbe lui stesso a dirglielo. Io non posso farlo, sarebbe una scorrettezza.

— Già, ha ragione.

— Sì, mi spiace. Allora, lunedi?

— Arrivederci — fece lui; si sentiva bruscamente riprendere dallo sconforto e dai cattivi presentimenti, e riappoggiò il ricevitore senza neppure ascoltare il saluto di lei. Quella donna non poteva aiutarlo. Era coraggiosa e forte, ma non era forte fino a quel punto. Forse aveva visto o avvertito il cambiamento, ma l’aveva allontanato da sé, l’aveva rifiutato. E perché no? Era un fardello troppo pesante da portare, la doppia memoria, e lui non aveva alcun motivo per sobbarcarselo, nessuna ragione per credere anche solo per un momento alle ciance di uno psicopatico che affermava che i suoi sogni cambiavano la realtà.

Domani era sabato. Una lunga seduta con Haber, dalle quattro alle sei o anche più tardi.

Era l’ora di cena, ma Orr non aveva fame. Non aveva acceso la luce nell’alta, oscura camera da letto, e neppure nel soggiorno che non aveva ancora arredato nei tre anni da che abitava in quell’appartamento. Ora vi entrò. Le finestre si affacciavano sulle luci e sul fiume, l’aria aveva l’odore della polvere e dell’inizio della primavera. C’era un caminetto con mensola in legno, un vecchio piano verticale con otto tasti senza avorio, un vecchio tappeto arrotolato accanto al caminetto e un decrepito tavolinetto giapponese di bambù, alto trenta centimetri. L’oscurità avvolgeva morbidamente il pavimento di legno grezzo non spazzato.

George Orr si stese a faccia in giù in quella tranquilla oscurità, con l’odore del legno e della polvere nelle narici, sorretto dalla durezza del pavimento. Era immobile, ma non dormiva; non si trattava di sonno, ma di qualcosa di più lontano, di più distante: un luogo dove non ci sono sogni. Non era la prima volta che vi penetrava.


Quando si alzò, prese una compressa di clorpromazina e andò a letto. Haber, questa settimana, provava su di lui le fenotiazine; pareva andassero bene: gli permettevano di entrare nello stadio-d quando era necessario, ma indebolivano l’intensità dei sogni, cosicché essi non giungevano mai a essere efficaci. Era un buon risultato, ma Haber aveva detto che l’effetto si sarebbe indebolito col tempo, come era sempre successo con gli altri farmaci, e che alla fine si sarebbe ridotto a zero. Niente può impedire a un uomo di sognare, aveva detto, salvo la morte.

Quella notte, almeno, Orr dormì profondamente, e se sognò furono sogni passeggeri, senza peso. Si svegliò l’indomani, sabato, quasi a mezzogiorno. Andò a dare un’occhiata in frigorifero e rimase per vari minuti a contemplare lo spettacolo. C’era più cibo, lì dentro, di quanto ne avesse mai visto nel frigorifero di un privato in tutta la sua vita. In tutta la sua altra vita. Quella vissuta tra sette miliardi di persone, dove il cibo non era mai abbastanza. Dove un uovo era il lusso di tutto un mese… «Oggi ovuliamo!» diceva sempre la sua semimoglie, quando arrivava con la razione mensile di uova. Strano, ma in questa nuova vita non avevano contratto un matrimonio di prova, lui e Donna. Non esisteva una cosa simile, o almeno non era legalmente riconosciuta, negli anni post-Peste. C’era soltanto il matrimonio definitivo. Nell’Utah, visto che la natalità era ancora inferiore alla mortalità, i mormoni stavano anzi cercando di ripristinare la poligamia, per motivi religiosi e patriottici insieme. Ma lui e Donna non avevano contratto nessun tipo di matrimonio, questa volta: si erano limitati a convivere. E anche questa volta la cosa non era durata. La sua attenzione ritornò al cibo in frigorifero.

Non era più l’uomo magro e ossuto che era stato nel mondo dei sette miliardi; anzi, adesso era bene in carne. Ma mangiò un pasto da affamato, un pasto enorme: uova sode, pane e burro, acciughe, carne secca, sedano, formaggio, noci, filetto di halibut freddo con maionese, lattuga, barbabietole in mostarda, dolci al cioccolato… insomma, tutto ciò che trovò nel frigo. Dopo questa specie di orgia si sentì molto meglio dal punto di vista fisico. Mentre beveva del genuino caffè non surrogato, qualcosa che pensò lo fece sorridere. Pensò: in quella vita, ieri, ho fatto un sogno efficace, che ha cancellato sei miliardi di vite e ha cambiato l’intera storia dell’umanità degli scorsi venticinque anni. Ma in questa vita, che ho creato allora, io non ho fatto un sogno efficace. Sono stato nell’ufficio di Haber, d’accordo, e ho sognato; ma non ho cambiato nulla. È sempre stato come adesso, e io ho fatto soltanto un brutto sogno sugli Anni della Peste. Non c’è niente di storto in me; non ho bisogno della terapia.

Non aveva mai considerato le cose sotto questo aspetto, in precedenza, e ora la considerazione lo divertì al punto da strappargli un sorriso; ma non era un sorriso particolarmente allegro.

Sapeva che avrebbe sognato ancora.

Erano già passate le due. Si lavò, prese l’impermeabile (di vero cotone, un lusso nell’altra vita), e si avviò a piedi in direzione dell’Istituto, che distava circa tre chilometri e si trovava al di là della Clinica Universitaria, nel Washington Park. Avrebbe potuto arrivarci col tram, ma il servizio era sporadico e faceva dei grandi giri, e comunque non c’era fretta. Era piacevole passare per le strade senza folla, nella tiepida pioggia di marzo; gli alberi stavano mettendo le foglie, gl’ippocastani i primi fiori.

Il Crollo, l’epidemia cancerosa che aveva ridotto l’umanità di cinque miliardi in cinque anni, e di un altro miliardo nei dieci successivi, aveva scosso dalle fondamenta la civiltà mondiale, eppure l’aveva lasciata, in fin dei conti, intatta. Non aveva cambiato nulla radicalmente: soltanto qualitativamente.

L’aria era ancora profondamente, irrimediabilmente inquinata: l’inquinamento aveva preceduto il Crollo di decenni, e, in verità, ne era stato direttamente la causa. Ormai non arrecava più molti danni, salvo che ai neonati. La Peste, nella sua varietà leucemica, colpiva ancora selettivamente — deliberatamente, si sarebbe detto — un neonato su quattro e lo uccideva entro sei mesi. I sopravvissuti erano virtualmente immuni dal cancro. Ma c’erano degli altri lati negativi.

Nessuna fabbrica vomitava fumo, dalle parti del fiume. Nessuna auto correva impestando l’aria con i gas di scarico; le poche rimaste andavano a vapore o a batterie.

E non c’era nessun uccello che cantasse, inoltre.

Gli effetti della Peste erano visibili in ogni cosa: la malattia stessa era ancora endemica, ma non aveva impedito lo scoppio della guerra. Anzi, i combattimenti in Medio Oriente erano più feroci di quanto non lo fossero stati nel mondo dell’affollamento. Gli Stati Uniti sostenevano pesantemente la parte israeliana-egiziana con armi, munizioni, aeroplani e «consiglieri militari» a reggimenti interi. La Cina sosteneva altrettanto vigorosamente la parte Iraq-Iran, anche se non aveva ancora inviato soldati cinesi: soltanto tibetani, nord-coreani, vietnamiti e mongoli. Russia e India si tenevano ancora da parte, ma con inquietudine; e ora che Afghanistan e Brasile stavano per entrare in guerra a fianco degli iraniani, il Pakistan rischiava di mettersi dalla parte isregiziana. In tal caso l’India si Sarebbe allarmata e si sarebbe alleata alla Cina, e ciò avrebbe potuto spaventare sufficientemente la Russia da farla venire al fianco degli Stati Uniti. Questo faceva un totale di dodici Potenze Nucleari, sei per parte. Tali le previsioni…Intanto Gerusalemme era in rovine, e in Arabia Saudita e in Iraq la popolazione civile viveva in tane scavate nel terreno, mentre gli aeroplani e i carri armati spargevano fuoco dall’aria e colera nelle acque, e i bambini strisciavano fuori dalle tane accecati dal napalm.

Stavano ancora massacrando dei bianchi a Johannesburg, lesse Orr sulla prima pagina di un giornale, all’edicola. Erano passati anni dalla Rivolta, e rimanevano ancora dei bianchi da massacrare in Sudafrica! Gente dura, quella…

La pioggia continuò a cadere tiepida, inquinata, dolce sulla sua testa nuda mentre camminava sulle grige colline di Portland.

Nell’ufficio con la grande finestra d’angolo che si affacciava sulla pioggia, disse: — Per favore, Dottor Haber, la smetta di usare i miei sogni per migliorare il mondo. Non serve a niente. È sbagliato. Io voglio guarire.

— Questo è l’unico requisito essenziale per la sua guarigione, George. Volere guarire.

— Lei non mi ha risposto.

Ma l’uomo massiccio era come una cipolla, costituito uno strato dopo l’altro di personalità, convinzioni, risposte; un’infinità di strati, nessuna fine per essi, nessun centro per lui. Nessun punto dove si fermasse, si dovesse arrestare, dovesse dire: «Qui mi fermo!». Niente sostanza, soltanto strati.

— Lei usa i miei sogni efficaci per cambiare il mondo. Ma non vuole ammettere di fronte a me che lo fa. Perché?

— George, lei deve comprendere che mi pone delle domande che dal suo punto di vista possono parere ragionevoli, ma che dal mio punto di vista non hanno letteralmente nessuna risposta. Noi non vediamo la realtà nello stesso modo.

— Ma la vediamo in modo abbastanza simile, tanto da poterne parlare.

— Sì. Fortunatamente. Ma spesso non tanto da poter dare una risposta a qualche domanda. Non ancora.

— Io posso rispondere alle sue domande, e lo faccio… Comunque, pensi a una cosa. Lei non può continuare a cambiare le cose, a cercare di comandarle.

— Lei parla come se fosse una specie di imperativo morale generale. — Rivolse a Orr uno dei suoi sorrisi cordiali e pensierosi, strofinandosi la barba. — Ma in realtà, non è proprio questo lo scopo dell’uomo a questo mondo… fare cose, cambiare cose, comandare cose, fare un mondo migliore?

— No!

— Qual è lo scopo dell’uomo, allora?

— Non lo so. Le cose non hanno uno scopo, come se l’universo fosse una macchina, in cui ogni parte svolge una funzione utile. Qual è la funzione di una galassia? Non so se la nostra vita abbia uno scopo, e non mi pare che la cosa abbia importanza. La cosa che ha importanza è che noi siamo una parte. Come un filo di lana in un tappeto, o un filo d’erba in un prato. Esso esiste e noi esistiamo. La cosa che stiamo facendo è come il vento che soffia sull’erba.

Ci fu una breve pausa, e quando Haber rispose, il suo tono di voce non era più cordiale, rassicurante o incoraggiante. Era del tutto neutro e volgeva, in modo appena avvertibile, sullo sprezzante.

— È una concezione stranamente passiva per un uomo cresciuto nell’Occidente giudaico-cristiano-razionalista. Una sorta di buddismo istintivo. Non ha mai studiato il misticismo orientale, George? — L’ultima domanda, con la sua risposta ovvia, era una chiara derisione.

— No. Non so nulla di queste cose. Ma so che è sbagliato forzare lo schema delle cose. Non serve. È stato per un secolo il nostro errore. Lei non ha… non ha visto cosa è successo ieri?

Lo sguardo cupo e opaco incontrò il suo, direttamente.

— Che cos’è successo, ieri, George?

Non c’era modo di uscirne. Non c’era modo.

Ora Haber usava su di lui il pentotal sodico, per abbassare la sua resistenza ai procedimenti dell’ipnosi. Si sottopose all’iniezione, osservando l’ago che penetrava con solo un istante di dolore nella vena del braccio. Così doveva succedere: non aveva scelta. Non aveva mai avuto scelta. Era soltanto un sognatore.

Haber si allontanò per terminare qualche sua faccenda mentre il farmaco faceva effetto; ma fu di ritorno dopo quindici minuti, tempestoso, gioviale e indifferente. — Benissimo! Diamoci da fare, George!

Orr sapeva, con spaventosa lucidità, quale era la cosa su cui si sarebbero «dati da fare» oggi: la guerra. I giornali ne erano pieni; perfino la mente di Orr, di solito refrattaria alle notizie politiche, ne era stata piena, nel tragitto da casa. La guerra che stava scoppiando in Medio Oriente. Haber le avrebbe posto fine. E certo anche i massacri in Africa. Perché Haber era un uomo benevolo. Voleva creare per l’umanità un mondo migliore.

Il fine giustifica i mezzi. Ma se non ci fosse una fine? Avremmo soltanto dei mezzi. Orr si sdraiò sul divano e chiuse gli occhi. La mano gli toccò la gola. — Lei adesso entrerà nello stato ipnotico, George — disse la voce profonda di Haber. — Lei è nel…

buio.

Nel buio.

Non era ancora notte: tardo crepuscolo all’aperto. Gruppi di alberi dall’aspetto nero e umido. La strada su cui camminava era illuminata debolmente dall’ultima luce del cielo: era una strada lunga e diritta, una vecchia autostrada dall’asfalto screpolato. Un’oca camminava davanti a lui, a circa cinque metri di distanza, visibile soltanto come una macchia bianca dondolante. Di tanto in tanto ripeteva piano il suo verso.

Stavano spuntando le stelle, bianche come margherite. Una enorme stava sbocciando proprio a destra della strada, bassa sul buio della campagna: era bianca e tremula. Quando alzò di nuovo lo sguardo su di essa, era già più larga e più brillante. Si ingrandisce, pensò. E mentre diveniva più brillante pareva divenire più rossa. Si arrossingrandí. Gli giravano gli occhi. Piccole strisce verdazzurre fischiarono intorno alla stella, zigzagandola come particelle browniane tutt’in giro. Un ampio alone cremoso si allargò intorno alla grossa stella e ai piccoli zigzagatori, ora più debole, ora più fitta, pulsante. Oh no no no! esclamò lui, mentre la grande stella s’illuminava immensamente SCOPPIAVA accecante. Cadde a terra coprendosi la testa con le mani mentre il cielo esplodeva in strisce luminose e mortali, ma non poteva distogliere la faccia, doveva osservare e riferire. La terra oscillò, grandi rughe percorsero la pelle del pianeta. — Basta, basta! — gridò forte, con la faccia verso il cielo, poi si destò sul divano di cuoio.

Si mise a sedere, e si portò alla faccia le mani sudate e tremanti.

Subito sentì sulla spalla la mano pesante di Haber. — Di nuovo un brutto sogno? Accidenti, pensavo che non ci sarebbero stati fastidi. Le ho detto di fare un sogno sulla pace.

— E l’ho fatto.

— Ma l’ha turbata.

— Ho visto una battaglia spaziale.

— L’ha vista? Da dove?

— Dalla Terra. — Raccontò brevemente il sogno, lasciando perdere il particolare dell’oca. — Non so se sono stati loro a beccare una delle nostre o viceversa.

Haber rise. — Sarebbe bello poter vedere quel che succede lassù! Ci sentiremmo più direttamente interessati. Ma, naturalmente, questi scontri hanno luogo a velocità e a distanze che la vista umana, semplicemente, non è capace di osservare. La sua versione è molto più pittoresca della realtà, senza dubbio. Sembra qualche buon film di fantascienza degli anni ’70. Ci andavo sempre, quand’ero ragazzo… Ma perché pensa di avere sognato una scena di battaglia, se la suggestione ipnotica parlava di pace?

— Parlava soltanto di pace? Sognare la pace… non mi ha detto altro?

Haber non gli rispose subito. Regolò qualcosa nei comandi dell’Aumentore.

— D’accordo — fece, alla fine. — Per questa volta, sperimentalmente, paragoniamo pure il suggerimento con il sogno. Forse scopriremo perché si è svolto negativamente. Le ho detto… no, meglio sentire il nastro. — Si avvicinò a uno sportellino sulla parete.

— Lei registra l’intera seduta?

— Certo. Normake procedura psichiatrica. Non lo sapeva?

E come faccio a saperlo, se è un registratore nascosto, se non emette segnali, e se tu non me l’hai mai raccontato, pensò Orr: ma non disse nulla. Forse era la normale procedura, forse era un frutto dell’arroganza di Haber: ma in tutt’e due i casi non poteva farci niente.

— Eccolo qua, dovrebbe essere pressappoco a questo punto. Qui siamo nello stato ipnotico. George. Lei… Ecco! non si addormenti, George! — Il fruscio del nastro. Orr scosse la testa, batté gli occhi. Le ultime parole erano la voce registrata di Haber, naturalmente; e lui era ancora pieno del farmaco per favorire l’ipnosi.

— Devo saltare un po’. Bene. fi poi di nuovo la voce registrala, che diceva: — … la pace. Non più uccisioni in massa di uomini da parte di altri uomini. Non più combattimenti in Iran, Arabia e Israele. Non più genocidi in Africa. Non più riserve di bombe biologiche e nucleari, pronte da usare contro altre nazioni. Non più ricerche sul modo di uccidere altri uomini. Un mondo in pace con se stesso. La pace come universale modo di vita sulla Terra. Lei sognerà questo mondo in pace con se stesso. E ora sta per addormentarsi, George. Quando io pronuncerò… — E qui Haber arrestò bruscamente il nastro, per non fare addormentare Orr con la parola chiave.

Orr si strofinò la fronte. — Be’ — disse, — mi pare di avere seguito le istruzioni.

— Niente affatto. Sognare una battaglia nello spazio cislunare… — la voce di Haber si arrestò bruscamente, come prima quella sul nastro.

Cislunare — disse Orr, provando un po’ di tristezza per Haber. — Non usavamo questa parola, quando mi sono addormentato. Come vanno le cose in Isregitto?

Il neologismo proveniente dalla vecchia realtà aveva un effetto strano e sconvolgente, pronunciato in questa realtà: come il Surrealismo, pareva avere senso e non lo aveva, o pareva non avere senso e invece lo aveva.

Haber cominciò a passeggiare su e giù per l’ampia, elegante stanza. Una volta si passò la mano sulla barba rossa e ricciuta. Era un gesto calcolato, che Orr conosceva, ma, quando egli parlò, Orr capì che cercava e sceglieva le parole con attenzione, senza affidarsi, per una volta, alla sua inesauribile riserva di improvvisazione. — Strano come lei abbia usato la Difesa Terrestre come simbolo o metafora della pace, della fine della guerra. Eppure non è sbagliato. Soltanto, è molto acuto. I sogni sono infinitamente acuti. Infinitamente. Perché in effetti è stata proprio questa minaccia, questo immediato rischio di invasione, da parte di creature aliene non comunicanti, irrazionalmente ostili, che ci ha costretto a cessare i combattimenti tra noi, per volgere all’esterno ogni nostra energia offensiva e difensiva, a estendere l’imperativo territoriale fino a comprendere tutta l’umanità, a combinare le nostre armi contro il nemico comune. Se gli Alieni non avessero colpito, chi può dire cosa sarebbe successo? Forse potremmo, ancor oggi, combattere nel Medio Oriente.

— Dalla padella nella brace — disse Orr. — Non vede, Dottor Haber, che da me non riesce a ottenere altro? Vede, non è che io voglia bloccarla, voglia frustrare i suoi piani. Mettere fine alla guerra era una buona idea. Sono completamente d’accordo con lei. Ho perfino votato isolazionista alle scorse elezioni perché Harris prometteva di toglierci dal Medio Oriente. Ma penso di non potere, o almeno che il mio inconscio non possa, concepire un mondo senza guerra. Il meglio che può fare è sostituire un tipo di guerra con un altro. Lei ha detto: Non più uccisioni di uomini da parte di altri uomini. E io allora ho sognato gli Alieni. Le sue idee sono sane e razionali, ma quello che lei sta cercando di usare è il mio inconscio, e non la mia mente razionale. Forse razionalmente potrei immaginare che la specie umana non cerchi di uccidersi nazione contro nazione, anzi, razionalmente è più facile immaginare questo che non i motivi della guerra. Ma lei si serve di qualcosa che è estraneo alla ragione. Lei cerca di raggiungere mete progressiste, umanitarie, con uno strumento che non è adatto al compito. Chi ha mai fatto dei sogni umanitari?

Haber non disse nulla, non mostrò nessuna reazione, e Orr continuò.

— O forse non si tratta soltanto del mio inconscio, della parte irrazionale della mia mente; forse tutta la mia personalità, tutto il mio essere non è adatto a questo lavoro. Io sono troppo disfattista, o passivo, come dice lei, forse. Non ho abbastanza desideri. Forse la cosa ha qualcosa a che fare con l’avere questa… questa capacità di sognare in modo efficace; se invece non ha niente a che fare con essa, allora ci potrebbero essere delle altre persone che possono farlo, persone con la mente del tipo della sua, e lei potrebbe lavorarci meglio. Lei potrebbe cercare queste persone; io non posso essere il solo; forse io sono l’unico che ne ha preso coscienza. Ma io non voglio farlo. Io voglio uscirne. Io non posso andare avanti. Voglio dire, vede: benissimo, la guerra in Medio Oriente è finita da sei anni, ottimo, ma adesso ci sono gli Alieni, sulla Luna. E se atterrano? Che razza di mostri mi ha tirato fuori dall’inconscio, nel nome della pace? Io non lo so neppure!

— Nessuno conosce l’aspetto degli Alieni, George — disse Haber in tono ragionevole e rassicurante. — Tutti abbiamo fatto dei brutti sogni su di loro, Dio sa! Però, come ha detto lei, sono ormai passati sei anni dal loro sbarco sulla Luna, ma non sono ancora scesi sulla Terra. E ormai i nostri sistemi missilistici di difesa sono stati completati. Non c’è motivo di credere che riescano a passare, visto che non hanno ancora provato. Il periodo più pericoloso sono stati i primi mesi, prima che venisse creata la Difesa su una base di cooperazione internazionale.

Orr rimase seduto per un poco, a spalle basse. Voleva gridare a Haber: «Bugiardo! Perché continua a mentire?». Ma non era un impulso molto forte. Non portava da nessuna parte. Per quanto ne sapeva, Haber era incapace di sincerità perché mentiva già a se stesso. Forse aveva diviso la propria mente in due compartimenti stagni: in uno di essi sapeva che i sogni di Orr cambiavano la realtà, e li usava per farlo; nell’altro credeva di usare l’ipnoterapia e l’abreazione dei sogni per curare un paziente schizoide il quale era convinto che i suoi sogni cambiassero la realtà.

Orr stentava a capire come Haber potesse essere uscito di comunicazione con se stesso; la sua mente era talmente resistente a questo tipo di divisioni, che egli era molto lento a riconoscerle negli altri. Ma conosceva la loro esistenza. Era cresciuto in un Paese governato da politici che inviavano aeroplani a uccidere bambini perché nel mondo i bambini potessero crescere senza pericoli.

Ma questo era successo nel vecchio mondo, ormai. Non nel Mondo Nuovo.

— Sono a pezzi — disse. — Penso che se ne accorga anche lei. Lei è uno psichiatra. Non vede che vado a pezzi? Creature dello spazio che attaccano la Terra! Pensi solo: se lei mi chiederà di sognare ancora, che cosa salterà fuori? Magari un mondo completamente pazzo, prodotto da una fantasia malata. Mostri, spettri, streghe, draghi, lupi mannari… tutta la roba che ci portiamo nella mente, gli orrori dell’infanzia, le paure notturne, gli incubi. Come potrà evitare di scatenarli? Io non posso fermare questa cosa. Non sono io che la controllo!

— Non si preoccupi del controllo! Lei lavora per ottenere la libertà — fece Haber, con voce tonante. — La libertà! Il suo inconscio non è una sentina di orrore e di depravazione. Si tratta di un concetto vittoriano, un concetto spaventosamente distruttivo. È stato d’inciampo a molte delle migliori menti del diciannovesimo secolo, e ha azzoppato la psicologia per tutta la prima metà del ventesimo. Non abbia paura del suo inconscio! Non è un pozzo nero di incubi. Nulla del genere! È la fonte della salute, dell’immaginazione, della creatività. Ciò che noi chiamiamo «male» è il prodotto della civiltà, dei suoi freni e delle sue repressioni che deformano la libera, spontanea espressione della personalità. Lo scopo della psicoterapia è precisamente questo: rimuovere queste paure infondate e questi incubi, portare ciò che è inconscio alla luce della coscienza razionale, esaminano obiettivamente, e scoprire che non c’è nulla di cui avere paura.

— Eppure c’è — disse Orr, molto piano.

Alla fine, Haber lo lasciò andare. Uscì nel crepuscolo primaverile, e si fermò per un attimo sui gradini dell’Istituto, con le mani in tasca, a fissare le luci della città sottostante, così sfocate dal buio e dalla foschia che parevano tremolare e muoversi come minuscole, argentee forme di pesci tropicali in un acquario spento. Un vagoncino della funicolare saliva sferragliando il ripido fianco della collina, diretto al suo punto di inversione, qui sulla cima di Washington Park, davanti all’Istituto. Orr si avviò sulla strada e salì sul vagoncino mentre stava girando. Camminava per fuggire, senza meta. Si muoveva come un sonnambulo, come una persona spinta con la forza.

Загрузка...