CAPITOLO SECONDO

La porta di Dio è la non-esistenza.

Chuang Tse: XXIII

Dall’ufficio del dottor William Haber non si godeva la vista del Monte Hood. Era un appartamento interno, al 63° piano della East Tower Willamette, e da esso non si godeva nessuna vista. Ma su una di quelle pareti prive di finestre c’era un’enorme riproduzione fotografica del Monte Hood, ed era questo il panorama osservato dal dottor Haber mentre parlava al citofono con la segretaria.

— Chi è, Penny, questo Orr che sta venendo? E l’isterico con sintomi di lebbra?

La segretaria distava da lui meno di un metro in linea d’aria, si trovava nella stanza accanto; ma un citofono sulla scrivania, come un diploma di laurea sulla parete, ispira fiducia nel paziente (e nel medico). E sarebbe disdicevole per uno psichiatra andare ad aprire la porta di persona e gridare: «Avanti il prossimo!»

— No, dottore, quello è il signor Greene, domattina alle dieci. Orr è il paziente inviato dal dottor Walters della Clinica Universitaria, il caso per la Terapia Volontaria.

— Abuso di farmaci. Già. Ho qui la sua cartella. Benissimo; appena arriva, fallo subito entrare.

Già mentre pronunciava queste parole poteva udire il cigolio dell’ascensore, lo scatto dell’arresto al piano, il soffio delle portine che si aprivano; poi rumore di passi, esitazione, apertura della porta d’ingresso. Poteva anche udire, adesso che ascoltava, i rumori di porte, di macchine da scrivere, di voci e di sciacquoni provenienti dagli innumerevoli uffici del corridoio e dei piani adiacenti. L’importante consisteva nell’imparare a non ascoltarli. Le uniche pareti a prova di suono rimaste erano quelle della propria mente.

Ora Penny stava esaurendo col paziente le solite formalità della prima visita; mentre aspettava, il dottor Haber tornò a posare gli occhi sulla riproduzione murale, chiedendosi quando fosse stata scattata quella fotografia. Cielo azzurro, neve uniforme dalle pendici alla vetta. Vari anni prima, senza dubbio: probabilmente negli Anni ’60 o ’70. L’Effetto Serra si era manifestato in modo assai graduale, e il dottor Haber, essendo nato nel 1962, ricordava benissimo i cieli azzurri della sua infanzia. Ormai le nevi eterne erano scomparse da tutte le montagne: perfino l’Everest, perfino l’Erebus dalla gola minacciosa, che fa da guardia alla deserta costiera dell’Antartide. Ma forse si erano limitati a ritoccare una fotografia più recente, e quel cielo blu, quella vetta bianca erano un falso; non si può mai dire.

— Buon giorno, signor Orr! — esclamò sorridendo e alzandosi. Non tese la mano: oggigiorno molti pazienti mostravano una forte fobia per i contatti fisici.

Il paziente ritrasse imbarazzato la mano che gli stava già tendendo, cincischiò nervosamente la collana e disse: — Come sta, dottore. — La collana era la solita catena, lunga al petto, di acciaio placcato in argento. Abiti ordinari, del tipo da impiegato; capelli da conservatore, lunghi non oltre la spalla; barba corta. Capelli e occhi chiari: un giovanotto non molto alto, minuto, dal viso piacente, leggermente denutrito, buona salute, età dai 28 ai 32 anni. Non aggressivo, placido, burro e marmellata, rimozioni sessuali, amante delle tradizioni. Nei rapporti con un paziente, amava ripetere il dottor Haber, il periodo più fruttuoso sono i primi dieci secondi.

— Si accomodi, signor Orr. Benissimo! Fuma? Quelle col filtro scuro sono normali, le altre sono denicotinizzate. — Orr non fumava. — Allora, vediamo se le nostre idee sulla sua situazione coincidono. Il Controllo Sanitario vuole sapere perché lei si è fatto imprestare da amici la Tessera Farmaceutica per ottenere razioni extra di eccitanti e di sonniferi. Giusto? Così l’hanno chiamata alla Clinica, le hanno raccomandato il Trattamento Terapeutico Volontario e l’hanno passata a me per la terapia. Dico bene?

E ascoltava la sua stessa voce, dal tono simpatico e tranquillo, esattamente calibrato per mettere a loro agio le persone sedute davanti a lui; ma la persona che gli stava davanti in quel momento era tutt’altro che tranquilla. Batteva frequentemente le palpebre, sedeva rigidamente, tesa; teneva le mani in una posizione esageratamente educata: il classico quadro dell’ansia repressa. Accennò di sì col capo; probabilmente stava trangugiando saliva.

— Bene. Ottimo. Fin qui tutto a posto, allora. Se lei avesse messo da parte quelle medicine, per poi rivenderle a qualche intossicato o per commettere un crimine, allora sì troverebbe davvero in cattive acque. Ma dato che lei si è limitato a prenderle, la sua punizione si limiterà ad alcune sedute con me! Ora, naturalmente, desidero scoprire perché lei le ha prese, così potremo trovare insieme, io e lei, un nuovo modello di vita; un modello che, per prima cosa, non le faccia superare le razioni della sua Tessera, e che forse, per seconda cosa, possa liberarla completamente dalla dipendenza dai farmaci. Ora, la sua abitudine… — i suoi occhi corsero per un istante alla cartella clinica inviatagli dai medici dell’Università, — consisteva nel prendere barbiturici per un paio di settimane, nel passare successivamente per alcune notti all’amfetamina, e infine nel ritornare ai barbiturici. Com’è cominciato questo giro vizioso? Insonnia?

— Dormo bene.

— Ma fa dei brutti sogni.

Il paziente sollevò lo sguardo, spaventato; un guizzo di completo terrore. Sarebbe risultato un caso molto semplice. Quell’uomo non aveva difese.

— Qualcosa di simile — disse, d’un fiato.

— Signor Orr, le confesso che non ho fatto fatica a indovinarlo. Di solito inviano a me coloro che hanno problemi legati ai sogni. — Rivolse un sorriso al giovanotto minuto. — Sono uno specialista dei sogni. Alla lettera. Un onirologo. Il sonno e il sogno sono il mio campo. Dunque, ora posso passare a una seconda ipotesi, vale a dire che lei abbia usato i barbiturici per escludere i sogni, ma che si sia accorto che il farmaco, con l’assuefazione, produceva un effetto sempre minore, e alla fine nessun effetto. Stesso discorso per la dexedrina. E così lei ha cominciato ad alternarli. Giusto?

Il paziente annuì, rigidamente.

— Perché il periodo con la dexedrina era più breve dell’altro?

— Mi rendeva troppo nervoso.

— Ci scommetterei. E l’ultima dose combinata era un’autentica sberla. Seppure, di per sé, non necessariamente pericolosa. Ma lei, signor Orr, nonostante questo, una cosa molto pericolosa l’ha fatta davvero. — Fece una pausa per aumentare l’effetto delle parole. — Lei si è privato dei sogni.

Ancora, il paziente annuì.

— Lei sarebbe forse disposto a privarsi di cibo o di acqua, signor Orr? E mi dica, negli ultimi tempi ha provato a fare a meno dell’aria che respira?

Detto ancora in tono gioviale; il paziente accennò un sorriso brevissimo, imbarazzato.

— Lei sa benissimo di avere bisogno del sonno. Esattamente come per il cibo, l’acqua e l’aria. Ma non capisce che il sonno non è sufficiente, che il suo organismo le richiede, altrettanto vigorosamente, la sua razione di sogni? Se lo priva sistematicamente dei sogni, il suo cervello comincia a giocarle degli strani tiri. La rende irritabile, inquieto, incapace di concentrazione… il quadro le è familiare, no? Non era affatto colpa della dexedrina! … incline a fantasticare ad occhi aperti, scombussolato nelle reazioni, propenso alle dimenticanze, irresponsabile e suscettibile di deliri a sfondo paranoide. E alla fine la costringe a sognare: sognare una cosa qualsiasi. Nessuno dei farmaci da noi conosciuti le impedirà mai di sognare, a meno di ucciderla. Per esempio, l’alcolismo acuto può portare a una condizione chiamata mielinolisi pontina centrale, che è mortale; è causata da una lesione dei centri cerebrali inferiori in seguito a mancanza di sogni. Mancanza di sogni, non di sonno! Mancanza di quello stato fisiologico specifico che si verifica durante il sonno: stadio onirico, sonno REM, stato-d. Ora, visto che lei non è dedito all’alcool, e che non è neppure morto, posso affermare che le medicine da lei prese per eliminare i sogni hanno funzionato soltanto parzialmente. Di conseguenza, (a), la sua condizione fisica si è deteriorata a causa di una privazione parziale di sogni, e (b) lei si è incamminato in un vicolo cieco. Dunque. Che cosa l’ha spinta nel vicolo cieco? La paura dei sogni: dei brutti sogni, direi, o di ciò che lei considera brutti sogni. Può dirmi qualcosa a proposito di questi sogni?

Orr esitò.

Haber aprì le labbra e poi le richiuse. Quasi sempre sapeva perfettamente cosa gli stavano per dire i pazienti, e ogni volta era sicuro che avrebbe potuto dirlo meglio di loro. Ma dovevano essere i pazienti a fare quel passo: questa era la cosa più importante. Non poteva farlo lui al posto loro. Inoltre, in fin dei conti, questo tipo di conversazioni erano un puro preliminare, gli ultimi rudimenti di un rito che risaliva ai giorni gloriosi dell’analisi psicologica; ormai la loro unica funzione era quella di aiutarlo a decidere come curare il paziente, il tipo di condizionamento meglio indicato, positivo o negativo, le cose da fare, non da dire.

— I miei incubi non superano quelli delle persone normali, credo — stava dicendo Orr, a capo chino e fissandosi le mani. — Niente di speciale. Solo che… ho paura di fare dei sogni.

— Di fare dei brutti sogni.

— Brutti o belli non conta: tutti.

— Capisco. E ha un’idea di come sia nata la sua paura? O di ciò che lei teme, lei vorrebbe evitare?

Poiché Orr non rispondeva subito, ma continuava a fissarsi le mani (mani corte e rosate, posate con eccessiva immobilità sulle ginocchia), Haber lo aiutò con la minima delle spintarelle: — È l’irrazionalità, il disordine, forse l’immoralità del sogno… è qualcosa di questo genere a turbarla?

— Be’, in un certo senso, sì. Ma per un motivo molto particolare. Vede, io… ecco…

Ecco la croce, la barriera, pensò Haber, che al pari del paziente fissava quelle mani irrigidite. Il tapinello. Bagna il letto, e conseguente complesso di colpa. Enuresi infantile, madre autoritaria…

— Ecco, so già che non mi crederà…

Il tapino era più grave di quanto non apparisse.

— Signor Orr, chi si occupa professionalmente di sogni, siano essi associati al sonno o nello stato di veglia, non si cura di credere e non credere. Si tratta di due categorie mentali di cui mi servo ben poco. Non sono pertinenti al nostro problema. Perciò trascuri pure questo aspetto, e continui, la prego. Mi interessa. — Che questa frase suonasse un po’ troppo paternalistica? Gettò uno sguardo a Orr per sincerarsi che non avesse malinteso le sue parole, e così incontrò per un istante i suoi occhi. Occhi bellissimi, straordinari, pensò, e la parola lo sorprese, perché anche «bellezza» era una categoria mentale di cui si serviva ben poco. L’iride era tra l’azzurro e il grigio, chiarissima, quasi trasparente. Per un istante Haber dimenticò se stesso e fissò quegli occhi chiari e fuggitivi; ma soltanto per un istante, cosicché la stranezza di quell’esperienza si registrò molto superficialmente sulla sua psiche cosciente.

— Bene — riprese Orr, parlando in tono più deciso, — ho fatto dei sogni che… che hanno avuto un effetto sul… mondo esterno al sogno. Sulla realtà.

— Tutti ne facciamo, signor Orr.

Orr lo fissò a bocca aperta. Il perfetto esempio della rettitudine.

— I sogni che facciamo nello stadio che precede di poco il risveglio esercitano sul livello affettivo generale della psiche un effetto suscettibile delle più…

Ma l’esempio di rettitudine lo interruppe. — No, non intendo riferirmi a questo. — E, balbettando leggermente: — Voglio dire che ho sognato una cosa, e che poi è diventata vera.

— Non provo difficoltà a crederle, signor Orr. E lo dico seriamente. È soltanto dalla nascita del pensiero scientifico in poi, che la gente ha cominciato a dubitare di affermazioni come questa, o a rifiutarle. I sogni profetici…

— Non si tratta di sogni profetici. Io non riesco a prevedere nulla. Io, semplicemente, cambio le cose. — Aveva serrato strettamente i pugni. Niente di strano che i sapientoni della Clinica Universitaria gli avessero mandato questo tizio. A Haber mandavano sempre gli ossi duri.

— E potrebbe darmene un esempio? Tanto per dire: ricorda la prima volta che ha fatto uno di questi sogni? Quanti anni aveva?

Il paziente esitò a lungo, e infine disse: — Sedici anni, se ben ricordo. — Si comportava ancora docilmente; mostrava una notevole paura per l’argomento, ma non esibiva difese o ostilità verso Haber. — Non ne sono certo.

— Allora mi parli della prima volta di cui è certo.

— Avevo diciassette anni. Abitavo ancora con i miei, e in casa c’era anche una mia zia materna. Era in attesa di divorzio e non lavorava; campava col Sussidio Base. Una specie di seccatrice. Avevamo un normale appartamento di tre stanze, e lei era sempre tra i piedi. Mia madre non aveva più un briciolo d’intimità. Non aveva nessun riguardo, voglio dire Zia Ethel. Stava delle ore in bagno… sì, in quell’appartamento avevamo ancora un bagno privato. E continuava anche, ecco, a scherzare con me. Mica tanto per scherzo, però. Entrare nella mia stanza in pigiama topless e così via. Aveva una trentina d’anni, e mi metteva sempre in imbarazzo. Io non avevo ancora la ragazza, e… lei mi capisce. L’adolescenza. È facile mettere su un giovanotto. E la cosa mi dava fastidio. Voglio dire che si trattava di mia zia.

Lanciò un’occhiata all’indirizzo di Haber per assicurarsi che il dottore avesse capito ciò che gli dava fastidio, e per vedere se tale reazione di fastidio veniva disapprovata da Haber. La diffusa permissività dello scorso Novecento aveva generato nella generazione successiva una quantità di sentimenti colpevoli e di timori legati al sesso almeno pari a quella causata dalla diffusa repressività dello scorso Ottocento. Orr temeva che Haber potesse censurare il suo rifiuto di andare a letto con la zia. Ma Haber conservò un atteggiamento interessato e privo di partecipazione personale, e Orr continuò a raccontare.

— Be’, facevo un mucchio di sogni a sfondo più o meno ansioso, e in essi compariva sempre mia zia. Di solito in modo simbolico, come spesso succede con le persone; ad esempio, una volta era una gatta bianca, ma io sapevo benissimo che si trattava di Zia Ethel. Comunque, alla fine giunse una sera in cui insistette perché la portassi al cine, e in cui cercò di farmi compiere certe manipolazioni su di lei; poi, quando tornammo a casa, continuò a girarmi intorno a letto, a dire che i miei dormivano, eccetera; insomma, quando riuscii a mandarla via dalla stanza e a mettermi a dormire, feci il sogno. Un sogno molto vivido: al risveglio, riuscii a ricordarlo perfettamente. Sognai che Zia Ethel era morta in un incidente d’auto a Los Angeles, e che era arrivato un telegramma. Mia madre piangeva mentre cercava di preparare colazione, e io provavo dispiacere per lei, avrei voluto fare qualcosa, ma non sapevo cosa. Nient’altro… Soltanto che, quando mi alzai e andai in salotto, non c’era nessuna Zia Ethel che dormiva sul sofà. Non c’erano estranei nell’appartamento: soltanto io e i miei genitori. Zia Ethel non era nostra ospite. E io non avevo bisogno di chiedere conferme. Ricordavo tutto. Sapevo che Zia Ethel era morta in un incidente d’auto su un’autostrada di Los Angeles, un mese e mezzo prima, mentre tornava a casa da un colloquio con il suo avvocato, per il divorzio. L’avevamo saputo da un telegramma. Tutto il sogno era stato come rivivere una cosa già accaduta realmente. Ma che invece non era accaduta affatto. Prima del sogno. Voglio dire che io sapevo anche che Zia Ethel era stata da noi, che aveva dormito sul sofà del salotto fino alla sera prima.

— E non c’era nulla che lo indicasse, che lo potesse dimostrare?

— No. Nulla. Lei non era mai stata con noi. Nessuno ricordava la sua presenza, salvo me. E io mi sbagliavo. Ecco tutto.

Haber accennò gravemente di sì, e si carezzò la barba. Quello che all’inizio era apparso un semplice caso di assuefazione ai farmaci, ora si rivelava per una grave aberrazione; ma egli non si era mai visto presentare in modo così diretto un sistema illusorio di realtà. Forse Orr poteva essere uno schizofrenico intelligente che gli passava una storia bell’e fatta, cercando di ingannarlo con l’inventiva e la disonestà tipica dei temperamenti schizoidi; ma d’altro canto il giovanotto non mostrava la caratteristica arroganza interiore di questi malati mentali: un’arroganza alla quale Haber era estremamente sensibile.

— Perché dice che sua madre non si è accorta che la realtà era cambiata dalla sera prima?

— Be’, lei non l’aveva sognata. Voglio dire che il sogno cambiò davvero la realtà. Costruì una realtà diversa, retrodatata, di cui mia madre aveva sempre fatto parte. E lei, dato che vi era dentro, non aveva ricordi di altre realtà. Io ne avevo, invece, e le ricordavo entrambe, perché io… ero lì al momento del cambio. È l’unico modo in cui posso spiegarmelo, anche se so che è privo di senso. Ma una spiegazione devo pur darmela, oppure rassegnarmi alla conclusione di essere pazzo.

No, decisamente questo tale non era affatto burro e marmellata.

— Il mio ramo, signor Orr, non è quello di dare giudizi. Io cerco i fatti. E gli eventi della psiche, mi creda, per me sono dei fatti. Quando lei vede i sogni di un altro, nello stesso momento in cui li sogna, registrati nero su bianco nell’encefalogramma, come li ho visti io migliaia di volte, lei non parla più dei sogni come di eventi «irreali». I sogni esistono, sono dei fatti, lasciano un segno dietro di sé. Allora, credo di capire che lei ha fatto altri sogni che parevano avere lo stesso tipo di effetto, vero?

— Qualcuno. Però, a una certa distanza di tempo. E sempre in momenti di tensione. Ma mi pareva che… aumentassero di frequenza. Cominciai ad averne paura.

Haber si sporse verso di lui. — Perché?

Orr parve sorpreso.

— Perché averne paura?

— Perché non desidero affatto cambiare le cose! — esclamò Orr, col tono di chi dice una cosa lapalissiana. - Che diritto ho, io, di cambiare la natura delle cose? E poi, è la mia mente inconscia a cambiare le cose, senza controllo da parte della mia intelligenza. Ho provato con l’autoipnosi, ma non ho ottenuto nulla. I sogni sono incoerenti, egoistici, irrazionali… immorali, come ha detto lei un minuto fa. Ci arrivano dalla parte asociale di noi stessi, non è vero, almeno per una certa percentuale? Io non volevo uccidere la povera Zia Ethel. Io desideravo soltanto che si togliesse dai piedi. Be’, nel sogno queste cose finiscono col diventare un po’ drastiche. I sogni tagliano corto: l’ho uccisa. In un incidente avvenuto un mese e mezzo prima, a migliaia di chilometri di distanza. Ma sono responsabile della sua morte.

Haber tornò a carezzarsi la barba. — E quindi — fece, lentamente, — i farmaci che sopprimono i sogni. Per evitare ulteriori responsabilità.

— Esattamente. I farmaci impedivano ai sogni di diventare troppo vividi. Soltanto certi sogni… sogni molto vivaci, intensi, risultano… — s’interruppe, cercando la parola meglio adatta: — «Efficaci».

— Capisco. Benissimo. Vediamo un po’. Lei non è sposato, e di professione fa il disegnatore per la Compagnia Idraulica Bonneville-Umatilla. Che ne pensa del suo impiego.

— Buono.

— E la sua vita sessuale?

— Finora ho contratto soltanto un matrimonio temporaneo. Ci siamo lasciati l’estate scorsa, dopo un paio d’anni.

— Chi è stato a voler troncare, lei o sua moglie?

— Tutt’e due. Lei non voleva figli. La nostra unione non era roba da matrimonio definitivo.

— E da allora a oggi?

— Be’, ci sono alcune ragazze del mio ufficio, ma non… Sa, confesso di non essere un grande scopatore, a dire il vero.

— E per quanto riguarda i rapporti interpersonali in generale? Pensa che le sue relazioni con le altre persone siano soddisfacenti, ritiene di avere un suo posto nell’ecologia emozionale dei suoi conoscenti?

— Mah, penso di sì.

— Quindi si potrebbe affermare che nella sua vita non c’è nulla di fondamentalmente storto, vero? Benissimo. E ora mi dica una cosa: lei desidera, lei desidera veramente, uscire fuori da questa dipendenza dai farmaci?

— Certo.

— Benissimo. Ora, lei prendeva le medicine perché voleva evitare di sognare. Ma non tutti i sogni sono pericolosi; soltanto certi sogni molto vividi. Lei ha sognato sua zia Ethel sotto forma di una gatta bianca, ma, la mattina dopo, sua zia non era affatto una gatta bianca, vero? Alcuni sogni non fanno niente di male, sono sicuri, eh?

Attese il cenno d’assenso di Orr.

— Bene, allora le propongo una cosa. Che ne direbbe di fare una prova di tutta la faccenda: una prova che forse potrà insegnarle come riuscire a sognare con tutta sicurezza, senza timori? Mi spiego. Per lei, l’argomento del sognare è molto «carico» emotivamente. Lei ha letteralmente paura di sognare, perché ritiene che alcuni sogni abbiano la capacità di modificare il mondo reale, cambiandolo in modi che lei non può controllare. Ora, questa potrebbe essere una metafora molto complessa e molto significativa, di cui si serve la sua psiche inconscia per cercare di comunicare alla sua psiche cosciente certi aspetti della realtà… della sua realtà, della sua vita… che lei, razionalmente, non è ancora pronto ad accettare. In questo momento, il suo problema è il seguente: lei ha paura di sognare, eppure il suo organismo ne ha bisogno. Lei ha cercato di sopprimere i sogni mediante i farmaci, ma questo non ha funzionato. Benissimo, dico io: allora proviamo a fare il contrario. Proviamo a farla sognare, intenzionalmente. Facciamola sognare, intensamente, vivacemente, qui stesso. Sotto la mia supervisione, in condizioni scientificamente controllate. In modo che lei possa riavere il controllo di ciò che, secondo lei, le è sfuggito di mano.

— Ma non posso sognare a comando! — esclamò Orr, in tono di massimo sconforto.

— Niente affatto! Lei può farlo benissimo, nel Palazzo dei Sogni del Dottor Haber! Mai stato ipnotizzato?

— Dal dentista.

— Eccellente. Benissimo. Ecco il sistema: io la metterò in trance ipnotica, e le dirò che sta per addormentarsi, che farà un sogno, e che cosa sognerà. Lei porterà una cuffia trasmettitrice, per avere la sicurezza che si tratti di sonno vero e proprio, e non soltanto di una banale trance ipnotica. E io, mentre lei sognerà, la terrò sotto osservazione, direttamente e sull’EEG… sull’elettroencefalogramma, per tutto il tempo. Poi la sveglierò, e allora noi potremo parlare del sogno da lei fatto. E se tutto si svolgerà senza traumi, forse lei si sentirà più tranquillo quando si avvicinerà il momento del sogno successivo.

— Ma non riuscirò a fare un sogno «efficace», qui da lei! È una cosa che succede una volta ogni dieci, ogni cento sogni. — Le razionalizzazioni difensive di Orr erano molto coerenti.

— Qui da me, lei può fare qualsiasi tipo di sogni. Il contenuto dei sogni e il loro valore emotivo possono venire controllati quasi totalmente, se il paziente desidera sinceramente collaborare e l’ipnotista conosce il fatto suo. Ho dieci anni d’esperienza in questo campo. E lei collaborerà con me, perché porterà la cuffia. Mai portata una?

Orr scosse il capo.

— Comunque, sa di cosa si tratta.

— Inviano un segnale mediante elettrodi che stimolano… il cervello a seguire quel segnale.

— Sì, pressappoco si tratta di questo. I russi l’hanno usata per cinquant’anni, gli israeliani l’anno perfezionata, poi ce ne siamo impadroniti noi e abbiamo cominciato a produrla in serie, sia per uso professionale nel calmare pazienti psicotici, sia per uso domestico nell’indurre il sonno o la trance alfa. Ora, un paio d’anni fa, io stavo lavorando su una paziente gravemente depressa, in Terapia Obbligatoria al Linnton. Come molti casi di depressione, non dormiva abbastanza, e soprattutto aveva una carenza di sonno onirico, di stato-d. Ogni volta che entrava nello stato-d, tendeva a destarsi. Un circolo vizioso: aumento di depressione, riduzione di sogni; riduzione di sogni, aumento di depressione. Bisognava spezzarlo. Ma come? Dei farmaci a nostra disposizione, nessuno riesce efficacemente a incrementare il sonno-d. Provare con l’SEC, la stimolazione elettrica del cervello? Non mi pareva il caso: questa tecnica richiede di impiantare elettrodi attraverso le ossa craniche, e impiantarli profondamente, per poter raggiungere i centri nervosi del sonno; preferisco sempre evitare le operazioni chirurgiche. Mi servivo già della cuffia su di lei per spingerla al sonno, e mi sono detto: se provassi a rendere più specifici, meno generici, i segnali a bassa frequenza della cuffia, dirigendoli su quella particolare area cerebrale? Ma sì, certo, dottor Haber, è un’ottima idea! Comunque, una volta eseguite le ricerche elettroniche preliminari, mi bastarono un paio di mesi per progettare il prototipo della mia apparecchiatura. Con questa cominciai a stimolare il cervello della paziente, servendomi di una registrazione delle onde cerebrali di un soggetto sano, rilevate negli stadi opportuni: i vari stadi del sonno e del sogno. Non riusciì a ricavarne un gran che. È difficile che un segnale proveniente da un altro cervello riesca a suscitare la risposta voluta nel cervello del paziente; dovetti imparare a costruire un segnale molto generale: una specie di media, da centinaia di registrazioni di onde cerebrali normali. Oggi, quando uso il mio metodo su un paziente, parto da questo segnale medio e lo adatto al paziente, ne costruisco su misura uno che vada bene per lui. Come vedo che il cervello del paziente segue la direzione che voglio impartirgli, io registro questo momento, aumento il segnale, lo prolungo, lo rendo più intenso e glielo invio così aumentato: insomma, induco il cervello a seguire i propri impulsi più salutari, se mi concede la frase. Ora, tutto ciò richiede una notevole mole di analisi delle riafferenze, analisi del feed-back, come diciamo noi, cosicché, pian piano, da un semplice apparecchio cuffia-piú-elettroencefalogramma, sono arrivato a questo… — e indicò la selva di apparecchiature elettroniche installate alle spalle di Orr. Ne aveva nascosto la maggior parte dietro paraventi di plastica, perché molti pazienti o provavano timore per le macchine, oppure tendevano a identificarsi eccessivamente con esse, ma, nonostante i tentativi di mimetizzazione, i macchinari occupavano ancora un buon quarto dell’ufficio. — Le presento la Macchina dei Sogni — disse con un sorriso, — ovvero, più prosaicamente, l’Aumentore; e, venendo al suo caso, ce ne serviremo nel seguente modo: ci garantirà che lei dorma e che lei sogni… che faccia un sogno breve e superficiale, oppure un sogno lungo e molto intenso, a nostra scelta. Ah, detto per inciso, la paziente depressa è stata dimessa dal Linnton l’estate scorsa, completamente guarita. — Si sporse verso Orr. — Allora, è disposto a fare una prova?

— Adesso?

— Perché, dovremmo aspettare qualcosa?

— Ma non posso addormentarmi alle quattro e mezza del pomeriggio… — cominciò, e subito si accorse di avere detto una sciocchezza. Haber stava già cercando qualcosa nel cassetto (stipato e disordinatissimo) della scrivania, e l’istante dopo gli tese un modulo: il Consenso all’Ipnosi, richiesto dal Controllo Sanitario. Orr prese la penna che Haber gli porgeva, appose la propria firma e poi appoggiò il foglio sul piano della scrivania, con aria di sottomissione.

— A posto. Benissimo. Ora, mi dica una cosa, George. Il suo dentista usa un ipnonastro, oppure è uno di quelli che preferiscono fare le cose da sé?

— Nastro. Sono al grado 3 della scala di suggestionabilità.

— Giusto nel mezzo del grafico, eh? Bene, perché la suggestione che riguarda il contenuto del sogno possa funzionare, ci occorre una trance piuttosto profonda. Non vogliamo una trance ipnotica, ma un vero stato di sonno; l’Aumentore si occupa di fornircelo, ma desideriamo essere sicuri che la suggestione ipnotica giunga in profondità. Perciò, invece di perdere ore a condizionarla a entrare in una trance profonda, useremo l’induzione vago-carotidea. Mai vista praticare?

Orr scosse il capo. Pareva leggermente preoccupato, ma non fece obiezioni. C’era una caratteristica di passività, di sottomissione, in lui, che sembrava quasi femminile o infantile, addirittura. E Haber riconosceva in sé una reazione protettiva-prepotente verso questo paziente così arrendevole e cosi fisicamente minuto. Assumere nei suoi riguardi un atteggiamento di dominanza, di paternalismo, era talmente facile da risultare quasi irresistibile.

— Sa, io uso quasi sempre quella. È veloce, priva di pericoli, sicura: è il metodo migliore per indurre l’ipnosi, quello che arreca meno fastidi, sia al medico che al paziente. — Quasi certamente, Orr doveva avere udito storie truculente di pazienti che subivano lesioni cerebrali o che addirittura morivano a causa di induzioni v-c troppo prolungate o praticate empiricamente, e anche se tali paure, nella presente sede, erano irragionevoli, Haber doveva mostrarsi comprensivo e cercare di spegnerle sul nascere, per evitare che Orr opponesse resistenza all’induzione ipnotica. Per questo gli recitò tutta la storiella, descrivendogli prima i cinquant’anni di vita del metodo vago-carotideo, e poi abbandonando l’argomento dell’ipnosi per parlare ancora del sonno e del sogno, in modo da allontanare l’attenzione di Orr dalle tecniche d’induzione e riportarla allo scopo che desiderava raggiungere con tali tecniche. — Il varco che dobbiamo superare, vede, è il golfo che separa la condizione di veglia o di trance ipnotica dalla condizione fisiologica in cui si sogna. Questo golfo ha un nome comune: sonno. Sonno normale, stato-s, sonno non-REM (sonno privo di movimenti oculari rapidi), chiamiamolo come vogliamo. Ora, parlando in generale, gli stati in cui si può írovare la mente e che hanno rilevanza per noi sono quattro: veglia, trance, sonno-s e stadio-d, cioè stadio onirico. Se li osserviamo dal punto di vista dei processi psichici, lo stato-s, lo stadio-d e lo stato di ipnosi hanno qualcosa in comune; tanto il sonno quanto il sogno e la trance mettono in libertà le attività del subcosciente, dell’inconscio: tendono a impiegare quello che chiamiamo «pensiero per processo primario», così detto in contrapposizione al processo «secondario», cioè i processi mentali razionali, quelli dello stato di veglia. Ma ora guardiamo come si presentano le registrazioni elettroencefalografiche dei quattro stati. Nei grafici vediamo che quelli che hanno qualcosa in comune sono lo stadio-d, la trance e la veglia, mentre lo stato-s, o sonno, è profondamente diverso. E inoltre non si può passare direttamente dalla trance al vero sogno dello stadio-d. Tra i due deve intervenire lo stato-s. Normalmente, noi entriamo nello stadio-d quattro o cinque volte per notte, ogni 60-90 minuti, e ci rimaniamo per circa un quarto d’ora ogni volta. Per tutto il resto del tempo siamo in una qualsiasi delle condizioni del sonno normale, non-REM. E in questa condizione facciamo anche dei sogni, ma non si tratta di sogni vividi: nel sonno-s, l’attività mentale è come un motore che gira in folle al minimo, una specie di confuso brontolio di immagini e di pensieri. Noi invece vogliamo, adesso, i sogni vividi, memorabili, carichi di emozione dello stadio-d. E con l’ipnosi e l’Aumentore cercheremo di averli, superando il golfo cronologico e neurofisiologico del sonno e tuffandoci rapidamente nel sogno. E per questo lei dovrà accomodarsi sul divano. Il mio campo di ricerche è stato inaugurato da pionieri come Dement, Aserinsky, Berger, Oswald, Hartmann ecc., ma il divano ci arriva direttamente da Nonno Freud. Noi però lo usiamo per dormirci sopra: cosa che non troverebbe certamente d’accordo Freud! Ora, ciò che le chiedo, tanto per cominciare, è semplicemente questo: si sieda tranquillamente sul bordo del divano. Ecco, così va bene. Dovrà rimanerci per un certo tempo, le conviene mettersi comodo. Lei diceva di avere provato l’autoipnosi, vero? Eccellente. Faccia pure, usi le tecniche che impiegava allora. Respiri profondamente. Conti fino a dieci mentre inspira, trattenga il fiato fino a cinque; bene, ottimo. Adesso la prego di fissare il soffitto, proprio al di sopra della sua testa. Così. Bene.

Mentre Orr, sempre obbedientissimo, alzava il capo per fissare il soffitto, Haber, che si era messo al suo fianco, allungò rapidamente la mano sinistra e gliela appoggiò con decisione, premendo col pollice e il medio, dietro le orecchie, un po’ più in basso; nello stesso tempo, con il pollice e il medio della destra, esercitò una forte pressione sulla pelle nuda della gola, presso l’attaccatura della barba soffice e bionda, dove decorrono il nervo vago e l’arteria carotide. Sentì la pelle liscia e cedevole sotto le dita; notò l’istintivo movimento di sorpresa e di protesta, poi vide chiudersi gli occhi chiari. Provò un certo sentimento di piacere nel contemplare la propria abilità, il dominio istantaneo del paziente: tutto ciò mentre mormorava rapidamente, in tono pacato: — Ora lei sta per addormentarsi; chiude gli occhi, dorme, si rilassa, lascia che la mente si svuoti; lei sta per addormentarsi, è rilassato, disteso; si addormenta, si distende…

E Orr cadde all’indietro sul divano, come un uomo colpito a morte da una fucilata: la destra gli crollò al fianco.

Haber subito si chinò su di lui, continuando a premere leggermente la mano sui centri nervosi e senza mai fermare il tranquillo, insistente flusso dei suggerimenti ipnotici. — Adesso lei è in trance: non addormentato, ma in una profonda trance ipnotica, e non si sveglierà e non ne uscirà fino a quando non glielo ordinerò io. Lei è adesso in trance, e la trance continua ad approfondirsi; ma può ancora ascoltare la mia voce e seguire le mie istruzioni. Da questa seduta in poi, ogni volta che io, semplicemente, le toccherò la gola, come faccio ora, lei entrerà immediatamente nella trance ipnotica. — Ripeté queste istruzioni, poi seguitò: — Adesso, quando le dirò di aprire gli occhi, lei lo farà, e vedrà una sfera di cristallo sospesa in aria, davanti a lei. Desidero che la osservi con attenzione; mentre la osserverà, lei continuerà a immergersi nella trance, sempre più profondamente. Apra adesso gli occhi, sì, bene, e mi dica quando vede la sfera di cristallo.

Gli occhi chiari, che ora fissavano in modo strano, interiore, si fermarono su un punto indeterminato dell’aria, oltre Haber. — Adesso — mormorò l’uomo ipnotizzato, con un filo di voce.

— Ottimo. Continui a fissarla e a respirare regolarmente; presto la sua trance sarà molto profonda.

Haber lanciò un’occhiata in direzione della scrivania. Tutta la faccenda aveva richiesto un paio di minuti. Eccellente; non gli piaceva sprecar tempo con i mezzi: arrivare ai fini desiderati era la cosa importante. Mentre Orr, steso sul divano, continuava a fissare la sua immaginaria sfera di cristallo, Haber si raddrizzò e cominciò a infilargli sul capo la cuffia modificata, a toglierla e a rimetterla, accomodando i minuscoli elettrodi perché fossero a contatto con il cuoio capelluto, in mezzo alla massa di capelli sottili, color castano chiaro. Continuava anche a parlare in tono pacato, ripetendo le frasi della suggestione ipnotica e rivolgendogli, di tanto in tanto, qualche domanda di poco conto, per assicurarsi che non scivolasse nel sonno e non interrompesse il rapporto medianico. Quando la cuffia fu a posto, Haber accese lo schermo EEG, e rimase per qualche momento a osservarlo, per capire che tipo di cervello aveva sotto esame.

Otto degli elettrodi erano collegati con l’elettroencefalogramma; nell’interno della macchina, otto pennini tracciavano una registrazione permanente dell’attività elettrica cerebrale. Sullo schermo osservato da Haber, gli impulsi venivano riprodotti direttamente, sotto forma di tremolanti linee spezzate, bianche su fondo grigio. Poteva isolarne una, o sommarle tra loro, a volontà. Era una scena che non lo stancava mai: il Cinematografo Aperto Tutta la Notte, lo Spettacolo Continuato, lo Show 24 Ore su 24.

Non c’era nessuna delle cuspidi sigmoidi che cercava, e che spesso caratterizzano le personalità schizoidi. Nel quadro complessivo dei tracciati non c’era nulla di inconsueto, tranne la sua diversità. Un cervello di tipo semplice produce dei tracciati relativamente semplici e si accontenta di ripetere quelli; ma questo cervello non era affatto semplice. Le sue pulsazioni elettriche erano diversificate e complesse, e le ripetizioni non erano né frequenti né assolutamente identiche. Il calcolatore dell’Aumentore le poteva analizzare, ma Haber, finché non avesse visto i risultati dell’analisi, non poteva isolare dal quadro nessun fattore specifico, salvo la sua stessa complessità.

Dando al paziente l’ordine di non vedere più la sfera di cristallo e di chiudere gli occhi, Haber ottenne quasi immediatamente un tracciato di onde alfa, forti e chiare, a 12 cicli. Continuò a interessarsi ancora un po’ dei tracciati, compiendo registrazioni per il calcolatore, saggiando la profondità dell’ipnosi, e infine disse: — Adesso, John… — No, perdiana, come si chiamava il paziente? — George. Adesso lei si addormenterà, tra un minuto. Si addormenterà profondamente, e sognerà; ma non si addormenterà finché io non pronuncerò la parola «Anversa»; quando io la pronuncerò, lei si addormenterà, e dormirà finché io non pronuncerò per tre volte il suo nome. Però, mentre dormirà, lei farà un sogno: un bel sogno. Un sogno solo, chiaro e piacevole. Non un brutto sogno: un sogno piacevole, ma molto chiaro, molto vivido. E dovrà ricordarlo al suo risveglio. Il sogno riguarderà… — esitò per un istante; non si era preparato su questo punto, aveva fatto affidamento sull’ispirazione. — Riguarderà un cavallo. Un grosso cavallo baio che galoppa in un campo. Che corre davanti a lei. Forse lei sarà in sella, forse lei cercherà di fermarlo, o forse si limiterà a osservarlo. Ma il cavallo deve essere l’argomento del sogno. Un sogno vivido e… — (qual era la parola usata dal paziente?) — ed efficace, che riguarderà un cavallo. Dopo il cavallo, lei non dovrà sognare altro; quando ripeterò tre volte il suo nome lei si sveglierà e si sentirà calmo e riposato. Adesso io la faccio dormire pronunciando… la parola… Anversa.

Con obbedienza, le piccole linee danzanti sullo schermo cominciarono a cambiare. Si rafforzarono e rallentarono; presto i «fusi» dello stadio 2 del sonno cominciarono a moltiplicarsi, seguiti dai primi accenni dei ritmi delta, lunghi e profondi, dello stadio 4. E come i ritmi cerebrali, così cambiava anche la gravosa materia abitata da quella energia danzante: le mani erano rilasciate sul torace pulsante, il volto era immobile e lontano.

L’Aumentore disponeva già di una completa serie di registrazioni dei tracciati di quel cervello nello stato di veglia; ora registrava e analizzava i tracciati del sonno-s; presto avrebbe raccolto i primi tracciati del sonno-d del paziente, e fin da questa prima seduta, da questo primo sogno, sarebbe stato capace di ritrasmetterli al cervello dormiente, amplificando le sue emissioni. Forse stava già facendolo. Haber aveva previsto di dover attendere, ma la suggestione ipnotica, sommata al fatto che il paziente era reduce da un lungo periodo di semi-privazione di sogni, lo avevano fatto entrare immediatamente nello stadio-d: appena raggiunto lo stadio 2, le curve cominciarono a risalire. Sullo schermo, il tracciato lentamente sinuoso prese a scuotersi qui e là, occasionalmente; tremolò ancora; si fece più rapido e riprese a danzare, assumendo un ritmo veloce e non sincronizzato. Ora la regione del ponte era entrata in attività, e il tracciato prelevato dall’ippocampo mostrava un ciclo di 5 secondi: il ritmo theta, che prima, nel paziente, non si era mostrato in modo chiaro. Le dita si mossero leggermente; gli occhi, dietro le palpebre chiuse, si agitarono, attenti; le labbra si schiusero per un profondo respiro. Il dormiente sognava.

Erano le 5 e 6 minuti.

Alle 5 e 11, Haber schiacciò il grosso pulsante nero che recava la scritta SPENTO, sul quadro dei comandi dell’Aumentore. Alle 5 e 12, vedendo riapparire i fusi e le alte punte del sonno-s, si piegò sul paziente e pronunciò con chiarezza il suo nome, tre volte.

Orr sospirò, allargò il braccio in un gesto largo e incontrollato, spalancò gli occhi e si destò. Haber gli staccò la cuffia dal cuoio capelluto con pochi, abili gesti. — Si sente bene? — chiese, in tono amichevole e sicuro di sé.

— Sì.

— E inoltre ha sognato. Ma questo è tutto ciò che posso dirle. Può raccontarmi il sogno?

— Un cavallo — si affrettò a dire Orr, ancora stordito per la brusca uscita dal sonno. Si rizzò a sedere. — Un sogno che riguardava un cavallo. Quel cavallo lì — e indicò la riproduzione fotografica murale, grossa come tutta la parete, che decorava l’ufficio di Haber: la fotografia del famoso stallone Tammanny Hall, lanciato al galoppo in una radura erbosa.

— E cosa faceva, il cavallo, nel sogno? — chiese Haber, compiaciuto. Non si era aspettato che l’ipnosuggestione riuscisse a influenzare così chiaramente il contenuto del sogno, dato che si trattava del primo rapporto ipnotico con quel paziente.

— Il cavallo… no, io; attraversavo il prato, e all’inizio il cavallo era lontano da me, lo vedevo nella distanza. Poi si è precipitato al galoppo nella mia direzione, e io a un certo punto ho capito che mi avrebbe travolto. Tuttavia non avevo paura. Probabilmente pensavo di riuscire ad afferrare la briglia, o di potergli salire in groppa e cavalcarlo. Sapevo che in realtà non avrebbe potuto farmi del male, perché era il cavallo della fotografia, e non un cavallo vero. Era una specie di gioco… Dottor Haber, mi scusi, ma non le sembra che quella fotografia abbia qualcosa di… strano?

— Be’, qualcuno la giudica un po’ eccessiva per l’ufficio di uno psicologo, un po’ opprimente. Un simbolo sessuale, formato naturale, proprio di fronte al divano! — E rise.

— C’era già, un’ora fa? Voglio dire, non c’era forse il panorama di Monte Hood, quando io sono entrato… prima che sognassi il cavallo?

Oh Cristo era davvero Monte Hood il tizio aveva ragione

Non era Monte Hood non poteva essere Monte Hood era un cavallo era un cavallo

Era una montagna

Era un cavallo era un cavallo era un cavallo…

Fissava George Orr a occhi sbarrati, stupefatto, e dovevano essere passati vari secondi dalla domanda; non poteva farsi sorprendere così, doveva ispirare fiducia, e sapeva come rispondere.

— George, a quanto le dice la sua memoria, la fotografia della parete era il panorama di Monte Hood?

— Sì — fece Orr, col suo tono triste, ma risoluto. — Certo. Era Monte Hood. Con la neve.

— Mmmm -annuì con imparzialità, meditabondo. Il terribile brivido di gelo che aveva provato alla bocca dello stomaco era passato.

— Perché, lei ricorda qualcosa di diverso?

Gli occhi di quell’uomo, dal colore così indefinibile, eppure così chiari e diretti nel guardare: erano gli occhi di uno psicotico.

— No, mi spiace dirlo, ma la risposta è no. È Tammanny Hall, il vincitore dei tre Premi nell’ottantanove. Sento la mancanza delle corse, è una vergogna che per i nostri problemi alimentari abbiano dovuto eliminare le specie inferiori. Naturalmente, un cavallo è un clamoroso anacronismo, ma la fotografia mi piace; ha vigore, forza… la totale realizzazione della propria personalità sotto forma di un animale. È una specie di ideale di ciò che lo psichiatra vuole ottenere, in termini psicologici umani; un simbolo. Ad esso mi sono ispirato nel suggerirle il contenuto del sogno: ovviamente, mi era caduto l’occhio sulla fotografia… — Haber lanciò un’occhiata di traverso alla riproduzione. Certo, che era un cavallo. — Comunque, mi ascolti: se vuole sentire anche l’opinione di una terza persona, possiamo chiedere a Miss Crouch: lavora con me da due anni.

— Dirà che era un cavallo — fece Orr, in tono calmo ma dolente. — Lo è sempre stato. Dopo il mio sogno. Era un cavallo. Ho creduto che forse, visto che era stato lei a suggerirmi il sogno, forse anche lei, come me, poteva conservare il doppio ricordo. Ma ora vedo che non è affatto così. — E i suoi occhi, che ora non fissavano più in basso, si puntarono nuovamente su Haber con la loro chiarezza, la loro carica di sopportazione, la loro tranquilla e disperata richiesta di aiuto.

Quell’uomo era malato. Bisognava curarlo. — Vorrei che lei tornasse da me, George. Domani, se le è possibile.

— Be’, il lavoro…

— Si faccia dare un’ora di permesso, e venga da me alle quattro. Lei è in Terapia Volontaria. Lo comunichi al suo capufficio, e non provi nessun falso pudore nel dirglielo. Prima o poi, l’82 per cento della popolazione finisce in Terapia Volontaria, per non parlare del 31 per cento che finisce in quella obbligatoria. Quindi, venga da me alle quattro, e riprenderemo a lavorare insieme. Otterremo certamente dei buoni risultati, lo sa anche lei. Per ora, eccole una ricetta per del meprobamato: terrà un po’ in sordina i suoi sogni, ma senza eliminare lo stadio-d. Può richiedere all’automatico una nuova dose ogni tre giorni. Se le succede di fare un sogno, o qualsiasi altra esperienza, che la spaventa, telefoni a me, giorno e notte. Ma non credo che le possa succedere, se prende il meprobamato; e se è disposto a lavorare seriamente con me, in poco tempo potrà fare a meno dei farmaci. Risolveremo tutto questo suo problema dei sogni, lo metteremo sul tappeto, in chiaro. D’accordo?

Orr prese la ricetta su scheda perforata. — Sarebbe un enorme sollievo — disse. Sorrise: un sorriso un po’ sforzato, infelice, ma con una sfumatura ironica. — Ah, a proposito del cavallo… — fece.

Haber, che lo superava di tutta la testa, lo fissò.

— Mi ricorda lei — disse Orr.

Haber lanciò subito un’occhiata alla riproduzione. Era vero. Grosso, robusto, irsuto, color castano rossiccio, lanciato su di te al galoppo…

— Forse — chiese, in tono simpatico e perspicace, — il cavallo del sogno assomigliava a me?

— Certo, le assomigliava — disse il paziente.

Quando Orr fu uscito, Haber si sedette e rimase a fissare un po’ allarmato la riproduzione fotografica di Tammanny Hall. Davvero, era troppo grossa per l’ufficio. Accidenti, perché non si poteva permettere un ufficio con una vera finestra!

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