La fantasticheria, che sta al ragionamento come la nebulosa sta alla stella, confina col sonno, che ne è la frontiera. Un’atmosfera abitata da trasparenze vive: questo potrebbe essere l’inizio dell’ignoto. Ma al di là di essa si spalanca, immenso, il Possibile, abitato da altri esseri, da altre realtà. Niente di sovrannaturale, ma soltanto la continuazione nascosta della natura infinita… Il sonno è in contatto con questo Possibile, che noi chiamiamo anche l’inverosimile. Il mondo della notte è un intero universo. La notte è un cosmo… Le nere essenze del mondo sconosciuto si avvicinano all’uomo, o perché esiste una vera comunicazione, o per una riduzione prospettica della larghezza dell’abisso… e il dormiente, non del tutto conscio e al tempo stesso non del tutto inconscio, intravede quelle animalità bizzarre, quelle straordinarie vegetazioni, quei pallori terribili o sorridenti, quelle larve, quelle maschere, quelle figure, quelle idre, quelle confusioni, quei chiarori lunari senza luna, quelle oscure dissolvenze del prodigio, quelle crescite e quelle sparizioni entro un’atmosfera scura e torbida, quel fluttuare di forme nelle tenebre: tutto quel mistero, insomma, che noi chiamiamo Sogno, e che non è altro se non l’avvicinarsi di una realtà invisibile. Il sogno è l’acquario della Notte.
Alle 2 e 10 del pomeriggio, il 30 marzo, Heather Lelache lasciò il ristorante Dave’s Fine Foods, nella Ankeny Street, e si diresse a sud per la Quarta Avenue. Porta una grossa borsa nera dalla chiusura d’ottone e un impermeabile rosso di plastica. Attenzione a questa donna. È pericolosa.
Non per il fatto che ci tenesse particolarmente a vedere o a non vedere quel povero psicopatico della malora, ma, cacca!, non le piaceva fare la figura della scema davanti ai camerieri. Starsene mezz’ora a un tavolo, senza ordinare, proprio in mezzo alla baraonda del mezzogiorno («Aspetto qualcuno… No, mi spiace, aspetto qualcuno»); poi non arriva nessuno e finisce che devi mandare giù tutto di corsa, e probabilmente tra un po’ ti verrà il bruciore di stomaco. Oltre al nervoso, l’offesa, la noia. Ah, le malattie veneree della mente…
Prese a sinistra per la Morrison, e subito si arrestò. Che diavolo veniva a fare da queste parti? Questa non era la strada per l’ufficio degli avvocati Forman, Esserbeck e Rutt. In fretta ripercorse vari isolati verso nord, attraversò la Ankeny, giunse al Burnside, e lì si arrestò di nuovo. Ma che cacchio fai?
Sto andando al parcheggio convertito del 209 S.W. Burnside. Parcheggio convertito? Il tuo ufficio è nel Pendleton Building, il primo edificio commerciale costruito a Portland dopo il Crollo. Quindici piani, stile neo-Inca. Quale parcheggio convertito? Chi diavolo lavora in un parcheggio convertito?
Fece ancora un pezzo del Burnside per andare a vedere. Certo, il parcheggio c’era. Era circondato da una palizzata con grandi scritte IN DEMOLIZIONE.
Il suo ufficio era lassù, al terzo piano.
Mentre era ferma sul marciapiede a fissare l’edificio vuoto, con quei curiosi pavimenti elicoidali e quelle finestre alte e sottili, provò un’impressione davvero strana. Che cos’era successo venerdì, durante quella seduta psichiatrica?
Doveva vedere di nuovo quel tizio. Mr. Either Orr, Mr. Questo o Quello. Le aveva fatto il bidone, ma lasciamo perdere: voleva ancora rivolgergli varie domande. Si avviò a sud (clic clac), schioccando le chele, verso il Pendleton Building, poi gli telefonò dall’ufficio. Prima alle Industrie Bradford (no, Mr. Orr non è venuto oggi; no, non ha telefonato), poi a casa sua (drin. drin. drin.).
Poteva telefonare al dottor Haber, forse. Ma era una persona talmente importante, direttore del Palazzo dei Sogni, lassù in cima al parco. E poi, che idea sciocca: Haber non doveva sapere dei suoi rapporti con Orr. Bugiardo scava le buche, bugiardo ci casca dentro. Ragno preso nella sua tela.
Quella sera Orr non rispose al telefono né alle sette, né alle nove, né alle undici. Non si presentò al lavoro martedì mattina, e neppure alle due del pomeriggio. Alle quattro e mezza, Heather Lelache lasciò gli uffici degli avvocati Forman, Esserbeck e Rutt e prese il tram fino a Whiteaker Street, salì fino alla Corbett Avenue, trovò la casa, suonò il campanello: uno di sei pulsanti che denunciavano di essere stati premuti infinite volte, variamente sbreccati, disposti in fila sullo stipite scrostato di una porta con vetri smerigliati; una casa che era stata la gioia e l’orgoglio di qualcuno nel 1905 o nel 1892, che da allora aveva fatto la sua carovana, ma che andava in rovina con dignità e con una certa magnificenza un po’ appannata. Nessuna risposta suonando il campanello di Orr. Suonò quello di «M. Ahrens Custode». Due volte. Custode giunse, e dapprima si mostrò restio a collaborare. Ma se c’era una cosa in cui la Vedova Nera eccelleva, questa era l’intimidazione di insettucoli inferiori. Custode la accompagnò per le scale e provò a spingere la porta di Orr. La porta si aprì. Non era chiusa a chiave.
Entrò. A tutta prima, pensò che potesse esserci un morto. E non era casa sua.
Custode, senza preoccuparsi della proprietà privata, entrò; lei lo seguì riluttante.
Le stanze, vecchie, grandi e spoglie, erano buie e vuote. Le parve una sciocchezza avere pensato alla morte. Le proprietà di Orr non ammontavano a molto; non c’erano il disordine e la trascuratezza di certi scapoli, né l’ordine e la pulizia di certi altri. La personalità del proprietario non si era impressa sulle stanze, eppure si poteva immaginare la sua presenza: un uomo tranquillo, che viveva in tranquillità. Sul comodino da notte c’era un bicchiere d’acqua, con un’incrostazione bianca sopra il pelo del liquido. Ne era evaporato circa un centimetro.
— No so dove sia andato — disse Custode, con aria preoccupata, e le rivolse un’occhiata come per chiederle aiuto. — Crede che gli sia successo qualcosa? Un incidente? — Custode portava la giacca di camoscio, i capelli alla Buffalo Bill, la collana con lo stemma dell’Aquario della sua gioventù; a quanto pareva, non doveva essersi cambiato d’abiti negli ultimi trent’anni. E aveva un significativo accento alla Bob Dylan. Sapeva perfino di marijuana. I vecchi hippie non si arrendono mai.
Heather lo guardò con simpatia, perché l’odore di marijuana le ricordava sua madre. Disse: — Forse è andato in quella sua casa di montagna. Il fatto è che non sta bene; lo saprà anche lei, è in Terapia Governativa. Se non torna, può avere delle grane. Lei non sa dove sia quella villa, e se c’è un telefono?
— Non so.
— Posso venire da lei a fare una telefonata?
— La faccia da qui — disse Custode, scrollando le spalle.
Heather chiamò un amico all’Ufficio Forestale dell’Oregon e gli chiese di controllare l’elenco delle 34 case assegnate con la lotteria della Foresta Nazionale Siuslaw, e di dirle dove si trovavano. Custode rimase lì intorno ad ascoltare la conversazione, e, quando fu terminata, fece: — Amici altolocati, eh?
— Serve — rispose la Vedova Nera, sibilando.
— Spero che riesca a trovate George. Mi piace quel ragazzo. Si fa prestare la mia Tessera Farmaceutica — disse Custode, e scoppiò d’improvviso in una risata, che però si spense subito. Quando Heather lo lasciò, era appoggiato con aria imbronciata contro lo stipite scrostato della porta d’ingresso. Lui e la vecchia casa si fornivano reciprocamente sostegno.
Heather tornò in centro col tram, noleggiò alla Hertz una Ford a vapore e si avviò sulla statale ovest. La cosa cominciava a piacerle. Vedova Nera che insegue la preda. Perché non era una detective, invece di essere una stramaledettissima civilista di terza categoria? Odiava la professione dell’avvocato. Richiedeva una personalità aggressiva e dogmatica. E lei non l’aveva. Aveva invece una personalità furtiva, segreta, timida, squamosa. Aveva le malattie veneree della mente.
In breve, la piccola vettura si trovò fuori dell’abitato: ormai erano scomparse le periferie che un tempo si estendevano per chilometri e chilometri lungo la carrozzabile. Durante gli Anni della Peste, negli ’80, quando in alcune zone non rimaneva in vita una persona su venti, la periferia non era un posto molto piacevole in cui abitare. Chilometri per raggiungere il supermercato, niente benzina per l’auto, e tutte le case che ti circondano piene di morti. Nessuno che ti possa dare una mano, niente cibo. Branchi di grossi cani status-symbol — tutti quegli afgani, alsaziani, danesi che venivano comprati per dimostrare il censo del proprietario — battevano, rinselvatichiti, i prati pieni di erbacce. Se si rompeva la finestra panoramica, chi veniva a cambiare il vetro? La gente si era rincantucciata nel vecchio centro cittadino, e le aree residenziali periferiche, dopo essere state saccheggiate, bruciavano. Come Mosca nel 1812, per decreto divino o per vandalismo umano: nessuno le voleva, ed esse bruciavano. L’epilobio, la prima pianta che cresce sulle aree bruciate, e da cui le api fanno il miele migliore, aveva ricoperto un ettaro dopo l’altro di certi villaggi residenziali come Kensington Homes West, Sylvan Oak Manor Estates e Valley Vista Park.
Il sole declinava quando Heather attraversò il fiume Tualatin, immobile come un nastro di seta tra gli argini alti e ripidi, coperti di alberi. Dopo qualche tempo si levò la luna, quasi piena; quando la strada deviò a sud, cominciò a risplendere giallastra alla sua sinistra. Le dava fastidio, le pareva che la spiasse da dietro le spalle quando prendeva le curve. Oggigiorno non era piacevole scambiare delle occhiate con la luna. Non simboleggiava più l’Irraggiungibile, come aveva fatto per millenni, né il Raggiunto, come aveva fatto per pochi decenni, ma il Perduto. Una moneta rubata, la canna della tua pistola puntata contro di te, un buco rotondo nel telone del cielo. La luna apparteneva agli Alieni. Il loro primo atto di aggressione — la prima notizia giunta all’umanità della loro presenza nel sistema solare — era stato l’attacco a Base Lunare, l’orribile assassinio per asfissia di quaranta uomini nella cupola a bolla. E nello stesso tempo, lo stesso giorno, avevano distrutto la piattaforma spaziale russa: quella cosa strana e affascinante, simile a un enorme seme di cardo, che era in orbita intorno alla Terra e da cui i russi si preparavano a partire per Marte. Soltanto dieci anni dopo la fine della Peste, i resti della civiltà umana erano risorti come la fenice, si erano messi in orbita, verso la luna, verso Marte: e avevano incontrato questo. Una brutalità senza forma, senza parole, senza ragione. Lo stupido odio dell’universo.
La manutenzione delle strade era molto scaduta dall’epoca in cui l’Autostrada era regina; c’erano dei tratti malconci e delle grandi buche. Ma Heather rasentò spesso il limite di velocità (75 km/h) mentre percorreva la vasta vallata illuminata dalla luna, attraversava il fiume Yamhill quattro volte (o cinque?), superava i due villaggi di Dundee e Grand Ronde (il primo ancora vivo, il secondo deserto, morto come Ur dei caldei), e arrivava finalmente alle montagne, alla foresta. Corridoio Forestale Van Duzer, diceva un antico cartiglio in legno: terra sottratta mólto tempo prima ai tagliaboschi delle compagnie di sfruttamento forestale. Non tutte le foreste americane si erano trasformate in carta da salumai, villini monofamiliari e fumetti di Dick Tracy sui supplementi domenicali dei quotidiani. Qualcuna di esse rimaneva ancora. Svolta a destra: Foresta Nazionale Siuslaw. E non si trattava neppure di una.di quelle aree a rimboschimento circolare, dove per ogni ceppo c’è un alberello stentato e rachitico: si trattava proprio di una foresta vergine. Forme di grandi abeti che si stagliavano contro il lucore del cielo notturno.
Il cartello da lei cercato era quasi invisibile in mezzo ai rami più bassi, che inghiottivano senza fatica la debole luce dei fanali dell’auto. Fece retromarcia e progredì lentamente, per un paio di chilometri, su solchi e gibbosità, finché vide la prima costruzione: un tetto di legno illuminato dal chiarore lunare. Erano passate da poco le otto.
Intorno ad ogni villino c’era un piccolo spiazzo di dieci, quindici metri di lato; era stato sacrificato un numero ridottissimo di alberi, ma avevano tagliato il sottobosco; una volta capita la disposizione, Heather riuscì facilmente a vedere i tetti illuminati, e, dall’altra parte del ruscello, una seconda fila di villini. Soltanto una delle finestre era illuminata. Una sera di martedì, all’inizio della primavera: non poteva esserci molta gente in vacanza. Quando aprì la portiera dell’auto fu sorpresa nel sentire quanto fosse rumoroso il ruscello: un ruggito salubre e ininterrotto. Raggiunse la costruzione illuminata, inciampando non più di due volte nel buio, e diede un’occhiata all’auto parcheggiata davanti: una macchina a noleggio della Hertz, a batteria. Naturalmente. Ma, se non era lui? Poteva essere un estraneo. Oh, cacca!, non ti mangiano mica. Bussò alla porta.
Dopo un poco, mormorando a bocca chiusa un’imprecazione, bussò di nuovo.
Il ruscello gridava forte, ma la foresta non si degnava di rispondergli.
Orr aprì la porta. Aveva i capelli ricci e arruffati, gli occhi rossi, le labbra secche. La fissò battendo le palpebre. Aveva un aspetto spregevole e disordinato. Le faceva quasi paura. — Sta male? — gli chiese lei, brusca.
— No, io… Venga dentro…
Non poté rifiutare. Vide che c’era un attizzatoio per la stufa: eventualmente si sarebbe potuta difendere con quello. Naturalmente, però, anche lui avrebbe potuto servirsene per aggredirla, se ci fosse arrivato per primo.
Oh, Cristo, a momenti era più robusta di lui, ed era molto più in forma. Codarda codarda. — Ha preso qualche stupefacente?
— No, io…
— Lei cosa? Cos’ha?
— Non posso dormire.
La piccola abitazione aveva un odore simpaticissimo di fumo e di legno. L’arredamento era costituito da una stufa con superficie di cottura a due posti, una scatola piena di rami secchi, uno stipetto, una tavola, una sedia, una brandina residuato militare. — Si sieda — fece Heather. — Ha un aspetto spaventoso. Vuole qualcosa da bere, vuole che le chiami un dottore? Ho del brandy in macchina. Le consiglio di venire con me a Lincoln City da un medico.
— No, non ho niente. Ho soltanto… — (sbadiglio sbadiglio) — sonno.
— Ha detto che non poteva dormire.
La fissò con occhi rossi e appannati. — Non posso dormire. Ho paura.
— Oh, Cristo. Da quant’è che va avanti?
(Sbadiglio sbadiglio) — Domenica.
— Non dorme da domenica?
— O da sabato? — fece lui, perplesso.
— Ha preso qualcosa? Uno stimolante?
Lui scosse la testa. — Un po’ ho dormito — disse molto chiaramente, poi parve cadere addormentato per un istante, come un uomo di novant’anni. Ma mentre lei, incredula, lo guardava, si svegliò di nuovo e disse in tono lucido: — È venuta qui a cercarmi?
— E che altro vuole che sia venuta a fare? A tagliarmi un albero di Natale, per l’amor di Dio? Lei mi ha fatto un bidone ieri a mezzogiorno, a colazione.
— Oh. — Rimase a occhi aperti: evidentemente cercava di metterla a fuoco. — Mi spiace — disse, — non avevo la testa a posto.
Dicendo queste parole, tornò a essere se stesso, nonostante gli occhi rossi e spiritati, i capelli in disordine: un uomo la cui dignità era così profonda da risultare pressoché invisibile.
— Va bene. Non importa! Ma lei sta saltando la Terapia… no?
Lui annui. — Vuole un po’ di caffè? — chiese. Era qualcosa di più che dignità. Coerenza? Integrità? Come un pezzo di legno non scolpito. La possibilità infinita, l’illimitata e incondizionata totalità di essere del non-impegnato, del non-agente, del non-scolpito: l’essere che, non essendo altro che se stesso, è ogni cosa.
Improvvisamente lo vide così, e, di quella visione, ciò che la colpì maggiormente fu la sua forza. Era la persona più forte che avesse mai conosciuto, perché non poteva essere spostato dal centro. E per questo le piaceva. Si sentiva attirata dalla forza, si dirigeva alla forza come una falena alla luce. Aveva avuto molto amore, da bambina, ma accanto a lei non c’era mai stata forza, non c’era stato nessuno a cui appoggiarsi: la gente si era sempre appoggiata a lei. Da trent’anni aspettava d’incontrare qualcuno che non si appoggiasse a lei, che non si sarebbe mai appoggiato, che non poteva farlo…
Lì davanti a lei: piccolo, con gli occhi rossi, psicotico, fuggitivo… ecco lì la sua torre incrollabile.
La vita è un pasticcio incomprensibile, pensò Heather. Non sai mai cosa sta per succederti. Si tolse l’impermeabile, mentre Orr prendeva una tazza dallo stipetto e il latte in polvere dallo scaffale. Le portò una tazza di caffè da svegliare un morto: 97 per cento caffeina, 3 per cento sostanze inerti.
— Lei non ne prende?
— Ne ho già preso troppo. Mi dà i bruciori di stomaco.
Provò una forte simpatia per lui.
— Che ne direbbe di un po’ di brandy?
Parve molto interessato alla proposta.
— Non la farà dormire. La tirerà un po’ su. Vado a prenderlo.
Lui la accompagnò fino all’auto, con la lampada portatile. Il ruscello urlava, gli alberi rimanevano silenziosi, la luna brillava dall’alto; la luna degli Alieni.
Tornati in casa, Orr si versò un dito di brandy e lo assaggiò. Rabbrividì tutto. — Buono — disse, e mandò giù il resto.
Lei lo adocchiò con una smorfia di approvazione. — Ne porto sempre una bottiglietta da mezzo litro — disse. — L’avevo messa nel ripiano del cruscotto: se la polizia mi fermava e mi chiedeva la patente era un po’ compromettente, tenerla nella borsetta. Ma di solito l’ho in borsa. Strano come si renda utile quel paio di volte all’anno.
— Per questo ha sempre una borsa così grossa — disse Orr, con voce leggermente alticcia.
— Esattamente! Anzi, ne metto un po’ nel caffè. Tanto per renderlo un po’ più leggero. — Contemporaneamente se ne versò un secondo bicchiere. — Come ha fatto a rimanere sveglio per settanta ore di fila?
— Non sono rimasto sveglio per tutto il tempo. Mi sono limitato a non sdraiarmi. Si può dormire, seduti; ma non si fanno dei sogni. Per entrare nel sonno onirico bisogna essere sdraiati, perché i grossi fasci muscolari devono rilassarsi. L’ho letto su un libro. La cosa funziona abbastanza bene. Finora non ho ancora fatto un sogno vero e proprio. Ma il fatto di non potermi rilassare mi sveglia di nuovo. E alla fine ho avuto una sorta di allucinazioni. Robe che strisciano sulla parete.
— Lei non può continuare in questo modo!
— No. Lo so. Ma dovevo fuggire. Da Haber. — Pausa. Pareva essere ricaduto nella sonnolenza. Rise in maniera abbastanza sciocca. — L’unica soluzione che vedo realmente — disse, — è quella di uccidermi. Ma non voglio farlo. Non mi pare giusto, ecco.
— Certo, che non è giusto!
— Ma in un modo o nell’altro devo fermarlo. Devo fermarmi.
Lei non lo seguiva, e non voleva seguirlo. — Qui è un bel posto — disse. — Non sentivo l’odore del fumo da vent’anni.
— Inquina l’aria — disse lui, con un debole sorriso. Pareva quasi «partito» ; ma sedeva sulla branda con la schiena dritta, senza neppure appoggiarsi contro la parete. Batté gli occhi varie volte. — Quando lei ha bussato — disse, — pensavo che fosse un sogno. Ecco perché ci ho… — (sbadiglio sbadiglio) — messo tanto a venire.
— Lei ha detto di essersi sognato questo villino. Piuttosto modesto, come sogno. Perché non si è preso uno chalet sulla spiaggia di Saliahan, o un castello sul Capo Perpetua?
Lui scosse il capo, aggrottato. — Mi bastava. — Dopo avere battuto varie volte le palpebre, disse: — Quello che è successo. Quello che le è successo. Venerdì. Nell’ufficio di Haber. La seduta.
— È proprio ciò che voglio chiederle!
Le sue parole lo destarono. — Lei era cosciente…
— Credo di sì. Voglio dire, so che dev’essere successo qualcosa. E certo, da allora, mi pare di viaggiare su due binari con una ruota sola. Domenica, a casa mia, sono finita contro una parete! Vede? — Gli mostrò un livido sulla fronte: una zona più scura sulla sua pelle bruna. — Adesso la parete c’era, ma adesso non dovrebbe esserci… Come fa, lei, a sopportare questa cosa, ogni volta? Come fa a sapere dove si trovano gli oggetti?
— Non so dove si trovino — rispose Orr. — Tutto si confonde. Questo tipo di cose, ammesso che debba succedere, credo non sia previsto che succeda molto spesso. Così è troppo. Non riesco più a capire se sono pazzo o se soltanto non riesco più a districarmi tra tutte queste informazioni discordanti. Io… Questa cosa… Lei intende dire che mi crede davvero?
— E che altro potrei fare? Io ho visto cosa è successo alla città! Guardavo fuori dalla finestra! Non pensi che io desideri credere. Non lo desidero affatto, non cerco di credere. Cristo, è terribile. Ma quel dottor Haber, anche lui non voleva che credessi, no? Certo si è affrettato a fare un bel mucchio di chiacchiere per cambiare le carte in tavola. Però, tra quel che lei ha detto quando si è svegliato, l’andare a sbattere contro i muri, l’andare nell’ufficio sbagliato… Così mi sono cominciata a chiedere: avrà sognato qualcosa, da venerdì in poi? Le cose sono di nuovo cambiate, ma io non lo so perché non ero presente? E mi chiedo quali cose siano cambiate, e se resta ancora qualcosa di reale. Oh, cacca!, è tremendo.
— Lo è davvero. Senta, lei conosce la guerra… la guerra in Medio Oriente?
— Certo che la conosco. Mio marito c’è morto.
— Suo marito? — Pareva colpito dal fulmine. - Quando?
— Esattamente tre giorni prima che la guerra finisse. Due giorni prima della Conferenza di Teheran e il Patto Stati Uniti-Cina. Un giorno dopo che gli Alieni hanno fatto saltare la Base Lunare.
Orr la fissava costernato.
— Che c’è? Oh, al diavolo, è una ferita ormai rimarginata. Sono sei anni, quasi sette. E se fosse vissuto avremmo già divorziato, era un matrimonio che non valeva una cicca. Su, non è colpa sua!
— Ormai non so più che cosa sia e che cosa non sia colpa mia.
— Be’, Jim non è stato certamente colpa sua. Era soltanto un gran figlio di un cane, grosso, bello, nero e disgraziato: capitano faccio fuori tutti dell’Aviazione a 26 anni, fatto fuori dalla contraerea a 27, non creda di esserselo inventato lei, sono cose che succedono da migliaia di anni. Ed è successa esattamente la stessa cosa in quell’altra… realtà, prima di venerdì, quando il mondo era così affollato. La stessa cosa. Soltanto che è successo all’inizio della guerra… o no? — La sua voce si spezzò. — Santo Dio. Per noi era soltanto l’inizio della guerra, invece che i giorni del cessate il fuoco. Quella guerra era andata avanti per anni. Continuava ancora adesso. E non c’era… non c’era nessun Alieno. Vero?
Orr annuì.
— Lei li ha sognati?
— Haber mi ha fatto fare un sogno sulla pace. Pace in terra, buona volontà tra gli uomini. E così gli ho costruito gli Alieni. Per darci un nemico da combattere.
— Non è stato lei. È stata quella sua macchina.
— No. Posso farlo benissimo anche senza macchina, Miss Lelache. La macchina serve solo a risparmiare tempo, a farmi sognare subito. Anche se negli ultimi tempi ci ha lavorato sopra, per migliorarla in qualche maniera. Migliorare le cose è la specialità di Haber.
— Senti, diamoci del tu. Mi chiamo Heather.
— È un bel nome…
— E tu ti chiami George. Haber continuava a chiamarti George, in quella seduta. Come se tu fossi un cagnolino molto bravo e intelligente, o una scimmia da laboratorio. Mettiti sul divano, George. Sognami questo, George.
Lui rise. Aveva denti bianchi e una risata simpatica, anche così balordo e scarmigliato. — No, quello non sono io. Vedi, lui parla al mio subcosciente. Ed è come una specie di cane o di scimmietta, per i suoi scopi. Non è razionale, ma si può insegnargli a fare qualche esercizio.
Non parlava mai con amarezza, per terribili che fossero le cose che diceva. Ci possono essere veramente delle persone prive di odio e di risentimenti, si chiese lei? Persone che non gli va mai per storto l’universo? Che riconoscono il male e si oppongono ad esso, ma che ne restano sempre profondamente incontaminati?
Certo, ci sono. Innumerevoli, viventi e defunte. Coloro che sono ritornati in pura compassione alla ruota dell’esistenza; coloro che seguono la via che non può essere seguita, senza sapere di seguirla: la moglie del fittavolo dell’Alabama e il lama del Tibet e l’entomologo del Perù e il manovale di Odessa e il verduriere di Londra e il pastore della Nigeria e il vecchio che fa la punta a un bastone sul letto disseccato di un torrente, in qualche parte dell’Australia, e tutti gli altri. Non c’è nessuno di noi che non li abbia incontrati. Ce ne sono abbastanza da farci andare avanti. Forse.
— Senti una cosa. Spiegami un po’: soltanto dopo che sei andato da Haber, hai cominciato a fare…
— Sogni efficaci. No, prima. Sono stati questi sogni a farmi andare da Haber. Avevo paura dei sogni, e prendevo sedativi, illegalmente, per sopprimere il sogno. Non sapevo cosa fare.
— Perché non li hai presi anche queste ultime due notti, invece di cercare di stare sveglio?
— Ho finito la scorta venerdì sera. Non posso usare la ricetta quassù. Ma dovevo fuggire. Volevo allontanarmi da Haber. Le cose sono più complicate di quel che lui sia disposto a credere. Crede che le cose possano venire fuori giuste. E cerca di usarmi per farle venire fuori giuste, ma non vuole ammetterlo; mente perché non vuole dare un’occhiata diretta, perché non gli interessa la verità, la realtà, perché non riesce a vedere altro che la propria testa… le sue idee su come dovrebbe essere il mondo.
— Be’, non posso far niente per te, come avvocato — disse Heather, che non seguiva molto bene il discorso di George; sorseggiò il suo caffè e brandy, mistura da stendere secco un marinaio. — Non c’era niente da obiettare sulle sue istruzioni ipnotiche, a quel che ho visto; ti ha soltanto detto di non preoccuparti della sovrappopolazione e roba simile. E se vuole nascondere il fatto che usa i tuoi sogni per certi suoi particolari motivi, può farlo senza difficoltà; basta che sotto ipnosi ti dica di non fare sogni efficaci quando c’è un’altra persona presente. Anzi, mi chiedo perché mi abbia permesso di vederne uno. Sei certo che lui ci creda? Non capisco quell’uomo. Comunque, è difficile per un avvocato mettere dito tra psichiatra e paziente, soprattutto quando lo psichiatra è un pezzo grosso e il paziente è un matto che è convinto che i suoi sogni cambino la realtà… cribbio, non vorrei che questa storia finisse in tribunale! Comunque, non c’è un modo che ti impedisca di sognare per lui? I tranquillanti, magari.
— Non ho la Tessera Farmaceutica, sono in Trattamento Volontario. Deve prescrivermeli lui. E il suo Aumentare può farmi sognare.
— È veramente infrazione della privacy, ma non si può fargli causa… Ascolta. E se tu facessi un sogno che cambiasse lui?
Orr la guardò da dietro una nebbia di sonno e di brandy.
— Potresti renderlo più benevolo… be’, l’hai detto tu che è una persona benevola, che vuole fare del bene. Ma è assetato di potere. Ha trovato un ottima mezzo per comandare il mondo senza assumersene la responsabilità. Bene. Allora togligli la sete di potere. Sogna che lui sia davvero una brava persona. Sogna che cerchi di curarti, non di usarti!
— Ma io non posso scegliere i miei sogni. Nessuno può farlo.
Lei si afflosciò. — Dimenticavo. Non appena ho accettato questa cosa come una realtà, ho cominciato a pensare che sia qualcosa che tu possa controllare. Ma invece non puoi controllarla. Puoi soltanto farla.
— Io non faccio niente — disse Orr, in tono infastidito. — Io non ho mai fatto niente. Io mi limito a sognare. E poi la cosa accade.
— Posso ipnotizzarti io — disse Heather, improvvisamente.
L’avere accettato un fatto incredibile l’aveva un po’ inebriata: se i sogni di Orr funzionavano, allora ogni altra cosa poteva funzionare. Inoltre era digiuna da mezzogiorno, e il caffè e i brandy colpivano duro.
Lui continuò a fissarla.
— L’ho già fatto altre volte. Ho seguito corsi di psicologia all’università, prima della specializzazione in giurisprudenza. In uno dei corsi lavoravamo come soggetti e come ipnotizzatori, alternativamente. Io riuscivo bene come soggetto, ma ero eccezionale nell’ipnotizzare gli altri. Adesso ti ipnotizzerò, e ti suggerirò un sogno. Sul dottor Haber… un sogno che lo renda innocuo. Ti dirò soltanto di sognare quello, nient’altro. Capisci? Non ti pare una cosa senza rischi? … Senza rischi per quanto possibile, ora come ora.
— Ma io resisto all’ipnosi. Una volta non resistevo, ma Haber dice che adesso resisto.
— È per questo che si è servito dell’induzione vago-carotidea? Non mi piace vederla praticare, mi sembra un assassinio. Io, comunque, non mi sento di farla, non sono un medico.
— Al mio dentista bastava un ipnonastro. Funzionava bene. Almeno, mi pare che funzionasse bene. — Parlava senza pensare, insonnolito, e sarebbe potuto andare avanti all’infinito su una singola frase.
Lei disse con calma: — Pare che tu resistessi all’ipnotista, non all’ipnosi… Comunque, potremmo provare. E se funziona, potrei darti la suggestione postipnotica di fare un singolo sogno, come lo chiami, efficace, su Haber. In modo che metta le cose in chiaro con te e che cerchi di aiutarti. Pensi che la cosa possa funzionare? Ti fidi?
— Potrei dormire un poco, se non altro — rispose lui. — Io… be’, dovrò ben dormire, prima o poi. Non credo di poter superare la notte. Se ritieni di potermi ipnotizzare…
— Ne sono certa. Ma, ascolta, non hai niente da mangiare, qui?
— Sì — rispose lui, sonnolento. Dopo qualche istante ritornò lucido. — Sì, certo. Mi spiace. Non avrai mangiato niente. Mentre viaggiavi. Ci dev’essere del pane… — Cercò nello stipetto e ne trasse pane, margarina, cinque uova sode, una scatoletta di tonno e un po’ d’insalata mezzo rinsecchita. Lei trovò due piatti di stagnola, tre forchette assortite e un coltello senza filo. — Hai mangiato? — chiese a Orr. Lui non ricordava. Mangiarono insieme: lei seduta al tavolo, lui in piedi. La posizione in piedi parve rianimarlo: si accorse di essere affamato. Divisero tutto a metà, perfino l’ultimo uovo sodo.
— Sei molto gentile — disse poi Orr.
— Io? E perché? Perché sono venuta qui, intendi dire? Oh, cacca!, avevo paura. A causa di quel cambiamento del mondo, venerdì! Dovevo chiarire la cosa. Sai, ero lì che guardavo l’ospedale dove sono nata, dall’altra parte del fiume, mentre tu sognavi, e d’improvviso l’ospedale non c’era più e non c’era mai stato!
— Credevo che fossi nata nell’Est — disse lui. La logica non era il suo forte, in quel momento.
— No. — Ripulì scrupolosamente la scatoletta di tonno e leccò la lama del coltello. — A Portland. Due volte, ormai. In due ospedali diversi. Cristo! Ma nata e cresciuta qui. E anche i miei genitori. Mio padre era nero, e mia madre era bianca. È una storia curiosa. Lui era un vero militante, tipo Black Power, negli anni ’70, sai, e lei era una hippie. Lui veniva da una famiglia del Sussidio Pubblico, di Albina, e lei era figlia di un commercialista che abitava nella zona più cara della città. E aveva piantato la scuola, aveva cominciato a darsi alle droghe e a tutto il resto che facevano allora. Si erano incontrati a non so più che raduno politico, a una dimostrazione. Allora le dimostrazioni erano ancora permesse. E si erano sposati. Ma lui non era il tipo che potesse andare avanti a lungo. Mi riferisco a tutta la situazione, non soltanto al matrimonio. Quando avevo otto anni, lui se ne andò in Africa. Nel Ghana, credo. Pensava che la sua gente fosse originaria di quel Paese, ma in realtà non ne sapeva nulla. Erano sempre stati in Luisiana a memoria d’uomo, e Lelache doveva essere il nome di qualche proprietario di schiavi: è un nome francese. Vuol dire Il Codardo. Ho studiato francese alle superiori perché avevo un cognome francese. — Sorrise. — Comunque, se ne andò. E la povera Eva ebbe un tracollo. Eva è mia madre. Non voleva che la chiamassi mamma, mammina eccetera: diceva che era una tendenza possessiva caratteristica della famiglia nucleare borghese. io la chiamavo Eva. E per un certo tempo siamo vissute in una sorta di comune sul Monte Hood, oh, Cristo! Che freddo, d’inverno! Ma la polizia l’ha disciolta, dicendo che era una cospirazione antiamericana. E in seguito ha continuato a vivacchiare: era capace di fare dei bei vasi quando riusciva a farsi imprestare tornio e forno da qualcuno, ma per la maggior parte del tempo aiutava nei negozietti o nei ristoranti. Quella gente si aiutava molto fra loro. Davvero, molto. Ma non riusciva a tenersi lontana dagli stupefacenti, era intossicata. Smetteva per un anno, ma poi finiva col ritornarci. È sopravvissuta alla Peste, ma a 38 anni si è fatta un’iniezione con una siringa sporca, e l’infezione l’ha uccisa. E che mi venga un colpo se la sua famiglia non è saltata fuori a riprendermi. Non li avevo mai visti fino a quel momento! Mi hanno mandato a scuola a studiare giurisprudenza. E io vado a trovarli a Natale tutti gli anni. Sono il loro negro da esposizione, per dimostrare che non sono razzisti… Però, guarda, la cosa che mi fa davvero rabbia è che non riesco a capire il mio colore. Voglio dire, mio padre era nero, un vero nero… oh, sì, probabilmente aveva un po’ di sangue bianco, ma era nero… e mia madre era bianca, ma io non sono né l’uno né l’altro. Vedi, mio padre odiava mia madre perché era bianca. E l’amava, anche. Ma io credo che mia madre amasse soprattutto il fatto che era nero, molto più di quanto non amasse lui. E allora, come sono? Non l’ho mai capito.
— Color marrone — disse lui gentilmente, da dietro la sedia.
— Colore di cacca.
— Il colore della terra.
— E tu sei di Portland? Le due volte?
— Sì.
— Non ti sento, con tutto il casino di quel maledetto ruscello. Credevo che le foreste fossero silenziose. Su, racconta!
— Be’, ormai ho avuto un mucchio di infanzie — disse lui. — Quale vuoi che ti racconti? In una i miei genitori sono morti nel primo anno della Peste. In un’altra la Peste non c’è mai stata. Non so… Nessuna è mai stata molto importante. Voglio dire, niente di spettacoloso. Non ho fatto che sopravvivere.
— Be’, questa è la cosa importante.
— Ogni volta è peggio. La Peste, e adesso gli Alieni… — Fece una risatina; ma, quando lei si voltò per guardarlo, aveva un’aria stanca e miserabile.
— Non posso credere che sia stato tu a sognarli. Non posso, e basta. Mi fanno paura da tanto tempo. Sei anni! Ma sapevo che eri stato tu, appena ci pensavo, perché non c’erano, in quell’altra… linea temporale o quello che è. Ma in realtà non sono peggio di quello spaventoso affollamento. Quell’impossibile appartamentino in cui abitavo, con altre quattro donne, in un Condominio per Impiegate; per l’amor di Dio! E prendere quello spaventoso metrò, e avevo i denti guasti, e non c’era mai niente di decente da mangiare, e anche di quello non ce n’era neppure la metà del necessario. Sai, pesavo 44 chili, e adesso ne peso cinquantacinque. Da venerdì ho acquistato undici chili!
— Vero. Eri spaventosamente magra, la prima volta che ti ho vista. Nel tuo ufficio.
— E tu? Eri pelle e ossa. Solo che lo erano tutti, e uno non ci badava. Adesso invece hai un aspetto abbastanza decente, salvo il bisogno di dormile.
Lui non rispose.
— Tutta la gente ha un aspetto molto migliore, se solo ci pensi. Senti. Se non puoi proprio farne a meno, e se quel che fai serve un poco a migliorare il mondo, allora non dovresti sentirti colpevole. Magari i tuoi sogni sono soltanto una nuova forma di evoluzione, qualcosa di simile. La linea vittoriosa. Sopravvivenza del più adatto eccetera.
— Oh, molto peggio — rispose lui, con lo stesso tono triste di prima; andò a sedere sulla branda. — Non ricordi… — continuò, incespicando sulle parole, — non ricordi niente dell’aprile del ’98… quattro anni fa?
— Aprile? No, niente di particolare.
— È la data della fine del mondo — disse Orr. Uno spasmo muscolare gli torse la bocca; trangugiò come se soffocasse. — Nessun altro lo ricorda.
— Cosa vuoi dire? — chiese lei, spaventata in modo oscuro. Aprile, pensò; aprile 1998; ricordo l’aprile del 1998? Le pareva di no, ma sapeva anche che avrebbe dovuto ricordarlo; ed era spaventata… da lui? con lui? per lui?
— Non si tratta di evoluzione. È soltanto autoconservazione. Io non posso… Be’, era molto peggio. Peggio di quello che ricordi. Era un mondo uguale a quello che ricordi, con una popolazione di sette miliardi, solo che… era peggio. Soltanto alcuni Paesi europei avevano cominciato abbastanza in tempo a razionare i beni, a limitare l’inquinamento e a controllare le nascite, negli anni ’70. e così, quando noi cercammo di controllare la produzione del cibo, era troppo tardi, non ce n’era abbastanza, la Mafia controllava il mercato nero, tutti dovevano ricorrere al mercato nero per trovare qualcosa da mangiare, e un mucchio di gente non trovava nulla. Nel 1984 riscrissero la Costituzione, come ricordi anche tu, ma ormai le cose stavano talmente male che il risultato fu molto peggio, l’America non fingeva neppure più di essere una democrazìa, era una specie di stato poliziesco; ma non funzionò neppure quello, crollò subito. Quando avevo quindici anni, le scuole vennero chiuse. Non ci fu la Peste, ma ci furono grandi epidemie, una dopo l’altra: dissenteria, epatite, colera. E la gente moriva soprattutto di fame. E poi nel ’93 cominciò la guerra in Medio Oriente, con una differenza. Era Israele contro gli arabi e l’Egitto. Tutte le grandi nazioni vi presero parte. Uno degli Stati africani si alleò agli arabi, e gettò bombe atomiche su due città israeliane, e così noi li aiutammo a restituire il colpo, e… — Tacque per qualche istante: poi continuò, senza evidentemente accorgersi di avere interrotto il racconto. — Io cercavo di uscire dalla città. Volevo raggiungere Forest Park. Avevo la nausea, non riuscivo a camminare e mi sedetti sui gradini di una casa, ai piedi delle colline occidentali; le case erano bruciate tutte, ma i gradini erano di cemento, ricordo che c’erano alcuni denti di leone fioriti, in una spaccatura del cemento. Ero lì seduto e non potevo alzarmi, non ne avevo la forza. Continuavo a pensare che ero in piedi e camminavo, uscivo dalla città, ma era soltanto il delirio: quando ripresi i sensi, vidi di nuovo i denti di leone, e capii che stavo per morire. E che tutto il resto stava per morire. E allora feci il… feci quel sogno. — La sua voce era diventata roca; ora si spezzò.
— Sognai che stavo bene — infine disse. — Sognai di essere a casa. Mi svegliai e stavo bene. Ero a casa, nel letto. Solo, non era una casa che conoscessi, l’altra volta, la prima volta. La volta brutta. Oh, Dio!, preferirei non ricordare. E spesso non ricordo. Non posso. Da allora mi sono sempre detto che era un sogno. Che quello era un sogno! Ma non lo era. Questo è un sogno. Questo mondo non è reale. Non è neppure probabile. Quell’altro era vero. Era ciò che è successo. Siamo morti tutti, e abbiamo rovinato il mondo prima di morire. Non resta nulla. Soltanto i sogni.
Lei gli credeva, e negava ferocemente di credergli. — E allora? Forse sono le uniche cose reali! E poi, qualunque sia la cosa che è successa, è giusto che lo sia. Non crederai di poter fare qualcosa che non dovresti fare, no? Chi ti credi di essere? Non c’è niente che non abbia il suo posto, non succede niente che non debba succedere. Mai! Che importanza ha il fatto che tu la chiami realtà o sogno? Sono tutt’uno… no?
— Non so — rispose Orr con estrema sofferenza; e lei gli si avvicinò e lo strinse come avrebbe fatto con un bambino ferito, o con un agonizzante.
La testa sulla sua spalla era pesante, la mano sul suo ginocchio era rilassata.
— Ti sei addormentato — gli disse. Lui non lo negò. Dovette scuoterlo per farglielo negare. — No, sono sveglio — disse, trasalendo e raddrizzandosi. — No. — E cadde in avanti.
— George! — Era vero: l’uso del nome faceva effetto. Aprì gli occhi quel tanto che bastava per fissarla. — Rimani sveglio; rimani sveglio ancora un poco. Voglio provare con l’ipnosi. Così potrai dormire. — Avrebbe voluto chiedergli cosa desiderava sognare, cosa doveva imprimergli ipnoticamente nei riguardi di Haber, ma ormai era troppo assonnato. — Su, siediti sulla branda. Fissa… fissa la fiamma della lampada; dovrebbe bastare. Ma non addormentarti. — Portò sulla tavola la lampada a petrolio, tra i gusci d’uovo e i rimasugli. — Basta che tu la guardi fisso, e che non ti addormenti! Ti rilasserai e ti sentirai comodo, ma non ti addormenterai finché non ti dirò: «Dormi». Tutto qui. Adesso sei rilassato e comodo… — Con la sensazione di recitare una commedia, continuò a ripetere le istruzioni dell’ipnotizzatore. Orr cadde quasi immediatamente nella trance. Lei non riusciva a crederlo, e fece alcune prove. — Non riesci ad alzare la mano sinistra — disse. — Provi, ma è troppo pesante, non si alza… Adesso è di nuovo leggera, puoi alzarla. Così… bene. Tra un minuto ti addormenterai. Farai dei sogni, ma saranno soltanto dei sogni normali e ordinari, come quelli che fanno tutti, non saranno dei sogni speciali… dei sogni efficaci. Eccetto che uno. Tu farai un singolo sogno efficace. In esso… — Si arrestò. D’improvviso aveva provato paura; un sudore freddo s’era impadronito di lei. Cosa stava facendo? Non si trattava di un gioco o di uno scherzo; non era una cosa da maneggiare senza riflettere. Orr era in suo potere; e la forza di Orr era incalcolabile. Che tremenda responsabilità si era presa sulle spalle?
Una persona che credeva, come lei, che le cose avessero una certa armonia; che ci fosse una totalità di cui si era parte; e che nell’essere parte si era completi; una persona come questa non prova alcun desiderio, mai. di giocare a fare il demiurgo. Soltanto coloro che rifiutano la propria essenza sono attirati da questo gioco.
Ma era costretta a interpretare quel ruolo, e ormai non poteva uscirne. — In questo singolo sogno, tu sognerai che… che il dottor Haber è una persona benevola, che non intende farti del male e che sarà onesto con te. — Non sapeva cosa dire, come dirlo; sapeva che ogni cosa da lei detta poteva andare a rovescio. — E sognerai che gli Alieni non sono più sulla luna — si affrettò ad aggiungere; poteva togliersi dalle spalle quel peso, almeno. — E domattina ti sveglierai riposato, e tutto sarà a posto. Ora, dormi.
Oh, cacca!, si era dimenticata di dirgli di sdraiarsi.
George si afflosciò come un cuscino mezzo vuoto, in avanti e di lato, finché fu un mucchio grosso, caldo e inerte sul pavimento.
Non doveva pesare più di 65 chili, ma si sarebbe potuto trattare di un elefante, per l’aiuto che le diede nel farsi mettere sulla branda. Dovette prima alzare le gambe e poi tirarlo per le spalle, per non rovesciare la branda; e naturalmente lui finì sul sacco a pelo, invece che dentro. Riuscì a toglierglielo di sotto, rischiando ancora di rovesciare la branda, e glielo stese sopra. Lui dormì profondamente, durante tutte queste manovre. Lei era senza fiato, sudata e con il capogiro. Lui stava benissimo.
Si sedette e riprese il fiato. Dopo qualche minuto si chiese cosa fare. Pulì le briciole, scaldò l’acqua, sciacquò i piatti di stagnola, le forchette, il coltello e le tazze. Riattizzò il fuoco nella stufa. Su uno scaffale trovò vari libri tascabili: probabilmente George li aveva presi a Lincoln City, per passare il tempo nella veglia. Nessun giallo, accidenti; un bel giallo le avrebbe fatto piacere. C’era un romanzo sulla Russia. Il Patto Spaziale aveva portato qualcosa di buono: il Governo degli Stati Uniti aveva smesso di fingere che non ci fossero altri Paesi da Israele alle Filippine (i Paesi che, se ci fossero stati, avrebbero potuto minacciare il Modo di Vivere Americano), e perciò da qualche anno si poteva comprare parasoli di carta giapponesi, incenso indiano, romanzi russi e altre cose di quel tipo, come una volta. Il nuovo modello di vita era la Fratellanza Umana, con le parole del Presidente Merdle.
Questo libro, scritto da un tale che finiva per «-evski», descriveva la vita durante gli Anni della Peste in una piccola cittadina del Caucaso, e, pur non essendo esattamente una lettura amena, la colpì profondamente; lo lesse d’un fiato, dalle dieci alle due e mezza. Per tutto il tempo Orr dormì senza muoversi, respirando tranquillamente, senza fare rumore. Ogni tanto Heather alzava gli occhi dalla cittadina del Caucaso e dava un’occhiata al suo volto, biondo e leggermente illuminato dalla lampada, sereno. Se sognava, erano sogni tranquilli e fuggitivi. Quando nella cittadina caucasica furono morti tutti, eccetto che lo scemo del villaggio (la cui assoluta passività di fronte all’inevitabile le ricordava il suo compagno), provò a bere un po’ di caffè riscaldato, ma aveva un sapore orribile. Andò alla porta e rimase lì per qualche tempo, mezza dentro e mezza fuori, ad ascoltare il ruscello che gridava. Era incredibile che avesse continuato a fare quel tremendo rumore per migliaia di anni prima che lei fosse nata, e che avrebbe continuato a farlo per tutta l’esistenza delle montagne. E la cosa più strana di quel rumore, adesso, a notte inoltrata, nell’assoluto silenzio dei boschi, era una nota lontana, molto a monte, che ricordava un canto di bambini, dolce e strano.
Sentì freddo; chiuse la porta sulle voci di quei bambini non ancora nati che cantavano nell’acqua, e ritornò alla piccola stanza riscaldata e all’uomo dormiente. Prese un libro sul modo di farsi i mobili da sé (Orr doveva averlo preso per apportare qualche miglioramento alla casetta), ma la lettura le fece subito venire sonno. Be’, perché no? Chi la obbligava a stare sveglia? Sì, ma dove dormire?
Avrebbe fatto meglio a lasciare George sul pavimento. Non se ne sarebbe mai accorto. Non era giusto: lui aveva sia la branda che il sacco a pelo.
Prese il sacco a pelo e lo sostituì con i loro due soprabiti. Lui non si mosse. Lo guardò con affetto, poi entrò nel sacco a pelo, sul pavimento. Cristo se faceva freddo lì in terra, e se era duro. Non aveva spento la luce. Ma come si spengono le lampade a petrolio, si soffia o si gira la chiavetta? Bisognava fare una cosa e non fare mai l’altra. L’aveva imparato alla comune. Ma non ricordava quale fosse la cosa da fare. Oooooh CACCA! se faceva freddo lì in terra!
Freddo, freddo. Duro. Chiaro. Troppo chiaro. Luce dell’alba che veniva dalla finestra, attraverso i rami e le antine. Sul letto. Il pavimento tremò. Le montagne mormorarono e sognarono di cadere in mare, e da dietro le montagne, debole e orribile, si alzò l’ululato delle sirene di lontane città.
Si rizzò a sedere. Lupi che ululavano per la fine del mondo.
La luce dell’alba penetrava dall’unica finestra, nascondendo tutto ciò che giaceva sotto il suo raggio accecante. Cercò tra la luce eccessiva e trovò il sognatore, prono sulla branda. Era ancora addormentato. — George! Svegliati! Oh, George, svegliati! C’è qualcosa che non va!
George si destò. Le sorrise, mentre si svegliava.
— C’è qualcosa che non va… le sirene… che cosa è successo?
Come se facesse ancora parte dei suoi sogni, George le rispose senza emozione: — Sono atterrati.
Infatti aveva compiuto esattamente quello che Heather gli aveva chiesto. Gli aveva ordinato di sognare che gli Alieni non erano più sulla luna.