«E così, quella vecchia scopa ha spazzato via il Reprobo, alla fine», commentò Faey. La solitaria campana del palazzo aveva suonato a morto per tutta la notte. All’alba le altre campane della città, quelle degli orologi e sulle torri di guardia, si erano unite a essa, e l’aria era parsa vibrare al passaggio di poderose e invisibili ali di bronzo. «Lascia un bambinetto al governo, e una prozia vecchia, ma ancora capace d’impadronirsi del potere. Non ho bisogno della sfera di cristallo per sapere che lei si autoproclamerà reggente, e che il bastardo sarà la sua prossima preda.»
«Non il bambino?» domandò Mag. Stavano facendo colazione, una volta tanto all’ora di colazione. Faey era vestita a lutto. Il bel viso pallido e stanco, addolorato, e l’abito che indossava erano stati presi da uno dei quadri appesi al muro. A servire in tavola erano delle ombre, vaghe forme di colore in movimento, abbigliate in modi diversi, che spesso sembravano non vedersi a vicenda. La cuoca di Faey era una donna corpulenta quanto efficiente, che teneva pulita come uno specchio la cucina e fingeva di non notare chi tra il suo personale era reale e chi ombra. «Ducon Greve non è in linea di successione; perché Domina Pearl dovrebbe temerlo?»
«Non è in linea di successione, ma potrebbe decidere di entrarci. Lei può tenere sotto controllo il bambino per molti anni… per sempre, se comincia bene. Ma Ducon è un’incognita.»
E lo era davvero. Nonostante tutto il tempo trascorso a origliare da sotto i girasoli, Mag sapeva ben poco di lui. Spezzò l’angolo di una fetta di pane e fece una smorfia di dolore. Si era storta un pollice in qualche alterco durante la corsa selvaggia della notte prima. Ripensando alla discussione alla porta dei girasoli, sentì l’improvviso impulso d’immischiarsi nelle faccende politiche. Il palazzo, che per anni le era parso meno accessibile e molto meno interessante delle strade di Ombria, stava assumendo aspetti intriganti, oscuri e luminosi. La gente appariva schierata da una parte o dall’altra. Il bambino e la vecchia si fronteggiavano. La concubina emarginata, finita con una scopa tra le mani, era schierata con Kyel.
A quale fazione appartiene Ducon Greve? si domandò Mag. Stava per conto suo? Un uomo diviso, con un piede alla luce e l’altro all’ombra? O parteggiava per il principe bambino? Sicuramente non per la vecchia scopa, che poteva spazzarlo via dal presente con la stessa cinica abilità messa in atto con suo zio.
Faey, che nonostante l’aria addolorata mangiava con appetito del pesce affumicato, gettò uno sguardo cinico verso l’altra estremità del lungo tavolo. «Non è che stai pensando, vero, mia bambola di cera? Io non ti ho fatta per pensare.»
«Ogni tanto, un pensiero ce l’ho», ammise Mag.
«Be’, fare una come te è difficile, e di rado non si commettono sbagli. Resta lontana da Domina Pearl. Lei ci dà lavoro, ma non ha scrupoli. Non voglio che tu desti la sua attenzione.»
«Credevo che avessi detto che è un’incapace.»
«Lo è», disse sottovoce Faey. «Ma lo sei anche tu. Lei potrebbe fonderti come una candela, se tu le mettessi i bastoni tra le ruote. Non farmi perdere tempo in chiacchiere, solo tieniti fuori dalla sua ombra.»
«Sì, Faey.»
«Voglio che tu vada di sopra. Ho bisogno di alcune cose. Non metterci troppo. Verso mezzogiorno avremo un altro lavoro. Quelli che temono la presa di potere di Domina Pearl si aggireranno dappertutto in cerca d’incantesimi protettivi.»
«Come puoi fare qualcosa che aiuti loro, e nello stesso tempo qualcosa che aiuti lei?» volle sapere Mag, incuriosita. «Dovrai disfare i tuoi stessi incantesimi.»
Faey scrollò le spalle. «Sono soltanto affari. Chi paga per essere protetto non verrà a chiedere indietro i suoi soldi, se l’incantesimo fallisce.» Si mise in bocca un pezzo di pesce, ne spinse delicatamente da parte le spine con la lingua mentre masticava e le sputò nel piatto. Poi si alzò. «Vieni da me non appena hai finito di mangiare. Ti darò la lista della roba che dovrai andare a prendere lassù.»
Rimasta sola con i suoi fantasmi, Mag giocherellò con una crosta di pane e rifletté su un paio di pensieri. Le fu servita una tazzina di caffè corretto con menta e cioccolata. Se la portò al naso e annusò rumorosamente, quindi bevve un sorsetto, come usava nell’alta società. Se la Perla Nera avesse chiesto l’aiuto di Faey per accorciare la vita di Ducon Greve, per il mondo sarebbe stato un danno o un guadagno? Faey stava usando i suoi poteri e la sua assistente di cera per vendere ancora la morte. Mag si chiese perché — e per il bene di chi — lei avrebbe dovuto rischiare la rabbia di Faey ostacolando gli incantesimi che vendeva. Per Faey, gli affari erano affari. Non aveva niente di personale contro quelli che finivano male a causa sua, e dava per scontato che la sua assistente di cera fosse indifferente nello stesso modo. Ma la sua assistente di cera sentiva, con l’intensità della cera che sente la fiamma, che Domina Pearl era una cosa a parte.
Le sue ossa e la sua ombra e i suoi occhi vuoti non portavano altro che il male a Ombria. Le sue manovre avevano guastato l’anima della città, in quelli che avrebbero potuto essere i suoi giorni migliori, e la stavano trasformando in una serra dove coltivava le sue piante, amare e spinose. Faey sembrava indifferente al lavoro che la Perla Nera faceva in città e nel palazzo; lei non poteva essere sfiorata dagli intrighi della vecchia. Ma Domina Pearl aveva un potere di cui Faey sembrava ignara: quello di avvelenare le cose con l’odio. La donna aveva scacciato in strada la concubina del principe per farla ammazzare, senza che lei avesse commesso altro crimine che vendere la sua innocenza. Poteva contemplare l’idea di dare la morte a un bambino. Avrebbe ucciso ancora, in segreto, con o senza l’aiuto di Faey.
Mag, che era affascinata dai segreti, studiò la superficie del caffè, fremente sotto il suo respiro. Fin dove arrivavano i poteri della vecchia? Dove li aveva presi? Chi era, in realtà? Era nativa di Ombria, o proveniva da qualche terra, così lontana nello spazio e nel tempo che nulla ne era restato, fuorché il nome e quell’oscura progenie, l’indistruttibile Pearl?
La donna del quadro trovò improvvisamente l’uso della bocca e chiamò: «Mag!»
Lei sussultò, sentendosi in colpa. «Sì, Faey?»
«Tu stai pensando, mia bambola di cera.»
Lei prese una repentina decisione e finì il caffè, mentre si alzava da tavola. «Vengo subito», disse, sia a Faey che alla giovane donna di via del Pastore, che aveva gettato tra i girasoli le scarpette dai tacchi costellati di zaffiri.
Le prese con sé, quando uscì nel sole esterno.
Dal macellaio acquistò una testa d’agnello. A una ben nota porticina su un vicolo posteriore, attese per gli occhi di capra e le candele di grasso di capra. Nella botteguccia dalla vetrina polverosa con l’antica insegna di un erborista, comprò farina d’ossa, ed estratti di strane piante carnose prelevate nascostamente a bordo delle navi pirata di Domina Pearl. Al mercato, acquistò delle violette per la cuoca. Dal birraio pagò in argento per dello stagno e per una giara della birra preferita di Faey. Il figlio del birraio finse di avere difficoltà a calcolarle il resto, e continuò a far tintinnare monete, finché suo padre smise di chiacchierare amabilmente e andò a caricare dei barilotti per un mercante. Poi, mentre Mag metteva la giara nel cestino cercando di non schiacciare gli occhi di capra e le violette, il giovane si allungò sopra il bancone e le prese una mano.
Lei lo guardò con stupore. Il figlio del birraio aveva grosse dita umide.
«Mag», disse lui, con voce roca. Il suo volto pesante, ansioso, era imperlato di sudore, e sul mento cominciava a crescergli un’ombra di barba. «Come puoi ignorare che tu e io ci apparteniamo? Siamo cresciuti insieme, come la notte e il giorno. Tu sei la luna del mio sole, tu sei l’argento dell’oro a cui aspiro, tu mi completi…»
«Aspetta un momento», lo pregò lei. «La giara è sopra le violette.»
«Sposami. Insieme noi diventeremo la cosa meravigliosa che stiamo cercando. Trasmuteremo il tempo nell’eternità…»
Lei sbuffò con assai poca grazia. Sentiva che qualcosa di strano le scorreva nelle ossa, un panico sconosciuto, una disperata urgenza che non avrebbe saputo descrivere neppure a se stessa. Il giovane credeva di avere dinanzi a sé un essere umano.
«Ti sbagli», disse, fredda. «Comunque, da quanto ne so dell’alchimia e del matrimonio, il bello di entrambe le cose viene meglio, quando si aspetta.»
«Mag!» Lui si aggrappò al cestino, mentre lei metteva a posto la giara.
«Inoltre, io appartengo a Faey.»
«Ma lei non può possedere…»
«Lei può. Io sono la sua figlia di cera.»
«Ma…»
«La cera si trasmuta in fumo e aria, non in oro.»
«Ma io ti amo!»
Mag si limitò a guardarlo, perplessa. Lui sollevò le braccia in aria, con un mugolio, e lei fuggì.
In strada, le ombre le dissero che il tempo stava passando. Lei ne rubò un poco a quello che Faey le aveva concesso, prese una scorciatoia attraverso una bottega abbandonata e quello che sembrava il fondo di un vicolo chiuso da un muro, per passare da via del Pastore. Lì trovò già aperta la Rosa e Spina, dove aveva visto entrare a rifugiarsi la ragazza dai piedi sanguinanti dopo la sua fuga notturna per le strade della città. La zoppicante sguattera che serviva birra e montone bollito ai pochi clienti della taverna non la vide entrare. Aveva lo sguardo cupo per la sofferenza e la preoccupazione, e i suoi capelli, un tempo luminosi, erano annodati sotto un berretto. L’uomo dietro il bancone, calvo come una biglia e corpulento, la scrutava a occhi socchiusi. La ragazza lavorava con umiltà e senza lamentarsi, anche se ogni tanto stringeva i denti per il dolore. Mag infilò una scarpa costellata di zaffiri in un secchio vuoto, nell’angolo dietro il bancone, e scivolò fuori prima che la vedessero.
Per scendere non prese il buco più vicino com’era sua abitudine da bambina, bensì una più comoda scala di marmo che aveva inizio nel mondo superiore come anonima rampa di scale; dietro la porta di una cantina. Quando fu sotto, Faey la rimproverò per il ritardo, ma era troppo indaffarata per stare a chiederle spiegazioni. Un gentiluomo del palazzo aveva inviato una richiesta, insieme a una somma adeguata in monete d’oro, per poter individuare i veleni. Mag sospirò. Quello sarebbe stato un pomeriggio puzzolente.
Verso sera ebbero altro lavoro. Due giorni più tardi Mag andò a sedersi sulla riva del fiume, davanti alla casa di Faey, e con occhi stanchi guardò le acque scure che scorrevano lente. Sulla riva erano appese lampade in ferro battuto e di forma fantasiosa, provenienti da palazzi e carrozze e galeoni, che Faey accendeva quando si ricordava di farlo. La loro luce si spandeva sul fiume e illuminava debolmente altre case che si disfacevano in quell’umida penombra, edifici un tempo eleganti, con camini massicci, dai colori pastellosi. I tetti di alcuni arrivavano fino a sostenere le strade sovrastanti. Dalle loro stanze sigillate provenivano a volte pallide luci, e ombre umane si muovevano come sogni oltre le tende di seta delle finestre.
La città sotterranea si estendeva in caverne laterali, lungo affluenti sormontati da ponti, fluttuando verso distanze prive di orizzonte, e le sue strade s’interrompevano su baratri nei quali, molto più in basso, altre luci palpitavano sulle acque buie.
Anche lì, Mag poteva sentire l’odore degli incantesimi nella spiegazzata veste di taffettà color avorio che indossava. Lo sentiva sulla sua pelle. Gli incantesimi erano chiusi in piccole costose scatole, pronti a essere usati. Inghiotti questo, e nulla di ciò che mangi e bevi ti nuocerà. Srotola questo e appendilo alla soglia di casa; nessuno riuscirà a oltrepassarla. Tieni questo accanto a te, la notte; emetterà un grido se avverte la presenza del pericolo. Domina Pearl li avrebbe scoperti, quegli ostacoli stregati, e avrebbe mandato la sua richiesta a Faey: un incantesimo per sventare tutti gli incantesimi.
Come aveva detto Faey, nessuno avrebbe vissuto per lamentarsi. Mag represse uno sbadiglio e contemplò un dito di sole che, dallo squarcio lontano di una fognatura, scendeva sull’acqua. Lei avrebbe trovato un punto debole in quell’incantesimo per farlo fallire, decise. La Perla Nera non l’avrebbe avuta vinta così facilmente. Sopra di lei, il selciato rumoreggiava al passaggio continuo delle carrozze con gli sportelli ornati di nastri neri, dirette al solenne funerale che avrebbe messo fine al lugubre canto delle campane.
«Mag!» chiamò Faey, dall’interno della casa o della mente di lei; Mag era troppo stanca per capire quale delle due.
«Vengo», rispose, ma esitò ancora un po’, con gli occhi socchiusi, scrutando la riva ombrosa in cerca del posto dove una donna avrebbe potuto distendersi, anni addietro, per partorire una bambina dagli occhi castani e lasciarla lì nel buio, a vagire nella città dimenticata, finché la maga della città era scesa dal letto, plasmando il suo antico volto in qualche forma riconoscibile, ed era andata a vedere cosa stesse disturbando il suo sonno.
«Mag! Mia bambolina di cera! Ho bisogno di te ora, non domani.»
Oppure sono stata trovata abbandonata su un marciapiede, di sopra, e venduta, insieme a un secchio di salamandre e qualche radice di mandragora, per poche monete, alla maga che vive nel sottosuolo? si chiese Mag.
Infine si alzò. «Sto arrivando.»
«Devi tornare fuori», disse Faey, e le diede una lista. «Al tuo ritorno, potrai riposarti. Le ultime cose posso farle da sola.» Poi annusò l’aria. Non era una sensitiva, ma i suoi incantesimi erano di solito molto potenti. Le palpebre le cadevano sugli occhi per la stanchezza, come mezzelune sempre più grosse, tuttavia si muoveva con aria indaffarata prendendo questo e quello. «Cambiati d’abito e lavati, mia bambola di cera. Una signora dovrebbe voler profumare di rose, non di zolfo.»
Rosa e Spina, pensò Mag.
Un paio d’ore più tardi, finito di fare le commissioni e chiesto alla maga il permesso di uscire, Mag andò a sedersi tra gli avventori della Rosa e Spina. Vestiva di nero, come tutti loro. L’intera città era vestita a lutto, non solo per la morte del principe, ma per piangere con grande tristezza le belle speranze sepolte con lui. Nel suo abito di broccato, così antico che i ricami in filo d’argento si erano anneriti, Mag era scarsamente visibile dietro la lunga veletta nera appuntata al cappello. Quelli che notavano la sua vita snella e le dita eleganti lasciate scoperte dai mezzi-guanti di pizzo, dopo aver cercato invano di scorgere qualcosa di più sotto quel nero, riportavano lo sguardo sui loro boccali, a disagio. La ragazza della taverna, con lo sguardo annebbiato per la mestizia e l’incessante clangore delle campane, zoppicò verso il tavolo di Mag. Anche lei parve stupita dall’abbigliamento di quell’insolita cliente.
«Cosa posso servirvi…» All’improvviso vide il tacco cosparso di zaffiri luccicare sotto il velo nero, e la voce le si bloccò.
«Ti ho portato l’altra scarpa», disse sottovoce Mag. L’attenzione della ragazza si spostò sull’opale nero montato in oro e incorniciato da piccole perle azzurre, all’indice sinistro di Mag. Chiuse gli occhi come se le bruciassero. Mag aggiunse: «E anche questo ti appartiene. L’ho preso a un marinaio. Gli altri anelli sono andati persi».
Lo sguardo della donna passò dall’anello al viso oscurato dal velo nero. «Sei stata tu», sussurrò, «ad aiutarmi, l’altra notte. È per questo che sono sopravvissuta, nelle strade. Ma come hai fatto? E perché mi hai aiutato?»
Mag, che non aveva ancora smesso di farsi quelle domande, scrollò le spalle, ma subito dopo trovò le risposte. «Qualche volta mi piace occuparmi dei fatti degli altri», ammise, semplicemente. «E detesto Domina Pearl. Ero nascosta tra i girasoli al cancello occidentale, quando lei ti ha buttato fuori dal palazzo.»
La ragazza sembrò cercare d’indovinare la forza e l’agilità che si celavano sotto il broccato e i pizzi.
«Ma come hai fatto?» ripeté.
Mag estrasse dal cappello uno spillone, e pigramente ne toccò la punta con un dito. La ragazza aprì la bocca, ma non riuscì a dir parola. In silenzio guardò Mag rimettere lo spillone al suo posto.
«Lydea!» latrò il gestore della taverna da dietro il bancone. «Prendi l’ordinazione della signora, e porta al tavolo questa birra prima che perda la schiuma.»
Lydea cambiò posizione da un piede bendato all’altro, ma non si voltò. Bruscamente chiese: «Dove posso trovarti, più tardi? Lui mi sta facendo scontare i miei peccati col lavoro. Comincio a dubitare che potrò vivere abbastanza da andare in pari con lui».
«Che cos’è quell’uomo per te?»
«È mio padre.»
Mag lo esaminò, incuriosita. «Io non ho mai avuto un padre.»
«Non hai perso molto, credimi. Ma sono in debito con lui per avermi tenuta qui, quella notte. E devo molto anche a te, a quanto pare. Dove abiti?»
Vivo nel sottosuolo con una maga di nome Faey, pensò Mag. Prima quel fatto non l’aveva mai sorpresa, ma gli occhi stanchi e preoccupati di Lydea che cercava di vederla meglio nell’ombra sotto la veletta la sconcertarono. La gente sapeva solo in modo vago che lei apparteneva a Faey. Nessuno le aveva mai chiesto di spiegare chi era in termini umani. Debolmente rispose: «Non è un posto facile da trovare».
«Oh.»
«Però tu potresti aiutarmi, ora.»
«In che modo?» domandò subito Lydea.
«Quando abitavi a palazzo devi aver conosciuto Ducon Greve. Merita di essere salvato?»
«Se merita…» le fece eco Lydea, sbalordita. «Essere salvato in che modo? E da cosa?»
«Dalla morte.»
Lydea la guardò. Al tavolo accanto, suo padre fece ballare irosamente il contenuto di un vassoio. I pesanti boccali che urtavano la caraffa non riuscirono ad attirare l’attenzione della figlia. Quest’ultima infine ritrovò la voce. «È in pericolo?»
«Faey… la donna con cui vivo, pensa che lo sia.» Mag vide che Lydea era sempre più perplessa. Fece un sospiro che a stento scosse la veletta, e cercò di spiegarsi meglio. «Faey pensa che Domina Pearl le chiederà di fare qualcosa che distruggerà Ducon.»
«Distruggerà?»
«Qualcosa di sottile. Un incantesimo di cui nessuno potrà sospettare.»
Le sopracciglia di Lydea si alzarono, e così la sua voce. «Un incantesimo capace di ucciderlo?»
«È una cosa che rientra nelle possibilità di Faey.»
Lydea si sentì mancare; allungò una mano sullo schienale di una sedia, ma non sedette. I suoi occhi, storditi e inorriditi, sembravano credere che sotto la veletta nera non ci fosse nulla di umano. «Lei potrebbe fargli questo?»
«Per Faey sono soltanto affari», le spiegò con naturalezza Mag. «Ma io credo che il destino di Ombria le importi qualcosa, perché lei non approva affatto la Perla Nera.»
«E tu?» La voce di Lydea stava sparendo, sepolta nella sua gola. «Tu cosa farai?»
«Io lavoro per Faey.»
A queste parole Lydea fece un passo indietro. Poi si fermò di nuovo, confusa dalla contraddizione velata che aveva dinanzi. «La aiuterai a uccidere?»
«No», rispose sottovoce Mag, fissando un foro tra gli zoccoli di Lydea come se temesse che sotto il pavimento ci fosse Faey in ascolto. «Questa è una cosa che lei fa di rado, e quando la fa, io trovo il modo d’interferire senza che lei lo sappia.» Fece una pausa, ripensando al sapore di sangue e fuoco la prima volta che aveva restituito il respiro a una delle vittime di Faey. «È per questo che ti ho domandato di Ducon Greve. Se vale la pena di salvarlo, o se Ombria starà meglio senza di lui. Non è facile cambiare gli incantesimi di Faey. E non so cosa mi farebbe se lo scoprisse. Tu cosa ne pensi? Dovrei intervenire?»
Lydea la guardò, sconcertata. Poi il suo sguardo si volse all’interno, in cerca dei ricordi, e Mag scorse oltre quel viso contorto e preoccupato la delicata bellezza di colei che era stata l’amante di un principe fino a pochi giorni prima.
Lentamente Lydea disse: «Non l’ho mai conosciuto bene. Lui non ha mai confidato i suoi pensieri e la vita che fa, almeno a me. Kyel si fida di lui. Questo può essere un vantaggio per Ducon, ora, o forse il contrario. Non saprei dirlo. Lui non ama affatto Domina Pearl, ma c’è forse qualcuno che la ama? So che gli piace vagabondare per la città. Mostrava spesso a Royce i disegni di cose che l’avevano colpito, nelle strade. Vecchi portoni, vicoli abbandonati, finestre sbarrate di cantine. Io non li capivo. Royce gli raccomandava di essere più prudente, però lui usciva da solo e disarmato, e tornava quando voleva. Una volta l’ho sentito dire che per lui non c’era un posto al mondo, e perciò andava dappertutto».
Come me, pensò Mag, stupita da quella riflessione. «Che aspetto ha?» volle sapere.
«Diverso da chiunque io abbia mai visto. È uno che colpisce, con quegli occhi argentei e i capelli bianchi come un osso di seppia, ma non è molto più anziano di me. Sembra capace di badare a se stesso nelle strade di Ombria, anche di notte.»
«Come me», mormorò Mag, ora incuriosita. Dietro il bancone, il gestore della taverna rovesciò un intero vassoio di boccali in un secchio d’acqua; quel clangore fece trasalire Lydea. Tuttavia esitò, presa da un altro ricordo. «Una volta menzionò una taverna: Il Re degli Incapaci. Quel nome fece ridere Kyel.»
«Lo cercherò là», disse Mag. Si sfilò l’anello dal dito e lo mise in un boccale vuoto. Poi tolse la scarpa da sotto il velo e la infilò nella tasca del grembiule di Lydea, così in fretta che soltanto una gemma luccicò prima di sparire. Poi fece per alzarsi, ma Lydea le si era accostata, di nuovo perplessa, a disagio nel pensare a ciò che aveva ignorato della vita di Ducon.
«Ti prego», le chiese, «lascia che io veda il tuo volto. Tu hai deciso di salvarmi; ora hai preso a cuore Ducon. Tu sei una persona che vende la vita e la morte, e io ho bisogno di un viso, altrimenti ti vedrò come adesso nei miei incubi, tutta in nero e col volto invisibile.»
Mag, ammutolita dall’inatteso pensiero di apparire nei brutti sogni di qualcun altro, tolse la spilla dal cappello. La taverna si era quasi svuotata per il funerale, e i pochi avventori rimasti avevano perso interesse in lei. La veletta si aprì di lato. Sbatté le palpebre nella luce improvvisa, alzando lo sguardo in quello di Lydea mentre con una mano sistemava meglio le spille nell’improbabile nido dorato dei suoi capelli.
Di nuovo stupefatta, Lydea toccò una ciocca di quella chioma disordinata. «Sei così giovane», mormorò. «Sei tu quella che ho visto alla luce del lampione, l’altra notte? Quella che mi ha indicato la direzione per la Rosa e Spina?»
Mag annuì. «Mi sembravi piuttosto sperduta.»
«Ero molto sperduta. Qual è il tuo nome?»
«Mag.»
«Solo Mag?»
«È così che mi ha battezzato la maga.» Si spinse meglio le chiome sotto l’enorme cappello, riagganciò la veletta e si alzò.
Lydea la guardò e corrugò le sopracciglia, ma per quale motivo Mag non seppe capirlo.
«Se volessi cercarti, per domandarti di Ducon…»
«Non mi cercare», la avvertì Mag. «Verrò io da te, qualunque cosa gli accada.»
«Forse», disse cupamente Lydea. «Ma se continui a fare ad alta voce il nome della Perla Nera, potrei aspettare fino ad aver pagato per tutti i peccati della città. Lei ha orecchi dappertutto. Stai attenta a quella donna.»
Uomo avvisato, mezzo salvato, pensò Mag. Uscì dalla taverna e subito rallentò il passo, un po’ disorientata, come se il cielo fosse diventato verde-erba o il sole cambiasse fase come la luna. Poi capì che i rumori della città erano tornati quelli di sempre.
Le campane di Ombria tacevano.