13 La perla nel rospo

Bevendo l’ennesima tazza di tè nell’arborea camera della maga, Lydea comprese, con la parte della sua mente dove il tempo si muoveva ancora, di essere sotto incantesimo.

Ore e ore trascorrevano mentre lei mandava giù un singolo sorso. Durante il gesto con cui depose la tazza sul piattino, scese la notte; quando se la portò di nuovo alle labbra stava già sorgendo il sole. La maga, o un’immagine illusoria di lei, parlava con noncuranza del più e del meno, del tempo che faceva, di persone che sembrava convinta fossero loro conoscenze comuni, e i suoi terribili occhi fumavano e ribollivano colmi di fuoco. Le parole riecheggiavano attraverso il tempo, e si ripetevano di continuo. Ogni tanto Lydea, le cui emozioni erano serene come in un pigro pomeriggio d’estate, udiva quell’eco, e poi sentiva la sua bocca muoversi per rispondere le frasi appropriate. Ed erano le stesse frasi che aveva detto cento volte, sempre tra il momento in cui cominciava a sollevare la tazza e quello in cui se la portava alla bocca. Ma non sentiva mai il sapore del tè, come se stesse bevendo solo aria.

«È una fortuna per noi che abbia smesso di piovere, questa mattina», commentò la maga, benché nulla facesse capire se intorno a loro ci fosse la notte o il giorno. «Così, dopotutto, potremo finalmente andare a…» D’un tratto si zittì. Lydea sentì le solite parole di circostanza uscire dalle sue labbra come bolle. La maga la interruppe, con voce secca.

«C’è un estraneo, di sotto.»

Lydea stava per dare una risposta anche a questo, ma si accorse che non ne aveva nessuna. Come se la cupola di vetro intorno a lei fosse crollata, restò seduta lì tra le schegge del tempo, mentre i suoi pensieri storditi cercavano di tornare a contatto con la realtà. Guardò la tazza di tè a mezza strada verso la sua bocca. Il tè era freddo come una pietra, coperto da una patina di depositi spessa quanto una crosta.

Depose la tazza sul piattino, confusa e spaventata.

«Cosa… dove…»

Faey si era alzata e camminava avanti e indietro. Dava l’impressione di annusare l’aria con le orecchie, o di scrutare nel buio con gli occhi della mente. Anche Lydea sì alzò. Le piante sussurravano intorno a lei. Irrigidita e con la testa che le girava, si appoggiò alla spalliera di una sedia.

«Da quanto tempo sono qui?»

Faey la ignorò. La stanza stava cambiando aspetto; le pareti vegetali erano diventate trasparenti, e le palme dalle foglie appuntite come spade svanirono. La sedia sotto le mani di Lydea si sgretolò in un vortice di creature piccole come sassolini e fornite di zampe, che sciamarono via verso il fiume. Adesso lei era sulla riva, con un argine di terra alle spalle, mentre la luce del giorno spioveva da numerosi piccoli squarci situati molto più in alto. Soltanto la teiera, diventata ora un bizzarro animaletto con zampe legnose che sputava tè da una lunga proboscide, rifiutava di sparire.

«Strano», borbottò Faey. «Molto strano.»

«Io devo tornare a casa», azzardò Lydea, chiedendosi se sarebbe riuscita ad arrampicarsi su quell’argine di terra verso la luce. Faey la gratificò di uno sguardo così rovente che lasciò una traccia di bruciato nell’aria.

«Ho bisogno di te», disse, senza preamboli. «La mia figlia di cera è introvabile. Vieni con me.»

«Ma mio padre… sarà immerso fino ai capelli tra le stoviglie da lavare.»

«Gli manderò un biglietto.»

«Non sa leggere.»

«Be’, dovrà aspettare», replicò la maga, irritata. «Mag non sta a discutere con me. Ho bisogno di un essere umano che si occupi del cadavere. A me non piace», aggiunse, avviandosi lungo la riva del fiume, «che la gente venga a morire quaggiù. Di solito riesco a rimandarli su prima che sia tardi, ma adesso ero troppo occupata a cercare Mag…» Si voltò a indirizzare un gesto spazientito a Lydea, che non sembrava aver ritrovato l’uso delle gambe. «Cammini, o preferisci venire in volo?»

Lydea si affrettò a seguirla.

Quando raggiunsero l’uomo videro che giaceva a faccia in giù tra le macerie di una stanza semidistrutta. La finestra attraverso cui era caduto si trovava in parte sotto il livello della strada. Lydea gettò appena uno sguardo ai suoi capelli bianchi, poi alzò gli occhi sui pochi palmi di muro che la separavano dalla libertà e dalla luce di una rumorosa strada di Ombria. Se lui era stato capace di entrare, forse lei avrebbe potuto uscire…

La maga, accanto all’individuo, aveva chiuso gli occhi e stava mormorando qualcosa. Lydea udì il morente mandare un gemito rauco, angoscioso.

L’uomo sollevò il viso e socchiuse gli occhi, vacui e storditi. Aveva la pelle grigia come calcina secca, e lividi e graffi prodotti dalla caduta tra le macerie. Aprì un occhio e mosse una mano annerita come per difendersi dalla voce di Faey, e fu allora che Lydea poté vederlo meglio in faccia. Le si mozzò il fiato.

«Non ucciderlo!»

La maga riaprì gli occhi. Imprecò tra i denti, quindi rimase immobile per un poco, scrutando l’uomo. «D’accordo», concesse infine, sottovoce, mentre Lydea s’inginocchiava accanto a lui. La ragazza lo aveva riconosciuto solo un po’ alla volta, un pezzo dopo l’altro; i capelli bianchi, gli occhi d’argento, il carboncino che aveva in mano. Parecchi fogli spiegazzati giacevano intorno a lui; altri erano volati via nell’ombra. Lo girò supino, più delicatamente che poté, e vide che respirava ancora. Lui aprì anche l’altro occhio e la guardò senza vederla.

«Ducon.» La ragazza gli accarezzò i capelli. «Ducon, sono Lydea.» Lo sentì trattenere il respiro, e alzò lo sguardo verso Faey, sbalordita. «Questo è Ducon Greve.»

«Già, è Ducon Greve», annuì la maga. «Io sono stata pagata per dargli la morte.» Lydea sbatté le palpebre. Faey si chinò, afferrò Ducon per le braccia e se lo issò su una spalla come un sacco, senza sforzo apparente. «Non posso rimandarlo su in queste condizioni.»

«Che intenzioni avete?» mormorò Lydea. Si alzò, mentre Faey cominciava a muoversi, e afferrò Ducon per la giubba, costringendo la maga a fermarsi. La sua voce si alzò in un grido che echeggiò lungo il fiume tenebroso. «Cosa gli volete fare?»

Faey si voltò a guardarla. I suoi occhi, sotto le eleganti sopracciglia arcuate, erano di nuovo azzurri. Lydea non riuscì a capire che sentimenti ci fossero dietro di essi; sembravano non vederla affatto. «Non so cosa ne farò di lui», disse infine la maga. «Ma poiché la mia bambola di cera se n’è andata, sarai tu a occuparti di lui.»

Detto questo, s’incamminò verso la lontana fila dei graziosi lampioni nella cui luce le case sulla riva del fiume apparivano eteree, come frammenti di sogni. Lydea la seguì, con una mano posata sulla schiena di Ducon. Con voce che ancora tremava dopo quel grido, domandò: «Dove lo state portando?»

«A casa mia.»

«Perché lo avete… chi è che lo vuole morto? Domina Pearl?»

«Non ne ho idea. Una persona molto ricca, i cui servi hanno lo stemma di una manticora sulla livrea.»

Lydea rischiò d’inciampare per lo stupore. «Il Nobile Sozon? Mi chiedo perché.» Sentì che Ducon mormorava qualcosa. Si piegò per capire meglio, ma lui non disse altro. Gli rimase vicino e continuò a parlare, in modo che il giovane udisse una voce nota in quel posto spettrale. «Ora però non volete farlo. Non volete ucciderlo.»

«No.»

«Perché?»

«Questa è una buona domanda.»

Lydea aspettò invano la risposta. Alla fine cedette e tentò in un altro modo. «Cosa gli avete fatto? Mi sarebbe utile saperlo, se non volete che muoia.»

«Era nel carboncino.»

«Che cosa c’era?»

«Il veleno.»

Lydea sentì Ducon mormorare un’altra parola incomprensibile. Alzò la mano libera e gli sfiorò gli occhi chiusi, con dita gelide. «Avete un antidoto?»

«Sì», rispose la maga. «Me stessa. Dopo, lui sarà molto debole. Avrà bisogno di qualcuno che lo accudisca. Se quella donna ha preso la mia bambola di cera, mi farò un brodo con le sue ossa.»

«Vorrei che voi lo faceste», si augurò fervidamente Lydea. «Così resterà solo una di voi due.»

Faey la fronteggiò così all’improvviso che gli occhi stupiti di Lydea non capirono come avesse fatto a voltarsi. Il volto ben curato della maga era una maschera di gelida contrarietà. «Non riesco a immaginare cosa ti autorizza a insinuare che lei e io siamo uguali.»

«Io non l’ho insinuato», disse Lydea nel modo più cortese che poté. «Io l’ho detto. Voi siete proprio una uguale all’altra, non vedo nessuna differenza tra voi due. Siete voi quella che ha cercato di uccidere Ducon, non Domina Pearl. Vivendo quaggiù, al sicuro con la vostra magia, non avete bisogno di preoccuparvi di niente e di nessuno. Se voi aveste ucciso Ducon, avreste spezzato il cuore di Kyel. E lui, anche se è soltanto un bambino, è il principe di Ombria. Se il suo cuore si seccherà, questo accadrà anche a Ombria. Non che a voi importi molto, se la città che sta sopra la vostra testa sparirà. Ci vorrà un secolo o due, prima che ve ne accorgiate.»

Gli occhi azzurri la guardarono senza espressione. Poi la maga riprese il cammino, in direzione di una grande dimora che dava l’impressione di essere affondata nel suolo sotto il peso delle enormi colonne del porticato anteriore.

La sua voce raggiunse Lydea. «Ci sono delle cose a cui tengo. Per esempio la mia figlia di cera.»

«Ha un nome», le ricordò freddamente Lydea, affiancandola. «Si chiama Mag.»

«Lo so. L’ho battezzata io.»

«Lei non è una cosa fatta con la colatura delle vostre candele. Chi è? È vostra figlia?»

Qualcosa scaturì dalle labbra della maga, come se avesse sputato un lampo. Ducon mandò un improvviso grido di dolore. Lydea si premette le mani sulla bocca, con forza.

«Non immischiarti», la avvertì sottovoce Faey, senza voltarsi. «Non metterti tra me e la mia bambola di cera. Lei appartiene a me, e lavora al mio servizio. Questo è tutto ciò che ti serve capire.»

«Io non capisco niente di niente», mormorò Lydea.

Riconobbe la grassa ed efficiente governante che aprì loro la porta, e notò che non rivelava, neppure con un palpito di ciglia, nessuna sorpresa alla vista dell’uomo riverso su una spalla della maga.

«Nella stanza dei pavoni, suppongo, eh?» domandò Faey. La governante annuì senza aprir bocca, e prelevò un candelabro acceso con cui far strada alla padrona su per lo scalone di marmo.

In una camera dalla tappezzeria in penne di pavone multicolori, la maga lasciò cadere Ducon tra i cuscini vellutati di un letto, e si voltò verso la porta come per chiamare qualcuno. Ma subito scosse il capo. «Dimenticavo. Non posso mandarci lei a prendere il mio rospo.» Sospirò, ignorando l’espressione perplessa di Lydea che non capiva di cosa parlasse. «Tu resta qui e occupati di lui.»

Detto questo, uscì in fretta. Lydea cercò d’immaginare cosa fosse tutta quell’urgenza di procurarsi un rospo, poi lasciò perdere. Stava spogliando Ducon, quando la silenziosa governante rientrò con un catino d’acqua e degli asciugamani. La donna lasciò che fosse Lydea a lavare il giovane, sporco di polvere di carbone, fango e sangue. Era di nuovo svenuto, e respirava in modo faticoso e irregolare. Poco dopo, mentre la governante la stava aiutando a metterlo tra le lenzuola, Faey fece ritorno.

Aveva con sé una scatola di legno, che aprì senza por tempo in mezzo, e con gesto esperto ne tirò fuori un grosso rospo. Lo sollevò sul palmo, fino all’altezza degli occhi. Poi, in silenzio e guardandosi dritto nelle pupille, il rospo e Faey conversarono. O almeno, questa fu l’impressione di Lydea, che stava cominciando a conoscere i metodi della maga. Gli occhi del rospo si socchiusero fino a diventare fessure di tenebra sottili come un capello.

La maga depose il batrace sulla fronte di Ducon.

Subito si mise un dito sulle labbra con un’occhiata d’avvertimento a Lydea, che col cuore in gola davanti a quelle stranezze stava per domandare qualcosa. Dopo averla così azzittita, Faey toccò dolcemente la testa del rospo col polpastrello dell’indice. Poi chiuse gli occhi.

Lydea andò ad appoggiarsi a uno dei massicci pilastri d’ebano che sorreggevano il baldacchino del letto, e vi si aggrappò con forza. Il rospo era del tutto immobile, e anche la maga. Da lì a poco la ragazza si accorse che il respiro di Ducon rallentava, facendosi profondo e regolare. Quello della maga andava esattamente a ritmo col suo. Lydea adeguò la sua respirazione alla loro, d’istinto.

All’improvviso il rospo parlò. La parola che disse era contenuta entro una bolla di liquido lattescente emersa dalla sua mandibola sdentata, simile a una perla. Faey aprì gli occhi e allungò con prontezza una mano a ricevere la perla. La lasciò cadere dentro la scatola. Il rospo aprì gli occhi e mosse le zampe palmate. Faey lo guardò sgranchirsi le membra con un sorrisetto affettuoso.

«Mio bel tesoro», mormorò, e gli baciò il dorso bitorzoluto. Poi lo rimise nella scatola. «Ti ringrazio. E adesso devo riportarlo di sopra e dargli da mangiare», disse a Lydea, che cominciava a chiedersi per la prima volta da quand’era entrata nella bottega della maga se non stesse sognando tutto quanto. Ma lì con lei c’era Ducon, il cui volto rigido si rilassava e pian piano perdeva quello spaventoso pallore.

«Se ti serve qualcosa per lui, dillo alla governante. Io vado a cercare la mia bambola di cera.»

«Per favore», la supplicò disperatamente Lydea. «Vi prego, potete mandare qualcuno a dire a mio padre che non si preoccupi per me? Starà pensando che sono stata aggredita o uccisa, o che l’ho lasciato di nuovo.»

Faey si volse alla governante. «Manda un inserviente di cucina», le ordinò. «Uno vivo.»

«La taverna si chiama Rosa e Spina», disse Lydea alla corpulenta donna in uniforme, con la cuffietta di pizzo bianco. Quest’ultima esitò, e gettò uno sguardo interrogativo verso Ducon. «Ah, sì. Per lui un po’ di brodo», aggiunse Lydea. «Quando si sveglierà.»

«Porta da mangiare anche per la ragazza», ordinò Faey alla governante. «E ora non voglio essere disturbata da nessuno, vivo, morto o moribondo.»

Rimasta sola con Ducon, Lydea spostò una sedia accanto al letto e sedette, senza far altro che guardare quel volto inerte. Anche i suoi pensieri erano inerti, per magia o per stanchezza. Quando la governante le portò un vassoio con del cibo, lei bevve un po’ di vino e mangiò del pane, un boccone dopo l’altro, finché la testa le ricadde indietro sulla morbida imbottitura della sedia e si appisolò. Sognò di qualcosa che le sfuggiva dalle mani, e lei lo perdeva. Riaprì gli occhi di colpo. Ducon era ancora privo di sensi. Il pezzo di pane le era caduto in terra. Lei si alzò, sentendosi così insonnolita che non si sarebbe sorpresa di essere sotto incantesimo. Si sdraiò sul largo letto accanto al giovane, e chiuse gli occhi.

Quando si svegliò di nuovo, lui era rinvenuto e la stava fissando.

«Lydea?» sussurrò. Incredulo si guardò attorno, in quella lussuosa camera sconosciuta. Poi, con dolorosa lentezza, alzò la coperta di velluto e scrutò il proprio corpo nudo. Si girò verso di lei, osservò il suo grembiule sporco e il berretto malconcio da cui sfuggiva qualche ciocca di capelli. Deglutì a vuoto. «Non capisco.» La sua voce era rauca e debole, insonnolita. «Cos’ho bevuto, ieri sera? Non mi sono mai sentito così male in vita mia. Dove siamo?»

Lydea sentì che parole ricche e sorprendenti come gioielli le riempivano la bocca: magia, incantesimi, illusioni, spettri, rospi e maghe. Dopo un momento si alzò dal letto, e diede a Ducon la tazza di brodo freddo che trovò sul vassoio.

«Siamo nel sottomondo», disse. «Bevi questo.»

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