Dopo aver oltrepassato i cancelli del palazzo insieme ai carri del latte e della verdura provenienti dal mercato, nella luce argentea dell’alba, Mag andò nelle cucine con due cestelli di granchi tra le braccia, e li lasciò nel primo posto adatto che vide. Poi, nel proseguire, raccolse un secchio e uno straccio, e uscì da una porta interna. Per una volta si era vestita in modo decente, con un abito scuro e senza fronzoli.
Nel corridoio sostenne senza batter ciglio gli sguardi inespressivi delle guardie che Domina Pearl aveva disposto dappertutto, mute e silenziose come pietre miliari. Nessuna di loro sprecò una parola per chiedere a quella serva dall’aria pigra e stanca dove stesse andando a far pulizia. Lei scese la scala che portava nel seminterrato e, quando fu nei quartieri non sorvegliati della servitù, sentì che avrebbe potuto perfino camminare al fianco di Ducon senza che lui si voltasse a guardarla.
Quel pensiero aveva appena attraversato la mente di Mag, che Ducon sbucò in tutta fretta da dietro un angolo e la urtò, facendole cadere il secchio di mano. Il giovanotto fu svelto a prenderla per un braccio perché non perdesse l’equilibrio, e subito si chinò a spazzolarsi il fondo dei calzoni, senza dire una parola. Lei rimase a guardare sbalordita i suoi capelli bianchi, mentre il secchio rotolava sul pavimento fino a fermarsi contro la base del muro.
Dopo un poco, Ducon si raddrizzò e lasciò andare il braccio della ragazza. Forse il silenzio di lei gli sembrò la timidezza di una serva, o la paura di essere punita per avergli impolverato i calzoni, perché le diede appena uno sguardo; poi si chinò distrattamente a raccogliere il secchio e glielo restituì, già pensando ai fatti suoi. Stava per proseguire, quando il ricordo di qualcosa nell’aspetto di lei lo fece fermare. Fu allora che la guardò con un po’ d’attenzione.
Ora il giovane non aveva più tanta fretta. La prese di nuovo per il braccio e la portò un paio di passi più vicino a una delle poche candele del seminterrato, per esaminarla meglio. «I capelli», mormorò infine. «Un mucchio di paglia pieno di spilloni. Occhi del colore delle nocciole…» La sua voce si spense. All’improvviso parve stupito, come se rammentasse di aver già visto il suo viso in un sogno, o in una luce diversa. Lei ebbe la stessa sensazione. Era stato proprio quel genere di ricordo a portarla lì.
«Sei Mag?» le chiese. Lei annuì.
«Perché ho l’impressione di conoscerti», si domandò Ducon, «quando non ti ho mai incontrata?»
«Non lo so.» Lei era rigida sotto il suo sguardo, ancora agitata dall’essere stata sorpresa lì e in quel modo. Oltre le candele più vicine, il corridoio era immerso nell’ombra e, a parte le loro voci soffocate, molto silenzioso. «Prova a dirmelo tu.»
«Stavi cercando me?»
«Sì.»
«Faey sa che sei qui?»
«No.»
Lui si guardò attorno, improvvisamente preoccupato che qualcuno potesse vederla. «Questo è l’ultimo posto dove dovresti essere.»
«Lo so.» Una mano di lei si chiuse sul medaglione, nascosto sotto la lana del vestito. «Ma nessuno a parte te potrebbe svelarmi il mistero del carboncino.»
Lui s’infilò una mano in tasca, come per rassicurarsi con un contatto familiare. «È stata Faey a farlo», le ricordò. «Forse dovresti domandare a lei.»
«Non parlavo del tuo carboncino. In ogni modo Faey non sa tutto. Lei dice che tu vedi più di quello che vedono gli occhi umani, ma non capisce perché. O forse non ricorda il perché. Credo che sia vecchia quanto Ombria.»
Lui taceva, scrutandola con i suoi occhi non umani. «Può darsi che sia perché tu hai vissuto nel sottosuolo e con la sua magia per tutta la vita», commentò, oscuramente.
«Cosa?»
«Anche in te c’è qualcosa di non umano.» D’impulso Ducon tolse di tasca il carboncino e lo considerò, con aria pensosa. Alla luce delle candele era pervaso di vaghi colori. «Mi piacerebbe avere il tempo di farti il ritratto. Forse, così, troverei la risposta a certe domande.»
«Me l’hai già fatto», disse lei, «ma non con quello.»
Il suo sguardo d’argento la scrutò ancora, sorpreso. «Tu credi? No, ti sbagli. Mi ricorderei di te.»
«Mi hai fatto uno schizzo, in una taverna, il giorno in cui Royce Greve fu sepolto. Avevo una spessa veletta nera che mi nascondeva il volto.»
«Eri tu?» Ducon la guardò con nuovo interesse. «La misteriosa, elegante donna in nero?»
«Ero io. Tu avevi attorno dei giovani nobili che stavano cercando di persuaderti quanto ti sarebbe convenuto uccidere Domina Pearl e Kyel, per salire sul trono.»
Lui s’irrigidì. «Ci stavi ascoltando?»
«Vi ho anche seguiti al molo.» Mag distolse lo sguardo improvvisamente a corto di parole. «Dovevo prendere una certa decisione. Su di te. Su me stessa.»
«Ah, ricordo», annuì lui, tornando impassibile. «Lydea mi ha detto che mi stavi spiando. Cercavi di decidere se io avrei dovuto vivere o morire.»
«Se aiutare o no Faey nell’incantesimo ai tuoi danni», lo corresse lei. «Poi, però, non ho potuto far niente. Pensavo di sabotare l’incantesimo mentre lo stava costruendo, ma lei non mi ha lasciato il modo di agire; ho tentato di rubarlo, ma lei lo aveva nascosto; ti ho cercato dappertutto per avvisarti, ma non sono riuscita a trovarti…»
«Perché?» la interrogò lui. «Dopo quello che avevi sentito nella taverna e sul molo, perché hai voluto aiutarmi?»
«Quella notte, dopo il funerale, quando tu sei stato chiamato per fare compagnia a Kyel che aveva avuto un incubo, io ero sotto il suo letto.» Ducon, stupito, cercò di parlare, ma nulla gli uscì di bocca. «Io non potevo andarmene, per causa delle guardie. Kyel aveva fiducia in te. E tu sei rimasto sveglio tutta la notte per rincuorarlo. Tu vai dappertutto a Ombria, non hai paura di niente.» Mag guardò il secchio che lui le aveva riconsegnato. «Neppur di essere gentile con una serva.»
Lui la guardò intensamente. «Tu vedi la mia vita con più chiarezza di me.»
«Alla fine non ha fatto differenza», disse lei. «Non ho potuto salvarti da Faey.»
«Ci ha pensato lei a salvarmi. Dopo aver cercato di uccidermi.»
«Per lei è solo una questione di affari.»
«Ma perché sciogliere l’incantesimo e lasciarmi vivo?».
«Faey è fatta così», sospirò Mag. «Neppure io la capisco, a volte.»
«Ambiguità», disse lui, pensierosamente. «Come il carboncino. Era così pieno di magia che non potevo metterlo giù. Sarebbe stata la morte per me, ma avrei lottato contro chi volesse togliermelo. E tu, che tentavi di salvarmi da una stregoneria quando non sapevo neppure che tu esistessi. Lydea dice che l’avrebbero uccisa, quella notte, se non fosse stato per te. Ma chi sei? Da dove vieni?»
«Speravo che questo potessi dirmelo tu.» Mag s’infilò un dito nella scollatura e ne trasse fuori la catenella d’oro. Aprì il medaglione e girò la sottile sfoglia di vetro per mostrargli il carboncino. «Appena nata, qualcuno mi ha abbandonata sulla soglia della casa di Faey, dentro un cestino. Lei mi ha detto che avevo questo al collo. Ho visto i disegni che tu hai fatto con quel carboncino magico. Speravo che anche in questo ci fosse della magia. Ho pensato… ho pensato che forse qui dentro c’è il viso di mia madre.»
Ducon prese il medaglione per guardarlo più da vicino e toccò il carboncino con un dito.
«Forse è così… Che strano. Sangue, un petalo di rosa e un carboncino da disegno. C’è tutta una storia.»
«Lo so. Ma quale? Per favore», lo pregò lei. «Disegna con questo. Adesso, se hai il tempo.»
«Il tempo è proprio quello che non ho, stamattina.» Ducon tacque, sentendo una porta aprirsi. Una donna corpulenta vestita di nero uscì in corridoio e si allontanò, facendo tintinnare delle chiavi a ogni passo. Richiuse con cura il medaglione e lo restituì a Mag. «La Perla Nera mi ha ordinato di andare nella sottocittà a prendere Camas Erl. Come ha fatto a trovare la strada per scendere? Faey sa che è laggiù?»
«Sì. L’ho portato io da lei.»
«Tu?»
«Stavo cercando te, nei passaggi segreti del palazzo, dopo che Faey ti aveva mandato il carboncino…»
«Com’eri riuscita a entrarci?»
«Ti avevo visto sbucare da una porticina nascosta, quella dietro la grande urna panciuta.»
«Vai proprio in giro dappertutto», si stupì ancora lui.
«Be’, quel giorno sono andata dove non avrei dovuto. Domina Pearl mi chiuse in trappola nella sua biblioteca, senza sapere che ero lì. A trovarmi fu Camas Erl. Mi lasciò libera, ma mi fece delle domande, e dovetti promettergli che lo avrei portato da Faey.»
«Dunque è stato così», mormorò Ducon. «Ma perché?»
«Lui ha certe idee… lui pensa…» Mag scosse il capo, perplessa. Un’altra porta si aprì e si richiuse. Lui la condusse più lontano dalla luce della candela. «È un uomo capace di tutto per raggiungere i suoi scopi, anche se non hanno molto senso. Non ti converrebbe lasciarlo dov’è? Finché quello vaga tra gli spettri, tu sei più al sicuro.»
Ducon scosse il capo. «Per il momento», disse, accigliato, «devo fare quello che mi è stato chiesto.» La prese per un braccio, senza badare allo sguardo perplesso di una giovane serva di passaggio. «Ma voglio che tu mi aspetti.»
«Dove?»
Ducon la condusse oltre l’angolo e poi lungo il corridoio. «Tornerò al più presto. Poi vedremo cosa verrà fuori dal tuo carbone.»
Il giovane aprì una delle tante porte identiche del seminterrato. Una ragazza in sottoveste, china su un catino, alzò il volto gocciolante, sorpresa dal loro ingresso.
«Questa è la maestra Spina», la presentò lui. «Rosa, la lascio con te. Non andartene da questa stanza prima del mio ritorno.»
Mentre il giovane chiudeva la porta, la ragazza si sciacquò in fretta il sapone e sorrise.
«Mag!»
Mentre s’infilava rapidamente l’abito semplice, Lydea raccontò all’amica come mai si trovava lì, mascherata da un incantesimo e sotto lo stesso tetto della Perla Nera. Mag la guardò più da vicino, ma non riuscì a vedere traccia del bel viso triste della ragazza che una notte le aveva tirato addosso le sue scarpe costellate di zaffiri. Faey aveva fatto molto bene il suo lavoro.
La serva che distribuiva la colazione bussò alla porta; Lydea condivise il cibo con Mag. Si passarono l’una con l’altra la tazza del tè, mentre Mag le mostrava il medaglione e spiegava perché era venuta a cercare Ducon.
Non appena finito di mangiare, Lydea si alzò. «Devo andare. Sarò sola con Kyel, fino al ritorno di Ducon. Tu conosci una lingua straniera?»
Mag annuì, sorpresa. «Un ex contrabbandiere me ne ha insegnato un paio.»
«E l’aritmetica?»
«L’ho imparata dalla moglie di un fornaio.»
«E la storia?»
Mag storse la bocca. «Ci vivo dentro. Perché?»
Lydea la studiò un poco, passandosi una mano tra i capelli. «Mi chiedo…» Riabbassò la mano. «No, non riuscirei mai a spiegare la tua presenza a Domina Pearl. Ma vorrei che tu m’insegnassi a fare lezione a Kyel. Io so così poche cose!»
«Ne sai sempre più di lui, suppongo.» Mag guardò la maestra Spina che si allacciava un polsino e s’infilava una spilla sui capelli. «Sembri davvero… hai proprio l’aria di una…»
«Lo so. Me l’ha detto anche Ducon. Vorrei sentirmi come sembro a chi mi guarda.» Si voltò verso Mag e la prese per le spalle, fissandola negli occhi. «So che ti piace andare in giro, ma non farlo. È troppo rischioso. Ducon potrebbe tornare prima di me. Fino ad allora, qui accanto al letto ci sono molti libri di storia.»
La ragazza uscì. Mag sedette sul letto e guardò il muro liscio e uniforme, con occhi vuoti.
I corridoi erano di nuovo silenziosi. Domina Pearl, a quanto aveva detto Lydea, sarebbe stata occupata in camera di consiglio per tutta la mattina. Ducon avrebbe potuto restare assente fino al mezzodì, oppure tutto il giorno. Poco prima di scontrarsi con Ducon, Mag aveva oltrepassato la grande urna dietro cui c’era la piccola porta nascosta. Se avesse voluto aggirarsi per un’oretta nei passaggi segreti, nessuno se ne sarebbe accorto. A casa di Faey aveva visto i disegni lasciati lì dal giovane; essi accennavano all’esistenza di un mistero nelle stanze abbandonate le cui porte si aprivano sull’ombra. Un mistero che aveva pervaso il suo carboncino da disegno e si era trasferito sulla carta. Quell’oggetto fatto di cenere e sputo era una cosa viva, un occhio cieco che vedeva invisibili meraviglie e le rifletteva sulla carta. Erano meraviglie che Ducon aveva intuito, sfiorato, ma che poteva spiegare soltanto disegnando tutto sotto forma di luci e ombre. Come se pensasse che, mettendole su carta, avrebbe strappato il velo di tenebra che le copriva e illuminato il mistero dietro di esso.
Ma… Uomo avvisato, mezzo salvato, pensò Mag. E lei era stata avvisata tre volte, da Faey, da Ducon e da Lydea. Così, nonostante i suoi istinti, inquieti, rimase dov’era. Ispirata dal pensiero del carboncino, rovistò tra i libri ammucchiati ai piedi del letto di Lydea, non alla ricerca d’interessanti fatti storici bensì di una pagina bianca. Ne trovò una in fondo a un libro, poi si tirò fuori dalla scollatura il medaglione. Far uscire il cilindretto di carbone dal suo scomparto fu facile; il piccolo oggetto le cadde in mano non appena rovesciò il medaglione. Lei se lo rigirò tra le dita, con attenzione. Era lungo quanto una falange del suo pollice e non più spesso di un ferro da calza. A differenza di quello di Ducon, non emanava bagliori colorati. Ma l’attendeva una sorpresa: le prime linee che tracciò sembrarono prodotte non dalla sua mente, ma da una forza sconosciuta che piegava i muscoli del suo braccio.
Si fermò e studiò quei pochi segni. Inesperta com’era, avrebbe potuto disegnare un volto di semplicità puerile: un ovale, due occhi tondeggianti, la curva di una bocca sorridente. Ma ciò che il carboncino l’aveva costretta a fare non poteva essere scambiato per un volto umano neppure con uno sforzo d’immaginazione. Sembrava piuttosto una specie di tromba d’aria. Lei esitò. Non voleva sprecare la magia consumando il carboncino su cose non essenziali, e non prima che Ducon ritornasse. Ma la forza che le aveva mosso la mano sembrava molto sicura di sé. Incuriosita, lasciò che il carboncino corresse a suo piacere sulla carta.
Dapprima non prestò attenzione ai rumori che si udivano all’esterno. Per quanto ne sapeva lei, erano parte della vita quotidiana del palazzo. Ciò che il carboncino stava disegnando sembrava un guazzabuglio irriconoscibile, ma la affascinava, perché ogni tanto vedeva apparire qualcosa di chiaro: un dito ornato da un anello, un orecchio. Era come se una figura umana stesse cercando di emergere da quel rutilante caos. Fu solo quando i rumori furono abbastanza vicini da suddividersi in suoni separati — voci secche, un pesante scalpiccio, colpi battuti alla porta — che capì di essere nei guai.
Il tonfo della porta di fronte a quella di Lydea che veniva aperta la fece alzare di scatto. Il carboncino e il foglio le caddero al suolo. Mag si guardò attorno disperatamente, e vide soltanto una possibilità: le coltri ammucchiate sul letto ancora sfatto. Aveva appena afferrato il lenzuolo e la coperta tra le braccia, quando la porta della stanza di Lydea fu spalancata.
La Perla Nera la guardò. Lei si affrettò a inchinarsi, e fece udire l’ansito intimorito che ci si poteva aspettare da una serva. Ma quei vecchi occhi astuti non si lasciarono imbrogliare. Essi riconobbero, a sette anni di distanza, la giovane assistente della maga che aveva inghiottito un cuore.
«Tu!» sbottò, aspramente. Entrò nella stanza, mentre le guardie si affollavano sulla soglia; non c’era via di fuga. Il medaglione penzolava aperto dal collo di Mag; lo strano disegno era atterrato ai suoi piedi; il carboncino, ancora intero e all’apparenza non usato, giaceva sul pavimento accanto a esso. Il pollice e l’indice di Mag erano sporchi di nero.
A occhi bassi sentì il volto di Domina Pearl accostarsi al suo; nell’aria c’era un odore stantio, muschioso. Una mano della donna le s’infilò tra i capelli, ruvida come un artiglio, e le fece alzare la testa. «Ti avevo avvertito di non spiarmi. Avresti dovuto ascoltare.»
La donna si punse un dito con uno spillone e imprecò. Mag le guardò la mano, incuriosita. Ciò che vide uscire dalla piccola ferita della pelle incartapecorita era più giallo che rosso. Si accorse che l’altra mancava di un pollice. Il suo volto irrigidito dalla rabbia era antico e ricordava quello che Faey aveva talvolta al mattino, appena sveglia: non finito, con qualche osso o una narice fuori posto. La Perla Nera aveva perduto un sopracciglio. E anche un orecchio, notò Mag, stupita. Poi si sentì defluire il sangue dal viso.
Guardò il disegno. La Perla Nera fece lo stesso, alla ricerca del suo orecchio mancante. D’un tratto strinse i denti producendo uno strano rumore, come il cardine di una porta arrugginito, e abbatté il tacco di una scarpa sul carboncino, continuando a pestarlo finché non ne rimase che una chiazza di polvere sui mattoni. Quindi si chinò a raccogliere il foglio, con attenzione, come se temesse che i suoi pezzi mancanti potessero caderne fuori. Mag si sentì pungere gli occhi e li chiuse subito. Pochi momenti ancora e forse qualcosa di vitale sarebbe stato risucchiato via da Domina Pearl e dentro il disegno. Se soltanto lei avesse cominciato a disegnare prima, o se avesse ascoltato i rumori esterni e nascosto il…
La catena del medaglione le morse il collo e fu strappata via. La Perla Nera la spinse sgarbatamente verso la porta. «Toglietele quegli spilloni dai capelli», disse alle guardie. Gli uomini la afferrarono ed eseguirono l’ordine con rude efficienza, finché i capelli le caddero su viso. Mag, con gli occhi pieni di lacrime, sbatté le palpebre per schiarirseli, e guardò le spille e gli spilloni intorno ai suoi piedi. Soltanto essi sarebbero rimasti lì ad aspettare l’arrivo di Ducon.
«E così, la bambola di cera ha imparato a piangere lacrime umane», commentò la Perla Nera. La tirò per i capelli, costringendola a guardarla negli occhi. «È stata la maga a mandarti qui, con quel carboncino? Lo ha fatto lei? Sta complottando contro di me?»
«No…» Mag ansimò, mentre l’artiglio tra i capelli la strattonava ancora.
«La tua padrona sta cominciando a darmi fastidio. Ha intrappolato Camas Erl nelle rovine della storia; ti manda a becchettarmi come un avvoltoio. Ora scopriremo con più precisione quello che tu vali per Faey. Se le importa qualcosa di te, verrà a cercarti. Allora vi avrò in mano entrambe, intrappolate in un posto fuori dal tempo, dove la storia non c’è e gli unici fantasmi sono i miei. Tu, e tu», disse a due guardie, «appostatevi qui, e portate da me chiunque entri da quella porta. Voialtri, prendete la ragazza e seguitemi.»
Le guardie circondarono Mag e la presero per le braccia e per i capelli. La Perla Nera aprì una porticina mimetizzata e li precedette nei passaggi segreti del palazzo.